1. Thanatos: la morte spettacolarizzata e spersonalizzata
Indipendentemente dalla società o dal tempo in cui viviamo, nulla sfugge all’eraclitea legge enantiodromica tanto ripresa e declamata –secoli dopo- da Carl Gustav Jung.
A tal proposito Eraclito afferma:
“Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dei, né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne […] Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi”58
Per riuscire a comprendere tale legge universale dell’Essere, si ha bisogno di “congiungere il completo con l’incompleto, il concorde e il discorde, l’armonico e il dissonante, e rendersi conto che da tutti gli opposti scaturisce l’unità e dall’unità vengono fuori gli opposti, giacché, scrive ancora Eraclito, ognuno di questi opposti mutandosi è l’altro e a sua volta l’altro mutandosi è uno”.59 Ed è l’unità -e non l’annullamento o la sintesi- che soggiace a tali opposti e rende possibile la loro stessa tensione. Ed è proprio l’elemento “fuoco”60 –in quanto simbolo per eccellenza del mutamento come “uscita” e come “ritorno” -al quale potremmo sovrapporre la teoria aristotelica degli arché come principii primi che generano tutto ciò che vi è in natura- che dà la vita e la morte, che muta continuamente rimanendo sempre se stesso passando ripetutamente da un opposto all’altro. Questa l’armonia dei contrari che Jung riprende affermando:
“Il vecchio Eraclito era davvero un grande saggio, ha scoperto la più meravigliosa di tutte le leggi psicologiche: la funzione regolatrice dei contrari. A questa Legge dette il nome di “Enantiodromia”, ossia corso in senso opposto, con il che
58 Lami A., Kranz W., Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete ad Empedocle, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1991. frammento 30
59 Abbagnano N., Storia della Filosofia, Vol. I, UTET Edizioni, Torino, 2009, p. 22
60 “G. Durand distingue, con Bachelard, due direzioni o due costellazioni psichiche nella simbologia del fuoco, a seconda che le si ottenga per percussione o per strofinamento: nel primo caso esso si associa al lampo e alla saetta e ha un valore di purificazione e illuminazione; è il «prolungamento igneo della luce». “puro” e “fuoco” sono, in sanscrito, la stessa parola. A questo fuoco spiritualizzante si collegano i miti di incinerazione, il sole, i fuochi di elevazione e di sublimazione, ogni fuoco che trasmette «un’intenzione di purificazione e di luce». Si oppone al fuoco sessuale, ottenuto per frizione, come la fiamma purificatrice si oppone al «centro genitale del focolare matriarcale», come esaltazione della luce celeste si distingue dal «rituale di fecondazione agraria». Il simbolo del fuoco così orientato segna «la tappa più importante dell’intellettualizzazione» del cosmo e «allontana sempre più l’uomo dalla condizione animale.». […] Si capisce quindi come il fuoco sia la migliore immagine di Dio, la meno imperfetta delle sue rappresentazioni e per questo –spiegava già lo pseudo Dionigi l’Aeropagita- esso è spesso usato nella simbologia teologica”. Chevalier J., Gheerbrant A., Dizionario dei simboli, BUR Rizzoli Editore, Milano, 2014, p. 478
intendeva dire che ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario […] l’atteggiamento razionale dell’uomo civile si ribalta necessariamente nel suo contrario, cioè nell’irrazionale devastazione della civiltà”61
Proprio sulla base di tale tipologia di legge universale che non è solo per l’individuo, ma anche e soprattutto per l’intero corpo sociale, oggi si assiste da una parte ad una morte rimossa perché differita dalla tecnica e dalla medicina e dall’altra –paradossalmente- ad una morte volutamente spettacolarizzata. La prima legata alle malattie e al rifiuto in quanto morte biologica ineluttabile che esclude l’individuo dalla società liquida baumaniana. La seconda, svincolata dall’angoscia heideggheriana in quanto evento casuale e non previsto e non personale, è l’unica autorizzata a manifestarsi tra l’altro con un senso di compiacimento da parte dell’uomo giacché legata a thanatos ossia al desiderio o istinto di morte che si spinge quasi verso un nuovo piacere macabro-estetico.
