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IX.

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E

C

ONFESSIONES

Il libro XI delle Confessiones si configura come uno spartiacque che segna il definitivo passaggio tra la prima parte dell’opera, nella quale l’Ipponate si sofferma sul suo vissuto personale (libri I-IX) indagando l’attuale condizione del suo spirito (libro X) e la seconda parte (libri XI- XIII) volta ad intraprendere un’esegesi scritturistica dei primi versetti della Bibbia.

La riflessione agostiniana sul problema del tempo, affrontata ampiamente nel libro XI, non si configura come una trattazione in sé conclusa ma come un processo che giunge a maturazione partendo dalle fondamentali premesse che l’Ipponate espone sia nelle primissimi dialoghi legati all’esperienza di rus Cassiciacum sia nel De Musica.

L’indagine sul problema del tempo, implicita nei primi libri delle Confessiones, viene resa esplicita nel libro XI: l’Ipponate non intende elaborare una teoria o definizione del tempo bensì si propone di mettere in luce alcuni aspetti della dimensione della temporalità al fine di sottolineare l’alterità della natura immutabile di Dio rispetto a quella mutevole dell’essere creaturale ponendo l’accento sul divario incolmabile tra il modo di fare e di ragionare dell’uomo rispetto a quello di Dio.

La riflessione agostiniana sull’intricato problema della temporalità si presenta come una continua ricerca nell’ottica di quell’inesauribile quaerere philosophice delineato fin dalle primissime pagine del Contra Academicos che, come afferma la Cristiani, risente indubbiamente dell’influsso ciceroniano: «il suo percorso teorico non conduce ad una interiorizzazione più o meno esattamente definita della percezione del tempo, a una riduzione della dimensione temporale oggettiva a dimensione della coscienza, come il troppo celebre in te, anime meus, tempora metior (XI, 27, 36) può facilmente lasciare supporre, quando nella frase non si colga l’accento forte che cade sul verbo, sull’attività razionale e razionalizzante del misurare»559.

559 SANT’AGOSTINO, Confessioni, a cura di M.CRISTIANI,M.SIMONETTI,A.SOLIGNAC, traduzione di G.CHIARINI, Milano 2006, vol. IV, libri X-XI, p. 254.

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Nel libro XI delle Confessiones Agostino cerca di risolvere l’aporia connessa non soltanto all’analisi della misura del tempo ma all’“essere” o al “non essere” del tempo stesso. Il suo tentativo non è quello di creare una fenomenologia del tempo. La risoluzione, nata da una profonda riflessione interiore, non avviene solo sul piano psicologico. Non è lecito neppure affermare che Agostino tenti una soluzione teoretica recidendo le precedenti tesi scettiche. Come afferma lo stesso Ricoeur: «Agostino lascia intendere che solo una trasfigurazione poetica non solo della soluzione ma anche dell’interrogativo stesso, libera l’aporia dal non senso che incombe»560.

Sebbene l’analisi agostiniana parta dall’analisi del problema, di derivazione aristotelica, della relazione tra movimento e tempo561, e nonostante prenda le mosse da una riflessione interiore, si spinge ben oltre un’analisi dell’io e della coscienza.

Nell’incipit del libro XI Agostino dichiara apertamente di bruciare ardentemente dal desiderio di comprendere le Sacre Scritture alla ricerca di quella agognata verità che lo ha guidato nel suo cammino di conversione562. Dopo avere esposto il proposito di volere passare dalla confessione del suo passato a quella del suo grado di comprensione delle Scritture, la riflessione agostiniana si sofferma sull’analisi dei primi versetti del libro della Genesi e in particolare sulle espressioni “fecit” e “in principio”. Non potendo interrogare Mosè, identificato con l’autore sacro, Agostino interpella la propria interiorità visto che la verità parla dentro, nella dimora del pensiero563:

Audiam et intellegam, quomodo in principio fecisti caelum et terram (Gen. 1, 1). Scripsit hoc Moyses, scripsit et abiit, transiit hinc a te ad te neque nunc ante me est. Nam si esset, tenerem eum et rogarem eum et per te obsecrarem, ut mihi ista panderet, et praeberem aures corporis mei sonis erumpentibus ex ore eius, et si hebraea voce loqueretur, frustra pulsaret (Mt 7, 7-8; Lc 11, 9-10) sensum meum nec inde mentem meam quidquam tangeret; si autem Latine,

560 P. RICOEUR, Temp et récit I. L’intrigue et le récit historique, Seuil, Paris, 1983; trad. it, Tempo e racconto I, Milano 1986, p. 21.

