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è totalmente perduto, mentre del v 19 si conserva solamente l‟ultima sillaba,

Nel documento Pindaro, Peana IV. Testo e Commento. (pagine 87-113)

SEZIONE PRIMA, VV 1-13: PROEMIO.

18 è totalmente perduto, mentre del v 19 si conserva solamente l‟ultima sillaba,

seguita daun segno d‟interpunzione ]ρη·. Del v. 20, ultimo della prima antistrofe, si legge solamente la fine ]ν ἰχθύσιν. È possibile che ai „pesci‟ si alludesse in quanto la pesca era una delle principali risorse economiche dell‟Isola: ricordiamo che, nell‟incipit dell‟Istmica i, Pindaro dice, riferendosi ai Cei, σὺν ποντίοις/ἀνδράσιν (vv. 8 sg.)211.

VV. 21-27

Inizia a v. 21 il primo epodo, e da questo punto il testo è abbastanza ben conservato per trenta versi (fino a v. 51, dopo cui degli ultimi dodici versi rimangono solo minime tracce e qualche scolio marginale). La particella iniziale va scritta ἤτοι „in

verità‟, e non ἦ τοι, come facevano invece Grenfell e Hunt212. σ[κόπ]ελον è supplemento, abbastanza ovvio, già dei primi editori. Alcmane aveva usato questo vocabolo per parlare dell‟isoletta di Psira: fr. 124 PMG πάρ τ’ ἱαρὸν σκόπελον παρά τε Χύρα, e già Omero definiva così i due promontorî di Scilla e Cariddi (per es., Od. xii. 73). Troviamo il verbo ναίω usato in simile contesto anche in pae. ii. 24 sq. [τάνδε] ναίω/Θ[ρ]αϊκίαν γ[αῖ]αν. «In entrambi i casi il Coro parla a nome della comunità. Rispetto al Peana secondo qui s‟aggiunge il temadella povertà della terra»213.

210 Cfr. G. B. D‟Alessio, «Osservazioni e paralipomeni ad una nuova edizione dei frammenti di Pindaro», RFIC cxix, N. S. lxix (1991), pp. 91-117 (segnatamente, qui, a p. 98).

211 Cfr. N. R. Hope, A Commentary etc., cit., p. 43; G. Bona, Pindaro. I Peani, cit., p. 77.

212 Cfr. J. D. Denniston, GP, p. 533 (8); L. Käppel, Paian etc., cit., pp. 104 n. 57, entrambi con bibliografia.

213

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La questione più rilevante circa questo verso è, però, se dopo δια[ nel papiro ci fosse ancora della scrittura o se, invece, la particella vada a legarsi con γινώσκομαι di v. 22. Personalmente sono convinto che la soluzione corretta sia la seconda214; e del resto l‟anafora del verbo prima nella sua forma composta (vv. 21 sg. δια- /γινώσκομαι) e poi in quella semplice (v. 22 γινώσκομαι) non fa alcuna difficoltà215

. L‟altra opinione ha trovato sostenitori prima nell‟Housman e poi nel Sandys. Il primo proponeva216 di integrare διά[σαμον „illustre‟, trasformando il v. 21 in pros reiz . Egli parte dalla ricostruzione dei vv. 52 sg.217 come stampata dai primi editori, arrivando a sostenere che δια[ sia il resto di un aggettivo caduto in lacuna, perché διαγινώσκομαι risulterebbe meno appropriato del verbo semplice (ma, anche semplicemente consultando un qualsiasi lessico, mi sembra che questo non si possa dire); la preposizione distruggerebbe l‟anafora (motivazione molto poco solida, a mio parere: tutti, credo, potevano ben percepire l‟affinità tra le due forme verbali); per σκόπελον, sarebbe assai idoneo se esso fosse accompagnato da un epiteto (non lo nego; ma è pur sempre una possibilità, non un obbligo: siamo in una situazione analoga a quella affrontata nella ricostruzione del v. 14); e infine ricostruisce il testo di v. 52 in maniera tale che esso sia metricamente corrispondente alla propria ricostruzione di v. 21218. Quest‟integrazione stampò poi anche il Sandys nella sua edizione, dove propose però anche l‟integrazione δια[πρεπέα, in base al confronto con Isth. v. 44 διαπρεπέα νᾶσον. Non c‟è alcuno che non veda come le motivazione addotte dallo Housman non siano scevre d‟una buona dose d‟impressionismo e di soggettività. Questo, per certi aspetti, è comprensibile; ma è allora giocoforza che, di conseguenza, anche le mie obiezioni ad esse non ne siano prive. Anche il Prof. D‟Alessio, in una comunicazione privata, mi ha confermato che «le motivazioni di Housman non sono convincenti e la sua integrazione [...] è molto debole dal punto di vista retorico»219. Un‟integrazione che egli stesso ha proposto (e. g.) è διὰ [πάντων, ancorché sembri propendere anch‟egli per la non integrazione.

