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Tiberio e la libertà dei German

Nel documento Il nemico indomabile. Roma contro i Germani (pagine 192-200)

La rinuncia di Tiberio

Non furono la tenacia dei ribelli o il coraggio di Arminio a fermare Germanico, ma l’inquietudine di Tiberio. Appena conclusa la campagna del 16, Tiberio scrisse al figlio adotti- vo in Germania per chiedergli di concludere la guerra. A suo giudizio, l’ultio del popolo romano era compiuta. Non era più necessario continuare a combattere. Dapprima Tiberio esortò Germanico a tornare a Roma. Avrebbe così celebrato il trionfo che per lui era stato decretato già nel 15 e che gli spettava. Tiberio aveva condotto spedizioni per nove volte in Germa- nia sotto gli auspici di Augusto; sapeva ben valutare i meriti di Germanico e le sue qualità. Allo stesso tempo, non vedeva più ragione di proseguire la campagna per un’altra primavera, rischiando ancora tanti uomini e tante risorse. Non gli sembra- va che i Germani fossero sul punto di cedere; e le perdite già patite bastavano. Era meglio assecondare la fortuna, lasciando i Cherusci e gli altri popoli transrenani alle loro rivalità, alle loro contese.

Da tempo Tiberio aveva maturato la sua decisione: l’Elba era un confine che non si poteva conservare; era un nome vano. Occorreva rinunciare alle ambizioni di Augusto, di Agrippa, di Druso; più opportuno, invece, seguire la saggia politica di Giu- lio Cesare e tornare a presidiare il Reno per conservare la Gallia. Le ultime obiezioni di Germanico, che ancora sperava in un

ripensamento, furono respinte. Per indurlo a migliori consigli, l’imperatore gli promise un nuovo consolato, che andava però rivestito a Roma, non in Germania. Secondo la volontà di Tibe- rio, il Reno doveva essere la frontiera tra il territorio governato dal popolo romano e il caos selvaggio dei Germani. E così fu, per i secoli avvenire.

Quale travaglio, quali timori nascondeva la decisione di Ti- berio? È vero: l’anziano soldato ben conosceva la Germania e i suoi pericoli; e tuttavia, Germanico aveva davvero compiuto un’impresa: era riuscito a battere nuovamente i Germani; a tra- sformare Arminio in un fuggiasco, in un’ombra miseranda del condottiero che aveva trionfato su Varo. Sembravano davvero tornati i tempi felici della conquista, quando, dopo lo sventu- rato destino di Druso, lo stesso Tiberio aveva trionfato sulla Germania, avviando poi la costituzione della nuova provincia dal Reno all’Elba. Perché rinunciare? La spiegazione di Tacito è ben nota.

Tiberio avrebbe ingiunto a Germanico di desistere per ge- losia e per timore di essere oscurato. Tramite i suoi messaggeri aveva seguito con apprensione i successi del figlio adottivo, gli intrighi di sua moglie Agrippina e la crescita del consenso da parte dell’esercito nei confronti del giovane. Non poteva dimen- ticare Tiberio che, alla morte di Augusto, le legioni in rivolta del Reno avevano espresso l’auspicio che successore fosse lo stesso Germanico, e non l’erede da lungo tempo designato. E non po- teva trascurare il principe che con le vittorie, con la condivisione delle fatiche e con i successi della guerra s’alimentava il favore dei soldati e del popolo per Germanico. Ponendo termine alla guerra, si sarebbe pure attenuata l’insidiosa solidarietà che raf- forzava il potere personale e il carisma di Germanico.

