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Gestione intensivistica della Sindrome di Boerhaave

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Academic year: 2021

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SCUOLA DI MEDICINA

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea Magistrale

GESTIONE INTENSIVISTICA DELLA SINDROME DI BOERHAAVE

Relatore: Candidato:

Prof. Forfori Francesco Pieri Alice

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SOMMARIO

PARTE GENERALE 1. INTRODUZIONE………6 2. EPIDEMIOLOGIA……….8 3. FISIOPATOLOGIA……….9 4. CLINICA………11 5. DIAGNOSI………..13 6. TERAPIA……….19 6.1 APPROCCIO MEDICO………...22 6.2 APPROCCIO ENDOSCOPICO……….26

6.2.1 VATS video assisted torachoscopic surgery………26

6.2.2 Protesi esofagee……….27

6.2.3 Clip ………..28

6.3 APPROCCIO CHIRURGICO………..29

6.3.1 Riparazione chirurgica primaria………..29

6.3.2 Esofagectomia……….33

6.3.3 Esclusione temporanea dell’esofago………..34

6.4 PROCEDURE AGGIUNTIVE……….35 6.4.1 Gastrostomia decompressiva………35 6.4.2 Digiunostomia……….36 6.4.3 Tracheotomia………..36 7. SEPSI………37 8. IGM EV PENTAGLOBIN………39

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9. TECNICHE EXTRACORPOREE……….….43

9.1SOSTITUZIONE EXTRACORPOREA RENALE (CRRT) AD ALTI FLUSSI………...43

9.2 EMOPERFUSIONE CON FILTRO DI POLIMIXINA B (PMX-B)……….43

9.3 TECNICA EXTRACORPOREA DI PLASMA-FILTRAZIONE ED ASSORBIMENTO (CPFA)………44

PARTE SPECIALE ED OSSERVAZIONE CLINICA 1. INTRODUZIONE……….46 2. MATERIALI E METODI………47 3. RISULTATI………..48 4. DISCUSSIONE………..…50 5. CONCLUSIONE………..….62 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE……….….63 Ringraziamenti………. 67

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PARTE GENERALE

1. INTRODUZIONE

La Sindrome di Boerhavee è una condizione relativamente rara rappresentata da una spontanea rottura longitudinale coinvolgente l’intera parete di un esofago precedentemente sano determinata da episodi di vomito energico e/o da conati che causano lesioni a livello della giunzione gastroesofagea.

La maggior parte dei casi di perforazione dell’esofago è secondaria, iatrogena e conseguente all’introduzione di strumenti in esofago oppure determinata da un evento traumatico; vi sono poi situazioni nelle quali la perforazione è determinata da patologie neoplastiche locali o secondaria ad esofagiti da caustici.

Il nome di tale sindrome è da correlare ad un professore dell’Università di Leiden, Herman Boerhaave, che nel 1724 pubblicò un’estesa revisione intitolata “Atrocis, nec descripti prius, morbi historia. Secundum artis leges conscripta” (Un report di una terribile sindrome , mai descritta precedentemente. Rivista secondo le regole della professione medica)1; in questa

pubblicazione Boerhaave descrisse il caso clinico di un barone di nome JAN van Wassenear deceduto in ventiquattro ore fra atroci sofferenze a causa della rottura della parete

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esofagea a livello posterolaterale, indotta da ripetuti episodi di vomito insorti dopo un abbondante pasto e una copiosa libagione.

Solo nel 1947 Norman Barrett descrisse il primo trattamento chirurgico con esito favorevole di una perforazione esofagea.

Da allora la rottura spontanea dell’esofago continua ad essere una tra le urgenze più difficili da gestire per ogni specialista; nonostante tutti i progressi fatti, la mortalità rimane ancora alta con una variabilità fra le varie casistiche che va dal 7,4% al 38,8%.

I momenti di maggior criticità sono rappresentati dalla effettuazione rapida della corretta diagnosi, dal timing diagnostico-terapeutico, dalla scelta di una adeguata strategia di trattamento e dalla gestione delle complicanze.

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2. EPIDEMIOLOGIA

Oggi si stima che la Sindrome di Boerhaave rappresenti il 15% di tutti i casi di rottura d’esofago; comunque la reale incidenza di tale sindrome è sconosciuta e secondo recenti studi si svilupperebbe approssimativamente in 3.1 per 1,000,000 di persone ogni anno.2

AUTORE IATROGENA SPONTANEA TRAUMATICA CORPO ESTRANEO TUMORI ALTRO Brinster CJ,2004 59 % 15 % 9 % 12 % 1 % 4 % Gupta NM, 2004 77 % 10.5 % 3.5 % 10 % 0 0 Richardson JD, 2005 53 % 33 % 14 % 0 0 0 Vogel SB, 2005 57 % 36 % 7 % 0 0 0 Vallbohmer AH, 2010 64 % 20.5 % 9 % 0 0 6.5 % Biancari F, 2013 49 % 30.7 % 2.2 % 8.3 % 0 0

La popolazione è varia, ma il rischio è più alto nel sesso maschile di mezza età.

Una delle maggiori review sulla rottura di esofago spontanea ha osservato 989 casi risalenti ad un periodo esteso che va dal 1914 al 1995, provenienti da fonti tedesche, inglesi, francesi e italiane.3

Sulla base dei dati raccolti, gli autori hanno calcolato un’età media dei pazienti di 52.4 anni, una distribuzione di genere nettamente superiore nel sesso maschile (uomini:82%, donne:18%) e dimensioni medie della rottura di 3.3 cm.

La mortalità risulta tutt’oggi elevata e si aggira intorno al 40%, pur essendo comunque nettamente diminuita rispetto a trenta anni fa in cui un paziente su due andava incontro ad exitus.

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3. FISIOPATOLOGIA

La rottura spontanea dell’esofago è causata da un improvviso aumento della pressione intra-esofagea, con conseguente lacerazione transmurale dell’esofago.

Tale condizione è spesso associata all’assunzione di alcool e pasti abbondanti. I pazienti più a rischio sono quindi forti mangiatori e bevitori, oltre che soggetti bulimici4, e sono

prevalentemente di sesso maschile.

La rottura è conseguente alla brusca e improvvisa distensione dell’esofago distale causata da sforzi a glottide chiusa tali da provocare un significativo rapido incremento della pressione endoluminale dell’organo.

Questo si verifica soprattutto in seguito a conati e sforzi causati dal vomito, tuttavia si possono riscontrare altri fattori scatenanti come per esempio gli aumenti di pressione endoluminale durante il travaglio di parto, durante la defecazione, per il sollevamento di oggetti pesanti, per accessi di tosse o per crisi convulsive.

La perforazione può avvenire su organi del tutto sani o essere favorita da lesioni predisponenti locali, flogistiche o meiopregiche: nell’anamnesi di questi pazienti, infatti, non raramente si rileva una lunga storia di disturbi dispeptici, la presenza di ulcera peptica, esofagite, ernia jatale, disturbi primitivi o secondari della motilità esofagea.4

Di solito la perforazione si ha a livello del terzo inferiore posterolaterale a sinistra e si presenta come una lesione da scoppio, sfrangiata ed irregolare, accompagnata da emorragia locale.

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Le complicazioni secondarie dipendono poi anche dalla posizione della perforazione, visto che l’esofago attraversa diversi distretti corporei: una perforazione intratoracica può causare mediastiniti, enfisema o necrosi per la fuoriuscita in mediastino di materiale gastrico, mentre lesioni a livello intratoracico alto sono in grado di produrre versamenti pleurici o idropneumotorace a destra.

Le rotture a livello cervicale usualmente sono più localizzate e benigne, dato che lo spazio retro esofageo è più limitato e ristretto. 2

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4. CLINICA

Il quadro clinico di esordio è estremamente variabile e dipende da vari fattori in parte interdipendenti fra di loro, quali per esempio il meccanismo di perforazione e il timing diagnostico-terapeutico.

L’esofago è un organo che attraversa il collo, il torace e l’addome e non è avvolto da una sierosa o da altre strutture che siano in grado di arginare efficacemente un processo infettivo; la sua vascolarizzazione inoltre è precaria.

Per questo motivo una perforazione può trasformarsi facilmente con il passare delle ore in un processo infettivo in grado di diffondersi nel mediastino, ma anche nel cavo pleurico o nello spazio peritoneale, sostenuto e complicato anche dall’azione chimica della saliva presente.

Per tale motivo è essenziale riuscire a porre una diagnosi precocemente, al fine di tentare di evitare lo sviluppo purtroppo frequente e grave di una sepsi generalizzata.