214

Per il modo in cui le implicazioni di questa scelta si riverberano sull‟analisi metrica, cfr. supra, Commento metrico ad. loc.

215 Cfr. E. Fraenkel, Agamemnon, vol. ii., p. 175 n. 3.

216 Cfr. A. E. Housman, «On the Paeans of Pindar», CR xxii (1908), pp. 8-12 (segnatamente, qui, a p. 10).

217

Cfr. infra. 218 Cfr. infra.

219 Lettera del 14 marzo 2017. In essa il Professore (che nuovamente ringrazio) mi ha rimandato all‟opinione del Fraenkel, sopra indiata, circa l‟anafora di un verbo nella sua forma prima composta e poi semplice.

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Continua la descrizione del paesaggio di Cartea, e si ribadisce che l‟ambiente è aspro; ma dalla fine del v. 21, e poi fino a v. 24, si enunziano i due elementi per cui la città (con l‟Isola di Ceo nella sua interezza) è famosa: le vittorie nelle gare atletiche e poetiche.

A vv. 22 sg. ἀρεταῖς ἀέθλων/἗λλανίσιν „per virtù elleniche di gare‟ è un‟ipallage, in quanto ἗λλανίσιν dovrebbe essere conocrdato con ἀέθλων. Si conosce un‟iscrizione che riporta una lista di vincitori cei, IG xii. 5(1). 608, proveniente da Iulide, che è servita ai filologi per una migliore comprensione degli epinici di Bacchilide220.

All‟espressione a v. 24 μοῖσαν παρέχων ἅλις si dà tradizionalmente il significato di „offrendo molta poesia‟, con allusione ai due grandi poeti di Ceo, Simonide e Bacchilide: «their service to the Muses was witnessed by the illustrious names of Simonides and Bacchylides»221. Non conviene scrive Μοῖσαν, con l‟iniziale maiuscola, intendendo la Musa come divinità, giacché l‟espressione „offrendo molta

Musa‟ suonerebbe un po‟ strana. Meglio è dunque scrivere μοῖσαν, ed intendere il

termine nel senso traslato di „poesia‟, come già detto. Notiamo la presenza in questo nome della dittongazione eolica, come, per es., in Alcmane Ἀστυμέδοισα (fr. 3. 64

PMG).

Un‟interpretazione del tutto innovativa a questo verso propose però A. C. Cassio222

. Egli sostiene che l‟uso pindarico di παρέχω+sostantivo indicante la produzione poetica (come μέλος, μοῖσα etc.) debba essere inteso nel senso di “offrire

occasione/materia, per il canto poetico”. Traduce questi versi come «sono famoso per la mia bravura nelle gare dell‟Ellade ed anche perché, di conseguenza, sono cantato dai poeti (offro molta materia di canto)»; ne conseguirebbe anche l‟assenza

di ogni riferimento a Simonide e Bacchilide, senza che per questo, però, i Cei potessero sentirsi offesi, giacché essi «saranno stai ben contenti di sentirsi ricordare la fama di cui godevano sia per le loro vittorie sia per gli epinici che le celebravano». A sostegno di quest‟ipotesi, il Cassio porta i seguenti passi pindarici:

Nem. vi. 29-34

220 Cfr. N. R. Hope, A Commentary etc., cit., p. 44. 221 ed. princeps, p. 89.

222 Cfr. A. C. Cassio, «Pind. pae. 4 (fr. 52 d Sn.), 21-24», ASNSP ii. 2 (1972), pp. 469-471. L‟articolo contiene anche un‟essenziale resoconto delle posizioni tradizionali su questi versi.

90 παροιχομένων γὰρ ἀνέρων ἀοιδαὶ καὶ λόγοι τὰ καλά σφιν ἔργ’ ἐκόμισαν· Βασσίδαισιν ἅ τ’ ο὎ σπανίζει, παλαίφατος γενεά, ἴδιαν ναυστολέοντες ἐπικώμια, Πιερίδων ἀρόταις δυνατοὶ παρέχειν πολὺν ὕμνον ἀγερώχων ἐργμάτων ἕνεκεν

dove i Bassidi, coi loro καλὰ ἔργα, sarebbero in grado di “offrire inni in abbondanza

ai poeti” dando loro il motivo del canto (ὕμνος significherebbe «materia, argomento

di canto» come avviene per ἀοιδή per es. in Hom. Od. viii. 580; iii. 204; Eur. Tr. 1244 ἀοιδὰς δόντες; Suppl. 1225 ᾠδὰς...θήσετε).