Per quanto molto ostile a Tiberio, da un punto di vista politico la visione di Tacito può essere accettata. È da in- tegrare, tuttavia, con altri importanti aspetti, legati alla si- tuazione e alla personalità complessa del principe. La sua presunta ‘gelosia’ per Germanico si deve interpretare riflet- tendo sugli equilibri di potere all’interno della Domus Augu-

sta. Abbiamo già visto come tutta la vicenda della conquista

della Germania da Agrippa a Germanico vada letta in una duplice prospettiva: quella dell’allargamento del dominio di Roma e quella dell’amplificazione del prestigio della fami- glia imperiale. Augusto aveva ben modulato l’assegnazione dei comandi per equilibrare le aspirazioni degli esponenti più giovani della famiglia. All’inizio della conquista aveva cercato di evitare la rivalità tra Druso e Tiberio; poi, dopo la morte di Druso, si era servito degli incarichi in Germania – nell’8 a.C. e nel 4 d.C. – come strumento per soddisfare le ambizioni del fratello.

Anche a Tiberio, divenuto principe, sembrò conveniente proseguire l’accorta politica di Augusto. Non era opportuno che le vicende di Germania sviluppassero una dinamica di con- fronto personale all’interno della Domus Augusta. Con buona pace di Tacito, che manipola i fatti, non era tanto una questio- ne di gelosia, che comunque non si può del tutto escludere; piuttosto, era necessario garantire la stabilità del regime. La situazione politica, infatti, era complessa. Il potere di Augusto si era consolidato attraverso gli anni e le grandi imprese. La successione al trono di Tiberio era stata più difficile; e più fragile era la base del suo consenso. Le rivolte legionarie del 14, proprio in Germania, ne erano una prova inquietante. Il richiamo di Germanico serviva pure a vanificare le aspirazioni di quanti volessero destabilizzare il regime vigente, puntando sul successo del giovane Cesare. Quanto alle dinamiche fami- liari, Tiberio scrisse a Germanico insistendo sul fatto che la sua missione, la ultio, era compiuta; e tuttavia, se davvero in futuro si fosse reso necessario proseguire la lotta contro i Germani, allora era bene che altri membri della famiglia, come Druso Minore, figlio del principe, avessero l’occasione per mostrare le proprie qualità.

Nella scelta del principe pesarono pure considerazioni di ca- rattere militare. Anche se questo aspetto sovente sfugge, Tiberio fu un grande generale e un ottimo soldato. A suo tempo, il prin- cipe aveva conseguito brillanti vittorie in Germania. E proprio

la sua esperienza gli faceva sospettare che la sottomissione dei Germani rappresentasse – ancora una volta – un errore di per- cezione. Germanico aveva vinto i ribelli in due importanti bat- taglie, ma la guerra sarebbe stata ancora lunga. Del resto, anche Tiberio li aveva sconfitti nell’8 a.C.; ed anzi, aveva celebrato un trionfo sull’intera Germania. Poi era venuto il disastro di Varo, che aveva svelato l’inganno dei Romani. Un evento tanto grave non doveva più verificarsi.

Infine, non bisogna sottovalutare l’interpretazione dei fatti secondo la sensibilità religiosa e la mentalità del tempo. Even- ti spaventosi avevano funestato le campagne per la conquista della Germania. Per un uomo attento a queste cose come Ti- berio, v’erano segni inequivocabili dell’ostilità divina all’impre- sa. Segni che risvegliavano ricordi indelebili e crudeli. Non si cancellava dalla mente e dal cuore del principe ormai anziano l’immagine dell’amato fratello Druso, fermato inaspettatamente al culmine del successo e spirato tra le sue braccia, nel vigore della gioventù. E Tiberio conosceva pure le notizie sulle miste- riose apparizioni che avevano avvisato del suo tragico destino il brillante comandante lanciato alla conquista dell’ignoto. Per quanto dolorosa, la memoria di Druso non era l’unico presagio infausto. V’erano ancora Teutoburgo, la cattura delle aquilae e, non ultimo, il grande disastro della flotta di Germanico. Per un popolo che credeva di attribuire le sue vittorie al consenso divino, queste sconfitte erano da spiegare in un solo modo. Alle ambizioni dei Romani era precluso il limite estremo dell’Elba. Tiberio, pontefice massimo e supremo mediatore tra gli uomini e gli dèi, doveva tenerne conto.

