amour de soy mesme, espressione che è possibile rintracciare nella riflessione del Traité de l’amour de
I. 5 1 Tra essenza e regolazione
La discussione sui due amori della tradizione, che abbiamo visto occupare le pagine de La Città di Dio e della Summa, veniva abilmente ripresa dai pensatori del XVII secolo. I tempi certamente erano cambiati; tuttavia l’attenzione riservata a quei temi non cessava di spegnersi perché il secolo che andava rivalutando, dopo la pausa medievale, l’ambito delle passioni, non poteva fare a meno di re‐ cuperare quella per eccellenza. E all’interno di un’attenzione così particolare rela‐ tiva all’amore, di diritto entravano quella relativa alla sua essenza, distinzione e possibile, o meno, regolazione. Così da un lato la trattazione moralistica si impe‐ gnava a rivalutare una virtù che necessariamente doveva fare i conti con la visio‐ ne ottimistica dell’amore di sé prospettata da Montaigne e dall’altro le disquisi‐ zioni confessionali opponevano una riflessione che passava per quel particolare amore di Dio, riletto tanto in chiave mistica, quanto del tutto laica. Il che finiva per produrre, di volta in volta, riflessioni da un lato non sempre sistematiche, an‐ che se comunque presenti in ogni pensatore, e dall’altro un’originalità frutto di commistioni profonde che avevano in comune, nella maggior parte dei casi, solo il punto di partenza, Agostino e Tommaso nello specifico, ma che finivano per giungere a ‘traguardi’ insperati e differenti che non avrebbero avuto più nulla a che fare con le riflessioni originarie dalle quali erano partiti. Ci siamo già resi conto di come ne Le Passioni dell’anima Descartes incen‐ trasse un’attenzione maggiore sull’amore, anche se esso finiva poi con l’apparire solo accanto ad altre passioni, sebbene trattato con maggiore considerazione. Ciò che ci lasciava un po’ perplessi era che non avesse trovato, data la sua importan‐ za, una collocazione maggiormente sistematica all’interno della sua produzione; e sostenere che ciò fosse dovuto alla mancanza nel filosofo di una compiuta ri‐ flessione sulla morale non risulta a nostro modesto avviso un argomento esausti‐ vo, specie se ci soffermiamo su cosa Descartes scriveva prima del trattato del 1649, trovandosi a dover rispondere a Chanut riguardo tre specifiche questioni: «1) Che cos’è l’amore; 2) Se il solo lume naturale ci insegna ad amare Dio; 3) Quale dei
due eccessi e cattivi usi è peggiore quello dell’amore o quello dell’odio?»408. Si tratta di
domande che trovano una risposta concreta in una lettera del 1647 in cui è possi‐ bile, probabilmente, rintracciare quella trattazione ‘sistematica’ sull’argomento che andavamo cercando.
La domanda sulla quale maggiormente ci soffermiamo in tal sede è quella sull’essenza dell’amore, perché ad essa Descartes risponde operando quella di‐ stinzione che tanto ci sta a cuore: da un lato esiste un amore puramente intellet‐ tuale o ragionevole e dall’altro quello che è una passione. I nomi, come è facile rendersi conto, cambiano, ma la sostanza rimane pressoché la stessa. Esiste un amore puramente intellettuale che consiste in una sorta di unione dell’anima con qualche bene – presente o assente che sia – e che essa stessa giudica conveniente oppure no attraverso un atto di volontà; si tratta di un tipo di amore inteso come ‘pensiero ragionevole’ che, qualora sia in presenza, assenza o possibilità di acqui‐ sizione di un bene, prova rispettivamente gioia, tristezza e desiderio. Ecco perché Descartes parla in proposito di ‘pensieri ragionevoli’ e non di ‘passioni’, che al contrario potrebbero trovarsi nella nostra anima anche se quest’ultima fosse pri‐ va del corpo. Tuttavia finché una tale unione permane questo tipo di amore si ac‐ compagna ad un altro, sensuale o sensitivo, una sorta di pensiero confuso eccita‐ to nell’anima da qualche movimento dei nervi, che la dispone a quell’altro pen‐ siero più chiaro in cui consiste l’amore ragionevole, il quale può trovarsi in noi anche senza che la nostra volontà si disponga ad amare qualcosa. È nella descri‐ zione di questo secondo tipo di ‘amore‐passione’ che Descartes si avvicina a quel‐ la che poi sarà la trattazione de Le Passioni dell’anima. In realtà sembra trattarsi so‐ lo di una distinzione fittizia, perché appare da subito chiaro come non sia possi‐ bile separare del tutto tali amori: Questi due amori di solito però si trovano uniti; infatti vi è un tale legame tra loro che, quando l’anima giudica un oggetto degno di sé, ciò dispone immediatamente il cuore ai movimenti che eccita‐ no la passione d’amore e, quando il cuore si trova così disposto
per altre cause, ne consegue che l’anima immagini qualità amabili in oggetti nei quali, in altri momenti, vedrebbe solo difetti409.