La presentazione classicamente descritta in letteratura della Sindrome di Boerhaave prevede una sintomatologia caratterizzata da vomito in genere secondario all’assunzione di un’ingente quantità di cibo e alcool, seguito da dolore toracico severo, dispnea, enfisema mediastinico o sottocutaneo e shock.

Tale sintomatologia (vomito, dolore toracico basso ed enfisema sottocutaneo) è definita triade di Meckler e viene considerata patognomonica.5

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La clinica è estremamente variabile e aspecifica, tanto che la diagnosi iniziale è spesso sbagliata in un caso su due e più del 60% delle diagnosi viene effettuata dopo 24h.

I sintomi iniziali sono spesso suggestivi per infarto miocardico acuto, un’ulcera perforata, una pancreatite acuta, una dissezione aortica, uno pneumotorace spontaneo o altre patologie polmonari e la diagnosi differenziale appare complicata.6

I sintomi riscontrati più frequentemente comprendono dolore addominale e vomito, dolore toracico, ematemesi, dolore lombare e sintomatologia simil-influenzale.7

In uno studio retrospettivo, nato dalla collaborazione di diversi centri ospedalieri universitari del nord America e che ha preso in esame 199 pazienti che hanno presentato la Sindrome di Boerhaave dal gennaio 2009 a dicembre 2013, ha messo in risalto il fatto come la presentazione di tale sindrome sia altamente aspecifica e la diagnosi iniziale di conseguenza difficoltosa.

Il 55% dei pazienti (n=111) al momento del ricovero presentava dolore toracico o interscapolare, il 33,7% (n=67) una frequenza cardiaca superiore ai 100 bpm; l’ipotensione, definita come pressione sistolica minore di 90 mmHg, era presente nel 18,1% (n=36) e la necessità del controllo invasivo della pressione nelle prime 24h nel 9% (n=18) dei pazienti presi in esame. 8 SINTOMI FREQUENZA (%) Dolore 70-90 Enfisema sottocutaneo 30-95 Febbre 60 Vomito 80 Disfagia 20 Dispnea 55

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5. DIAGNOSI

La Sindrome di Boerhaave presenta complicanze ancora oggi fatali che potrebbero essere evitate attraverso una diagnosi posta precocemente.

La rottura dell’esofago spontanea raramente viene indagata in prima battuta, essendo la clinica estremamente aspecifica e comune in patologie più frequenti, quali l’infarto miocardico acuto, la perforazione di un’ulcera, la dissezione aortica.

Le diagnosi che più spesso vengono poste erroneamente sono la perforazione in un ulcera gastrica o duodenale, l’infarto miocardico, una polmonite, la pancreatite acuta, la dissezione di un aneurisma aortico, lo pneumotorace, un’embolia polmonare, una colica renale, un’appendicite acuta, un ascesso polmonare, una trombosi dell’arteria mesenterica, una pericardite, una emorragia splenica, un’ernia diaframmatica incarcerata.1

La diagnosi differenziale appare quindi molto complicata con conseguente timing diagnostico-terapeutico spesso ritardato.

La storia anamnestica è essenziale per porre il sospetto di perforazione esofagea ed indirizzare quindi il paziente verso esami strumentali sensibili, giungendo precocemente alla diagnosi.

Solitamente i pazienti sono di sesso maschile, di età compreso tra i 50 e i 60 anni, senza particolari patologie gravi pregresse, con una storia di alcolismo; sono inoltre spesso grandi mangiatori e hanno presentato episodi di vomito precedentemente alla presentazione della sintomatologia attuale.

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È possibile comunque anche osservare casi di donne giovani sottopeso o sovrappeso, essendo la patologia frequentemente associata a bulimia e anoressia.

La correlazione tra vomito ed insorgenza di dolore toracico spesso non induce in prima istanza ad una indagine accurata della parete esofagea, anche perché difficilmente la perforazione determina ematemesi franca e sono osservabili solo tracce di sangue nell’espettorato e nella saliva.

Il segno più caratteristico e patognomonico della Sindrome di Boerhaave, l’enfisema sottocutaneo a livello del collo e del torace descritto nella triade di Meckler (vomito, dolore toracico, enfisema), è inoltre molto raro e si riscontra in prima battuta solo nel 14-30% dei pazienti.

All’esame obiettivo è possibile riscontrare tensione dei muscoli addominali con dolorabilità alla palpazione, tachipnea e diminuzione dei rumori respiratori.1

Gli esami di laboratorio risultano utili per la diagnosi differenziale con patologie cardiache. Si può inoltre frequentemente riscontrare un modesto aumento dei lattati e dei leucociti8

L’esame strumentale primariamente utilizzato è la radiografia del torace che consente di visualizzare la presenza di versamento pleurico, pneumotorace, pneumomediastino e raccolte fluide mediastiniche.

Complessivamente almeno una di queste alterazioni è evidente in circa il 90% dei casi. Il versamento pleurico viene riscontrato a seconda degli studi tra il 50 ed il 90% dei pazienti affetti dalla Sindrome di Boerhaave, mentre lo pneumotorace viene riscontrato nel 20-50% dei pazienti; lo pneumomediastino e le raccolte fluide mediastiniche sono descritte mediamente nel 20% delle radiografie toraciche effettuate in urgenza.8

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Il versamento pleurico si presenta usualmente monolateralmente a sinistra, in accordo con la maggior incidenza di rottura esofagea da questo lato.

È stato inoltre osservato come la comparsa di pneumomediastino alla radiografia sia osservabile almeno un’ora dopo l’evento perforativo, mentre la comparsa di versamento pleurico evidente necessiti di alcune ore; pertanto va tenuto in considerazione che, se tali indagini sono effettuate troppo precocemente, potrebbero risultare falsamente negative.

La radiografia dell’addome in bianco permette invece di mettere in evidenza l’eventuale presenza di pneumoperitoneo o retropneumoperitoneo.

La perforazione dell’esofago può essere confermata effettuando una radiografia dopo ingestione di mezzo di contrasto; di solito si utilizza un mezzo di contrasto idrosolubile come il Gastrografin, seguito da un sottile strato di bario.

Il Gastrografin infatti presenta una tossicità minore rispetto al solfato di bario e nel caso di aspirazione nelle vie respiratorie risulta meno lesivo per le mucose bronchiali; per questo motivo alcuni autori suggeriscono di eseguire tale esame inizialmente solo con Gastrografin e se negativo ripeterlo con solfato di bario per aumentare la sensibilità.

La radiografia con mezzo di contrasto rappresenta quindi l’esame standard di prima linea per avere una conferma strumentale della rottura dell’esofago, dal momento che è in grado di evidenziare la presenza della perforazione, la sua sede, la sua entità e l’eventuale comunicazione con le cavità corporee.

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Tali falsi negativi possono essere dovuti nel caso del Gastrografin al passaggio troppo rapido del mezzo di contrasto, oppure all’elevata viscosità e diffusione del solfato di bario o allo sbarramento della sede della perforazione a causa di edema della parete, di un coagulo o di rimasugli di cibo.1

L’esame radiologico fondamentale e ormai da effettuare sempre in prima battuta è comunque la tomografia computerizzata (TC) di collo, torace e addome.

Tale indagine possiede infatti un’accuratezza del 92% se effettuata con somministrazione di mezzo di contrasto radiopaco per via orale, tecnica che consente di delineare meglio il lume esofageo e la parete evidenziando più facilmente perforazioni e spandimenti di mezzo di contrasto non visibili nella radiografia convenzionale.

Possono essere evidenziati subito con la TAC altri aspetti indiretti della perforazione come lo pneumomediastino, un versamento pleurico, un idro-pneumotorace, una raccolta o un ascesso cervicale, mediastinico o addominale, uno pneumoperitoneo.

Il ruolo centrale della TC risiede anche nel fatto che rappresenta lo strumento cardine per programmare una corretta strategia terapeutica, permettendo non solo di localizzare con precisione la sede della perforazione, ma anche di visualizzare l’estensione del processo infiammatorio all’interno dei vari distretti corporei.

L’esofagogastroduodenoscopia (EGDS) è l’esame con la più alta sensibilità e specificità per la rottura dell’esofago (100% e 83% rispettivamente); questo permette una precisa individuazione della sede e dell’entità della perforazione, una valutazione dello stato della

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parete esofagea in corrispondenza della lesione e la diagnosi di eventuali co-morbidità esofagee presenti.