Le preoccupazioni di Tiberio influirono sulla decisione fi- nale. E, probabilmente, per quanto riguarda gli aspetti politici e militari, l’imperatore non sbagliava. Vedeva, infatti, con mag- giore lungimiranza i costi futuri della guerra; per le truppe im- pegnate oltre il Reno, ma anche per i provinciali di Gallia, che non potevano sostenere oltre il fardello di spedizioni sempre più onerose. Il suo rifiuto fu senza appello. Germanico comprese che non aveva spazi di manovra per convincere Tiberio, e si ar-

rese alla sua volontà. Forse capì le ragioni del principe; forse ne intuì i calcoli politici; sicuramente ne percepì il malessere. Date le ultime disposizioni per il governo della Gallia, Germanico lasciò il Reno e tornò a Roma1.

Un amaro trionfo

Grandiosi furono i preparativi per il trionfo di Germanico a Roma. Scrive Tacito (Annali 2, 41, 2): «si considerava come conclusa una guerra che non era stato concesso di concludere». Le operazioni militari erano state interrotte, ma Tiberio aveva giudicato completa la ultio del popolo romano. Strabone (7, 1, 4), forse un testimone oculare delle solenni celebrazioni, ricorda con onestà che al momento della stesura del suo resoconto (nel 18) Arminio era ancora libero e in armi contro Roma; e, tutta- via, conserva la stessa interpretazione del trionfo, che era quella sollecitata da Tiberio in persona.

Lo sfoggio di potenza fu enorme. La memoria degli eventi fu consegnata alla maestà di nuovi edifici. Alla fine dell’anno 16, il recupero delle due aquilae sottratte a Teutoburgo fu celebrato con la costruzione di un arco in onore di Tiberio presso il Tem- pio di Saturno, in pieno Foro romano. Sui rilievi dell’Arco di Costantino è ancora possibile vedere questo monumento, ormai del tutto scomparso; inoltre, è probabile che Tacito (Annali 2, 41, 1) riporti con esattezza l’iscrizione dedicatoria, che ne spie- gava pure le ragioni della costruzione: «per le insegne recupe- rate, perdute insieme a Varo, sotto il comando di Germanico, e per gli auspici di Tiberio» (ob recepta signa cum Varo amissa

ductu Germanici, auspiciis Tiberii). Nei giardini presso il Tevere,

che Cesare aveva donato al popolo romano, fu pure consacrato un tempio alla Fors Fortuna.

Finalmente, il 26 maggio del 17, arrivò il giorno del trionfo. Tacito ricorda che fu celebrato per le vittorie sui Cherusci, Catti, Angrivari e altre genti che abitavano la Germania fino all’Elba (de Cheruscis, Chattisque et Angrivariis quaeque aliae nationes

tagliata, completa la lista: Caulchi, Campsani, Bructeri, Usipeti, Cherusci, Catti, Chattuari, Dandi, Tubanti. Al seguito del trion- fatore sfilarono per le vie di Roma i prigionieri presi a questi po- poli. Tra loro, aristocratici e grandi capi; e soprattutto, i membri della famiglia di Arminio, a lui più legati: il cherusco Segimundo, figlio di Segeste, colui che alla notizia della rivolta, nel 9, aveva gettato le bende di sommo sacerdote, raggiungendo suo cogna- to Arminio; Tusnelda, sposa di Arminio e figlia di Segeste, che portava con sé il figlio di quasi tre anni, Tumelico, figlio anche di Arminio, nato in prigionia, che mai avrebbe visto il padre; e poi Sesitach, figlio di Segimero e nipote di Segeste, colui che nella fu- ria della vittoria aveva oltraggiato il corpo di Varo; insieme a lui, sua moglie Ramis, figlia del capo dei Catti Oucromir. Seguivano altre personalità eminenti: il sugambro Deudorix, figlio di Bai- torix, fratello di Melone, altro capo dei ribelli; e ancora, Libes, grande sacerdote dei Catti, e molti altri prigionieri.