Non esiste dunque nella riflessione cartesiana una vera e propria distin‐ zione sullo statuto ontologico dell’amore, come in realtà neanche nella riflessione a lui precedente. È vero che si distingue in genere tra differenti tipi di amore, ma non si tratta di una distinzione relativa all’essenza – che poi è l’assunto delle Pas‐ sioni –, ma solo riguardo a soggetti e oggetti. Così da un lato sembra che Descar‐ tes distingua tra un amore ‘finito’, proprio dell’intelletto finito, e uno ‘infinito’, proprio di una volontà infinita. Insomma tra l’amore di sé e l’amore di Dio; dove nel primo caso, siamo di fronte ad un sentimento, una passione e un modo di pensare che rimanendo nell’uomo e soprattutto legato alla propria contingenza, cioè al corpo, si connota come apparentemente negativo, mentre nel secondo, siamo di fronte ad un sentimento, una passione, un modo di pensare che dall’uomo a Dio (ma anche da Dio all’uomo) si muove dall’immanenza all’essenza, dal corpo all’anima, secondo un’ascensione passionale verso la ra‐ gione dalla specificità del tutto positiva. Dall’altro lato invece va tenuto in consi‐ derazione che la distinzione mente‐corpo non dà modo di assolutizzare l’amore in quanto positività oppure negatività, anche se c’è sempre un tipo di amore che va preferito agli altri, quello che avevamo già notato, all’apertura de Le Passioni dell’anima, nell’esempio in cui Descartes si era lasciato sfuggire quel ‘quando vo‐ gliamo amare Dio’. E infatti
quando amiamo Dio, e per lui ci congiungiamo volontariamente con tutte le cose che ha creato, quanto più le concepiamo grandi, nobili, perfette, tanto più stimiamo anche noi stessi, perché siamo parti di un tutto più perfetto; e tanto più abbiamo motivo di loda‐ re Dio per l’immensità della sua opera410.
409 Cfr. ivi, pp. 466‐470. 410 Ivi, p. 481.
La superiorità dell’amore Dio, posta la distinzione tra i due amori, viene per questo a vario titolo rivendicata nel XVII secolo raggiungendo esiti teologico‐ mistici di grande portata. È il caso della riflessione di Francesco di Sales per cui l’amore di Dio è una sorta di figlio della promessa, l’ultimo nato tra le affezioni umane, ma quello che proprio perciò eredita tutto il potere rendendo suo servo l’amor proprio411. Si tratta di una sorta di esistenza polemica nel cuore tra i due
amori, in cui sempre per quanto riguarda l’amore di Dio viene chiarito come l’intelletto e la volontà siano i genitori di un tale ‘re’ che non può vivere senza re‐ gnare e non può farlo se non sopra ogni cosa412. Se intelletto e volontà si uniscono
nell’amore per il Creatore, mentre risultano in un certo senso separati nella pas‐ sione amorosa intesa ‘tradizionalmente’ in un modo che non è quello propria‐ mente indicato dalla riflessione seicentesca, allora la questione circa l’essenza dell’amore e la distinzione in esso risultano maggiormente chiare. Il problema è intendersi, ancora una volta, su quelle questioni della volontà e della scelta di cui a breve ci occuperemo in modo specifico. Dunque differenti, per Francesco di Sa‐ les, saranno le specie di azioni amorose – spirituali, razionali e sensibili413 –, così
come allo stesso modo anche gli amori saranno diversi414, come avviene per le
‘città’, in un richiamo dichiaratamente agostiniano, delle quali ci faranno ‘cittadi‐ ni’:
L’amore di Dio, che ci porta fino al disprezzo di noi stessi, ci fa cit‐ tadini della Gerusalemme celeste; l’amore di noi stessi, che ci spinge fino al disprezzo di Dio, ci rende schiavi della Babilonia in‐ fernale415.
