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L’intervento di Castello viene immaginato dai progettisti de La Fondiaria inserito in un sistema di nove

‘aree centrali’. Le prime sei – secondo questa interpretazione dell’area metropolitana – sono coincidenti con i centri storici di Firenze e Fiesole ad est e di Scandicci, Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio e Calenzano ad ovest; le altre tre sono i nuovi centri direzionali di Scandicci ovest, Fiat-Novoli e il – più cospicuo – polo multifunzionale di Castello. È messo in evidenza inoltre, a completamento di una struttura metropolitana che si vuol qualificare anche ambientalmente, un sistema di vasti parchi a scala disumana, di incredibile realizzazione, ancora allo stato di incerta progettazione, in realtà contesi da altre mire di cementificazione, oltre che dalla domanda crescente di infrastrutture, che dovrebbero interessare la piana e le rive dell’Arno sempre a nord-ovest di Firenze.

Non è affrontato ed evidenziato, né dalle amministrazioni pubbliche né dal privato, come concreta e già drammatica emergenza, il problema di riqualificazione delle vaste aree edificate negli ultimi decenni – periferie senza

centralità di queste ‘aree centrali’ – che

tendono – e tenderanno sempre più, trainate dallo sviluppo ipotizzato – a crescere in una colossale conurbazione, che sarà difficile arginare e che renderà ancor più impraticabili le realizzazioni infrastrutturali. Né tanto meno è affrontato il problema del recupero e restauro del territorio non urbano degradato dalla crescita.

Una lettura del territorio, di moda e diffusa, ai fini degli aspetti soprattutto formali della progettazione, sia a scala metropolitana che di quartiere, che viene riproposta dal progetto Castello, così come dal limitrofo progetto di

università tecnica, è quella ‘morfologica’ quasi sempre ridotta alla forma a maglie quadrate della ‘centuriazione romana’. All’atto pratico la cementificazione distrugge o seppellisce definitivamente, oltre al delicato ambiente idrogeologico, tutti i reperti archeologici esistenti nella piana, compresi quelli romani della centuriazione, mentre dà luogo a impianti urbani che, imitando banalmente una forma di un’epoca scomparsa senza comprenderla, sono di una notevole insignificanza. Le piante di città e insediamenti con strade e struttura a maglia ortogonale, ma con significati, identità, scopi, cultura, economia completamente diversi tra loro, sono esistite, infatti, in varie epoche storiche e distanti civiltà: dalla città ippodamea a Manhattan, dalla Tenochitlan degli Aztechi alle città di fondazione cinque-seicentesca delle colonie spagnole. Gli schemi a maglia ortogonale che vengono proposti oggi finiscono, più che altro, per ricordare l’urbanistica e le architetture fasciste. I due progetti di Piano particolareggiato che si stanno parallelamente

approntando non sembrano discostarsi molto l’un dall’altro, né da quello Acs, accomunandoli quella certa banalità e anonimia geometrica dell’impianto. Il progetto Fondiaria (Sica) sembrerebbe più interessato a realizzare un tessuto dove, edificato, verde e spazi aperti siano frammisti con regolarità. Si inseguirebbe così «la densità “tradizionale” delle città europee: non l’altissima concentrazione delle torri direzionali, né le maglie allentate della periferia padiglionare». Dimenticando che l’identità di un luogo è data dal tempo della storia, dalla continuità, nelle trasformazioni, della tradizione,

che l’architettura moderna e tecnologica ha spezzato, producendo edifici così specializzati da essere rapidamente obsolescenti.

Il progetto comunale (Di Pietro) punterebbe ad un tessuto dove episodi di spazi verdi e aperti che si dilatano, siano alternati ad episodi di concentrazione e densificazione dell’edificato. Forse nel vano tentativo di recuperare, in forma simbolica, quel carattere pubblico che l’iniziativa sostanzialmente non ha, con il pessimo risultato di ottenere solo spazi pubblici di dimensioni disumane, quindi infruibili e impercepibili dagli abitanti che dovranno viverci.

Di fatto si ignora, nella stessa scelta di intervenire comunque, oltre che nelle forme dei progetti, i duemila anni di intensa storia civile e naturale e di antropizzazione della piana che separano l’epoca romana dai nostri giorni. Quella storia densa di stratificazioni, di segni e testimonianze ancora vive o superstiti, che ci ha consegnato un ambiente naturale e costruito dall’uomo mirabile, sapiente ed equilibrato, ricco di cultura, che si offre ancora alla riscoperta, al riuso e al restauro senza molti artifici architettonici ed economici e soprattutto senza necessità di cementificazioni.