L‟altro passo è invece proprio dai Peani:

pae. xviii. 1-3 (fr. 52s M.)

἖ν Συν]δαριδᾶν ἱερῶ

τεμέ]νει πεφυτευμένον ἄ[λσος ἀνδ]ρὶ σοφῶ παρέχει μέλος [

Qui il τέμενος dei Tindaridi dà argomento di poesia e di canto (μέλος) al poeta. Inoltre, in Pindaro le particelle μὲν...δὲ, che ritroviamo ai vv. 22 sg. del nostro

Peana, hanno spesso funzione congiuntiva, e, per di più, il poeta associa

frequentemente le opere gloriose del laudandus al canto che le immortala. Ne consegue l‟implicazione della legittimità di un‟interpretazione “sono famosa per

molte gare sportive, e, conseguentemente, perché sono cantata dai poeti dandone loro materia”.

La lettura del Cassio fu accettata anche dal Bona223; ma l‟Hope si dichiarò contrario ad essa per i seguenti motivi224:

(1) gli esempî portati a sostegno di ὕμνος „materia di canto‟ in Nem. vi. 33 sono tutti con il termine ἀοιδή; né si può dire che sia necessario tradurre πολὺν ὕμνον „molta

materia di canto‟: una traduzione come «“many a song” (Bowra‟s translation) or

223 Cfr. G. Bona, Pindaro. I Peani, cit., p. 78. 224

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“many a hymn” (Nisetich) is a perfectly adequate translation of the Greek and is much simpler than “much material for song”».

(2) Analogamente, per pae. xviii. 3 sarebbe pienamente soddisfacente tradurre «provides a song to the poet»; l‟interpretazione del Cassio sarebbe un‟inutile complicazione.

(3) Se Pindaro avvesse veramente voluto stabilire una relazione di consequenzialità tra la proposizione col μέν e quella col δέ, avrebbe usato un dettato più perspicuo. Esempio ne sarebbe proprio il passo della Nemea vi citato dal Cassio, dove il poeta specifica che il παρέχειν πολὺν ὕμνον è dovuto proprio ἀγερώχων ἐργμάτων/ἕνεκεν (vv. 33 sg.).

(4) Infine, la posizione di spicco (ad inizio di frase) in cui sono collocati i due verbi διαγινώσκομαι e γινώσκομαι, fa pensare che qui ci sia piuttosto la giustapposizione di due separati motivi di vanto per i Cei.

In conclusione, per l‟Hope è preferibile salvaguardare l‟interpretazione tradizionale, secondo cui con si fa riferimento alla fama dei Cei nel campo della musica e della poesia.

Cosa concludere? Inizialmente rimasi abbastanza convinto dell‟interpretazione del Cassio, ma confesso che anche l‟Hope porta a sostegno di quella contraria (che è poi quella classica) convincenti argomenti. Propenderei dunque per quest‟ultima, ancorché non senza esitazione. E vorrei, per parte mia, offrire uno spunto che mi si è presentato alla mente nella lettura della voce della Suda Βακχυλίδης.

Sud. β 59, p. 449. 29-32 Adler i.

Β α κ χ υ λ ί δ η ς, Κεῖος, ἀπὸ Κέω τ῅ς νήσου, πόλεως δὲ Ἰουλίδος (ἔχει γὰρ πόλεις δ, Ἰουλίδα, Καρθαίαν, Κορεσσίαν, Ποιήσσαν), Μέδωνος υἱὸς, τοῦ Βακχυλίδου τοῦ ἀθλητοῦ παιδός· συγγενὴς ΢ιμωνίδου τοῦ λυρικοῦ, καὶ ἀυτὸς λυρικός.

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Personalmente, se si propende, come io faccio, per l‟interpretazione tradizionale, è difficile pensare che nel Peana iv non ci sia un riferimento a Simonide e Bacchilide. Noteremo anche che nella genealogia di Bacchilide, come riportata dalla Suda, il nonno del poeta è un altro Bacchilide, che, a quanto pare, si era distinto come atleta (non vedo altrimenti una spiegazione plausibile per l‟espressione τοῦ Βακχυλίδου τοῦ ἀθλητοῦ παιδός). Bene. Mi chiedo, allora, se non si possa pensare che Pindaro, nell‟enunciare le glorie di Ceo, abbia attinto ad una fonte locale che riportava, per la genealogia di Bacchilide, le vittorie atletiche del nonno, le quali, oltre ad essere titolo di vanto personale, lo erano certamente per tutta la comunità. Le vittorie agonali e poetiche che adornavano la famiglia di Bacchilide, erano, insomma, attrettante glorie per l‟Isola tutta. E notiamo anche che l‟ordine cronologico in cui avvennero (prima quelle atletiche del nonno, poi quelle poetiche del nipote) è lo stesso ordine in cui vengono menzionati nel Peana iv, mentre nella Suda sono invertite, ma solo perché il compilatore partì dal Bacchilide poeta (la figura veramente interessante e nota) per arrivare al Bacchilide atleta. Si potrebbe allora perfino spingersi a pensare che, nonostante questa accidentale, ma non ostativa, divergenza, da una parte Pindaro e dall‟altra il materiale che è poi confluito nel grande lessico d‟età Bizantina abbiano attinto ad una remota fonte comune.