Oggi la società -si potrebbe affermare- scaglia letteralmente fuori dalle mura domestiche e familiari, così come dalla stessa comunità, un individuo malato o morente per delegarlo e relegarlo a ospedali e cliniche. E quando oramai lo stesso è diventato cadavere, i gestori cambiano, ma rimane pur sempre un dato certo ossia che quando la morte ci tocca da vicino, obiettivo primario rimane l’espropriazione di quest’ultima e lo scrollo di ogni responsabilità. Ma cosa succede se proviamo a non guardare alla “morte capovolta” di Ariès e cioè a quel diniego della morte?62 Se proviamo a guardarci intorno, a cambiare punto di vista, si nota facilmente come in tutti quegli spazi neutri dove un soggetto non è direttamente colpito da lutto o lutti a livello individuale, lì la morte ritorna al centro dell’attenzione, attrice protagonista indiscussa che sfugge alla logica e alla ragione: quella che affascina, che attrae, che spinge ad atti osceni e violenti, patologicamente irrazionali. Si parla spesso di morte vissuta e morte rappresentata, ma si potrebbe definire come linea di confine –non proprio netta- o punto di contatto, quello spazio in cui la suddetta risulta ancora un evento realmente accaduto, ma con premesse e conseguenze irreali e irrazionali, una prima oscillazione del pendolo eracliteo.
Tale linea di confine -dove reazioni inconsce e immaginarie sfondano e invadono la sfera del reale- attualmente è rappresentata dai mass-media e dal loro “eccesso di informazione”.
61 Jung. C. G., Psicologia dell’Inconscio, in Opere, Vol. 7, Torino, 1973, pp. 72-73
62 “Oggi, alla necessità millenaria del lutto, più o meno spontanea o imposta secondo le epoche, è succeduta verso la metà del XX secolo la sua proibizione. Nel corso di una generazione, la situazione si è capovolta: ciò che era imposto dalla coscienza individuale o dalla volontà generale, è ormai proibito. Ciò che era proibito è oggi raccomandato, Non è più conveniente ostentare il proprio dolore o anche solo aver l’aria di provarlo.” Ariès P., Op. cit., p. 206
La citazione del vecchio proverbio tedesco “arriva la guerra nel paese / ci sono bugie a iosa” bene calza con il giornalismo contemporaneo “in cui la verifica delle fonti e regole deontologiche lasciano sempre più spesso il posto al colpo d’effetto, allo scoop a tutti i costi”63 e dove la propensione a spettacolarizzare gli eventi ha creato la tendenza a rendere ogni notizia –anche la più seria- sempre e comunque una forma di “intrattenimento”. Nello specifico, si assiste ogni giorno all’imponente e frequente diffusione, dietro il motto che è necessario “informare”, della cosiddetta “cronaca nera”, che da un lato mette bene in evidenza come si stia diffondendo una nuova e straripante, rispetto al passato, cultura di morte, e dall’altra sottolinea nettamente come il delirante desiderio e ricerca di morte sia ormai diffuso e penetrato nella psiche dell’uomo occidentale come conseguenza di un eccesso di rimozione.
Benché si pensi, attraverso gli studi e le teorie dell’informazione, che i mass-media possano essere la causa di tale fascino per l’orrore in generale, sebbene si è giunti alla conclusione che il “medium è il messaggio”64 –come afferma Mcluhan- e che pertanto quest’ultimo ha il potere di influenzare la società, bisogna tener a mente che sia che si parli di fruitore, sia che si parli di produttore, in entrambi i casi si tratta pur sempre di individui, di esseri umani, che vivono nello stesso contesto storico e sociale e –se vogliamo- immaginario: in pratica un unico sistema simbolico. Per cui il livello di interpretazione da cui partire non è tanto questa o quella notizia, né la tipologia dei medium né i loro risvolti economici, ma le scelte e di conseguenza le reazioni, di un immaginario collettivo, di un substrato inconscio comune agli individui che detta la stessa identica legge per tutti: per chi sceglie la notizia, per chi la rende fruibile, per chi la cerca spinto da un morboso voyerismo o per placare istinti soppressi. I mass media hanno il compito di scegliere l’evento da mettere in vetrina come un nuovo spot pubblicitario probabilmente imponendo una desacralizzazione della morte, sostituendo al rito lo spettacolo65, ma è la nuova cultura di massa che richiede spasmodicamente tutto ciò che –nel nostro caso- è macabro, violento, tutto ciò che sa di morte: la morte altrui ovviamente, quella con cui non abbiamo nessun legame né rapporti e che inconsciamente fa esclamare “per fortuna non è toccato a me” come ennesima forma di esorcizzazione.