411 «In tal modo, per far vivere e regnare in noi l’amore di Dio, mortifichiamo l’amor proprio, e se non possiamo annientarlo del tutto, almeno lo debilitiamo, cosicché anche se vive in noi, non vi re‐ gna più; al contrario, abbandonando l’amor di Dio, possiamo aderire a quello delle creature, com‐ mettendo l’infame adulterio che lo sposo celeste rimprovera così sovente ai peccatori» (TDAD, I, 4, p. 365).
412 Ivi, I, 6, pp. 368‐369 e C. TALON‐HUGON, Les passions rêvées par la raison, op. cit., p. 63. 413 Cfr. TDAD, I, 10, p. 381.
414 Cfr. ivi, I, 13, pp. 392‐393. 415 Ivi, IV, 4, p. 522.
Nella trattazione moralistica l’accento maggiore viene posto sul tema del‐ le passioni in generale, spesso sull’amore, ma quello relativo all’amore di Dio non risulta preponderante a meno che non si tratti di massime cristiane. Nel pri‐ mo caso, alla maniera di La Rochefoucauld, si tende a sottolineare l’esistenza di una sola specie di amore, anche se dalle mille copie differenti416. Nel secondo, ad
esempio in riferimento alle riflessioni di Margherite Hessein, meglio conosciuta come Mme de la Sablière, siamo di fronte ad una riflessione di questo tipo:
L’amore che Dio ci chiede non è un amore sensibile, ma un amore di preferenza che ci impegna a sacrificare tutte le cose piuttosto che rendergli un dispiacere417.
Il pensiero di Descartes è destinato a gettare un ponte tra la Francia e l’Inghilterra dove la riflessione più rilevante sull’argomento ci viene proposta nelle opere di Norris. La sua distinzione tra amore di benevolenza e amore di de‐ siderio appare per la prima volta in una lettera su Amore e Musica, dove l’amore si configura come una semplice tendenza verso il bene, cioè il desiderio, oppure come il volere del bene per qualcuno, cioè la benevolenza e la carità418.
È tuttavia nel The Theory and Regulation of Love che Norris si preoccupa, dopo averli distinti, di analizzare in modo specifico tali amori. Nel caso dell’amore di desiderio o di concupiscenza si tratta di una semplice tendenza dell’anima verso il bene, un’astrazione fatta dalla persona per la quale un tale bene è desiderato; siamo cioè in presenza di un desiderio naturale, necessario e inevitabile, il cui oggetto primario e adeguato è Dio. Esiste ovviamente anche un’attrazione verso le creature, ma non si tratta, come nel caso di Dio, di una ne‐ cessità; infatti, nonostante i beni particolari ci attirino necessariamente, non siamo determinati a sceglierli effettivamente. Un tale amore di desiderio si può quindi distinguere in relazione ai generi di beni che ricerca e a qualche oggetto comune:
416 Cfr. Mass 74, p. 107.
417 M. HESSEIN (Mme de la Sablière), Maximes chrétiennes, 45, in J. Lafond, Moralistes du XVIIe siècle, op.
cit., p. 67.
allora ci sarà un desiderio conveniente all’anima e uno al corpo e, rispetto alla parte dell’anima che ne è affetta, si parlerà di volontà e di amore; e, ad esempio in riferimento alla bellezza, se essa è primaria e originale avremo un amore divi‐ no, ma se è creata e derivata ci sarà un amore platonico: dunque un amore della bellezza astratta e uno sensibile. Ed è proprio quest’ultima forma di amore che ha usurpato nel mondo il titolo all’amore stesso419.
Il desiderio del bene per qualcuno invece, cioè l’amore di benevolenza, può esprimersi sia come amore di sé, sia come carità, a seconda che il ‘qual‐ cun’altro’ sia uno solo o più di una persona. In quest’ultimo caso la carità si può dividere in una comune, indirizzata a tutti gli uomini, e in una intensamente spe‐ ciale, dedicata solo ad una o due persone al massimo, cioè l’amicizia420.