Nei vv. 25-27 il Coro prosegue ad enumerare le caratteristiche della propria Patria. Le modalità in cui questo avviene sono singolari: non si afferma che, nonostante alcuni svantaggi legati alla geografia del territorio, Ceo possiede anche qualità positive. No. Avviene l‟esatto contrario: si dice che, quantunque l‟Isola produca vino, ha nondimeno un‟ambiente sfavorevole all‟allevamento di cavalli e di armenti; e questo è, a mio avviso, funzionale all‟introduzione del mito di Melampo, che viene svolto nei vv. 28-30225. L‟antecedente letterario di questa descrizione, come giustamente nota il Käppel226, è la descrizione che Telemaco fa di Itaca nel quarto libro dell‟Odissea: benché Menelao gli abbia fatto dono di alcuni cavalli, egli rifiuta dicendo:

Hom. Od. iv. 601-608

225 Cfr. infra.

226 Cfr. L. Käppel, Paian etc., cit., p. 107 (per la descrizione dell‟Isola sono da vedere le pp. 103- 108).

93 ἵππους δ’ εἰς Ἰθάκην ο὎κ ἄξομαι, ἀλλὰ σοὶ α὎τῶ ἐνθάδε λείψω ἄγαλμα· σὺ γὰρ πεδίοιο ἀνάσσεις ε὎ρέος, ᾧ ἔνι μὲν λωτὸς πολύς, ἐν δὲ κύπειρον πυροί τε ζειαί τε ἰδ’ ε὎ρυφυὲς κρῖ λευκόν. ἐν δ’ Ἰθάκῃ οὔτ’ ἂρ δρόμοι ε὎ρέες οὔτε τι λειμών· αἰγίβοτος, καὶ μᾶλλον ἐπήρατος ἱπποβότοιο. ο὎ γάρ τις νήσων ἱππήλατος ο὎δ’ ε὎λείμων, αἵ θ’ ἁλὶ κεκλίαται· Ἰθάκη δέ τε καὶ περὶ πασέων.

Due problemi testuali possiamo discutere per il v. 25. Uno si riscontra già ad inizio verso. Infatti il manoscritto qui è rovinato, e sembra di potervi leggere [ ̣ ]ι che può

essere interpretato in varî modi227. Se pensiamo che la traccia leggibile nella parte suoeriore prima dello ι sia uno spirito dolce, potremmo integrare [ε]ἰ (che sarebbe però troppo breve per la lacuna), ovvero [η]ἰ (con cui dovremmo presupporre un errore del copista per εἰ); in ogni caso, lo spirito dolce ci impedirebbe di pensare alla particella ᾗ. Il tratto che abbiamo interpretato come spirito dolce, però, potrebbe anche essere considerato come il resto di una η. Si avrebbe, allora, una varia lectio

supra lineam, e cioè la particella asseverativa ἦ „certamente‟, mentre in linea si

dovrà leggere verisimilmente [ε]ἰ. Io credo che quest‟ultima ipotesi sia quella più probabile, ma nulla di certo si può dire, e, benché personalmente tenderei ad accogliere a testo [ε]ἰ, ho preferito non integrare questa lacuna nell‟edizione.

Διω[νύσ]ου dei primi editori, forma epica, è restauro migliore, sia per motivi paleografci che metrici, di Διο[νύσ]ου, che è proposta dal Nairn, riportata nell‟editio

princeps dei medesimi Grenfell e Hunt.

SEZIONE TERZA, vv. 28-30: MITO DI MELAMPO E CONSEGUENTE

ΓΝΨΜΕ.

Il trattamento che del mito di Melampo qui fa Pindaro è forse, per certi aspetti, la vera crux del Peana iv. Ma andiamo per ordine.

Nei versi precedenti il Coro ha affermato di amare la propria terra, nonostante la presenza di alcune caratteristiche che la rendono non sempre, di per sé, appetibile.