561 La teoria aristotelica sul tempo (Phisica IV [D], 11, 219b 1, 2) potrebbe essere giunta ad Agostino attraverso la mediazione di Plotino che, nel libro III delle Enneadi, affrontando il problema relativo al tempo e all’eternità, e confutando Aristotele, recupera senza dubbio le considerazioni platoniche esposte nel Timeo (37d): se l’eternità appartiene al modo perfetto e divino, il tempo riguarda invece l’universo sensibile che è in continuo divenire. Tuttavia Plotino afferma come il tempo, inteso come «vita dell’anima in movimento di transizione da un modo di vita all’altro (Enneades III, 7, 11, 43- 45)», sia una realtà incorporea ed extrafisica che tuttavia, rispetto all’eternità, considerata invece «vita in stato di quiete, identica e sempre uguale, infinita in atto (III 7, 11, 45-46)», esercita un’influenza sul mondo sensibile e transeunte ordinandolo. Considerando dunque il tempo come una realtà che va distinta da ciò che è corporeo e materiale, Plotino critica la concezione aristotelica che concepisce il tempo semplicemente come la misura del movimento e l’eternità come tempo complessivo.

562 AGOSTINO, Confessiones, XI, 2, 2 (PL 32, 809, p. 106): «Quando autem sufficio lingua calami (Ps 44, 2) enuntiare omnia hortamenta tua et omnes terrores tuos et consolationes et gubernationes, quibus me perduxisti praedicare verbum et sacramentum tuum dispensare populo tuo? Et si sufficio haec enuntiare ex ordine, caro mihi valent stillae temporum. Et olim inardesco meditari in lege tua (Ps 38, 4; 1, 2; 118, 174) et in ea tibi confiteri scientiam et imperitiam meam, primordia illuminationis tuae et reliquias tenebrarum mearum (Ps 17, 29), quousque devoretur a fortitudine infirmitas. Et nolo in aliud horae diffluant, quas invenio liberas a necessitatibus reficiendi corporis et intentionis animi et servitutis, quam debemus hominibus et quam non debemus et tamen reddimus».

175 scirem quid diceret. Sed unde scirem, an verum diceret? Quod si et hoc scirem, num ab illo scirem? Intus utique mihi, intus in domicilio cogitationis nec Hebraea nec Graeca nec Latina nec barbara veritas sine oris et linguae organis, sine strepitu syllabarum diceret: "Verum dicit" et ego statim certus confidenter illi homini tuo dicerem: "Verum dicis". Cum ergo illum interrogare non possim, te, quo plenus vera dixit, Veritas, rogo, te (Io 14, 16). Deus meus, rogo, parce peccatis meis (Iob 14, 16), et qui illi servo tuo dedisti haec dicere, da et mihi haec intellegere (Ps 118, 34; 73, 144)564.

L’Ipponate giustifica il fatto che la terra e il cielo siano stati creati sulla base della loro mutevolezza e variabilità negando pertanto la possibilità che essi possano essersi creati da sé:

Ecce sunt caelum et terra, clamant, quod facta sint; mutantur enim atque variantur. Quidquid autem factum non est et tamen est, non est in eo quidquam, quod ante non erat: quod est mutari atque variari. Clamant etiam, quod se ipsa non fecerint: "Ideo sumus, quia facta sumus; non ergo eramus, antequam essemus, ut fieri possemus a nobis". Et vox dicentium est ipsa evidentia. Tu ergo, Domine, fecisti ea, qui pulcher es: pulchra sunt enim; qui bonus es: bona sunt enim; qui es: sunt enim. Nec ita pulchra sunt nec ita bona sunt nec ita sunt, sicut tu Conditor eorum, quo comparato nec pulchra sunt nec bona sunt nec sunt. Scimus haec, gratias tibi, et scientia nostra scientiae tuae comparata ignorantia est565.

Il fatto che essi siano dotati di bonitas e pulchritudo implica necessariamente che buono e bello è anche Colui che li ha creati. Le tracce pancreate di bellezza e bontà che caratterizzano il creato, pur se soggiacciono alle categorie dello spazio e del tempo, essendo sottomesse alla

mutabilitas del reale si fanno cartina di tornasole della perfezione del Creatore, che è sommamente bonus e pulcher fornendo all’uomo un grado di comprensione sufficiente benchè la scienza umana,

se paragonata a quella divina, si manifesta come una forma di ignoranza.

