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IL TEMA DEL DOPPIO NELLE OPERE I GEMELLI E TRAVEST

3.1 Il doppio dell’autore

3.1.1 Tra realtà e finzione: l’autofiction

Il tema del doppio nella letteratura si presta a molteplici approcci critici. Difatti, la fisionomia di questo elemento letterario è stata indagata da diverse discipline scientifiche, quali possono essere ad esempio l’antropologia e la psicoanalisi. In questa prima sezione del capitolo, che vuole indagare la manifestazione del doppio come alter ego dell’autore, si procederà all’esposizione dei paradigmi teorici sviluppati dalla critica letteraria tra il finire dell’Ottocento e lungo tutto l’arco del Novecento.

Nella sistemazione teorica del tema del doppio, meritano un’indagine speciale due diversi (quanto intrecciati) sviluppi della critica letteraria: quello che ha riguardato il genere dell’autofiction, e quello che ha studiato l’antropologia del personaggio.

Il genere che va sotto l’etichetta autofiction, a partire dalla sua comparsa ufficiale nel panorama letterario, ha destato diversi problemi nella sua individuazione teorica. Si tratta di un genere dalla natura ambigua che affonda le sue radici nella modificazione sostanziale del suo più longevo genitore: l’autobiografia.

Il genere autobiografico, sino al concludersi dell’Ottocento, aveva fondato le sue radici su un paradigma di autenticità. Difatti, anche con l’avvento dello spirito romantico, sebbene il genere fosse stato utilizzato per mettere in scena le inquietudini e le contraddizioni dell’animo umano, non se ne mise in discussione la portata di veridicità. Fu principalmente con l’aprirsi del Novecento e lo svilupparsi, attraverso modificazioni di tipo sociale e culturale, di una crisi ontologica del soggetto e dell’autenticità del reale (portata alle estreme conseguenze dalla sensibilità postmoderna) che l’autobiografia “pura” lasciò il passo a qualcosa di più difficilmente definibile, in cui finzione e realtà “si

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intrecciano inestricabilmente”170. Per dirlo con le parole di Régine Robin:

“l’autobiographie d’un écrivain est toujours quelque chose de complexe171”.

Il termine autofiction, dunque, comparve con forza nel panorama letterario nel momento in cui si modificarono basilarmente le certezze teoriche sulla consumazione del testo e sull’esistenza di un reale indipendente dalla soggettività172. Si intuisce, poi, come

il processo di crescita di questo genere dovette forzatamente accelerare nella condizione postmoderna, in cui si realizzò l’accettazione della natura precaria del reale, che determinò una riorganizzazione del rapporto del nostro Io con il mondo. Fu infatti con il postmodernismo che il genere autobiografico potette evolversi ulteriormente.

Il romanzo postmoderno nasce nel momento in cui si attuano due grandi problemi nel paesaggio letterario: l’esaurimento delle formule vuote dell’high modernism con la conseguente richiesta di “piacevolezza” e l’incapacità del realismo di dare sfogo alla complessità del reale. Una delle strade più floride intraprese dal postmodernismo fu il recupero dell’antropocentrismo, che si risolse nelle “scritture dell’Io173”. L’autore,

attraverso il recupero della sua voce e il filtro della sua esistenza, poteva divenire testimone dell’esperienza umana, “trasformando la realtà da un fatto universale a un fatto particolare174”. Ma al contempo all’autore postmoderno si aprì la strada opposta, quella che viaggiava da un fatto particolare a quello universale, riaprendo le porte “al caos, al divenire, all’universo dei possibili175”.

Il dispositivo autofinzionale comincia la sua controversa storia ancor prima della designazione di un nome sotto cui individuarlo (che, come vedremo, avverrà nel 1977). A inaugurare la sfilza di studi critico-letterari sull’argomento troviamo come capostipite Roland Barthes, che cominciò ad interessarsi a questa nuova tipologia di romanzo grazie agli studi novecenteschi sulla macro-categoria di derivazione, ovvero l’autobiografia. Ne Il piacere del testo176, pubblicato per la prima volta nel 1973, Barthes

170 Eleonora Luciani, Scrivere di sé: il paradosso della verità, dall’autobiografia all’autofiction, in «Lo

sbuffo», 2018, consultabile al link: http://losbuffo.com/2018/10/30/scrivere-di-se-il-paradosso-della- verita-dallautobiografia-allautofiction/ (consultato il 05/10/2020).