227

94

Come ho già accennato, a mio parere, è proprio in funzione dell‟introduzione del mito che la rassegna delle caratteristiche dell‟Isola si chiude con due elementi negativi. Parafrasando Pindaro: “Certo, non ho possibilità di allevare né cavalli né

armenti; ma nemmeno Melampo volle abbandonare la propria patria per regnare ad Argo, lasciando anche la prerogativa di profeta”. Come, dunque, Melampo rinunziò

alla regalità per non lasciare la patria Pilo, così anche il Coro fa atto di rinunzia alla brama di ricchezze di luoghi lontani per rimanere fedele alla propria Ceo. Sembrerebbe tutto molto lineare; ma ora leggiamo le principali fonti su questo mito.

(1) Hom. Od. xv. 226; 238-240. ὃς πρὶν μέν ποτ’ ἔναιε Πύλῳ ἔνι, μήτερι μήλων . . . (...) ὁ δ’ ἄλλων ἵκετο δ῅μον, Ἄργος ἐς ἱππόβοτον· τόθι γάρ νύ οἱ αἴσιμον ἦεν ναιεμέναι πολλοῖσιν ἀνάσσοντ’ Ἀργείοισιν. (3) Hes. fr. 37. 10-13 M-W. οἳ δὲ καὶ εἰς Ἄργος Προῖ[το]ν πά[ρα δῖον ἵκοντο ἔνθά σφιν μετέδωκ[ε ἴφθ[ι]μος Προῖτος κλ῅ρον [ ἱπποδάμωι τε [Βί]αντι [Μελάμποδί θ’ (4) Hes. fr. 261. 1 sq. M-W.

(= schol. in Ap. Rhod. Argon. i. 118-121, p. 17. 5 Wendel)

Μελάμπους φίλτατος ὢν τῶ Ἀπόλλινι (5) Hdt. ix. 34 ταῦτα δὲ λέγων οὗτος ἐμιμέετο Μελάμποδα, ὡς εἰκάσαι βασιληίην τε καὶ πολιτηίην αἰτεομένους. καὶ γὰρ δὴ καὶ Μελάμπους τ῵ν ἐν Ἄργεϊ γυναικ῵ν μανεισέων, ὥς μιν οἱ Ἀργεῖοι ἐμισθοῦντο ἐκ Πύλου παῦσαι τὰς σφετέρας γυναῖκας τ῅ς νούσου, μισθὸν προετείνατο τ῅ς βασιληίης τὸ ἥμισυ. [2] ο὎κ ἀνασχομένων δὲ τ῵ν Ἀργείων ἀλλ᾽ ἀπιόντων, ὡς ἐμαίνοντο πλεῦνες τ῵ν γυναικ῵ν, οὕτω δὴ ὏ποστάντες τὰ ὁ Μελάμπους προετείνατο ἤισαν δώσοντές οἱ ταῦτα. ὁ δὲ ἐνθαῦτα δὴ ἐπορέγεται ὁρέων