Dopo avere dimostrato che il cielo e la terra non possono essersi creati da sé, altrimenti sarebbero dovuti esistere ancora prima di esistere, l’Ipponate si interroga sul modo in cui Dio ha creato. Diversamente dall’uomo che crea, plasmando un materiale già esistente, Dio ha creato ex

nihilo attraverso la sua parola:

Quomodo fecisti, Deus, caelum et terram? Non utique in caelo neque in terra fecisti caelum et terram neque in aere aut in aquis, quoniam et haec pertinent ad caelum et terram, neque in universo mundo fecisti universum mundum, quia non erat, ubi fieret, antequam fieret, ut esset. Nec manu tenebas aliquid, unde faceres caelum et terram: nam unde tibi hoc, quod tu non feceras, unde aliquid faceres? Quid enim est, nisi quia tu es? Ergo dixisti et facta sunt (Ps 32, 9) atque in verbo tuo fecisti ea (Ps 32, 6).

564 ID., Confessiones, XI, 3, 5 (PL 32, 811, p. 110). 565 Ibid., 4, 6 (PL 32, 811, pp- 110-112).

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Al contrario della parola umana che ha un inizio ed una fine, distendendosi in un preciso intervallo spazio-temporale, soggetta alla mutevolezza e proferita attraverso un organo corporeo e mobile, e pertanto creato566, il verbum divino, si configura come una parola eterna, perennemente proferita ed immortale, non soggetta al tempo:

Vocas itaque nos ad intellegendum Verbum, Deum apud te Deum (Io 1, 1), quod sempiterne dicitur et eo sempiterne dicuntur omnia. Neque enim finitur, quod dicebatur, et dicitur aliud ut possint dici omnia, sed simul ac sempiterne omnia; alioquin iam tempus et mutatio et non vera aeternitas nec vera immortalitas. Hoc novi, Deus meus, et gratias ago (Lc 18, 11; Rom 1, 8; 1 Cor 1, 4. 14; Phil 1, 3; 2 Tim 1, 3; Philem 4.). Novi, confiteor tibi, Domine, mecumque novit et benedicit te quisquis ingratus non est certae veritati. Novimus, Domine, novimus, quoniam in quantum quidque non est quod erat et est quod non erat, in tantum moritur et oritur. Non ergo quidquam verbi tui cedit atque succedit, quoniam vere immortale atque aeternum est. Et ideo verbo tibi coaeterno simul et sempiterne dicis omnia, quae dicis, et fit, quidquid dicis ut fiat; nec aliter quam dicendo facis; nec tamen simul et sempiterna fiunt omnia, quae dicendo facis.567

Con il suo Verbum568, parola coeterna a Dio stesso, Egli proferisce simultaneamente tutto ciò che deve essere fatto realizzandolo fattivamente, anche se ciò che è stato creato non è destinato ad esistere per sempre avendo Dio stabilito per la creazione, nella successione ordinata dei tempi, un preciso inizio ed una fine:

Sic in Evangelio per carnem ait, et hoc insonuit foris auribus hominum, ut crederetur et intus quaereretur et inveniretur in aeterna veritate, ubi omnes discipulos bonus et solus magister (Mt 19, 16; 23, 8) docet. Ibi audio vocem tuam, Domine, dicentis mihi, quoniam ille loquitur nobis, qui docet nos, qui autem non docet nos, etiam si loquitur, non nobis loquitur. Quis porro nos docet nisi stabilis Veritas? Quia et per creaturam mutabilem cum admonemur, ad veritatem stabilem ducimur, ubi vere discimus, cum stamus et audimus eum et gaudio gaudemus propter

vocem sponsi (Gv 3, 29), reddentes nos, unde sumus. Et ideo principium quia nisi maneret,

cum erraremus, non esset quo rediremus. Cum autem redimus ab errore, cognoscendo utique redimus; ut autem cognoscamus, docet nos, quia principium est et loquitur nobis (Gv 8, 25)»569.

Sebbene dunque il principio si presenti come la stabilis et eterna veritas, non soggetta alle variazioni spazio-temporali cui soggiacciano tutte le altre creature, il suo Verbum, perché possa essere compreso dall’uomo, deve farsi temporale.

566 Ibid., 6, 8.

567 Ibid., 7, 9 (PL 32, 812-813, pp. 116-117).

568 Tale Verbum, come viene proclamato nel vangelo di Giovanni (Gv 1, 1) è presso Dio ed è Dio stesso. Il principio nel quale Dio ha creato il mondo è il suo Verbum, il Figlio, ossia la seconda persona della Trinità (Gv 8, 25). Cfr. anche AGOSTINO, Confessiones, 9, 11; AA.VV., “In principio”. Interprétattions des premiers verset de la Genèse, Paris 1973. 569 AGOSTINO, Confessiones, XI, 8, 10 (PL 32, 813. Sebbene il Verbum venga proferito anche da una voce umana e benchè dunque siamo ammoniti dagli uomini siamo sempre ricondotti all’unica verità che, parlando in interiore parte hominis, si configura come il solo e il vero Maestro.