Sull’utilizzo dell’EGDS nelle rotture d’esofago inizialmente si aveva una certa diffidenza, legata principalmente al timore che la necessità di insufflare aria potesse determinare un peggioramento dell’entità della lesione.

Tuttavia tali timori in recenti studi non si sono dimostrati fondati se l’esame viene effettuata con cautela e da mani esperte.

Inoltre l’EGDS oggigiorno può ricoprire un ruolo fondamentale non solo diagnostico ma anche terapeutico.

L’EGDS viene comunque eseguita in seconda linea essendo un esame invaso e che richiede tempo.

La scelta dell’esame diagnostico strumentale è inoltre condizionata dalla stabilità delle condizioni cliniche del paziente.

Un paziente stabile potrà essere studiato tramite la combinazione di radiografia da transito per determinare la sede, l’estensione della lesione e la comunicazione con la cavità pleurica, l’endoscopia per determinare la perdita e la lunghezza della soluzione di continuo e la TC in modo da visualizzare la sede e l’estensione della contaminazione.

Pazienti non stabili o ventilati vengono sottoposti subito all’ EGDS all’interno di un reparto di terapia intensiva, al fine di confermare con rapidità il sospetto diagnostico; se le condizioni cliniche lo consentono e non è necessario intervenire chirurgicamente in urgenza, il paziente verrà subito dopo studiato effettuando una TAC total-body.9

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6. TERAPIA

La scelta della strategia terapeutica resta sicuramente il passo più difficile nella gestione del paziente con rottura dell’esofago.

In letteratura sono presenti numerosi studi che riportano esperienze con varie tipologie di trattamento, tuttavia i piccoli numeri e l’eterogeneità degli approcci sono tali da non poter essere conclusivi sull’argomento e da consentire di poter tracciare delle linee guida certe e universalmente condivise.

Nonostante ciò sono però riconoscibili alcuni principi che fungono da punti di riferimento e che vanno tenuti in considerazione nella scelta del piano terapeutico da attuare, sebbene ogni perforazione esofagea risulti diversa dalle altre e costituisca un caso a sè stante per le molteplici implicazioni possibili.

In linea generale, i quattro fattori fondamentali da prendere in considerazione nella scelta del trattamento sono il timing, la sede della perforazione, la presenza di eventuali comorbidità esofagee e le condizioni generali del paziente.

Gli obiettivi principale della terapia sono il controllo dell’infezione, la prevenzione di ulteriori contaminazioni dalla sede di perforazione, la ricostituzione dell’integrità del tratto digestivo e l’instaurazione di un adeguato supporto nutrizionale.

Essendo la rottura d’esofago un processo morboso rapidamente evolutivo, la tempestività del trattamento rappresenta la chiave di volta per la riduzione della mortalità.

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Muir nel 2003 in uno studio condotto su 75 pazienti con rottura d’esofago e trattati sia chirurgicamente che conservativamente, osservò come fosse predittivo di successo non il trattamento entro le 24 ore, bensì la diagnosi entro le 24 ore, perché questo permetteva una corretta e rapida programmazione dell’eventuale atto chirurgico.10

Molto frequentemente tuttavia la diagnosi viene posta in ritardo e quindi avviene dopo che è iniziata una fase di compromissione delle condizioni generali del paziente, il quale non raramente può trovarsi in uno stato di shock settico.

In tali condizioni la scelta del trattamento può risultare particolarmente difficile dovendo bilanciare la necessità di trattare la perforazione con le scadenti condizioni del paziente. Allo scopo di stratificare il rischio di tali pazienti è stato costruito presso l’Università di Pittsburgh uno score clinico di classificazione delle perforazioni esofagee, denominato Perforation Severity Score (PSS).

Tale score ha evidenziato come morbilità e mortalità siano strettamente proporzionali alla gravità dello score stesso, permettendo di stratificare il rischio di questi pazienti.

Tale score è stato successivamente validato in uno studio retrospettivo su 288 pazienti, che ha confermato le osservazioni su morbidità e mortalità ed evidenziato come i pazienti stratificati nel gruppo PSS elevato avessero 3.37 volte maggiore probabilità di essere trattati con approccio chirurgico rispetto a quelli a basso PSS.

Uno score alto comporta poi un rischio di mortalità più elevato indipendentemente dall’approccio terapeutico

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20 1punto 2 punti 3 punti

età>75 X FC>100 X leucocitosi>10000 WBC/ml X versamento pleurico X febbre>38.5 X

leackage di mdc non contenuto X compromissione respiratoria X

diagnosi>24 ore X

cancro X

ipotensione X

gruppo a PSS basso (<2 punti), gruppo a PSS intermedio (3-5 punti), gruppo a PSS elevato (>5 punti)

I vari tipi di trattamento possono essere sommariamente raggruppati in tre grosse ed eterogenee categorie: il trattamento conservativo, la correzione chirurgica della lesione,

l’associazione di entrambe.

Storicamente per larga parte del Novecento, il trattamento operatorio è stato quello più utilizzato; successivamente dagli anni novanta in poi si sono fatti strada invece trattamenti di tipo conservativo sia sulla scorta delle importanti evoluzioni tecniche endoscopiche sia sulla scorta di considerazioni cliniche strategiche.

<2 da 3 a 5 da 6 a 18

morbidità 53% 65% 81%

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6.1 APPROCCIO MEDICO CONSERVATIVO

I primi tentativi di definire criteri di applicabilità e modalità di un trattamento conservativo furono fatti da Mengoli nel 1965 e da Cameron nel 1979, ma solo Atorjay nel 1997 né stabilì con precisione i confini.

L’autore prevedeva l’ipotesi di trattamento conservativo che consisteva nel digiuno assoluto, nel posizionamento di un sondino naso gastrico, nell’utilizzo di una nutrizione parenterale totale, nella terapia antibiotica ad ampio spettro e nello stretto monitoraggio dell’evoluzione della clinica; tutto ciò solo nel caso di perforazioni intramurali, non tipiche quindi della Sindrome di Boerhaave, o transmurali, se diagnosticate precocemente e con minimo spandimento del contenuto, con passaggio del mezzo di contrasto prevalentemente in esofago e non in sede extraluminale, assenza di patologia neoplastica od ostruzioni a valle della perforazione, non segni di sepsi generalizzata, rapido miglioramento delle condizioni generali.

I pazienti trattati con approccio conservativo presentarono una morbilità del 20% rispetto al 50% di quelli sottoposti a chirurgia, con una mortalità sovrapponibile del 10% e del 13,6% rispettivamente.11

Buoni risultati con il trattamento conservativo sono stati confermati anche in altri studi più recenti, con morbilità e mortalità sovrapponibili a quella dei pazienti trattati con terapia chirurgica (rispettivamente tra il 6% ed il 23% e tra il 2% ed il 25%).

Progressivamente negli ultimi 20 anni si è assistito ad un graduale, ma costante aumento dell’utilizzo del trattamento conservativo, soprattutto per pazienti in cui la diagnosi viene

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posta a distanza di giorni e se non vi sono segni clinici di evoluzione verso un quadro settico grave.

I pazienti selezionati per un trattamento di tipo conservativo ricevono un supporto intensivistico con digiuno totale ai solidi e ai liquidi, terapia antibiotica ad ampio spettro, agenti anti secretori, decompressione tramite sondino naso-gastrico, nutrizione parenterale e drenaggio pleurico/mediastinico.

Secondo uno studio del 2008 pubblicato sul “British Journal of surgery”, i criteri attuali per un trattamento di tipo conservativo riguardano pazienti con una perforazione contenuta dalla pleura mediastinica, assenza di evidenza clinica di mediastinite, presenza di flusso retrogrado di mezzo di contrasto nell’esofago nel test da transito, assenza di contaminazione mediastinica da parte di cibo solido e dimostrazione di tolleranza alla contaminazione pleurica per 72 ore con drenaggio.9,12

A digiuno, antibioticoterapia e apposizione di sondino naso gastrico, può essere associato il drenaggio percutaneo del cavo pleurico che trasforma la perforazione esofagea in una fistola esofago-cutanea.13

La somministrazione precoce di una terapia antibiotica è necessaria e di centrale importanza visto l’alto rischio di mediastinite.

Generalmente la mediastinite si presenta fin da subito con carattere polimicrobico ed è provocata da batteri provenienti dal cavo orale, sia anaerobi (Peptostreptococcus spp., Provotella spp., Porphyromonas spp., Bacteroides spp., Veillonella, Actinomyces, Fusobacterium spp.) che aerobi o facoltativi (Streptococcus spp., Staphylococcus spp., Corynobacterium, Enterobacteriaceae, Pseudomonas spp., Neisseria spp., Haemophilus

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spp.). La terapia antibiotica deve essere pertanto volta a coprire una grande varietà di batteri, inclusi gli anaerobi.

