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Tra la pampa e il Sahara con la maschera dell’orientalismo

Abbiamo visto finora come nella scrittura del Facundo Sarmiento avverta l’esigenza di uno stile narrativo «originale», «americano» attraverso cui poter accedere a ciò che rimane nascosto allo sguardo razionale. La pampa, lo spazio della barbarie, non può essere svelata alla ragione pura e semplice, per tradursi invece nei versi melanconici del cantor e nella triste immaginazione del gaucho che, dopo una lunga cavalcata, fissa i suoi occhi sull’orizzonte infinito96. Al discorso scientifico, dunque, si contrappone un

sapere «subalterno» e «marginale» che, nello stesso momento in cui è narrato e tramandato, reclama però una sua legittimità, attivando «il meccanismo di autorizzazione di un lavoro intellettuale alternativo, che enfatizza la sua differenza dal sapere europeo»97. Come suggerisce Julio Ramos, seppur «il

lavoro del povero narratore americano risulterà forse indisciplinato o informe (attributi della barbarie)», la stessa «spontaneità» e immediatezza del discorso sono elementi «necessari per rappresentare il mondo nuovo che il sapere europeo, nonostante i suoi interessi, disconosce». Rappresentare «l’altro sapere – il sapere dell’altro – diviene così decisivo per la restaurazione dell’ordine e del progetto modernizzatore»98. Se è dunque essenziale

«rappresentare ciò che il sapere europeo (o i suoi importatori) disconoscevano»99 o, nelle parole che Josefina Ludmer usa per definire il

genere gauchesco, fare un «uso colto della cultura popolare»100, è tuttavia

94 R. Ortega Peña, E. l. Duhalde, Facundo y la montonera (1968), Ediciones del pensamiento nacional,

Colihue, Buenos Aires, 1999, p. 163. Sul rapporto, più in generare, tra storia e mito all’interno della storiografia argentina rimandiamo a H. González, Restos pampeanos, cit.,

95 Cfr. L. Rozitchner, Perón: entre la sagre y el tiempo. Lo inconciente y la política (1979), Catálogos, Buenos

Aires, 2000, vol. II, pp. 332-333.

96 È questa un’immagine ricorrente nel Facundo. Cfr. ad esempio: D. F. Sarmiento, Facundo, cit., p. 40. 97 Cfr. J. Ramos, Saber del otro, cit., p. 551.

98 Ivi, p. 557 99 Ivi, p. 559.

parimenti necessario inserire ciò che si rappresenta – l’originalità americana – all’interno di un sistema che restituisca ordine a ciò che è per sua stessa natura informe. Ecco che, a quest’altezza, appare nel Facundo un secondo livello di autorizzazione del discorso, che si costituisce attraverso un sistema, altrettanto poliedrico, di citazioni europee e nordamericane101. È l’autorità

dell’Occidente moderno, lo spazio della ragione che si dipana e procede a ordinare e a classificare: «dal particolare al quadro vivente» – si rimanda al metodo enunciato nell’opera di Alexander von Humboldt a cui, come abbiamo visto, Sarmiento e Alberdi si richiamano spesso – per «sottomettere l’eterogeneità della barbarie all’ordine del discorso»102. Il «quadro vivente»

che ordina l’informe materia americana non è altro che lo sguardo occidentale sull’Oriente, qui assunto in termini metaforici, a indicare ciò che del Sud America – e della pampa argentina in particolare – appare sovrapponibile alle steppe asiatiche o ai deserti africani. Uno sguardo – quello orientalista dell’Occidente – che, come indica Edward Said, si fonda «su una distinzione sia ontologica sia epistemologica tra l’Oriente da un lato e l’Occidente dall’altro». Il secondo, a partire da tale distinzione, rappresenta il primo «sottoforma di un lessico e di un discorso sorretti da istituzioni, insegnamenti, immagini, dottrine, e, in certi casi, da burocrazie e politiche coloniali»103.

La prima della lunga serie di citazioni orientaliste del Facundo è quella tratta da Le Rovine di Volney104, riportata nel primo capitolo dedicato, non a

caso, all’«aspetto fisico della Repubblica argentina e ai costumi, abitudini e idee che genera». Scrive Sarmiento:

«Muchas veces, al salir la luna tranquila y resplandeciente por entre las yerbas de la tierra, la he saludado maquinalmente con estas palabras de Volney, en su descripción de las Ruinas: “Le pleine lune à l’Orient s’élevait sur un fond bleuâtre aux Plaines rives de l’Euphrate”. Y, en efecto, hay algo en las soledades argentinas que trae a la memoria las soledades asiáticas; alguna analogía encuentra el espíritu entre la pampa y las llanuras que median entre el Tigris y el Eufrates; algún parentesco en la tropa de carretas solitaria que cruza nuestras soledades para llegar, al fin de una marcha de meses, a Buenos Aires, y la caravana de camellos que se dirige hacia Bagdad o Esmirna»105.

101 Al ruolo della citazione all’interno di Facundo è dedicato il saggio di R. Piglia, Sarmiento the Writer,

in Sarmiento Author of a Nation, University of California Press, Berkley, 1994, pp. 127-144.