63 Suber P., Inviato di Guerra, Laterza Editore, Roma, 2004, p. VIII
64 “the most famous technological determinist, Marshall mcluhan, argued that print (The Gutemberg Galaxy, 1962) and electronic media (Understanding the Media, 1964) were truly revolutionary, an idea captured in his famous aphorism "the medium is the message". he proposed that new communications technologies determine culture and that it is the form of the media rather than their content that matters”. Straubhaar J, LaRose R., Davenport L., Media Now: Understanding Media, Culture, and Technology, Cengage Learning, Boston, 2015, p. 56
65 Mapelli M., Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, Milano, 2013, p. 42
Con lo svilupparsi di tale nevrosi della morte, si vede contestualmente ed enantiodromicamente il passaggio di consegna, a livello massmediatico, dalla ricerca del dolore e della sofferenza -che può creare ancora un minimo di solidarietà sincera come ad esempio il caso di Alfredino Rampi, bambino cardiopatico caduto in un pozzo a Vermicino che commosse il mondo. Uno dei primi casi di diretta televisiva minuto per minuto dal 10 al 13 giugno 1981 fino alla morte avvenuta per collasso cardiaco66- alla ricerca –per gusto- dell’orrore o dell’osceno.
E oggi sui giornali, radio, tv (telegiornali, documentari, programmi in genere), ma anche internet e social network vengono diffuse notizie di morte per omicidi, incidenti, suicidi, ma anche stragi , cataclismi etc., dove a parte un breve istante di sofferenza per se stessi e per le vittime –lì dove ci fosse-, il resto diviene spettacolo guardato con vivo interesse e dove a volte non si sa se ci si identifica meglio nella vittima o, in alcuni casi, nel carnefice. E’ un pendolo che continua ad oscillare tra una nuova forma di vittimismo -privato da ogni senso di responsabilità- e il dilagare della sindrome da stress post-traumatico che genera aggressività, insonnia, depressione, ansia etc. tutto ciò “è un significato di morte. E’ il tempo di quel vecchio condannato a morte, fotografato un istante prima dell’esecuzione, che Sé sempre già morto e sempre sul punto di morire”.67
Basti pensare alle notizie di cronaca nera degli ultimi 20 anni: la strage di Novi Ligure eseguita da Omar ed Erika (2001), il caso della mamma omicida di Cogne (2002), la strage di Erba (2006), il delitto di Chiara Poggi e Meredith Kercher (2007), i casi di omicidio delle giovani Sarah Scazzi, Yara Gambirasio (2010); gli innumerevoli casi di omicidi “passionali” come quello di Roberta Ragusa e Melania Rea (2012) e il recentissimo caso di omicidio di Sara di Pietroantonio (2016), ragazza strangolata e bruciata dal suo ex, etc. Oppure la messa in scena reale, oltre il limite della decenza umana, della morte di Bin Laden o di Saddam Hussein, di Ayaln il bambino immigrato trovato morto in riva al mare, tutte mandate in onda più e più volte durante il giorno, financo nelle ore di pranzo con ritocchi fotografici o rifacimenti inclusi per dare quasi un senso estetico-artistico.
66www.cronaca-nera.it
67 Scurati A., Dal tragico all’osceno. Raccontare la morte nel XXI secolo, Bompiani Editore, Milano, 2016, p.50
Figura 3 - Murales di Aylan Kurdi Frank C. Muller (https://commons.wikimedia.org)
Ma la faccenda si fa ancora più spettacolare se allarghiamo l’orizzonte degli eventi e passiamo alle stragi di massa di matrice terroristica. Impressa nella mente di ogni cittadino del mondo la caduta del World Trade Center di New York (2001), il massacro in Norvegia ad opera del terrorista Anders Breivik (2011), gli attacchi a Parigi ad opera dell’ISIS (2015), quelli di Bruxelles (2016) e quello recente avvenuta ad Orlando da parte di Omar Mateen che – per omofobia/omosessualità repressa o per religione- ha massacrato in un locale gay circa 50 ragazzi.