Le associazioni consigliate prevedono in genere l’utilizzo di amoxocillina/acido clavulonico al dosaggio di 2,2 grammi per via endovenosa ogni 6-8 ore, oppure di ampicillina/sulbactam alle dosi di 3 grammi ogni 6-8 ore.

Si può utilizzare anche un chinolone come ad esempio la ciprofloxacina (400mg ev ogni 12 ore) oppure la levofloxacina (500 mg ev ogni 12 ore), o anche una cefalosporina di terza generazione associate a clindamicina o metronidazolo.

Negli anni si è cercato di migliorare l’approccio conservativo, ottenendo comunque outcome sovrapponibili e osservando elevata mortalità nonostante le migliori condizioni cliniche iniziali dei pazienti.

Santos e Frater provarono a intraprendere un trattamento di tipo semiconservativo introducendo una sonda naso-gastrica sotto il livello della perforazione e utilizzando la stessa come drenaggio di aspirazione e per effettuare lavaggi con soluzione fisiologica o antibiotica.14

Cameron e Kieffer erano invece contrari all’utilizzo del sondino nasogastrico in aspirazione affermando che tale presidio aumentava il reflusso gastro-esofageo, aspetto che avrebbe influito negativamente sulla guarigione.15 Proponevano invece un approccio strettamente

indirizzato verso l’iperalimentazione e l’antibioticoterapia, con apparenti migliori risultati. Tuttavia per trattamento conservativo oggi si intende non solo l’utilizzo di terapia medica, ma l’associazione con un trattamento endoscopico che prevede il posizionamento di stents e clips a livello della lesione esofagea.

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Attualmente vengono in gran parte utilizzate protesi auto espansibili metalliche parzialmente ricoperte con l’intento di occludere il punto di rottura, arrestare la contaminazione e favorire quindi la riepitelizzazione; a ciò si associa inoltre il drenaggio di eventuali raccolte.

Presso il Karolinska Institut di Stoccolma tale strategia terapeutica è stata quella di scelta per oltre 10 anni con una percentuale di successo dell’82,5% ed una mortalità del 7,5%; le osservazioni effettuate hanno evidenziato che l’unica variabile predittiva di successo statisticamente significativa in tali pazienti fosse un trattamento precoce iniziato entro le prime 24 ore dalla perforazione.16

Tuttavia altri studi evidenziano come il trattamento con protesi sia gravato dalla frequente migrazione delle stesse osservata nel 30% circa dei casi, con la successiva necessità di riposizionamento della protesi stessa o con la necessità di optare per un trattamento chirurgico che è risultato necessario in circa 15-35% dei casi.

L’utilizzo delle protesi esofagee Inoltre appare spesso poco percorribile in sede esofagea cervicale in quanto in tale sede risultano mal tollerate dal paziente, così come in sede distale sono più inclini alla migrazione ed alla ridotta efficacia.

L’utilizzo di clips endoscopiche per la chiusura della perforazione rappresenta al momento una tecnica in via di implementazione, in quanto i presidi attualmente disponibili sembrano consentire un trattamento efficace in lesioni con soluzioni di continuo della parete esofagea, così come avviene per le pareti gastrica e colica. I risultati riportati con l’utilizzo di tale approccio sembrano buoni con tassi di guarigione del 90% circa; si tratta comunque in gran parte di case-reports o di piccole osservazioni su perforazioni molto recenti spesso

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iatrogene e di piccole dimensioni, pertanto l’utilizzo delle clip sull’esofago al momento appare giustificabile solo in casi molto selezionati.

Esami strumentali come radiografia da transito, endoscopia e tomografia computerizzata vengono utilizzati per il monitoraggio della Sindrome di Boerhaave, soprattutto allo scopo di effettuare una rivalutazione del paziente nel caso in cui questo presenti segni di sepsi o esista il sospetto di fallimento della terapia conservativa.

Raccolte pleuriche o mediastiniche significative vengono inizialmente drenate sotto guida radiologica e solo nel caso in cui non si abbia miglioramento clinico si opta per l’intervento chirurgico di pulizia del cavo.

La presenza comunque di empiema e/o mediastinite, così come l’evoluzione verso un quadro di sepsi grave fino allo shock settico, sono considerate indicazioni alla chirurgia.17

6.2 APPROCCIO ENDOSCOPICO

6.2.1 VATS video assisted torachoscopic surgery

Lo sviluppo di tecniche mininvasive ha creato la possibilità tentare una riparazione primaria della rottura esofagea senza la necessità di effettuare una toracotomia.

Il trattamento in video-toracoscopia è riservato a pazienti con perforazioni diagnosticate precocemente (intorno alle 24 ore dalla rottura), emodinamicamente stabili, in assenza di segni di sepsi e senza controindicazioni alla procedura.

Secondo i vari studi comparativi, la tecnica toracoscopica, se confrontata con la toracotomia nel trattamento della S. di Boerhaave in stadio iniziale, permette di avere una

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migliore e più estesa visualizzazione del danno, riduce significativamente il trauma chirurgico, le perdite ematiche e il dolore post operatorio, mantiene una migliore capacità di ventilazione del paziente nelle fasi post-trattamento.

Tale tecnica è risultata efficace e con risultati simili, se non migliori, alla tecnica chirurgica classica a patto che venga attuata precocemente, in particolare entro 24 ore dall’insorgenza della rottura esofagea; i risultati negli studi recenti appaiono addirittura ottimi se l’intervento viene effettuato antro le prime 6 ore dall’episodio acuto. 18

6.2.2 PROTESI ESOFAGEE

L’utilizzo di protesi a livello esofageo nella Sindrome di Boerhaave è ancora oggi un tema molto dibattuto.

Nel 2006 Fischer et al.19 proposero uno studio osservazionale non randomizzato su

perforazioni esofagee sia iatrogene che spontanee trattate con stent metallici auto espandibili. A tutti i pazienti con perforazione non iatrogena veniva, oltre allo stent, posizionato un tubo toracico per il drenaggio dell’empiema pleurico.

Due dei cinque pazienti con sindrome di Boerhaave furono operati successivamente con tecnica toracotomica per insufficiente drenaggio dell’empiema pleurico.

In un altro studio, su 5 pazienti con S. di Boerhaave si utilizzarono endoprotesi metalliche e drenaggio toracico di una o entrambe le cavità pleuriche. Uno dei cinque pazienti necessitò della toracotomia e dell’esofagectomia a causa dell’insorgenza di numerosi ascessi pleurico-mediastinici. Tutte le endoprotesi furono rimosse dopo 7 settimane e un paziente giunse all’exitus.20

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Attualmente studi internazionali sembrano dimostrare come l’utilizzo di endoprotesi rispetto alla riparazione primaria nei casi di Sindrome di Boerhaave diagnosticati precocemente, sia associato a una maggiore mortalità e non sia in grado di prevenire lo sviluppo di sepsi, prolunghi il tempo di permanenza in terapia intensiva e l’ospedalizzazione, sia associato a severe complicazioni infiammatorie.10

La tendenza attuale sembra orientata a riservare il trattamento endoscopico con endoprotesi a pazienti con Sindrome di Boerhaave diagnosticata tardivamente, oppure a pazienti con un elevato rischio perioperatorio sia chirurgico che anestesiologico, o che presentino piccole lesioni sulla parete esofagea dopo un intervento precedente.

6.2.3 CLIP

Le clip chirurgiche, utilizzate per fermare sanguinamenti del tratto gastro enterico, sono state provate anche per riparare primariamente piccole perforazioni esofagee.

La prima pubblicazione che riguarda il trattamento della Sindrome di Boerhaave con tale metodo risale al 2006; tale osservazione stabilì che tale metodo dovesse essere utilizzato esclusivamente in pazienti strettamente selezionati, con assenza di segni di infezione e con una soluzione di continuo sulla parete esofagea non più lunga di 1,5 cm. 21

Negli anni comunque le clip sono state utilizzate più ampiamente, anche in caso di diagnosi tardive e segni di mediastinite.

Gli ultimi studi presentano un nuovo sistema di clipping endoscopico per la riparazione di piccole perforazioni, denominato over-the-scop clip (OTSC); tale sistema ha permesso di trattare con successo casi di Sindrome di Boerhaave con segni di mediastinite.22

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Al momento si tratta comunque di piccole osservazioni con risultati isolati e non è possibile per questo valutare l’efficacia e la sicurezza di tale tipo di procedura.