171 Régine Robin, Le Golem de l’Écriture, de l’Autofiction au Cybersoi, XYZ, Montréal, 1997, p. 252. 172 Arnauld Shmitt, De l’autonarration à la fiction du réel, in «Autofiction(s)», 2020, consultabile al link:

https://books.openedition.org/pul/3741?lang=it (consultato il 05/10/2020).

173 Eleonora Luciani, Scrivere di sé, in «Lo sbuffo», cit., consultabile al link:

http://losbuffo.com/2018/10/30/scrivere-di-se-il-paradosso-della-verita-dallautobiografia-allautofiction/ (consultato il 05/10/2020).

174 Ibidem.

175Arrigo Stara, L’avventura del personaggio, Mondadori, Milano, 2004, p. 234.

176 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, a cura di C. Ossola, Einaudi,

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parla di una “figuration”, ovvero della possibilità dell’autore di apparire nel testo pur non trattandosi in maniera esplicita di un’autobiografia (come avverrebbe in Proust). In questa nuova tipologia di romanzo il soggetto ritornerebbe nel testo sotto forma di “finzione”, prendendo il nome nelle pagine di Barthes di “fittivo dell’identità”177.

Solamente due anni dopo, nel 1975, un altro autore è costretto a confrontarsi con la nuova tipologia narrativa. Philippe Lejeune, nel suo Patto Autobiografico178, individuava le caratteristiche fondamentali di un’autobiografia “pura”. In essa vi doveva necessariamente essere una corrispondenza onomastica tra autore, narratore e protagonista. La narrazione si sarebbe basata su una ricezione univoca del lettore, che avrebbe accettato, in un rapporto di completa fiducia, la verità raccontata nel testo. Molto diversa appariva invece la situazione di alcuni romanzi dell’epoca: il patto autobiografico veniva costantemente violato. Infatti, il protagonista poteva coincidere “idealmente” con l’autore, ma non ne condivideva l’identità nominale. Nella narrazione inoltre si intromettevano con forza elementi fittivi, che ne minavano alla base la portata di verità assoluta. Lejeune definì questa modalità come “patto romanzesco”179.

La storia degli studi dell’autofiction, e con essa quella del termine, sebbene già intrapresa da studiosi del calibro di Barthes e Lejeune, prenderà avvio, con una storia non poco controversa, alcuni anni dopo.

Una summa del dibattito sullo statuto del nuovo genere autobiografico è stata fornita dalle due opere Est il je?180 e Autofiction181 di Philippe Gasparini, che ha indicato tre linee di approccio alla questione182.

La prima linea teorica fu quella inaugurata da Serge Doubrovsky, laddove si mise in discussione l’autobiografia trasparente, secondo un assunto, derivato certamente dal crollo delle certezze ontologiche, per cui ogni scrittura è necessariamente finzionale.

Il neologismo autofiction deve la sua origine a questo autore francese. Infatti, il termine comparirà per la prima volta nella quarta di copertina di Fils, pubblicato nel 1977. Il tentativo di Doubrovsky fu quello di riempire la “casella vuota” indicata da Lejeune, ovvero il creare un’opera fittizia che riuscisse ad imitare un patto autobiografico,

177 Ivi, p. 123.

178 Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna, 1986.

179 Eleonora Luciani, Scrivere di sé, in «Lo sbuffo», cit., consultabile al link:

http://losbuffo.com/2018/10/30/scrivere-di-se-il-paradosso-della-verita-dallautobiografia-allautofiction/ (consultato il 05/10/2020).