102 J. Ramos, Saber del otro, cit., p. 566.

103 E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente (1978), Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 11-12. 104 C. F. Volney, Les Ruines ou méditation sur les révolutions des empires (1791), Slatkine, Paris/Genève,

1979. Cfr. C. Altamirano, El orientalismo y la idea del dispotismo en el Facundo (1994), in C. Altamirano, B. Sarlo, Ensayos argentinos, cit., pp. 83-102, cit., p. 84.

105 D. F. Sarmiento, Facundo, cit., p. 27. Per un riferimento all’orientalismo di Volney cfr. G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Meltemi, Roma, 2004, p. 153.

Come suggerisce sagacemente Halperín Donghi, del libro di Volney a Sarmiento non interessano tanto le conclusioni politiche, quanto piuttosto «qualcosa di apparentemente futile», come «l’immagine di un beduino che fuma la sua pipa, con felice indifferenza, accampato sulle rovine dell’un tempo maestosa Palmira». Se per Volney le rovine di Palmira rappresentano «un simbolo della caducità delle cose umane e specialmente degli Imperi e dei regimi politici», Sarmiento coglie in esse qualcosa di diverso, più reale: «nello sdegno del beduino davanti ai resti di una civiltà morta che non comprende si rivela il conflitto irriducibile tra due modi di vita: quello del sedentario, che prova gusto nel perpetuare il suo ricordo in monumenti di pietra; e quello del nomade, sdegnoso dello sforzo che sfianca il suo rivale sul solco, sdegnoso delle sue glorie così effimere come di quegli sforzi»106.

L’immagine delle rovine di antichi fasti ritornerà a fare da sfondo alla narrazione del viaggio di Sarmiento in Algeria107. Ma non è un caso che la

prima citazione orientalista di Facundo sia associata alle «solitudini» della

pampa. A emergere fin d’ora è il male principale della Repubblica, il male per

così dire originario, che Sarmiento rintraccia nell’estensione spaziale: quelle pianure sconfinate – «le solitudini argentine» – e il deserto che le circonda, con le province isolate l’una dall’altra per l’incapacità di navigare i grandi fiumi108, per l’assenza di strade e reti ferroviarie. Province, soprattutto,

private di un accesso al porto, strumento imprescindibile di comunicazione con l’«Occidente» e le sue merci, tanto culturali che materiali. La citazione orientalista prosegue in modo emblematico, non lasciando dubbi su come le grandi estensioni deserte non possano che generare una forma di società

antisociale, tenuta insieme dal terrore, unico mezzo di governo possibile della pampa:

«Es el capataz un caudillo, como en Asia, el jefe de la caravana: necesítase, para este destino, una voluntad de hierro, un carácter arrojado hasta la

106 T. Halperin Donghi, Facundo y el historicismo romantico, cit., pp. 21-22.

107 Cfr. D. F. Sarmiento, Viajes por Europa, Africa y América (1845-1847), OC. V, pp. 153-180.

108 «Pudiera señalarse, como un rasgo notable de la fisionomía de este país, la aglomeración de ríos

navegables que al este se dan cita de todos los rumbos del horizonte, para reunirse en el Plata […] Pero estos inmensos canales excavados por la solícita mano de la naturalezza, no introducen cambio ninguno en las costumbres nacionales. El hijo de los aventureros españoles que colonizaron el país, detesta la navegación, y se considera como aprisionado en los estrechos límites del bote o de la lancha […] No fue dado a los españoles el istinto de la navegación, que poseen en tal alto grado los sajones del norte. Otro espítiru se necesita que agite esas arterias, en que hoy se estagnan los fluidos vivificantes de una nación. De todos estos ríos que debieran llevar la civilización, el poder y la riqueza, hasta las profundidades más recónditas del continente y hacer de Santa Fe, Entre Ríos, Corrientes, Córdoba, Salta, Tucumán y Juluy, otros tantos pueblos nadando en riquezas y rebosando población y cultura, solo uno hay que es fecundo en beneficios para los que moran en sus riberas: el Plata, que los resume a todos juntos» (D. F. Sarmiento, Facundo, cit., pp. 24-25).

temeridad, para contener la audacia y la turbolencia de los filibusteros de tierra, que ha de gobernar y dominar él solo, en el desemparo del desierto. A la menor señal de insubordinación, el capataz enarbola su chicote de fierro y descarga sobre el insolente, golpes que causan contusiones y heridas; si la resistencia se prolonga, antes de apelar a las pistolas, cuyo auxilio por lo general desdeña, salta del caballo con el formidable cuchillo en mano, y revindica, bien pronto, su autoridad, por la superior destreza con que sabe manejarlo. El que muere en estas ejecuciones del capataz, no deja derecho a ningún reclamo, considerándose legítima la autoridad que lo ha asesinado. Así es como en la vida argentina, empieza a establecerse por estas peculiaridades, el predominio de la fuerza brutal, la preponderancia del más fuerte, la autoridad sin límites y sin debates»109.