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Nel capitolo V delle Confessiones Agostino si interroga sullo strumento attraverso il quale Dio creò il cielo e la terra. Dopo essere approdato alla conclusione che tale strumento non possa identificarsi con un essere creaturale o materiale, transeunte e soggetto pertanto alla mutevolezza come il cielo e la terra, l’aria, l’acqua o l’universo stesso, afferma che Dio avrebbe creato il mondo attraverso la parola:

Quomodo fecisti, Deus, caelum et terram? Non utique in caelo neque in terra fecisti caelum et terram neque in aere aut in aquis, quoniam et haec pertinent ad caelum et terram, neque in universo mundo fecisti universum mundum, quia non erat, ubi fieret, antequam fieret, ut esset. Nec manu tenebas aliquid, unde faceres caelum et terram: nam unde tibi hoc, quod tu non feceras, unde aliquid faceres? Quid enim est, nisi quia tu es? Ergo dixisti et facta sunt (Sal 32, 9) atque in verbo tuo fecisti ea570.

Parimenti, come l’immutabilità divina ha dovuto rendersi mutevole per creare, così il loqui di Dio deve parlare in interiore parte hominis al fine di una comprensione del Verbum da parte dell’uomo. Dopo essere infatti giunto alla conclusione che Dio crea per opera della parola, Agostino pone una differenza tra la parola creatrice, usata da Dio nel momento in cui crea il cielo e la terra, e la parola creata che, affidata ad un essere creaturale, è utilizzata da Dio perché l’uomo possa comprendere il suo Verbum:

Sed quomodo dixisti? Numquid illo modo, quo facta est vox de nube dicens: Hic est Filius

meus dilectus (Mt 3, 17 e 17, 5)? Illa enim vox acta atque transacta est, coepta et finita.

Sonuerunt syllabae atque transierunt, secunda post primam, tertia post secundam atque inde ex ordine, donec ultima post ceteras silentiumque post ultimam. Unde claret atque eminet, quod creaturae motus expressit eam serviens aeternae voluntati tuae ipse temporalis. Et haec ad tempus facta verba tua nuntiavit auris exterior menti prudenti, cuius auris interior posita est ad aeternum verbum tuum. At illa comparavit haec verba temporaliter sonantia cum aeterno in silentio verbo tuo et dixit: ‘Aliud est longe, longe aliud est. Haec longe infra me sunt nec sunt, quia fugiunt et praetereunt: verbum autem Dei mei supra me manet in aeternum’ (Is 40, 8). Si ergo verbis sonantibus et praetereuntibus dixisti, ut fieret caelum et terra, atque ita fecisti caelum et terram, erat iam creatura corporalis ante caelum et terram, cuius motibus temporalibus temporaliter vox illa percurreret. Nullum autem corpus ante caelum et terram, aut si erat, id certe sine transitoria voce feceras, unde transitoriam vocem faceres, qua diceres ut fieret caelum et terra. Quidquid enim illud esset, unde talis vox fieret, nisi ab te factum esset, omnino non esset. Ut ergo fieret corpus, unde ista verba fierent, quo verbo a te dictum est?571

Il Verbum di Dio, affidato ad un essere creaturale, si configura come una vox che, in termini spazio-temporali, si presenta mutevole e transeunte. Il participio transacta, concordato con il sostantivo vox, implica un loqui transeunte, scorrevole, compreso in un intervallo di tempo ben

570 Ibid., 5, 7 (PL 32, 811-812, pp. 112-114). 571 Ibid., 6, 8 (PL 32, 812, pp. 114-116).

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definito, che ha un principio e una fine. La vox proveniente dalla nube si articola in sillabe che risuonano e scorrono nel tempo «sonuerunt syllabae atque transierunt». Ad una prima sillaba ne subentra una seconda e una terza e così via, seguendo un ordine prestabilito, fino ad arrivare ad un ultima sillaba cui segue il silenzio «donec ultima post ceteras silentiumque post ultimam». La temporalità della vox è motivata dal suo essere parte intrinseca di una creatura soggetta al movimento «unde claret atque eminet, quod creaturae motus expressit» che, tuttavia, si presenta come temporale instrumentum privilegiato della volontà divina «serviens aeternae voluntati tuae ipse temporalis».