180 Philippe Gasparini, Est-il je?: Roman autobiographique et autofiction, Le Seuil, Parigi, 2004. 181 Philippe Gasparini, Autofiction. Une aventure du Langage, Le Seuil, Parigi, 2008.

182 Arnauld Shmitt, De l’autonarration à la fiction du réel, in «Autofiction(s)», cit., consultabile al link:

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insistendo sulla veridicità del racconto183. L’evoluzione di questo progetto, però, come concordano molti studiosi, fu affidata più all’avvertenza proemiale che alla messa in pratica:

Autobiografia? No, è un privilegio riservato, in bello stile, alle persone importanti sul viale del tramonto. Finzione, di avvenimenti e fatti strettamente reali: se si vuole, autofinzione, di aver affidato il linguaggio di un’avventura all’avventura del linguaggio, fuori dalla saggezza e dalla sintassi del romanzo, tradizionale e nuovo. Incontri, fili di parole, allitterazioni, assonanze, dissonanze, scritture poste prima o dopo la letteratura, concreta, come si dice della musica. O ancora, autofrizione, pazientemente onanista, che spera ora di condividere il suo piacere184.

In realtà, in Fils gli elementi di fiction non vengono facilmente individuati dal lettore, e la narrazione si presenta come “un’autobiografia senza esplicite marche finzionali185”.

Sebbene si debba a Doubrovky l’introduzione del lemma, vi è da specificare che “la nuova biografia”186, così come veniva intesa dall’autore, si atteneva a dei paradigmi

molto differenti di quelli che oggi definiscono il genere dell’autofinzione.

Il clima letterario in cui opera e scrive questo autore francese è quello del nouveau roman. Si tratta di un periodo in cui la stesura di un romanzo di impronta “classica” è ormai considerata obsoleta, e le tecniche narrative si concentrano “sull’elaborazione del significante e sullo smantellamento dell’impianto narrativo classico”187. Secondo le teorie

linguistiche in voga negli anni Settanta, la biografia doveva essere costruita partendo dal linguaggio, ovvero bisognava “utilizzare le parole come sonde capaci di rivelare la struttura dell’inconscio188”.

Doubrovsky, nella sua definizione di autofiction, rispondeva alla necessità del modernismo e del postmodernismo di riformulare l’autobiografia “classica” in virtù del nuovo “instabile” statuto ontologico. Il programma di Doubrovsky partiva dall’assunto secondo il quale l’identità è ridotta ad un binomio veridicità-finzione, e un resoconto

183 Lorenzo Marchese, Genealogia dell’autofinzione italiana, in «Le parole e le cose. Letteratura e realtà»,

senza data, consultabile al link: http://www.leparoleelecose.it/?p=30851 (consultato il 05/10/2020).

184 Serge Doubrovsky, Fils, Gallimard, Parigi, 2001, p. 10, citato in Lorenzo Marchese, Genealogia dell’autofinzione italiana, in «Le parole e le cose», cit.

185 Lorenzo Marchese, Genealogia dell’autofinzione italiana, in «Le parole e le cose», cit.

186 Carlo Mazza Galanti, Autofinzioni, in «Minima&moralia. Blog di approfondimento culturale», 2010,

consultabile al link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/autofinzioni/ (consultato il 05/10/2020).

187 Ibidem. 188 Ibidem.

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sull’identità, ovvero l’autobiografia, doveva rispondere a questa scissione. Per Doubrovsky la scrittura era a priori una finzione, dal momento che essa “costruisce e ricostruisce sempre la realtà a modo suo189” (da qui derivò l’elisione del lemma “biografia” per la definizione delle sue opere).

Questa visione segnò il mancato raggiungimento di un completo rapporto tra finzione e realtà: “fait que l’autofiction n’a jamais réellement réglé son Oedipe, celui qui le relie de manière déraisonnable à la fiction190”. La negazione di un rapporto di interdipendenza e di coesistenza tra finzione e realtà fu l’arresto teorico che non permise a Doubrovsky di definire una categoria operativa191.