95 α὎τοὺς τετραμμένους, φάς, ἢν μὴ καὶ τῶ ἀδελφεῶ Βίαντι μεταδ῵σι τὸ τριτημόριον τ῅ς βασιληίης, ο὎ ποιήσειν τὰ βούλονται. οἱ δὲ Ἀργεῖοι ἀπειληθέντες ἐς στεινὸν καταινέουσι καὶ ταῦτα. (6) Paus. ii. 18. 4 μόνους δὲ ἗λλήνων οἶδα Ἀργείους ἐς τρεῖς βασιλείας νεμηθέντας. ἐπὶ γὰρ τ῅ς ἀρχ῅ς τ῅ς Ἀναξαγόρου τοῦ Ἀργείου τοῦ Μεγαπένθους μανία ταῖς γυναιξὶν ἐνέπεσεν, ἐκφοιτ῵σαι δὲ ἐκ τ῵ν οἰκι῵ν ἐπλαν῵ντο ἀνὰ τὴν χώραν, ἐς ὃ Μελάμπους ὁ Ἀμυθάονος ἔπαυσε σφᾶς τ῅ς νόσου, ἐφ᾽ ᾧ τε α὎τὸς καὶ ὁ ἀδελφὸς Βίας Ἀναξαγόρᾳ τὸ ἴσον ἕξουσιν. ἀπὸ μὲν δὴ Βίαντος βασιλεύουσι πέντε ἄνδρες ἐπὶ γενεὰς τέσσαρας ἐς Κυάνιππον τὸν Αἰγιαλέως, ὄντες Νηλεῖδαι τὰ πρὸς μητρός, ἀπὸ δὲ Μελάμποδος γενεαί τε ἓξ καὶ ἄνδρες ἴσοι μέχρις Ἀμφιλόχου τοῦ Ἀμφιαράου. (7) Apoll. Bibl. i. 9. 11 Ἀμυθάων μὲν οὖν οἰκ῵ν Πύλον Εἰδομένην γαμεῖ τὴν Υέρητος, καὶ γίνονται παῖδες α὎τῶ Βίαςκαὶ Μελάμπους, ὃς ἐπὶ τ῵ν χωρίων διατελ῵ν, οὔσης πρὸ τ῅ς οἰκήσεως α὎τοῦ δρυὸς ἐν ᾗ φωλεὸς ὄφεων ὏π῅ρχεν, ἀποκτεινάντων τ῵ν θεραπόντων τοὺς ὄφεις τὰ μὲν ἑρπετὰ ξύλα συμφορήσας ἔκαυσε, τοὺς δὲ τ῵ν ὄφεων νεοσσοὺς ἔθρεψεν. οἱ δὲ γενόμενοι τέλειοι παραστάντες α὎τῶ κοιμωμένῳ τ῵ν ὤμων ἐξ ἑκατέρου τὰςἀκοὰς ταῖς γλώσσαις ἐξεκάθαιρον. ὁ δὲ ἀναστὰς καὶ γενόμενος περιδεὴς τ῵ν ὏περπετομένων ὀρνέων τὰς φωνὰς συνίει, καὶ παρ’ ἐκείνων μανθάνων προύλεγε τοῖς ἀνθρώποις τὰ μέλλοντα. προσέλαβε δὲ καὶ τὴν διὰ τ῵ν ἱερ῵ν μαντικήν, περὶ δὲ τὸν Ἀλφειὸν συντυχὼν Ἀπόλλωνι τὸ λοιπὸν ἄριστος ἦν μάντις.

(8) Apoll. Bibl. ii. 2. 2

καὶ γίνεται Ἀκρισίῳ μὲν ἐξ Ε὎ρυδίκης τ῅ς Λακεδαίμονος Δανάη, Προίτῳ δὲ ἐκ ΢θενεβοίας Λυσίππη καὶ Ἰφινόη καὶ Ἰφιάνασσα.αὗται δὲ ὡς ἐτελειώθησαν, ἐμάνησαν, ὡς μὲν Ἡσίοδός φησιν, ὅτι τὰς Διονύσου τελετὰς ο὎ κατεδέχοντο, ὡς δὲ Ἀκουσίλαος λέγει, διότι τὸ τ῅ς Ἥρας ξόανον ἐξηυτέλισαν. γενόμεναι δὲ ἐμμανεῖς ἐπλαν῵ντο ἀνὰ τὴν Ἀργείαν ἅπασαν, αὖθις δὲ τὴν Ἀρκαδίαν διελθοῦσαι μετ’ ἀκοσμίας ἁπάσης διὰ τ῅ς

96 ἐρημίας ἐτρόχαζον. Μελάμπους δὲ ὁ Ἀμυθάονος καὶ Εἰδομένης τ῅ς Ἄβαντος, μάντις ὢν καὶ τὴν διὰ φαρμάκων καὶ καθαρμ῵ν θεραπείαν πρ῵τος ε὏ρηκώς, ὏πισχνεῖται θεραπεύειν τὰςπαρθένους, εἰ λάβοι τὸ τρίτον μέρος τ῅ς δυναστείας. ο὎κ ἐπιτρέποντος δὲ Προίτου θεραπεύειν ἐπὶ μισθοῖς τηλικούτοις, ἔτι μᾶλλον ἐμαίνοντο αἱ παρθένοι καὶ προσέτι μετὰ τούτων αἱ λοιπαὶ γυναῖκες· καὶ γὰρ αὗται τὰς οἰκίας ἀπολιποῦσαι τοὺς ἰδίους ἀπώλλυον παῖδας καὶ εἰς τὴν ἐρημίαν ἐφοίτων. προβαινούσης δὲ ἐπὶ πλεῖστον τ῅ς συμφορᾶς, τοὺς αἰτηθέντας μισθοὺς ὁ Προῖτος ἐδίδου. ὁ δὲ ὏πέσχετο θεραπεύειν ὅταν ἕτερον τοσοῦτον τ῅ς γ῅ς ὁ ἀδελφὸς α὎τοῦ λάβῃ Βίας. Προῖτος δὲ ε὎λαβηθεὶς μὴ βραδυνούσης τ῅ς θεραπείας αἰτηθείη καὶ πλεῖον, θεραπεύειν συνεχώρησεν ἐπὶ τούτοις. Μελάμπους δὲ παραλαβὼν τοὺς δυνατωτάτους τ῵ν νεανι῵ν μετ’ ἀλαλαγμοῦ καί τινος ἐνθέου χορείας ἐκτ῵ν ὀρ῵ν α὎τὰς εἰς ΢ικυ῵να συνεδίωξε. κατὰ δὲ τὸν διωγμὸν ἡ πρεσβυτάτη τ῵ν θυγατέρων Ἰφινόη μετήλλαξεν ταῖς δὲ λοιπαῖς τυχούσαις καθαρμ῵ν σωφρον῅σαι συνέβη. καὶ ταύτας μὲν ἐξέδοτο Προῖτος Μελάμποδι καὶ Βίαντι, παῖδα δ’ ὕστερον ἐγέννησε Μεγαπένθην.