Terminano il palinsesto massmediatico le notizie relative a i grandi cataclismi dove gli effetti speciali non mancano e possono diventare ancora più “eccitanti”. Lo tzunami che si è abbattuto su Sumatra con un’intensità devastante -provocando oltre 290 mila vittime (2004)-, è protagonista tutt’oggi di innumerevoli video, foto e documentari di forte impatto visivo.
Figura 5 – World Trade Center di Wally Gobetz, CC BY 2.0, (https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7972261)
Si arriva, però, ad un certo punto che la notizia, l’evento mediato non sazia più il desiderio di morte, si ha bisogno di andare oltre, guardare con occhi diversi, con i propri occhi, di toccare con mano e a questo punto si scopre quanto il medium è solo un strumento di passaggio, uno spot pubblicitario che ha ottenuto il risultato voluto (quello di vendere la notizia) per poi cedere il passo al mondo reale, quello diretto che si fa “turismo dell’orrore” –nuovo fenomeno sociale associato alla comunicazione di massa- dove il fascino del macabro rasenta i limiti della dignità umana: si entra in scena come attori protagonisti. Il fenomeno del turismo macabro è sicuramente senza precedenti, prodotto dell’incontro tra il gusto lugubre –quasi erotico- per la morte dell’altro e -ancora una volta- la tecnologia che mal cela un esasperato protagonismo contemporaneo in pieno accordo con una realtà spettacolarizzata. Casi emblematici di tale sfrenato turismo della morte sono sicuramente rappresentati dal delitto di Cogne, di Erba, quello di Avetrana i quali hanno dato il via ad una nuova forma di pellegrinaggio raccapricciante –con tanto di pacchetti viaggio promossi dalle agenzie turistiche- seguito poi da quello per la tragedia della Costa Concordia affondata nel 2012.
Risulta necessario premettere che l’uomo da sempre avverte la necessità di recarsi sui luoghi del passato, pieni di ricordi, luoghi dove la gente è caduta in battaglia, morta nei
lager o gulag o dove è avvenuta una strage terroristica, ma con modalità che non coincidono con quelle odierne: ci si approssimava a questi spazi divenuti sacri, poiché carichi di tutta una simbologia, con spirito sommesso e con massimo rispetto. L’anima immedesimata, comprendeva ed empatizzava venendo fuori da quei luoghi con enorme dispiacere e commozione e probabilmente con un nuovo stato di coscienza giacché su quegli oggetti, luoghi o altro la totalità della psiche proiettava quello che Zoja definisce il “valore”: un valore proiettato sul “sacro”.
Oggi l’impatto è rovesciato dal sacro al profano: si va in giro armati di cellulari e macchine fotografiche –nuovi strumenti tecnologici che stabiliscono l’assenza dell’oggetto e la giusta distanza mediata- per fare video, foto o peggio ancora selfie sul luogo del delitto o di una strage per poi pubblicarle su Instagram, facebook, twitter o youtube, sorridendo, con gesti o facce buffe e allegre per dire “eccomi qui” e inserendo sarcastici o demenziali commenti per poi cedere il posto poco dopo all’indifferenza, all’apatia e ad una sorta di amnesia spirituale. La situazione si fa ancora più oscena spingendosi verso il “patologico” quando si ha la fortuna di trovarsi –in real time- nel posto in cui sta succedendo un evento particolare come quanto accaduto a Sydney nel 2014. Mentre un iraniano teneva in ostaggio 17 persone all’interno di una caffetteria della città, 3 della quali –poi- uccise (il tutto durato 16 ore), fuori la gente con aria elettrizzata ed eccitata da quello che stava accadendo, scattava selfie e pubblicava le stesse nonostante all’interno del locale vi erano degli esseri umani che in quel momento correvano il rischio di morire.
Con questo si giunge alla conclusione che “La dimensione finzionale, allora, non produce un’intensificazione del senso di realtà, ma genera una sorta di allarmante indifferenza.”68 e come afferma Bauman “la morte è l’altro per eccellenza e il nostro modo di trattare l’altro è segregandolo, separandolo, scaricandolo nel deposito dei rifiuti, mandandolo giù nello scarico dell’oblio”69. In questo preciso contesto si può non solo confermare la tesi di Ariés secondo cui la morte diventa uno spettacolo che riguarda un altro anonimo, ma si può andare oltre dove l’altro –quello lontano, quello mediato- non è solo anonimo, ma anche e soprattutto capro espiatorio ovvero proiezione psicologica negativa di qualcosa di represso o soppresso o se vogliamo del nostro doppio. In questo modo e senza esserne troppo coscienti, nella morte dell’altro la morte di Sé, la propria morte è fatta salva ancora una volta (se qualcuno deve morire, allora è meglio che sia sempre l’altro), ma solo effimeramente e senza un vero e significativo scambio simbolico.