Se nelle opere precedenti la Regulation Norris distingueva due generi di amore che rimanevano comunque interni all’amore stesso, in quest’opera rappre‐ senta l’amore di desiderio e quello di benevolenza come dei generi di amore re‐ almente distinti l’uno dall’altro: l’amore di desiderio si fonda sull’amore di sé e l’amore di benevolenza comprende tanto quest’ultimo quanto la carità, che può essere assolutamente disinteressata a differenza del primo. Norris precisa che Dio non manca di nulla, quindi non può avere amore di desiderio, ma solo di benevo‐ lenza; tuttavia alla fine della sua trattazione stabilisce pure che ogni desiderio implica benevolenza e che ogni benevolenza implica, a sua volta, un desiderio. L’originalità di una tale riflessione sembra consistere dunque non tanto nella di‐ stinzione tra i due amori, di matrice tomista, ma nell’idea che il bene che è l’oggetto di ogni desiderio non è necessariamente concepito come il bene proprio dell’agente e, in conseguenza di ciò, che esso può avere un amore di benevolenza che non implica alcuna ricerca del bene proprio di colui che ama421.
La seconda parte dell’opera di Norris è dedicata invece alla regolazione dei due amori, di una difficoltà estrema e allo stesso tempo di un’importanza primaria. La difficoltà sembra derivare essenzialmente dai beni particolari e dalla
419 Cfr. TRL, pp. 30‐50. 420 Cfr. ivi, pp. 50‐60.
corruzione della natura; l’importanza consiste nel fatto che da essa dipende la nostra felicità in questo mondo e la salvezza in quello futuro. Dal parallelismo secondo cui come il buono stato del mondo fisico dipende dalle leggi di movi‐ mento che Dio ha stabilito e quello dell’ordine morale dall’osservazione delle leggi morali che governano il nostro amore, Norris deriva che la legge morale deve essere la regola proprio del nostro amore: essa ci prescrive che dobbiamo amare e che siamo liberi di farlo senza peccato422.
Per quanto riguarda la regolamentazione dell’amore di desiderio va stabi‐ lito che esistono tre beni che noi dobbiamo desiderare: Dio (il bene assoluto), il bene della comunità e le cose che hanno una connessione naturale e necessaria con il bene comune. Verso Dio non possiamo avere benevolenza o carità: Egli è anche causa dell’essenza della natura e perciò tutto ciò che possiamo desiderare si trova in lui; tuttavia non dobbiamo solo desiderarlo, ma amarlo al di sopra di tutte le cose. I beni che l’uomo può volere sono invece quelli che non risultano contrari a ciò che noi dobbiamo desiderare. In ciò viene stabilito che il piacere, in generale e come tale, è buono e diventa un male solo se si oppone ad un bene su‐ periore423. Per quanto riguarda invece la regolamentazione dell’amore di benevolen‐ za Norris parte dal constatare che l’amore di sé è il più sregolato di tutti i nostri amori e che sta alla radice di tutti i nostri errori. Le regole in esso, ma anche nella carità e nell’amicizia, devono essere essenzialmente queste: la compatibilità con il bene della comunità, il rapporto con il destino eterno dell’uomo, la verità424. Nel
caso specifico dell’amore di sé è richiesta soprattutto la prudenza, mentre per quanto riguarda l’amicizia Norris ripete quanto già aveva espresso nella lettera relativa all’argomento: la vera amicizia è rara e i veri amici non devono essere i‐ struiti sui doveri dell’amicizia425.
422 Cfr. TRL, pp. 63‐72. 423 Cfr. ivi, pp. 73‐111. 424 Cfr. ivi, pp. 112‐117. 425 Cfr. ivi, pp. 124‐134.
L’opera si conclude con un’invocazione a Dio perché ci permetta di amar‐ lo, ci faccia amare ciò che Egli stesso ama e nello stesso modo426.