La tradizione sembra molto compatta, senza varianti mitiche essenziali. Sappiamo dunque che Melampo non solo divenne re di Argo, addirittura desiderò divenirlo, chiedendo in ricompensa per la cura delle figlie di Preto (o di altre donne argive; questo particolare non compare però in Omero dove si dice solo che era per lui destino regnare ad Argo) una porzione di territorio argivo; e che, dopo un primo rifiuto da parte degli Argivi, avendo questi ultimi richiesti nuovamente i suoi servigî, alzò il compenso, chiedendo una parte del regno anche per il fratello Biante. Il Farnell commenta: «He is the last person in Greek mythology suitable to choose as the type of one who refused to leave his home to take up a better position»228.

Ovviamente, è macroscopica anche la divergenza circa il diverso trattamento, nel mito come raccontato da Pindaro, del dono della divinazione: θέμενος οἰ[ω]νοπόλον γέρας è di solito interpretato „abbandonando la sua prerogativa divinatoria‟, ma il resto della tradizione è concorde nel riferire che egli divenne re proprio grazie all‟esercizio di questa funzione. È ancora il Farnell ad osservare lucidamente:

228

97

«θέμενος...γέρας: generally interpreted as “laying aside his prerogative of divination”. But who asked him to lay it aside?»229

.

Per di più in Nem. ix. 13 Pindaro parla di Anfiarao, che nella tradizione fa parte della discendenza di indovini che aveva avuto Melampo come capostipite (i Melampodidi), come argivo, e quindi, implicitamente, qui Pindaro attinge dal filone che voleva Melampo divenuto re di Argo; e in POxy iii. 426. 12, forse pindarico, leggiamo ]c ἐξ Ἄργευς Μελάμ[πους. Anch‟esso come POxy v. 841 è scritto sul verso d‟un rotolo documentario, da una mano onciale piuttosto andante del iii sec. Il

recto è databile all‟ultima metà del ii sec. Se contenesse veramente un frammento di

Pindaro sarebbe un‟ulteriore conferma che Pindaro conoscesse la versione “tradizionale” del mito, e se ne fosse anche servito. Inoltre, in pae. xiii(c), si potrebbe trovare forse un ulteriore accenno a Melampo: questo secondo lo Zuntz, che però ritiene il frammento non pindarico230.

Varie sono state le ipotesi fatte per spiegare la divergenza pindarica dal resto della tradizione. Conviene iniziare, sinteticamente, dalla discussione di v. 30. Il Diehl annotava: θέμενος i. e. ἀποθέμενος aut ὏πολαβών, cioè „deponendo‟ o „assumendo‟; ma il secondo senso non sembra adatto231. Una possibile analogia per questo significato di τίθεσθαι si può ravvisare nell‟espressione θέσθε τὰ ὅπλα232. Il Farnell, non convinto di questa spiegazione, in quanto l‟espressione significherebbe «to ground arms insign of surrender»233, preferiva pensare a «“having established his prerogative of divination”, which was the reason why they offered him the kingship»234. Personalmente, prendendo spunto da quest‟ultima interpretazione, mi chiedo se questo verso non si possa intendere, θέμενος „avendo stabilito‟ non letteralmente, dando alla frase il senso di “avendo offerto la propria prerogativa

profetica”: Melampo, secondo questa presunta versione “pindarica”, avrebbe una

certa ritrosia ad esercitare la divinazione presso il popolo argivo, depauperando dei beneficî di questa sua prerogativa la propria Pilo.

229 Ibid.

230 Cfr. G. Zuntz, «De Pap. Berol. 13411», Aegyptus xv (1935) pp. 282-296. 231

Cfr. N. R. Hope, A Commentary etc., cit., p. 52 (tutta la questione viene ampiamente trattata alle pp. 51-56, alle quali si rimanda).