6.3 APPROCCIO CHIRURGICO

È possibile valutare molti studi riportanti case- reports e case-control e si può capire come in generale le procedure chirurgiche possano essere suddivise a seconda che la diagnosi della sindrome sia stata posta precocemente (<24 ore) o tardivamente (>72 ore).

La scelta della tipologia di trattamento chirurgico dipende da molteplici variabili: la sede di perforazione, l’entità della perforazione, la vitalità dei tessuti esofagei, il grado di sepsi dei tessuti peri-lesionali, la presenza di eventuali comorbidità esofagee e le condizioni generali del paziente.

6.3.1 RIPARAZIONE CHIRURGICA PRIMARIA

La riparazione chirurgica primaria viene in genere eseguita in uno stadio precoce dall’insorgenza della rottura esofagea, in pazienti emodinamicamente stabili che non presentino segni di sepsi.

L’esecuzione della TC con mdc per via orale è indispensabile ai fini di determinare la sede della lesione e l’accesso chirurgico più adeguato; nonostante generalmente la rottura avvenga al di sopra dello iato diaframmatico in prossimità del margine postero laterale sinistro, non si devono escludere altri segmenti esofagei che possono essere interessarti come documentato da molti case-report.

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La toracotomia laterale sinistra eseguita nel settimo od ottavo spazio intercostale è ritenuta il miglior accesso all’ultimo tratto toracico dell’esofago.

I principi della riparazione chirurgica primaria includono:

- debridment meccanico del tessuto necrotico dai margini del danno fino al tessuto vitale; - miotomia longitudinale dell’esofago con lo scopo di visualizzare la lunghezza del danno a

livello mucoso, danno che può risultare essere anche 3 volte più lungo di quello a livello muscolare;

- sutura non tesa della mucosa con punti singoli riassorbibili; - chiusura dello strato muscolare con punti di sutura non assorbili;

- leak-test delle suture attraverso introduzione di aria nel sondino nasogastrico dopo aver sommerso di soluzione salina il sito del danno (l’osservazione di bolle d’aria evidenziano una sutura non corretta);

- rimozione della fibrina;

- irrigazione della cavità pleurica e mediastinica con fluido antisettico - posizionamento di drenaggi pleurici e mediastinici.

La riparazione chirurgica ed il drenaggio toracico sembrano rappresentare il gold standard nel trattamento di perforazioni esofagee spontanee in stadio precoce.23

La mortalità utilizzando tale procedura risulta essere la minore rispetto alle altre tecniche di approccio terapeutico e si aggira, a seconda degli studi, tra il 7,4% ed il 25%.24,25

È comunque frequente lo sviluppo di fistolizzazioni esofago-pleuriche per piccole lesioni nella sede della riparazione; per questo è importante il posizionamento del drenaggio toracico che riduce la possibilità di sviluppo di infezioni intratoraciche e di piotorace. La fistolizzazione secondaria all’intervento è favorita dall’edema massivo e dalla fragilità della

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parete esofagea a livello del sito di rottura, aspetti che rendono difficoltosa la sutura e ne riducono la stabilità nel tempo.

Cho et al. determinarono una relazione tra il ritardo terapeutico e l’insorgenza di perdite secondarie: nella loro casistica se si interveniva chirurgicamente nelle prime 6 ore dall’episodio acuto la fistolizzazione risultava essere delle 0%, mentre un intervento tra le 6-12 ore sembrava determinare lesioni secondarie nel 67% dei casi; dopo 24 ore, la fistolizzazione secondaria era osservata nell’83% dei pazienti.18

In altri studi comunque sono presenti frequenze più basse di lesioni secondarie se l’intervento chirurgico viene eseguito entro le 24 ore dalla rottura, con percentuali che si aggirano tra il 20 ed il 40% dei casi.

Alcuni chirurghi affermano che la sutura primaria debba essere rinforzata utilizzando un lembo pleurico o muscolare od omentale, oppure una rete assicurata con punti di sutura non riassorbili.

La protezione della sutura diretta tramite questi presidi dovrebbe diminuire il rischio di perdite secondarie e conseguentemente anche della mortalità.

Numerosi studi hanno dimostrato tali risultati 26-28 con un miglior outcome nei pazienti

sottoposti a rinforzo della sutura primaria rispetto a quelli senza protezione.

Comunque sia, tali casistiche ad oggi non sono considerate statisticamente significative e alcuni affermano che i patch non influiscano positivamente sull’incidenza delle complicanze e delle mediastiniti successive, proponendo l’apposizione di lembi solo nei casi

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di Sindrome di Boerhaave diagnosticati tardivamente o secondariamente all’insorgenza di perdite in seguito ad una sutura diretta.23,29

È ancora comunque dibattuta la necessità di rinforzo della linea di sutura dell’esofago. Fino a una ventina di anni fa, la riparazione chirurgica primaria era riservata solo ai casi di S. di Boerhaave diagnosticati precocemente, ritenendo l’esofagectomia gold standard per quelli tardivi e già complicati.

Oggi la riparazione primaria viene utilizzata anche nei pazienti che presentino mediastinite e sepsi nel tentativo di conservare l’esofago, a patto che la necrosi della parete non sia particolarmente estesa e che sia possibile la riparazione sostitutiva del tessuto necrotico rimosso.

Nei casi in cui la parete dell’esofago si presenta edematosa, è possibile eseguire una sutura continua a tutto spessore e la successiva apposizione di un lembo autogeno di copertura al fine di ridurre l’elevato rischio di fistolizzazione secondaria.

Una meta-analisi di 18 reports, che incluse 227 pazienti con diagnosi e trattamento tardivo di Sindrome di Boerhaave, dimostra che non sussistono differenze statisticamente significative tra i gruppi di pazienti trattati con resezione od esclusione esofagea rispetto a quelli trattati con riparazione primaria.25

Si può concludere che tali risultati siano favorevoli all’utilizzo della riparazione primaria con apposizione di patch anche negli stadi tardivi della Sindrome di Boerhaave, essendosi tale approccio dimostrato sicuro, efficace e capace di mantenere l’integrità esofagea; dovrebbe quindi essere applicata nel caso in cui le condizioni locali e generali lo permettano.18,30

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Alcuni autori affermano comunque il contrario e consigliano la riparazione primaria solo nei casi trattati nelle prime 24 ore; indicano invece come elettiva la resezione esofagea nel riscontro di infezione o nei casi di intervento tardivo, proponendo l’esecuzione di gastrostomia ed esofagostomia cervicale: propongono l’attuazione della ricostruzione esofagea solo in un secondo momento tramite l’utilizzo di un’ansa intestinale.31,32

Tale indirizzo procedurale è motivato dal fatto che, secondo gli assertori di tale approccio, solo la resezione della parte d’esofago perforata permette l’eliminazione definitiva della fonte di infezione.

6.3.2 ESOFAGECTOMIA

La Sindrome di Boerhaave è un tipo di lesione esofagea particolare, che presenta una prognosi infausta a causa soprattutto della presentazione precoce di mediastiniti necrotiche purulente.

Per questo motivo negli anni Novanta si pensava che più la diagnosi era posta tardivamente, maggiore dovevano essere l’aggressività e l’estensione del trattamento chirurgico.

L’approccio radicale ancora oggi è sostenuto da diverse scuole di pensiero.

Nei casi di diagnosi tardive e segni d’infezione, l’esofagectomia con esofagostomia cervicale e gastrectomia è a tutt’oggi praticata e consigliata.

In un secondo momento la continuità esofagea può essere ripristinata tramite l’utilizzo di un graft intestinale.

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La mortalità dei pazienti sottoposti a tale tipo di procedura si aggira intorno al 60%; ciò è dovuto soprattutto anche alle condizioni cliniche di partenza severe ed impegnate dei pazienti.

In definitiva, oggi le indicazioni alla esofagectomia sono rappresentate dalla rottura estesa dell’esofago impossibile da riparare, dalla necrosi massiva della parete e da casi complicati di Sindrome di Boerhaave con sepsi e significativa presenza di fistolizzazione in seguito ad una riparazione primaria.33

6.3.3 ESCLUSIONE TEMPORANEA DELL’ESOFAGO

Negli ultimi anni sono comparsi numerosi report sull’utilizzo dell’esclusione temporanea dell’esofago nel trattamento della Sindrome di Boerhaave.