Appartengono, ancora, a questo stesso approccio teorico sulla definizione dell’autofiction l’allora dottorando Vincent Colonna e il suo relatore Gérard Genette. Colonna partecipò al dibattito con la tesi L’autofiction. Essai sur la fictionnalisation de soi en littérature192. Un assunto di partenza di questo studioso fu quello di retrodatare l’origine dell’autofinzione. Tale processo in qualche maniera andava a squalificare l’originalità dell’autoficition, assimilandolo ad una semplice riproposizione di un procedimento assai antico nella letteratura. Venivano, infatti, considerati appartenenti al genere tutte le narrazioni in cui il protagonista “coincideva” con il narratore e con l’autore, risalendo ad autorità archetipiche quali Dante e Cervantes193.

Secondo Carlo Mazza Galanti le affermazioni di Colonna sul carattere autofinzionale di questi “antenati” sarebbero, seppur suggestive, da considerare come genericamente infondate, dal momento che un’opera come la Commedia non rispetterebbe la caratteristica fondamentale dell’autofinzione, ovvero “il disorientamento che impedisce di interpretare certi elementi del racconto come reali o come inventati194”. Su questo assunto si permetta, prima di proseguire nella storia di questo genere, una piccola digressione. Difatti, una corrente piuttosto ampia della critica dantesca sostiene, su elementi strettamente filologici e linguistici, che l’impostazione fittiva della Commedia sia da considerarsi scaturita da un’intensa attività sognatrice di Dante Alighieri. Vi sarebbero più nodi sparsi per le cantiche a sostenere l’impostazione del

189 Madeleine Ouelette-Michalska, Autofiction et dévoilement de soi, XYZ, Montréal, 2007, p. 77. 190 Arnauld Shmitt, De l’autonarration à la fiction du réel, in «Autofiction(s)», cit., consultabile al link:

https://books.openedition.org/pul/3741?lang=it (consultato il 05/10/2020).

191 Ibidem.

192 Vincent Colonna, L'Autofiction. Essai sur la fictionnalisation de soi en littérature, tesi inedita, diretta

da Gérard Genette, EHESS, Parigi,1989.

193 Carlo Mazza Galanti, Autofinzioni, in «Minima&moralia», cit., consultabile al link:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/autofinzioni/ (consultato il 05/10/2020).

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viaggio dantesco come una visio in somnis195. Se, dunque, si volesse sostenere l’ipotesi che la Commedia, seppur in parte minima, sia stata realmente sognata, e se si accettasse allo stesso modo che la realtà onirica altro non è che una delle infinite possibilità della realtà, il Dante che cammina attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso potrebbe a tutti gli effetti essere un doppio dell’autore, a cui è affidato il cammino verso il cosmo.

Dopo Colonna il dibattito teorico vedrà in prima fila quello che era stato il suo relatore, Genette. Questo studioso distingue due tipi di autofinzioni. Da un lato vi sarebbero le vere autofiction, in cui il contenuto narrativo si presenterebbe come autenticamente finzionale (come avverrebbe nell’Aleph di Borges o nella Divina Commedia di Dante). Dall’altro individua delle false autofinzioni, delle opere che “ne sont fictions que pour la douane: autrement dit, autobiographies honteuses196”. Il patto

autofinzionale in queste ultime è ricondotto ad un utilizzo “evasivo”. Infatti, questo genere, analizzato in opere a lui coeve come Roland Barthes par Roland Barthes, avrebbe come scopo ultimo quello di mettere in scena avvenimenti censurabili, “de franchir la douane en toute sécurité, à l’abri de toute accusation”197.

Il secondo approccio indicato da Gasparini considererebbe il genere dell’autofiction sotto il filtro dell’“ibridità”, ammettendo dunque una compenetrazione e una fusione tra il realistico e il fittivo.