Questa conformazione dello stabile et aeternum Verbum al loqui umano garantisce dunque la comunicazione determinando la possibilità da parte dell’uomo di filtrare il Verbum, resosi temporale, attraverso un orecchio esterno (auris exterior). Ma nel momento in cui l’orecchio esteriore trasmette queste parole alla prudente mente (mens prudens) dell’uomo572, l’orecchio interno di quest’ultima (auris interior) si apre immediatamente all’eterna parola di Dio (ad

aeternum Verbum tuum) nella quale è fortemente radicato. Paragonando le parole temporali,

proferite dalla nube, all’eterna parola di Dio, la mente dell’uomo è in grado di intellegere l’abisso incolmabile che separa la parola transeunte dall’incorruptibile Verbum.

Ancora una volta, dunque, soltanto il reditus ad interiorem hominis partem è in grado di

veritatem consulere. Il Verbum Dei, una volta paragonato al temporale verbum, si configura come longe aliud, il cui martellante ripetersi, entro una struttura anaforica, ribadisce l’assoluta distanza

tra i rispettivi loqui. La precarietà delle parole, temporalmente pronunciate, è ribadita dall’avverbio

infra che sottolinea non soltanto il loro essere inferiore ma il loro risiedere in una parte dell’anima

sottostante l’auris interior che si apre al Verbum per eccellenza. Il loro statuto di longe infra esse determina inevitabilmente il loro non esse: essendo sfuggevoli non permangono ma passano (quia

fugiunt et praetereunt). La parola di Dio invece permane dal momento che non ha un principio e

una fine e non è compresa in una durata (mora) che si estende per un certo intervallo di tempo. Il

Verbum, a differenza delle parole umane che sunt infra, esplica la sua superiorità in quanto è

572 La mens è prudens in quanto non soltanto nel suo essere cauta riesce a prevedere. La prudenza si configura come quel particolare amor che è in grado di scegliere sagacemente (sagaciter seligens) tutto ciò che giova all’unione con Dio respingendo perciò tutto ciò che è nocivo. Cfr. AGOSTINO, De moribus Ecclesiae, Catholicae, 15, 25 (PL 21, 1322): «Quod si virtus ad beatam vitam nos ducit, nihil omnino esse virtutem affirmaverim nisi summum amorem Dei. Namque illud quod quadripartita dicitur virtus, ex ipsius amoris vario quodam affectu, quantum intelligo, dicitur. Itaque illas quattuor virtutes, quarum utinam ita in mentibus vis ut nomina in ore sunt omnium, sic etiam definire non dubitem, ut temperantia sit amor integrum se praebens ei quod amatur, fortitudo amor facile tolerans omnia propter quod amatur, iustitia amor soli amato serviens et propterea recte dominans, prudentia amor ea quibus adiuvatur ab eis quibus impeditur sagaciter seligens». Cfr. inoltre ID., De civitate Dei, XIX, 4, 4 (PL 41, 629): «Quid illa virtus, quae prudentia dicitur, nonne tota vigilantia sua bona discernit a malis, ut in illis appetendis istisque vitandis nullus error obrepat, ac per hoc et ipsa nos in malis vel mala in nobis esse testatur? Ipsa enim docet malum esse ad peccandum consentire bonumque esse ad peccandum non consentire libidini. Illud tamen malum, cui nos non consentire docet prudentia, facit temperantia, nec prudentia nec temperantia tollit huic vitae».

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disposto supra subiectum e la sua permanenza, in quanto eterna «verbum autem Dei mei supra me manet in aeternum», non è soggetta né al tempo né al movimento. L’immutabilità del Verbum, che risiede nell’interiorità dell’uomo, viene ribadita dalle parole del capitolo successivo:

Vocas itaque nos ad intellegendum Verbum, Deum apud te Deum (Gv 1, 1), quod sempiterne dicitur et eo sempiterne dicuntur omnia. Neque enim finitur, quod dicebatur, et dicitur aliud ut possint dici omnia, sed simul ac sempiterne omnia; alioquin iam tempus et mutatio et non vera aeternitas nec vera immortalitas. Hoc novi, Deus meus, et gratias ago (Lc 18,11). Novi, confiteor tibi, Domine, mecumque novit et benedicit te quisquis ingratus non est certae veritati. Novimus, Domine, novimus, quoniam in quantum quidque non est quod erat et est quod non erat, in tantum moritur et oritur. Non ergo quidquam verbi tui cedit atque succedit, quoniam vere immortale atque aeternum est. Et ideo verbo tibi coaeterno simul et sempiterne dicis omnia, quae dicis, et fit, quidquid dicis ut fiat; nec aliter quam dicendo facis; nec tamen simul