La classica esclusione bipolare temporanea consiste nel drenaggio massivo del mediastino con creazione di una fistola esofago-cutanea cervicale e chiusura dell’esofago a livello del cardias attraverso l’utilizzo di un nastro di teflon.

La procedura termina con una gastrostomia decompressiva che può essere utilizzata per la nutrizione dopo le prime 72 ore.34,35

Grazie alla fistola cervicale il rischio di infezione dal cavo orale è eliminato, mentre la chiusura del cardias previene il reflusso gastrico favorendo la guarigione tissutale.

Questo metodo richiede comunque una lunga ospedalizzazione con rischi elevati di infezioni secondarie e con costi alti, e necessita di un secondo intervento chirurgico per la rimozione del nastro cardiale e la chiusura della fistola.

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Tale procedura pone anche il paziente a rischio di formazione di polipi mucosi a livello del segmento escluso e di stenosi secondaria a livello cardiale.

L’esclusione temporanea dell’esofago risulta essere utile per pazienti in condizioni cliniche critiche, nei quali risulta eccessivamente rischiosa l’esecuzione di un intervento di chirurgia maggiore.

Le indicazioni più comunemente riscontrate in letteratura per tale tipo di approccio terapeutico sono la presenza di un danno parietale esteso associato a severe infezioni mediastiniche e/o pleuriche, lesioni parietali secondarie e necrosi parziale della parete esofagea.25

Comunque, tale tipo di approccio, non permettendo un buon controllo dell’infezione ed essendo gravato da mortalità elevata, non viene oggi molto utilizzato.

6.4 PROCEDURE AGGIUNTIVE

6.4.1 GASTROSTOMIA DECOMPRESSIVA

Un elemento importante per il successo del trattamento della Sindrome di Boerhaave è la decompressione gastrica.

Questa può essere attuata tramite l’esecuzione di una gastrostomia, oltre che attraverso il posizionamento di un sondino naso gastrico di diametro adeguato e mantenuto in aspirazione.

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La decompressione gastrica permette di prevenire il reflusso di acido gastrico a livello del tratto inferiore toracico esofageo e di ridurre la pressione intraluminale, agevolando la guarigione del sito di rottura.

6.4.2 DIGIUNOSTOMIA

La digiunostomia permette la nutrizione enterale del paziente che in questo modo può essere iniziata qualche giorno dopo l’operazione chirurgica e protratta fino alla guarigione della lesione.

Un apporto nutritivo corretto e ricco di proteine, diminuisce il rischio infettivo e i giorni di degenza in terapia intensiva, secondo le linee guida SINPE.

6.4.3 TRACHEOTOMIA

Le estese infezioni della cavità pleurica conseguenti alla rottura esofagea, possono determinare atelettasia del parenchima polmonare e insorgenza di insufficienza respiratoria.

L’esecuzione precoce di una tracheotomia e la ventilazione meccanica permettono di migliorare la ventilazione a livello alveolare riducendo la resistenza delle vie aeree e il lavoro dei muscoli respiratori.33

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7. SEPSI

La complicanza principale della Sindrome di Boerhaave è la sepsi, che si presenta inesorabilmente con il passare delle ore in seguito alla rottura dell’esofago.

La sepsi è definita dal Sepsis 3 “una disfunzione d’organo potenzialmente fatale causata da una disregolata risposta dell’ospite all’infezione”.

La sepsi è una patologia tempo-dipendente il cui esito clinico dipende dalla rapidità di riconoscimento e dall’efficacia della gestione clinica a partire dalla prima ora.

Inizialmente, gli effetti sistemici della sepsi furono attribuiti ad una risposta infiammatoria sistemica eccessivamente marcata da parte del paziente. Ad ogni modo, successive ricerche evidenziarono come, a questa prima fase, seguisse un’altrettanta eccessiva attivazione da parte dei sistemi anti-infiammatori.

Ad oggi, si ritiene che l’infezione scateni nell’ospite una risposta complessa, variabile e prolungata in cui meccanismi sia pro-infiammatori che anti-infiammatori contribuiscono all’eliminazione del patogeno responsabile determinando però al contempo un danno d’organo.

Per tale ragione, la definizione di sepsi, formulata all’inizio degli anni ‘90, come un’infezione in cui fossero presenti almeno 2 dei 4 criteri di SIRS, è stata oggi abbandonata.

Questa definizione era legata alla visione della sepsi come condizione morbosa conseguente ad un’eccessiva attivazione dei sistemi pro-infiammatori.

Ad oggi, si riconoscono nella sepsi, non solo una disregolazione a carico dei sistemi pro ed anti- infiammatori, ma anche profonde modificazioni a carico di altri apparati quali il

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sistema cardiovascolare, il sistema nervoso, il sistema endocrino, il normale metabolismo cellulare e la coagulazione. Si tratta quindi di una vera e propria sindrome multiorganica; è l’insieme di tutte queste funzioni dell’organismo e di come queste sono influenzate dalla sindrome a determinare la prognosi del paziente affetto.

I punti cardine del trattamento della sepsi oggi sono costituiti dalla precoce identificazione della malattia e dal controllo dell’infezione sia attraverso il trattamento antibiotico sia tramite le manovre di supporto rianimatorio.

Al fine di standardizzare e fornire un riferimento ai medici che si trovano a trattare tale sindrome, a partire dal 2004 sono periodicamente pubblicate le linee guida della Surviving Sepsis Campaign nelle quali vengono raccolte tutte le evidenze attualmente disponibili in merito al trattamento della sepsi e sono indicati i punti cardine della terapia, sia della sepsi che dello shock settico.

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8. IgGM EV Pentaglobin

L’utilità dell’utilizzo delle immunoglobuline per via endovenosa nel paziente settico oggi è supportata e dibattuta da molti studi.

Le preparazioni di immunoglobuline EV presentano diversi meccanismi d’azione, come la neutralizzazione dell’antigene, il blocco e l’espressione dei recettori per Fc presenti sui fagociti, la modulazione della risposta citochinica, l’interferenza con il sistema del complemento attivato e la modulazione delle cellule con funzioni immunologiche.

Rispetto alle immunoglobuline standard utilizzate nella pratica clinica che contengono più del 96% di IgG, l’utilizzo di preparazioni di IgGM EV che contengono 38g/L di IgG, 6g/L di IgM e 6g/L di IgA, consente di usare un prodotto molto più simile al plasma umano. Al momento è disponibile solo una preparazione di IgGM EV sul mercato: il Pentaglobin.36

È stato dimostrato che IgGM EV neutralizza il superantigene streptococcico più efficacemente rispetto alle preparazioni standard di IgG, inibendo in modo significativo la sua attività mitogenica e citochinica.37

Il ruolo delle nel paziente settico è stato valutato clinicamente negli ultimi 30 anni.

Il fattore più indagato è stata la correlazione con la mortalità, la quale si è dimostrata ridotta in diversi studi38,39 in seguito all’utilizzo di IgGM EV anche a dosi basse, tra 0,25 e

0,4 ml/Kg/die.

In letteratura è possibile comunque trovare studi nei quali si dimostra come le immunoglobuline non presentino alcuna influenza positiva sull’outcome e sulla mortalità del paziente.

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Uno studio del 2005 per esempio ha sottolineato come la mortalità sia legata ad una antibioticoterapia errata; estrapolando comunque dalla casistica i casi con terapia antibiotica non corretta, è stato comunque possibile dimostrare come la mortalità fosse nettamente minore nei pazienti ai quali erano state somministrate IgGM EV rispetto ai casi controllo. Gli autori hanno stimato che l’incremento di sopravvivenza per l’antibiotico terapia appropriata è del 64,7%, mentre quello dato dall’utilizzo delle immunoglobuline è del 26,9%, risultando quindi una vita in più salvata su 4 pazienti che ricevono IgGM EV.40

Una review del 2018 pubblicata sul “Journal of Critical Care”36 ha confrontato 23 studi clinici

e 5 meta-analisi incentrate sull’utilizzo delle immunoglobuline IgM arricchite, concludendo che il dibattito è ancora in atto essendo nella letteratura riscontrabili risultati contrastanti, nonostante la nuova definizione di sepsi nel Sepsis-3 stabilisca l’utilità e le potenzialità dell’utilizzo di tali prodotti.

Un ostacolo notevole all’utilizzo delle immunoglobuline è determinato dal prezzo elevato del Pentaglobin, dato che un flacone da 100 ml di soluzione da infusione 50mg/ml costa 660 euro. La posologia consigliata nelle infezioni gravi è di 5 ml (0,25 g)/Kg di peso corporeo al giorno per tre giorni consecutivi, valutando successivamente ulteriori somministrazioni a seconda del quadro clinico, con un costo quindi indubbiamente molto alto.