Una delle protagoniste di questa corrente teorica è Madeleine Oulette-Michalska con il volume Autofiction et dévoilement de soi 198. Il punto di forza di questa studiosa, secondo Arnauld Shmitt, sarebbe quello di non ancorare in maniera semplicistica il genere a un mescolamento simultaneo di biografismo e finzione, con quella che Gasparini chiama “una doppia lettura simultanea”199. Oulette-Michalska, pur sostenendo

l’ibridazione, protende ad una teorizzazione meno forte di quella degli altri studiosi del campo, ponendo l’autofiction in una categoria sfuggente agli schemi teorici. Infatti, non a caso accosta al termine autofiction il neologismo self-fiction, il quale sarebbe estendibile anche a pratiche di genere letterari secolari, come l’epistolografia200.

195 Suggerisco come fonte bibliografica di partenza sullo statuto della Commedia come Visio o Fictio un

articolo di Mirko Tavoni, Dante “Imagining” his journey trought the afterlife, in «Dante Studies», vol. 133, John Hopkins University Press, Baltimora, 2015, pp. 70-97.

196 Mounir Laouyen, L’autofiction: une réception problématique, in «Fabula. La recherche en littérature»,

senza data, consultabile al link: https://www.fabula.org/colloques/frontieres/208.php (consultato il 05/10/2020).

197 Ibidem.

198 Madeleine Ouelette-Michalska, Autofiction et dévoilement de soi, cit.

199 Arnauld Shmitt, De l’autonarration à la fiction du réel: les mobilités subjectives, in «Autofiction(s)»,

cit., consultabile al link: https://books.openedition.org/pul/3741?lang=it (consultato il 05/10/2020).

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Un’altra teorica che merita una menzione è sicuramente Régine Robin con Le Gomel de l’écriture: de l’autofiction au Cybersoi201. Questa studiosa nell’ibridazione tra

realtà e finzione intravede “uno spazio di frontiera202”, in cui possono prendere forma le

fantasie dell’immaginario culturale dello scrittore e dei suoi lettori.

L’ultima corrente teorica, di recente formulazione, affiancherebbe al lemma autofiction, il neologismo autonarration203. Di questa posizione teorica è fautore Arnauld Shmitt nel volume La perspective de l’autonarration204. Questo studioso rifiuta con scetticismo l’ibridazione a livello operativo, che sarebbe impraticabile da un lettore. La base di partenza, quella recepita dal lettore, sarebbe sempre quella dell’autobiografia, laddove, utilizzando la metafora di Shmitt, si deciderebbe di “rinforzare il suo sedile accasciato205” riarrangiando il materiale biografico con la finzione. Shmitt invita gli

ermeneuti dell’autofiction a risolvere l’ambiguità di questo genere attraverso due prospettive: se sarà prevalente in una narrazione il reale essa sarà da intendersi come autonarration; al contrario, se la nota predominante sarà la fiction, il romanzo sarà da valutare come un’autofiction, ovvero come “une catégorie qui regroupe les romans qui empiètent sur le réel et les autobiographies qui empiètent sur la fiction”206.

Per concludere questa breve disamina di alcune delle molteplici posizioni sul genere dell’autofiction, sarà bene ritornare al fondatore del termine, Doubrovsky. Questo studioso durante tutto l’arco della sua attività è ritornato più volte sul concetto di autofinzione, a riprova dei confini labili e mutabili di questo dispositivo letterario. Già nel 1982 con la pubblicazione del suo secondo romanzo, Un amour de soi, le posizioni ferree sull’impossibilità dell’autobiografia “tradizionale” e totalmente a favore della finzione avvertono un cambiamento radicale (favorito di certo dallo svilupparsi degli altri palinsesti teorici e dal rafforzamento della sensibilità postmoderna): „orice autobiografie este o formă de autoficţiune şi orice autoficţiune este o variantă a autobiografiei. Nu există separaţie absolută207”.

201 Régine Robin, Le Golem de l’Écriture, de l’Autofiction au Cybersoi, cit.

202 Arnauld Shmitt, De l’autonarration à la fiction du réel: les mobilités subjectives, in «Autofiction(s)»,

cit., consultabile al link: https://books.openedition.org/pul/3741?lang=it (consultato il 05/10/2020).