La Regulation non sembra dunque un’opera interamente inspirata a Male‐ branche; innanzitutto perché molte delle suggestioni presenti fanno riferimento ad opere precedenti di Norris prima che a quelle di Malebranche e poi perché e‐ siste una differenza sostanziale tra i due. Il primo sostiene infatti che il bene ver‐ so cui si orienta tutta la volontà non è necessariamente quello dell’agente, perché si può desiderare il bene di un altro come tale e allo stesso modo si può avere una carità e una benevolenza disinteressata. Tuttavia poiché niente manca alla bontà di Dio è evidente che Egli non ha creato per amore di sé, ma per benevolenza. Se‐ condo Malebranche invece Dio non può aver creato gli uomini per carità verso di essi, perché ciò significherebbe che abbia un fine che va al di là di se stesso. Va sottolineato però che influenzato da Malebranche anche Norris sosterrà che Dio ha creato il mondo per la sua propria gloria, distaccandosi in ciò dalla tradizione Scolastica nell’ammettere che possa agire per una carità pura e non basata sull’amore di sé. Nell’opera di Norris tuttavia è possibile rintracciare un’evidente contraddizione, perché inizialmente egli fa dell’amore del bene comune una par‐ te dell’amore di desiderio, ma in un secondo momento dell’amore di benevolen‐ za o carità427. Inoltre a partire dal 1693, sostenendo che a Dio solo va riservato
l’amore di desiderio, Norris distinguerà due specie di desideri: in un senso forte si desidera un bene come un fine; in un senso minore quello di cui si vuole fare uso. L’amore di desiderio sarà in assoluto quello riservato al desiderio del fine e in tal senso il riferimento sarà alla distinzione agostiniana tra frui e uti428.
È facile perciò rendersi conto, a partire dalle riflessioni di Descartes e di Norris, come la riformulazione del problema dei due amori conferisca originalità ad una trattazione di per sé tale, perché sospesa di continuo tra tensioni mistico‐ religiose e trattazioni filosofiche a volte perfino completamente laiche. È il pano‐ rama delle cosiddette etiche moderne all’interno del quale la trattazione
426 Cfr. ivi, pp. 142‐143.
427 Cfr. R. ACWORTH, La philosophie de John Norris (1657‐1712), t. I, op. cit., pp. 196‐204. 428 Cfr. ivi, pp. 203‐204.
sull’amore si fa sempre più compiuta, soprattutto in virtù della sfida maggiore che lancia alla gnoseologia del XVII secolo: una rilettura delle passioni nel qua‐ dro della teoria della conoscenza. I. 5. 2. Se l’amore diviene conoscenza L’unica via di scampo per la volontà, almeno seguendo i dettami paolini e agostiniani, è la fuoriuscita dal proprio isolamento nonché la conseguente allean‐ za con l’amore e l’intelligenza; in tal modo la volontà può diventare conoscenza di amore più che amore di conoscenza (cioè filosofia), volontà d’amore più che amore di volontà. Sembra si tratti della produzione di una sorta di trinità tutta umana che rappresenta un’unione fisica e metafisica dell’amore429. Siamo di fron‐ te ad un amore che sembra riuscire a rischiararsi proprio grazie all’intelligenza, dopo essere stato innervato dalla volontà. In tal senso il legame tra la conoscenza e l’amore si fa pressante e centrale: si ama quel che si conosce e si conosce quel che si ama430. L’amore sembra riuscire perfino ad entrare nella costituzione della soggettività; riesce a dare un ‘nome’ all’umano, a renderlo partecipe del proprio sé, a farlo riconoscere come tale e ad istituire, per mezzo di un tale riconoscimen‐ to, il rapporto tra creatura e Creatore. Perché lo slancio di Dio verso l’uomo sem‐ bra non bastare, così come non basta la sua misericordia nei confronti della crea‐ tura. C’è bisogno che l’uomo riempia quel vuoto in cui Dio gli dà l’opportunità di incontrarlo. C’è bisogno di una scelta: della scelta d’amore, in cui il meccanismo della volontà si unisce a quello dell’intelletto per mezzo di una passione che rie‐ sce così a farsi conoscenza. Nella riflessione dei Pensieri di Pascal è possibile rendersi conto di un per‐ corso gnoseologico che si avvale della consapevolezza dell’amore e in particolare di quella di un io che si riconosce come tale in virtù del suo essere amante. È il ri‐