Sono stati eseguiti studi anche sull’incidenza determinata dall’utilizzo delle immunoglobuline sui giorni di degenza in terapia intensiva; la maggior parte delle osservazioni non ha riscontrato alcuna differenza significativa tra il gruppo controllo e quello a cui era stato somministrato il Pentaglobin.42-46

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Yavuz et al.44 riscontrò che la degenza in terapia intensiva risultava più lunga nei pazienti a

cui erano state somministrate immunoglobuline rispetto al gruppo controllo, ma riportò anche che la mortalità nei primi era significativamente ridotta, in accordo col fatto che i sopravvissuti hanno una degenza più lunga in UTI rispetto ai deceduti.

Il Pentaglobin non ha inoltre mostrato alcun effetto sull’incidenza delle miopatie e/o delle polineuropatie in terapia intensiva, sui livelli dei marker infiammatori come IL6, sulla disfunzione multiorgano, sulla durata del sostegno emodinamico tramite vasopressori del paziente con shock settico e insufficienza respiratoria severa o sull’incidenza dello shock settico nei pazienti con sepsi grave.36

Sulla durata della ventilazione meccanica, la somministrazione di IgGM EV sembra invece avere un effetto positivo, come anche sulla diminuzione delle infezioni post operatorie, sulla diminuzione dell’endotossina batterica in pazienti settici e sulla diminuzione del tempo di ricovero e della mortalità per infezioni.

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9. TECNICHE EXTRACORPOREE

Le indicazioni all’utilizzo delle tecniche di depurazione extrarenale vanno oltre la semplice sostituzione della funzione renale e si sono estese a parecchie condizioni patologiche: • sovraccarichi idrici che si realizzano in ambito internistico e chirurgico;

• alterazioni dell’equilibrio acido-base e di alcune condizioni metaboliche (iperkaliemie, ipo-ipersodiemie);

• avvelenamenti da farmaci e sostanze tossiche;

• sepsi, nella quale si realizza un’alterazione del sistema immunitario con simultanea presenza di mediatori pro e anti-infiammatori che potrebbero essere rimossi dall’emofiltrazione ad alti flussi;

• rimozione di autoanticorpi, complessi immuni, lipoproteine circolanti in eccesso.

9.1 SOSTITUZIONE EXTRACORPOREA RENALE (CRRT) AD ALTI FLUSSI

Una meta analisi pubblicata nel 201147 ha identificato 12 studi (circa 2000 pazienti) che

hanno valutato l’efficacia del trattamento sostitutivo renale continuo in pazienti con sepsi. Sia i trattamenti tradizionali che quelli ad alte dosi non hanno modificato la sopravvivenza dei pazienti e neppure gli outcome secondari come la disfunzione d’organo o la durata di ricovero in Terapia Intensiva.

9.2 EMOPERFUSIONE CON FILTRO DI POLIMIXINA B (PMX-B)

La meta-analisi pubblicata da Zhou et al. nel 201348 e il CRT multicentrico successivamente

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Una riduzione del rischio assoluto di morte tra i pazienti che ricevevano un trattamento emoperfusivo è stata osservata nello studio meta-analitico, in modo particolare nei trial che avevano investigato l’uso del filtro di Polimixina B. La meta-analisi era, però, gravata da importanti limitazioni determinate dalla bassa qualità degli studi pubblicati.

Recentemente un trial multicentrico condotto in 18 Terapie Intensive francesi non ha dimostrato alcuna differenza di mortalità tra i 119 pazienti con shock settico dopo chirurgia d’urgenza per peritonite trattati con Polimixina B 49.

Lo studio, seppure il più ampio a disposizione, presenta alcune importanti limitazioni tra le quali una sostanziale: solo il 62% dei pazienti nel gruppo in trattamento ha completato le sessioni di PMX-B previste.

9.3 TECNICA EXTRACORPOREA DI PLASMA-FILTRAZIONE ED ASSORBIMENTO

(CPFA)

La CPFA è una tecnica extracorporea di purificazione del sangue che combina un primo passaggio di separazione del plasma e assorbimento di citochine, mediatori infiammatori e/o tossine, con un passaggio successivo di emofiltrazione per il controllo del volume e rimozione di piccoli mediatori solubili.

Nello studio clinico randomizzato e controllato pubblicato nel 2014 da Livigni et al. 50 non

è stata osservata alcuna differenza tra i pazienti trattati con o senza CPFA in termini di mortalità e comparsa di nuove disfunzioni d’organo.

Tuttavia il trattamento extracorporeo non era stato completato come previsto dal protocollo a causa di problemi correlati alla coagulazione del circuito e, quando gli autori

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hanno analizzato i pazienti correttamente trattati, hanno osservato una correlazione tra volume di plasma scambiato e sopravvivenza.

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PARTE SPECIALE ED OSSERVAZIONE CLINICA

1. INTRODUZIONE

La Sindrome di Boerhaave è una sindrome rara, ma che presenta elevata mortalità.

Centri di riferimento per le patologie esofagee, come l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, presentano comunque una casistica ragguardevole che si attesta attorno a 1-2 casi annui; tale frequenza fa sì che tale patologia, anche se rara, possa essere conosciuta, riconosciuta precocemente e trattata nel modo corretto.

Tutti i pazienti con rottura d’esofago, indipendentemente dall’approccio terapeutico chirurgico o conservativo scelto, necessitano di un monitoraggio intensivo visto l’elevato rischio di complicanze come la sepsi.

Oggi non sono ancora presenti linee guida da seguire per la Sindrome di Boerhaave, ma solo suggerimenti in base a studi sperimentali e retrospettivi.

L’obbiettivo di questa osservazione è quello di esaminare la casistica dei pazienti trattati presso l’UO Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale nel periodo compreso tra il gennaio 2010 e l’aprile 2018, al fine di valutare i percorsi terapeutici intrapresi, l’efficacia degli stessi, la morbilità e mortalità dei pazienti, l’eventuale attinenza con le tecniche di intervento oggi maggiormente riconosciute.

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2. MATERIALI E METODI

Tra il gennaio 2010 e l’aprile 2018 presso l’U.O. di Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana sono stati osservati 14 pazienti affetti da Sindrome di Boerhaave.

L’esame retrospettivo dei casi effettuato prevedeva, oltre alla valutazione di età, sesso, peso, altezza, indice di massa corporea (BMI), tempi di degenza in Terapia Intensiva, anche la ricerca di eventuale presenza di patologie pregresse o di fattori predisponenti la rottura esofagea.

Sono state inoltre valutate il tempo intercorso tra la rottura esofagea e la diagnosi, il tipo di approccio terapeutico utilizzato in prima istanza, l’eventuale insorgenza di infezioni secondarie locali o sistemiche, la sede d’infezione, l’antibioticoterapia intrapresa.

Essendo la sepsi la più frequente e pericolosa complicanza della Sindrome di Boerhaave, si è cercato di confrontare due gruppi di pazienti: nel primo si è utilizzato un protocollo di trattamento classico della sepsi basato soprattutto sull’antibioticoterapia, nel secondo invece si è associato a questo anche una serie di terapie adiuvanti tra cui la somministrazione di Pentaglobin e l’utilizzo di tecniche extracorporee per cercare di ottimizzare la risposta immunitaria.

Sono poi stati esaminati altri aspetti, come la necessità di supporto emodinamico attraverso farmaci vasoattivi, eventuali presidi o tecniche di assistenza e monitoraggio utilizzati, le modalità di nutrizione artificiale intraprese, l’evoluzione verso sindromi multiorganiche.

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Per ogni paziente è stato calcolato il SOFA score all’ingresso in Terapia intensiva, a 3 e 7 giorni di degenza, alla dimissione dal reparto o al momento del decesso.

Sono infine state valutate morbilità e mortalità riscontrate nella casistica osservata.

3. RISULTATI

Il campione osservato è composto da 14 pazienti trattati tra il gennaio 2010 e l’aprile 2018 presso l’U.O. Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana; si tratta nel 64,3% di pazienti di sesso maschile (M=9-64,3%; F=5– 35,7%), di età media pari a 66,4 anni (range 46 – 82 anni), con BMI medio pari a 27,2 (range 18 – 39).