Con la loro presenza nel corteo, questi personaggi espiavano le colpe contro Roma, pagavano nell’umiliazione la ribellione e la fedeltà ad Arminio. Con un’immagine potente, che rivela il significato profondo del trionfo come suprema celebrazio- ne della vendetta dei Romani, Strabone ricorda che all’evento era presente anche il capo cherusco Segeste, suocero di Armi- nio, fratello di Segimero. Lo ricordiamo nel 15, quando si era consegnato con Segimundo e sua figlia incinta, Tusnelda, alla clemenza di Germanico. Dunque, anche Segeste prese parte al trionfo, ma non nel corteo, tra i prigionieri esposti al ludibrio e allo scherno della folla.

Come nota Strabone, Gaio Giulio Segeste sedeva onorato e rispettato tra gli aristocratici romani; era un cittadino e un amico di Roma, e, tuttavia, spettatore del trionfo celebrato sulla sua famiglia, sugli affetti più cari, ormai inquinati o recisi, sulla sua gente. Vedeva sfilare il figlio, la figlia, il piccolo nipote, e altri parenti. Così si svelava al capo germanico la vera natura della clemenza del trionfatore; così si compiva inesorabile la vendetta di Roma contro la famiglia di Arminio. Anche Segeste era un vinto, in quella giornata di fine maggio; Roma trionfava anche su

di lui, sulle sue speranze e sui suoi sentimenti. Un destino amaro che si confondeva nell’emozione del momento e nel tripudio della folla, che assisteva affascinata allo spettacolo.

Oltre ai prigionieri, sui carri, in lenta processione, erano stipati le spoglie, le armi, gli oggetti più preziosi dei Germani. E, insieme a questi, era tutta la Germania che veniva mostrata al popolo romano. Non solo i suoi vinti, ma anche raffigurazio- ni con le immagini dei principali fiumi, dei monti, dei luoghi impervi dove s’era svolta la guerra. Anche le battaglie sfilavano sotto gli occhi della popolazione, dipinte su grandi quadri. Magnifico, sul suo carro, Germanico procedeva solenne, ac- compagnato dai suoi cinque figli, orgoglioso delle sue imprese, inebriato dalle acclamazioni del popolo. Nonostante la delu- sione per una vittoria dimezzata, questa era la sua giornata. Ignorava ancora le decisioni che andavano maturando sul suo destino. Anche se ostentava gioia per i successi del nipote, Ti- berio continuava a temere e a tramare. La dissimulazione era un tratto profondo della sua natura. Germanico era scomodo come condottiero in Germania; ma ancora più pericoloso co- me trionfatore a Roma. A breve, Tiberio lo avrebbe inviato in Oriente, per sistemare diverse questioni aperte nelle province. Sarebbe stata la sua ultima missione. Germanico morì presso Antiochia il 10 ottobre del 19. Le sue ceneri tornarono a Roma alla fine dello stesso anno e vennero sepolte nel mausoleo della famiglia in Campo Marzio, sulle rive del Tevere. Grande fu il cordoglio del popolo, e sincero; voci maligne insinuavano che forse non tutti condividevano nel profondo del loro animo lo stesso sentimento di dolore2.

La visione di Tiberio:

l’elogio di Germanico nella Tabula Siarensis

Con il richiamo di Germanico nel 17, Tiberio abbandonò per sempre il progetto di trasformare in provincia la Germania dal Reno all’Elba. Tutti gli sforzi sostenuti per la riconquista di quello spazio furono resi vani da questa decisione. Dal punto di

vista militare, fu un fallimento inaudito, ma deliberato. Abbia- mo visto alcuni aspetti che furono determinanti nel giustificare la rinuncia. E questo accadeva non nell’ora di una crisi cupa, in attesa di un riscatto, ma dopo una sequenza di grandi vittorie, quando ormai la coalizione dei ribelli era stata più volte scon- fitta sul campo, e Arminio era battuto. Era consapevole Tiberio della portata storica della sua decisione? Si rendeva conto della frattura irrimediabile con la linea politica di Augusto e con la tradizione? Considerando l’intelligenza del personaggio, non ne abbiamo dubbio. Lo dimostrano, tra l’altro, le strategie di comunicazione messe in atto per presentare l’abbandono della Germania come una necessità politica; e, soprattutto, la spedi- zione di Germanico come episodio conclusivo di una vendetta che spettava al popolo romano contro genti ostili e straniere, non contro ribelli al dominio di Roma.