232 Cfr. LSJ A10(e) s. v. ηίθημι.

233 L. R. Farnell, The works of Pindar, cit., vol. ii, p. 937. 234

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Torniamo ora ai vv. 28 sg., immediatamente precedenti. M. C. van der Kolf235 credeva che Pindaro avesse rigettato la forma per noi vulgata del mito, e che, al contempo, fosse legittimo credere all‟esistenza di una versione in cui non si facesse menzione di Melampo come re di Argo. Ma Pindaro non avrebbe seguìto quest‟ultima, bensì coscientemente rigettato la prima: «altera fabula ab Argolica [...] aliena est, altera eam refutat». Le parole del poeta significherebbero una censura della forma tradizionale: forse Pindaro trovava in essa che Melampo preferì lasciare Pilo per andare ad Argo, abbandonando il dono fattogli da Apollo; ma questo in un

peana stonava troppo, essendo un canto dedicato proprio ad Apollo. Di qui la

correzione.

I due studiosi che hanno provato ad intendere il dettato pindarico in maniera riconducibile alla vulgata sono l‟Hope ed il Käppel. Il primo propone di intendere in senso condizionale il participio θέμενος, e traduce i vv. 28-30 «But Melampus was unwilling to leave his fatherland and be sole ruler in Argos, if he laid down his gift of divination»236. Il fulcro dell‟ipotesi si poggia su un‟interpretazione stretta del verbo μο[να]ρχε[ῖν] di v. 29: andrebbe inteso come “essere unico regnante”. Sappiamo, in effetti, che Melampo non chiese per sé l‟intero regno di Argo, ma solo una porzione di esso (ed un‟altra per il fratello Biante); Preto ne conservava pur sempre una. «In effect, Melampus made his going to Argos conditional upon his retaining his seership; which indeed happened, for Melampus did go to Argos, and also retained his seership and founded in Argos a line of seer-kings. On this interpretation of lines 28-30, there is no contradiction of the myth of Melampus as we know it from other sources»237. Pindaro avrebbe scelto questa modalità ambigua d‟espressione per esaltare la pietas di Melampo nei confronti di Apollo, patrono dei veggenti e destinatario del Peana, nonché per rafforzare uno motivo che ricorre in tutta l‟ode, e cioè l‟accontentarsi del poco presente piuttosto che andare alla ricerca di beni lontani: si darebbe l‟illusione che Melampo rifuti il potere ad Argo, per non dover abbandonare il dono ricevuto da Apollo. In realtà, come la vulgata mitica ci informa, egli desidera di buon grado condividere il potere; e Pindaro non sembrerebbe contraddire questo: solo, il poeta cambia un poco la prospettiva, omette elegantemente questo dato e pone in evidenza il rifiuto: rifiuto non del potere, ma

235 Cfr. M. C. van der Kolf, Qaeritur quomodo Pindarus fabulas tractaverit quidue in eis mutarit, Diss. Rotterodamensis 1923, pp. 20-23.

236 Cfr. N. R. Hope, A Commentary etc., cit., p. 54 (cfr. anche n. 1). 237

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del potere assoluto, in quanto esso avrebbe significato la perdita della propria prerogativa, dando così la parvenza d‟un Melampo molto pio e contento dei beni già a disposizione.

L‟interpretazione del Käppel238

, vuole invece che si stacchi λιπών (v. 29) dalla precedente negazione, dando ai tre versi questo senso: “Anche Melampo non volle,

dopo aver lasciato la patria, essere unico regnante ad Argo, cosa per cui avrebbe dovuto abbandonare la propria prerogativa divinatoria”. L‟argomento del Coro

farebbe leva non tano su un sentimentale «Heimatliebe», quanto sul sacro terrore da parte di Melampo di offendere Apollo: analogamente, i Cei devono essere contenti del territorio che gli dèi hanno loro assegnato, pena l‟attirarsi la loro collera. Quest‟interpretazione del mito di Melampo sarebbe confermarta da quanto viene poi esplicitato nel discorso di Eussanzio239.

L‟ultima opinione che vorrei riportare è quella del Rutherford: egli crede che sia preferibile pensare che Pindaro abbia attinto da qualche fonte (forse la

Melampodia?) in cui Melampo non partiva per Argo240.

Personalmente, io credo che una riconduzione della sintassi dei vv. 28-30 ad un senso analogo a quello della vulgata implichi qualche forzatura non pienamente accettabile. Preferisco anch‟io ritenere col Rutherford (e con la van der Kolf) che Pindaro si sia rifatto ad un altra versione, funzionale, nel Peana iv, a sostenere la

Nel documento Pindaro, Peana IV. Testo e Commento. (pagine 87-113)

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