68 Mapelli M., Op. cit., p. 41
69 Bauman Z., Il teatro dell’immortalità, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino Editore, Bologna, 1995, pp. 175-176
A conferma di ciò, allontanandoci piano piano dalla linea di confine tra reale e immaginario, tra realtà e riproduzione televisiva delimitata dalle varie tipologie di testate giornalistiche, si nota l’immensa produzione, americana prima e europea poi, di documentari (vedi il caso del World Trade Center, lo tzunami, il terremoto di Sendai in Giappone a cui segue il disastro nucleare della centrale di Fukushima), di programmi televisivi che seguono in diretta passo passo e a più puntate i fatti di cronaca nera (vedi 4° grado, segreti e delitti, Linea gialla etc) fino ad arrivare a programmi a puntate che ricostruiscono “inscenando” di volta in volta delitti –scelti tra i più cruenti e raccapriccianti- accaduti negli ultimi 50 anni (Sangue del tuo sangue, Crimini del cuore, Coppie che uccidono, Nato per uccidere, Cold blood, Finchè morte non ci separi, Lady Killer, Donne mortali etc). Quest’ultimi per le loro modalità di presentazione del delitto ritraggono perfettamente la società odierna rappresentando la sintesi tra il fascino per la morte, la morte che diventa intrattenimento –una morte pop- e soprattutto la fuoriuscita di Thanatos ossia quegli istinti pulsionali aggressivi che emergono dalla psiche umana e che generano spietata violenza e crudeltà. Un realtà quotidiana si, perché vi è un delitto al giorno o ogni giorno un delitto, ma trasposta sul piano –oramai- dell’irreale, del distaccato come nuova forma di accettazione.
E’ ancora una volta, la degradazione del tragico in osceno, congenita alle tendenze fondamentali della cultura di massa fin dal loro primo manifestarsi, è l’elaborazione del tema sacrificale: non più loro muoiono in vece mia ma loro muoiono e io no”70
E quando si comincia a parlare di psiche umana in relazione alla morte e alle conseguenze di un’eccessiva razionalizzazione, allora diviene facile e quasi scontato il passaggio dalla descrizione –fatta fin ora- di pseudo-rituali odierni che appartengono all’Io e quindi al conscio, all’analisi di tutto ciò che avviene nell’inconscio dove gli archetipi giacciono pronti per essere attivati positivamente o negativamente a seconda del rapporto che l’uomo riesce ad avere tra la propria ombra junghiana e le leggi conformiste e omologanti della società attuale.
Il minimo comune denominatore che ne viene fuori, esaminando tutti questi eventi mediatici, è che da strumenti di conoscenza e cultura, di informazione obiettiva, di svago ed evasione, gli stessi sono divenuti l’inconsapevole specchio che riflette non solo ciò che realmente siamo o che stiamo divenendo, ma soprattutto ciò che ogni giorno abbiamo
voglia e necessità di vedere in modo quasi ossessionante, senza chiedersi -però- cosa c’è oltre quel primo e superficiale specchio d’acqua, che riflette solo la nostra persona71 e soprattutto il perché di tutto ciò.
Un acqua mortuaria che contiene tutte le paure e i terrori della notte: un mare tenebrum, un acqua superlativamente mortuaria avrebbe pensato Edgar Allan Poe72 ovvero sostanza simbolica della morte a detta di Bachelard73. Un’acqua oscura e densa che assorbe le ombre e nel quale ignoto nessuno vuol fare il fatidico salto per comprendere cosa c’è in fondo, per trovare il tesoro prezioso: una discesa (morte), che afferma Jung, sembra sempre precedere una salita (rinascita)74. Ma proprio l’incontro con se stessi, si sa, è un’esperienza tra le più sgradevoli che l’uomo odierno accuratamente evita auto-procurandosi estreme conseguenze.
Da questo punto in poi si passa il confine, qui cominciano le conseguenze “patologiche” di una esorcizzazione moderna della morte inquadrata nel rifiuto della stessa, da qui si avvia