La piana da Firenze verso Pistoia si è rivelata molto vulnerabile, aggredita come è dalle espansioni moderne. Stanno progressivamente scomparendo la forma e la dimensione dei borghi, l’organizzazione poderale con le sue fattorie e ville. Sconvolta per le varianti e gli allargamenti è l’antica rete viaria. Notevolmente degradato da inquinamenti e cementificazioni è tutto

il delicato sistema di regimazione delle acque. Il paesaggio delle zone umide, che costituisce la natura originaria della piana e che tende spontaneamente a riformarsi quando non impedito, è ridotto ormai ad una trentina di stagni in progetto di cementificazione, che tuttavia permettono ancora la presenza di importanti e rare specie di flora e fauna stanziale e migratoria.

Si mira ormai alla completa sostituzione di questo paesaggio con uno artificiale di parallelepipedi di cemento, acciaio e vetro, dilaganti in orizzontale e qua e là svettanti in verticale, che sfidano e minacciano anche il prezioso paesaggio storico, culturale e naturale delle colline. Si vogliono ridurre campi coltivati, viottoli, rigagnoli, ruscelli, cascinali ad un reticolo cartesiano di nastri d’asfalto, dove non c’è più posto per le gambe, ma tanto dilatato spazio per un flusso continuo di auto. Si vuol sostituire la natura e la sua secolare simbiosi con l’uomo che la ha abitata per secoli, con il ‘verde’ artefatto ad ornamento della gran quantità di cemento, asfalto e macchine. Un territorio assunto come suolo nudo, privo di valori, che non siano quelli della rendita fondiaria a scala metropolitana.

F. Ventura, Il progetto Castello de La

Fondiaria, in F. Indovina (a cura di), La città di fine millennio: Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Franco

C’è un saggio del 1873 di Henry James, intitolato L’autunno a Firenze, del quale vorrei trasporre un intero brano proprio all’inizio della mia presentazione. «Ho conosciuto Firenze per la prima volta in anni abbastanza lontani, sono lieto di dirlo, per poterne avvertire il mutamento in peggio e la tàbe dell’ordine moderno, amaramente detestati dai vecchi frequentatori, da coloro che ammirano e amano la città; quelli con le carte in regola per tratteggiare un quadro delle condizioni che si avevano sotto i buoni, vecchi granduchi, in particolare gli ultimi due della casata; un quadro che per i suoi benefici riflessi di dolcezza, di bonomia, di spigliatezza, per l’immediata vitalità di cui si godeva con grandissima disinvoltura, non può non suscitare le lacrime di un uditorio ritardatario. Alcuni di questi sopravvissuti dell’età dell’oro – la cui beltà risiedeva proprio nell’oro, per dir così, che vi versava in grembo e non certo nell’inopportunità dell’immagine in sé – avevano di necessità continuato ad assistere all’abbattimento delle antiche mura e all’espandersi della massa compatta che da tempo immemorabile aveva avuto per centro la piazza della Signoria, per mano di intraprendenti sindaci; tale processo costituì un organismo slegato, del tipo, come essi affermano con gusto perverso, di quello di Chicago, uno

di quei posti in cui, poiché non possiedono una circonferenza, non possono vantare la dignità di un centro. Oggi Firenze perde se stessa in polverosi boulevards e in eleganti

beaux quartiers alla moda, come

quelli che Napoleone III e il barone Haussmann dovevano imporre ad un’Europa ancora troppo medievale, con un risultato paragonabile a quello delle preziose pagine di un testo antico fagocitate da un commento a margine di stile giornalistico». Nella sua prosa come ragnatela, lo scrittore, ospite illustre del capoluogo toscano, assicurava che, sulla scorta dei grandi lavori di Firenze capitale preordinati da Giuseppe Poggi, decisamente Firenze si era ampliata e che indubbiamente la crescita aveva denotato lo sdoppiamento. Quindi la formastruttura medievale e rinascimentale inestimabile non aveva prodotto una formastruttura generica, ma precisa, specifica, ossia l’altra, la diversa da sé.

James pronosticava che, da allora in poi, Firenze non sarebbe tornata più la Firenze del passato e per di più si sarebbe trascinata in un’esistenza infelice, nel timore che la cosa si ripetesse, che, fecondata dal progetto di qualche urbanista, generasse il suo

doppio.