203 Ibidem.

204 Arnauld Shmitt, La perspective de l’autonarration, in «Poétique», n. 149, 2007, pp.15-59.

205 Arnauld Shmitt, De l’autonarration à la fiction du réel: les mobilités subjectives, in «Autofiction(s)»,

cit., consultabile al link: https://books.openedition.org/pul/3741?lang=it (consultato il 05/10/2020).

206 Ibidem.

207 Sofian Diana, Mircea Cǎrtǎrescu: the publicistic prose – between autobiography and fiction, in «Journal

of Romanian literary studies», n. 6, 2015, p. 679: “Qualsiasi autobiografia è una forma di autofiction e qualsiasi autofiction è una variante dell'autobiografia. Non c'è separazione assoluta”. (la traduzione è mia).

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Lo studioso tornerà ancora nel dibattito nel 2007, notando come il fulcro sia il cambiamento della concezione di soggetto. L’autore percepisce se stesso come un essere frammentato, e le sue storie non sono altro che la riconfigurazione dei frammenti di esistenza che riscrive nel testo208.

Per tentare, infine, di dare un assunto teorico, che non vuole avere pretesa di validità in toto, possiamo dire che si definisce autofiction una narrazione che presenta degli aspetti riconducibili all’autobiografia, e perciò empiricamente verificabili, ma che al tempo stesso dichiara al lettore, tramite “strategie paratestuali e spie testuali”209, che la narrazione dei fatti è da considerarsi come non corrispondente alla realtà.

Un’ultima precisazione forse è da fare sull’ultima affermazione, ovvero sulla non- corrispondenza con la realtà. Cosa definiamo oggi realtà? Un’autofiction è forse la manifestazione fisica di una possibilità che, a causa delle leggi assegnate alla nostra porzione di universo, non si è potuta manifestare in quella che sembra essere la nostra realtà, ma che verosimilmente non è che una delle infinite dimensioni potenziali. A convalidare questa ipotesi vi sarebbe la modificazione dello statuto del personaggio nel corso del Novecento, che ha portato la critica a individuare nelle creazioni degli autori dei personaggi con un proprio statuto ontologico, sospesi tra la realtà e la finzione, tra l’essere e il non essere, tra la coincidenza e la non coincidenza con il proprio autore. È ai personaggi che sarebbe affidata, in ultimatum, la realizzazione delle potenzialità biografiche dell’autore.

3.1.2 I personaggi come doppi dell’autore: l’Homo Fictus

La teoria letteraria, durante il Novecento, ha conosciuto una modificazione sostanziale del concetto di personaggio, che verrà studiato principalmente nella relazione necessaria che va ad istituire con l’autore dell’opera letteraria, nonché con i lettori della stessa.

Per rintracciare l’inaugurazione del nuovo paradigma dei personaggi di finzione, sul versante teorico, si può risalire certamente alle teorizzazioni di Sigmund Freud, e quindi alla nascita della disciplina psicoanalitica. È principalmente a questa branca di

208 Ivi, p.680.

209 Lorenzo Marchese, Genealogia dell’autofinzione italiana, in «Le parole e le cose», cit., consultabile al

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studi che si deve l’impulso che ha portato la critica letteraria ad occuparsi della questione teorica sullo statuto del personaggio romanzesco.

Freud, nella lettera inviata il 31 maggio 1897 al collega Wilhem Fliess, nota come Minuta N210, descrive alcune caratteristiche fondamentali della creazione poetica. Essa sarebbe assimilabile nei suoi meccanismi di creazione, secondo lo scienziato, alle fantasie isteriche, ponendosi come: “una combinazione inconscia di cose sperimentate e udite, secondo certe tendenze”211. Freud individua dunque un rapporto compensativo tra

creazione poetica ed esperienza biografica, in cui la finzione si collocherebbe a metà strada tra la realtà e le fantasie.212 Il protagonista delle narrazioni acquista la forza mitica

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