In anamnesi, il 57,1% dei pazienti (n=8) presentava ipertensione arteriosa sistemica, il 28,5% (n=4) diabete mellito e il 35,7% (n=5) risultava essere fumatore e/o consumatore di alcool; il 28,5% (n=4) dei casi osservati risultava inoltre in prevenzione primaria con ASA.

La diagnosi di perforazione esofagea è stata effettuata, in vari reparti di Pronto Soccorso territoriali, nel 92,8% dei casi (n=13) entro le prime 12 ore dall’insorgenza dell’evento acuto; solo in un caso la diagnosi è stata effettuata in un reparto internistico alcuni giorni dopo l’avvenuta perforazione.

Il 78,5% dei casi (n=11) è stato sottoposto ad intervento chirurgico o endoscopico riparativo entro le prime 24 ore dall’episodio acuto.

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Il 78,6% (n=11) dei soggetti è stato sottoposto a riparazione chirurgica primaria della perforazione, seguita dal posizionamento di endoprotesi; in due casi (14,3%) sono state utilizzate endoprotesi e clip senza trattamento chirurgico, mentre in un paziente (7,1%) è stata effettuata esofagectomia totale.

Nel 28,5% dei casi osservati (n=4) è stato inoltre necessario procedere ad un secondo intervento chirurgico (toracotomia con toilette chirurgica e/o mediastinitomia).

In tutti i pazienti osservati è stata confezionata digiunostomia o gastrostomia.

La sopravvivenza a 6 mesi dall’episodio acuto è risultata pari al 71,4% (n=10); l’età media dei pazienti sopravvissuti è risultata di 61,3 anni (range 46-76 anni), minore quindi rispetto ai 66,4 anni del campione.

La sopravvivenza dei pazienti operati precocemente, entro cioè le prime 24 ore all’evento acuto, è risultata inoltre pari al 75% (n=9/12).

I giorni di degenza in Terapia Intensiva sono risultati mediamente pari a 20,9 (range 4-61 giorni): nella notevole variabilità di durata di tale degenza, il fattore di maggior influenza risultano lo sviluppo di una situazione di sepsi, osservata nella maggior parte dei casi (92,8% n=13) e soprattutto la gravità della stessa.

Durante la degenza intensiva, tutti i pazienti hanno ricevuto appropriata terapia antibiotica e sono stati trattati con nutrizione enterale precoce (entro le 48 ore dall’intervento correttivo) attraverso digiunostomia o gastrostomia; nel 42,8% dei casi (n=6) hanno presentato alterazioni dell’equilibrio emodinamico con necessità di assistenza farmacologica con farmaci vasoattivi (noradrenalina e/o dopamina); 6 pazienti (42,8%) durante la degenza sono stati trattati con ultrafiltrazione renale (CPFA).

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Tutti i pazienti hanno avuto necessità di assistenza ventilatoria post-trattamento correttivo per almeno 24 ore; nell’ 85,7% dei casi (n=12) la ventilazione meccanica è stata necessaria per almeno 6 giorni, mentre in 6 pazienti (42,8%) si è prolungata per un periodo superiore ai 15 giorni. Il 78,6% dei soggetti osservati (n=11) è stato sottoposto a tracheostomia. Un aspetto rilevante appare quello relativo all’utilizzo del Pentaglobin, osservato nel 50% dei pazienti della casistica: in tale gruppo la sopravvivenza a 6 mesi dall’episodio acuto è risultata pari al 100%.

4. DISCUSSIONE

L’analisi dei dati raccolti nello studio retrospettivo dei pazienti ha evidenziato una prevalenza di soggetti di sesso maschile (64,3%); tali dati si discostano leggermente da quelli rilevabili in letteratura, in quanto nella massima parte degli studi presenti il sesso maschile risulta colpito dalla Sindrome di Boerhaave in percentuali molto più alte che si attestano sull’80% dei casi.

L’età media dei pazienti osservati è risultata pari a 66,4 anni con un range però molto largo e compreso tra 46 e 82 anni; l’età di per sé non costituisce quindi un fattore predisponente la lesione e ciò appare in linea con gli studi attuali. L’età risulta invece un fattore molto rilevante e significativo nell’outcome del paziente; lo sviluppo di complicanze e la mortalità sono risultati infatti molto più frequenti nei pazienti con età maggiore.

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È stato inoltre possibile riscontrare attraverso i verbali di Pronto Soccorso e di ricovero in reparti internistici, una maggior latenza tra la presentazione sintomatologica e la diagnosi in pazienti di età più avanzata rispetto a quelli più giovani.

Il Body Mass Index (BMI) medio riscontrato nella casistica osservata è risultato pari a 27,2, quindi la maggior parte dei pazienti risultavano sovrappeso; in letteratura non è comunque descritta alcuna correlazione tra il peso e l’incidenza della Sindrome di Boerhaave. I fattori di rischio certi della Sindrome non sono infatti noti, anche se è possibile suppore che soggetti sovrappeso ed obesi, essendo maggiormente predisposti a sviluppare reflusso gastro-esofageo, possano presentare una fragilità di parete esofagea maggiore rispetto ai soggetti normopeso e quindi risultare più propensi alla rottura in seguito ad aumenti della pressione endo-luminale.

Altri teorici fattori di rischio come l’abuso di alcool, il fumo, la presenza di patologia ipertensiva e di diabete mellito, l’utilizzo di ASA in prevenzione primaria, risultano osservabili in percentuali variabili e potrebbero avere una certa importanza nel favorire la perforazione, anche se i dati esigui in nostro possesso così come i risultati degli studi presenti in letteratura non possono confermare ciò.

Il grafico sottostante evidenzia le differenze esistenti tra la nostra casistica e la media delle percentuali riscontrate negli studi maggiormente significativi presenti in letteratura, relativamente a età, sesso e abuso di alcool come fattori di rischio ritenuti significativi.

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Come evidenziato dai dati esposti, tutti i pazienti sono stati trattati almeno nelle fasi iniziali della patologia, presso il reparto di Terapia Intensiva dell’U.O. di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana; il periodo medio di ricovero intensivo è risultato pari a 23,4 giorni, con una variabilità però molto elevata e un range compreso tra 4 e 61 giorni. Dai dati esaminati non sono riscontrabili correlazioni significative tra la durata del ricovero e l’outcome del paziente; il principale fattore che influenza il tempo di ricovero in terapia intensiva invece è risultato essere lo sviluppo di un quadro di sepsi.

Un paziente settico necessita infatti spesso di supporto intensivistico prolungato: l’aumento dei giorni di degenza in UTI è comunque direttamente proporzionale allo sviluppo di contaminazioni da batteri multi-resistenti, quali KPC, Acinobacter, Pseudomonas, germi difficilmente debellali e causa di quadri settici spesso gravi, da aggredire associando alla terapia medica uno stretto isolamento funzionale.

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Il 92,8% dei pazienti osservati ha sviluppato uno stato settico durante il ricovero, il cui focolaio nel 100% dei casi è stato riscontrato a livello pleurico/mediastinico, in prossimità della lacerazione esofagea.

Tutti i pazienti osservati sono stati inizialmente trattati con antibiotico-terapia empirica e profilassi antifungina, al momento dell’ingresso in terapia intensiva. La terapia medica impostata nel 100% dei casi comprendeva anche la profilassi dell’ulcera peptica (Antra 40mg 2 volte al giorno) e la profilassi tromboembolica con eparina a basso molecolare. È stato invece necessario intraprendere una antibiotico terapia specifica, mirata sulla base di esami colturali e antibiogramma, nel 92,8% dei pazienti; ciò in seguito alla positivizzazione delle emocolture e delle colture su liquidi prelevati dai drenaggi pleurici e/o mediastinici, soprattutto in pazienti settici resistenti alle terapie in atto.

La maggior parte dei pazienti osservati ha quindi sviluppato un quadro settico durante il ricovero intensivo, condizione che nella maggior parte dei casi si è complicata con sovra-infezioni opportuniste e/o causate da germi molto resistenti.

Nel 42,8% dei casi il quadro settico e le gravi condizioni del paziente hanno determinato alterazioni dell’equilibrio emodinamico; l’ipotensione, la ridotta gittata cardiaca, la ridotta perfusione periferica hanno comportato la necessità di utilizzare farmaci vasoattivi (noradrenalina, dopamina, dobutamina) al fine di sostenere il quadro emodinamico del paziente.

In 6 pazienti (42,8%) la gravità del quadro settico sviluppatosi ha determinato la necessità di trattarli con cicli di ultrafiltrazione renale attraverso tecniche di CPFA, ciò al fine di rimuovere tossine batteriche e preservare la funzionalità renale.

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