Ovvio che il suo vaticinio non fosse autonomo; era solidale con la letteratura coeva, la ricerca

internazionale postromantica quale avrebbe vieppiù incalzato il tema terebrante dell’alter ego, per il tramite di liriche, novelle, racconti, romanzi; soprattutto romanzi che sarebbero culminati nel 1886 nel capolavoro del giovane amico e corrispondente di James, Robert L. Stevenson, Lo strano

caso del Dr. ]ekyll e del signor Hyde.

James sbagliava; perché Firenze, ad opera di Poggi, non aveva dato nessun sosia, nessun Doppelgänger, casomai perpetuato la realtà e l’immagine del proprio organismo nell’aggiunta anulare, la circonvallazione, i quartieri residenziali e le ubicazioni nuove, non a caso stellari. Però indovinava anche; in effetti il trauma era tremendo, componibile a stento, tale da generare paura, terrore di attirare il lavoro di qualche urbanista, e …

Dallo scorcio conclusivo

dell’Ottocento alla metà del secolo seguente, si trattò di angoscia paralizzante. Da un lato, la città acconsentiva ai fenomeni partogenetici, brandelli di periferia che si saldavano con i sobborghi sud e nord

occidentali, di qua e di là dal fiume; senza maturare un livello di autentica creatività urbanistica. Dall’altro, neanche un tecnico, urbanista, architetto, ingegnere, seppure offeso dalle avvisaglie minacciose del guasto del territorio periurbano, ebbe l’animo e la scienza di alzare il tiro progettuale, per evitare con cura di colpire il

Considerazioni sulla nuova città nella piana di Castello Vittorio Savi

nucleo di un insediamento, che risultasse poi discontinuo, disuguale, concorrenziale con l’organismo già in essere.

Nel secondo dopoguerra, Firenze sopportava passivamente che, malgrado una certa apparenza di integrità, l’insieme armonico del centro storico si dissolvesse. Sopportava che le componenti residenziali rovinassero, avanti di venire riattate in spregio dei primitivi caratteri tipologici e stilistici e con abusi abitativi e terziari. Inoltre tollerava la colmata edilizia della prima fetta del bacino alluvionale, la grande e depressa pianura occidentale, che a suo tempo era stata bonificata con risultati incongrui e che ora ristava sgombra da edifici, che non fossero squallidi stabilimenti precari. Né certo inclinava a raccogliere l’eredità della civiltà insediativa regionale, insomma non favoriva insediamenti, se non arnesi edilizi che però non si potevano scambiare per insediamenti, e non appoggiava qualche nuova fondazione per quanto indirizzata a soddisfare il fabbisogno residenziale (ad eccezione dell’Isolotto); pur di sfuggire la città ex novo, avvertita come l’ombra fonda e misteriosa che avrebbe coperto il capoluogo del passato.

Questo o quell’aderente alla società dei colti e degli addetti ai lavori della città, in perfetta buona fede avversava le tendenze disgregatrici e forse cercava di formulare proposte di riforma della pianura, landa desolata già intaccata, ma pur sempre significante la massima riserva territoriale. Eppure il suo sforzo era alquanto escapista. Escapista.

Per afferrare il concetto, sarà bene prendere l’esempio di Edoardo Detti, il maggiore urbanista, l’esponente della intellighentia locale moderna e progressista. Allora lui era così colto, sensibile, come preoccupato, addirittura straziato da quello che riteneva Il dilemma del futuro di

Firenze, e, nel 1954, sotto codesto

titolo, aveva affidato a «Critica d’arte», la rivista di Ragghianti, un saggio molto importante, dove fra l’altro scriveva: «Così com’ è configurata la città attualmente, con la cintura delle ultime e assolutamente indifferenziate espansioni, compatta, continua e senza aperture né articolazioni, massa in prevalenza residenziale o almeno promiscua che gravita sul centro, è possibile la costituzione di un nuovo centro funzionale distinto dal centro storico? Sono alternative, come si può facilmente intuire, che non contengono nessuna integrale possibilità di esito. Potremmo operare un parziale decentramento degli uffici e costituire, come è previsto, un nuovo centro direzionale fuori della cerchia dei viali, ma la natura della città non potrà sdoppiarsi; potranno essere allontanate le principali cause del traffico e il centro storico sarà notevolmente alleggerito; ma con questo non si può parlare di un nuovo centro, né tanto meno si può pensare a due città distinte». Parole piuttosto nette e di senso chiaro. Ma, per toccare l’intendimento pieno, converrà poi guardare allo stesso intellettuale di cinque, sei anni più tardi, che, nel 1961 da autore e da assessore competente, licenziava il Piano regolatore generale, e dal precipitare dalla manovra speculativa