In realtà, anche dopo il 17, Tiberio non rinunciò ad esercita- re un controllo politico e diplomatico sulle genti della Germania transrenana. Molte vicende nella sua epoca, e poi sotto i suoi successori fino al termine del I secolo, testimoniano l’influenza di Roma su quei popoli; e anche le capacità della sua diplomazia, in alcune circostanze ‘sovversiva’ e, talora, coercitiva. E tuttavia, la scelta di rinunciare alla conquista militare dello spazio tra Reno ed Elba pesava sul prestigio del principe, che sul favore dei soldati e sul carisma legato alle vittorie fondava la sua autore- volezza. Presa la decisione di abbandonare la Germania transre- nana, Tiberio cercò le strategie più adatte per evitare critiche e limitare la perdita di consenso3.

La Tabula Siarensis è un documento epigrafico che riporta con suggestiva immediatezza la visione ufficiale, l’interpretazio- ne che il principe sollecitava per quanto avvenuto in Germania. La Tabula, giunta in frammenti, conteneva un dossier di deci- sioni prese dal senato per onorare la memoria di Germanico (senatus consultum de honoribus meritis Germanici Caesaris). Il documento è importante per almeno due aspetti. In primo luogo, viene descritto il comportamento di Tiberio in occasione delle esequie per Germanico e del lutto pubblico (iustitium). Si

tratta di una versione che si contrappone alla rappresentazione di Tacito. In passi di potente suggestione, Tacito (Annali 3, 1-5) approfitta della circostanza per attaccare la malvagia doppiezza di Tiberio verso Germanico. A suo dire, infatti, il principe de- cise di non mostrare in pubblico il suo dolore, e dunque non partecipò ai riti funebri. Stabilì che pure l’Augusta Livia, nonna di Germanico, e la madre, Antonia, si astenessero da pubbliche manifestazioni del lutto.

In realtà, afferma Tacito, Tiberio temeva che qualcuno potes- se accorgersi del suo vero stato d’animo. Il principe aveva tratto sollievo dalla morte di Germanico. Le manifestazioni di dolore e la solidarietà verso la vedova Agrippina gli provocavano fasti- dio. Tacito esagera e falsifica per colpire la memoria di Tiberio. La Tabula Siarensis presenta un quadro del tutto diverso. Tibe- rio si impegnò perché Germanico ricevesse adeguati onori. Le esequie avvennero al cospetto di Antonia. In secondo luogo, il testo contiene un succinto, ma prezioso riferimento ai meriti di Germanico. Vi si legge la sintesi di un elogio funebre (laudatio) che elenca le imprese del giovane principe e che rinvia alla ver- sione ufficiale dei fatti approvata dallo stesso Tiberio:

Il senato e il popolo romano avevano dedicato questo monumento ad eterna memoria di Germanico Cesare, che aveva superato i Ger- mani in guerra, li aveva spostati quanto più lontano possibile dalla Gallia, aveva recuperato le insegne militari, aveva vendicato una scon- fitta dell’esercito del popolo romano ottenuta con l’inganno, aveva dato giusto ordine alle Gallie; e inviato poi nelle province d’oltremare come proconsole per sistemare quei territori e i regni di quella regione secondo le istruzioni di Tiberio Cesare Augusto, dopo aver pure as- segnato all’Armenia un re, non risparmiandosi dalle fatiche, prima di far ingresso a Roma per ricevere un’ovazione, secondo il decreto del senato, era morto per lo Stato.

Ecco il pensiero e, potremmo dire, la voce di Tiberio sui fatti di Germania. Germanico viene celebrato per aver condotto con successo la guerra contro i Germani. La sua brillante vittoria ha consentito di preservare intatti i confini della Gallia dalla minac-

Nel documento Il nemico indomabile. Roma contro i Germani (pagine 192-200)

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