fondiaria e immobiliare era costretto a pianificare la mera salvaguardia dell’urbanizzazione avvenuta, nonché la plausibile ricomposizione edilizia se non architettonica della espansione periferica. Ma inclinava a scegliere, e di fatto liberamente sceglieva di rendere durevole il dilemma, e, a compenso di questa permanenza inquietante, individuava nel faticoso salvataggio della Firenze esistente, parte densa, compatta e buona, e parte rada, disgregata e cattiva, e nel programma di un asse attrezzato passante, e, ancora, nella previsione di parecchie cose, le componenti dell’organismo, da incarnare concretamente nel quadro meno urbanistico che territoriale, meno comunale che transcomunale: coerentemente denominabile

Firenze-Prato-Pistoia.

Così si percepiranno l’operatore lungimirante e la sua opera fiduciosa, e affidabile, purtuttavia sostanzialmente estranea all’ipotesi fondativa della nuova città integrale ma difforme dalla vecchia; aliena dall’ipotesi, che sembrava la medesima, dello sdoppiamento del centro. Vagheggiava un’arteria snella, la quale, provenendo da est, avrebbe accompagnato il tracciato ferroviario e avrebbe compiuto il giro dei quartieri intraferroviari (circonvallazione di andamento parallelo alla circonvallazione poggiana), a tratti caricandosi di elementi di direzionalità. Essa avrebbe piegato a angolo ottuso verso Rifredi e Novoli, e, giunto nella pianura, all’apice del quadrante nordoccidentale, avrebbe sorretto il Centro direzionale (o Cd). A dire il vero, immaginava il Cd non

a modo di porto rivolto ai traffici metropolitani, bensì di incrocio delle attività direzionali e degli studi universitari. Immaginava una specie di ponte multiplo e integrato, mutuato dal modello del ponte Vecchio; in sostanza il rinforzo della infrastruttura addetta al puro attraversamento, quindi al risparmio del territorio, con il destino della città-territorio, lassù nel nord-ovest più nord-ovest. Agli sgoccioli del 1960-1970, per iniziativa del Centro Pistelli, urbanisti della cerchia dettiana, precisavano costruttivamente l’asse attrezzato, tentando di ridurre il più possibile l’impatto ambientale e di prefigurare poi il Cd; montaggio, quest’ultimo, di pezzi preformati (di preferenza architetture dovute ai maestri tardomoderni), contenitori del terziario pubblico e della ricerca universitaria.

Poco dopo, se non loro, pianificatori influenzati da loro, stornavano le aree universitarie dal Cd della piana di Castello per disporle in area contigua, extracomunale, la piana di Sesto Fiorentino, ai piedi della catena collinare. Università e sito per i quali avrebbero indetto il concorso progettuale del 1971; come noto, vinto dalla proposta ‘Amalasunta’ del gruppo Detti-Gregotti.

Questa sottrazione di funzione avrebbe avuto l’importante riflesso di rinsaldare il ruolo specialistico del Cd, successivamente compendiato nel programma della serie finita dei palazzi della Giustizia, della Regione Toscana, degli uffici e delle residenze relative.

Tale la radice della gara bandita dal Comune nel 1977. E tutta

una categoria di partecipanti si atteneva al tema e rispondeva con il disegno di un complesso insulare, essenziale, immune da sfrido architettonico, né troppo legato alla fisionomia urbanistica fiorentina; elaborazione riconoscibile per buona, cionondimeno rimasta sulla carta. Ancora un lustro e Detti costatava che la gara era andata a monte e, ne siamo certi, si apprestava ad assumere il compito della progettazione del polo di Castello; non senza stoicismo e in extremis.

La novella del Piano regolatore generale a sostituzione del Piano del 1961 si sdipanava nello stento delle analisi discutibili e delle false sintesi, precarie e controvertibili e prometteva di bruciare nel nulla, come di fatto si sarebbe ridotta in cenere; e, nel mentre, varavano la Variante di Prg del nord-ovest, istitutiva della zona speciale della piana di Castello a fini di area direzionale e della zona speciale del dismettendo stabilimento Fiat di Novoli a fini di parco urbano; entrambe da sottoporre a Piano particolareggiato.

Torna la domanda nella passeggiata prima di cena, abitudine degli uomini vissuti in provincia, di Gian Franco Di Pietro – forse il miglior continuatore dell’insegnamento dettiano, per designarlo in questo modo, per non avere il posto di indicare l’identità sua propria di progettista. Torna, dicevo, il quesito interiore, se sia stato più grande Brunelleschi a inventare l’ospedale degli Innocenti o Antonio da Sangallo il Vecchio a volerlo ripetere nella fabbrica speculare, creando così lo spazio straordinario, per cui l’appellativo di piazza di

SS. Annunziata riesce inadeguato. Quasi sempre lui tira a concludere che il lavoro brunelleschiano è battuto dalla scelta riproduttiva sangallesca, che suscita non solo l’edificio, ma anche il luogo, e, con il luogo, la metafora della città.

Preme rilevare che l’esito della risposta finisce per coincidere con la nozione della ripetizione, della replica più o meno differente, che sarebbe diametralmente opposta allo sdoppiamento, all’estroflessione di ciò che è contrario, diverso, perfino mostruoso. Notare anche, che, di questo passo, tale nozione è generalizzabile, e, per esempio, diventa il principio della ricerca sua applicata al problema progettuale urbanistico.

Allora Di Pietro muoverebbe dal principio che sia più che ammissibile fare due entità urbane, di cui l’una

copia, copia fedele o infedele,

dell’altra, come strumento e come presupposto della fondazione, o della rifondazione, di un organismo solo e unitario.

Senza dubbio, se ne è ricordato quando, di recente, ha avuto da redigere il progetto di Piano particolareggiato del Polo

multifunzionale di Castello (o Pm). E lo ha esplicitato nella dichiarazione teorica: «nella progettazione della scena urbana del Pm si è fatto ricorso, con determinazione, ad ingredienti editi cioè noti e largamente sperimentati, a partire perlomeno dalla metà del Settecento, quali: tracciati ordinatori per maglie e isolati, viali alberati di varia sezione, marciapiedi, fronti edilizi a filo strada, porticati, piazze alberate,

contrappunto tra verde geometrico lineare e grandi spazi aperti»; laddove forse la locuzione si è fatto ricorso dissimula un si sono riproposti. Che poi gli ingredienti non siano così tanto generici, quanto specifici, molto derivati dalla determinata esperienza urbana di Firenze, si avrà modo di vederlo con l’esame della relazione, le tavole grafiche e quanto altro … Il progetto riguarda il lembo della desolata pianura occidentale che sappiamo. Due lati del gran rettangolo sono perfino troppo robusti: la ferrovia per Bologna; la ferrovia per Pisa insieme alla via XXI Agosto (diverrà segmento della tangenziale ovest). Il terzo è piuttosto inconsistente, a patto di non considerare dei margini la pista dell’aeroporto di Peretola e la via del Termine. Infine il quarto è sostituito dall’imbocco dell’autostrada del mare e dallo svincolo imminente della tangenziale. Questa landa annovera un rudimentale telaio, offerto da ex sentieri campestri, prolungamenti incerti delle strade cittadine.

Paradossalmente, il progetto comincia con un gesto che è forse il contrario dell’atto primo di ogni rispettabile pratica fondativa; prevede di non sovrapporre, semmai togliere alcunché al terreno. Infatti elimina l’idea dell’asse attrezzato da est a ovest, da Rovezzano a Castello. Con una scelta, che suona di accordo postumo forse con l’ultimo Detti, di sicuro con Paolo Sica – che, dopo avere perfezionato l’asse di scorrimento attrezzato nel progetto della cosiddetta seconda circonvallazione (1984), lo aveva sfilato dal suo approfondito studio di Pm, commissionato dalla proprietà dell’area (1985-1987).

Col lasciar cadere quella che si poteva ancora immaginare come la balestra del Pm, il progetto fa tramontare anche l’idea del Pm come attrezzatura forte e concisa e, di converso, propizia l’accesso dei raccordi plurimi, ovvero uno fra i principali germi attivi di tessitura urbanistica.

Infatti sopraggiungono le aste viarie, preesistenti o da tracciare ex novo. Alcune, di calibro maggiore, riposano nella giacitura dall’ovest all’est. Due di questi decumani sembrano provenire dal parco metropolitano, forano il Pm, ma restano sbarrate a est. Altre, di calibro minore, calano dal nord al sud, ad esempio i cardini e la circonvallazione interna a sgravio della futura tangenziale.

Il tracciamento delle strade dovrebbe servire a ulteriori programmi. Ma quali?

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