A partire dall’associazione tra la citazione di Volney e il richiamo alla «forza brutale» e all’«autorità senza limiti», Carlos Altamirano osserva che il ricorso all’orientalismo, più che mostrare l’alterità tra due mondi, vuole in realtà spiegare il «fantasma del dispotismo»110. Seppure nel sistema di

citazioni costruito nel Facundo Sarmiento non faccia riferimento diretto a Montesquieu, è innegabile la sua presenza, per quanto forse indiretta. D’altro canto a Buenos Aires, come a Montevideo e a Valparaiso, vi è un filo comune di letture di fonti europee che negli anni Quaranta si è ormai abbondantemente consolidato. Già nel suo Fragmento preliminar a lo estudio del

derecho, riferendosi per l’appunto al dispotismo, Alberdi posiziona su una

linea di continuità Aristotele, Montesquieu, Rousseau, Volney, Mosè e Gesù Cristo111. È noto che per Montesquieu una grande estensione territoriale

presuppone «un’autorità dispotica in colui che governa», poiché solo la «paura» può impedire «la negligenza del governatore o del magistrato lontano» e la «legge», per il fatto di essere riposta «nella mente di uno solo», può cambiare «senza posa, come gli accidenti, che si moltiplicano sempre nello Stato, in proporzione alla sua vastità»112. Ma una somiglianza più netta

vi è proprio quando Montesquieu analizza le forme di governo in Asia dove, per la conformazione fisica del territorio, hanno dominato nel tempo i «grandi imperi»:

109 D. F. Sarmiento, ivi, p. 27.

110 C. Altamirano, El orientalismo y la idea del dispotismo en el Facundo, cit., p. 89.

111 «Así, si el despotismo pudiese tener lugar entre nostro, no sería el dispotismo de un hombre, sino el

despotismo de un pueblo; sería la libertad déspota de sí misma: sería la libertad esclava de la libertad. Pero nadie se esclaviza por designio, sino por error. En tal caso, ilustrar la libertad, moralizar la libertad, sería emancipar la libertad» (J. B. Alberdi, Fragmento preliminar al estudio del derecho, cit., p. 38).

112 C.-L. de Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), 2 voll., Bur, Milano, 2004, vol. I, libro

«In Asia, si sono sempre visti grandi imperi; in Europa, non hanno mai potuto sussistere a lungo. Il fatto si è che l’Asia che noi conosciamo ha pianure più ampie, è divisa in zone più grandi dai mari e, siccome si trova più a mezzogiorno, le sorgenti vi si prosciugano più facilmente, le montagne vi sono meno coperte di neve, e i fiumi, meno ingrossati, vi formano barriere meno ragguardevoli.

In Asia, il potere è sempre dispotico. Infatti, se la schiavitù non vi fosse estrema, si produrrebbe subito una divisione che la natura del paese non può tollerare […] regna in Asia uno spirito di servitù che non l’ha mai lasciata; e in tutta la storia di questo paese non è possibile trovare un solo tratto che indichi uno spirito libero: non vi si vedrà che l’eroismo della schiavitù»113.

Altamirano sottolinea come in Facundo il tema del «dispotismo», pur non essendo sempre evidente ed esplicitato, funzioni come schema generale applicabile tanto ai caratteri di Quiroga che all’«ordine che sorse dalle sue vittorie sulla civiltà delle città»: «paura», «timore», «terrore» sono infatti termini continuamente reiterati nel corso della narrazione sarmientina e attraverso il loro esercizio il «male politico che viene dal deserto» continuamente ripetuti, creando attorno a sé altro deserto114. In questo

processo, «l’infermità» degli uomini che abitano il deserto si fa «abitudine» e il male diviene «quasi incurabile»115. A differenza dei selvaggi, i popoli

barbari – formando «di solito piccole nazioni»116 – si organizzano in una

forma per quanto esile di società e danno vita a un «codice di leggi, di usi e pratiche di governo» attraverso cui si «mantiene la morale». Un grado di società che, però, è condannato all’impossibilità di progredire, a quell’immobilismo figurato nell’immagine della pampa infinita, senza orizzonte, «il mare sulla terra». È a questo punto che Sarmiento si sofferma sull’origine economica del dispotismo:

«El progreso está sofocado, porque no puede haber progreso sin la posesión permanente del suelo, sin la ciudad, que es la que desenvuelve la capacidad industrial del hombre e le permite extender sus adquisiciones»117.

113 Ivi, libro XVII, pp. 438-439.

114 C. Altamirano, El orientalismo y la idea del dispotismo en el Facundo, cit., pp. 94-97. 115 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. II, libro XXIII, pp. 772-773.

116 Ivi, Vol. I, libro XVIII, p. 446.

117 D. F. Sarmiento, Facundo, cit., p. 30. Ecco un’altra «analogia orientalista» che riscontriamo con

l’opera di Montesquieu: «Per ricostruire uno Stato così spopolato, invano si aspetterebbero soccorsi dai figli che potrebbero nascere. È troppo tardi, gli uomini, nei loro deserti, sono senza coraggio e senza attività. Con terre bastanti a nutrire un popolo si ha appena di che nutrire una famiglia. Il basso popolo, in quei paesi, non ha nemmeno da spartirsene la miseria, cioè i terreni incolti di cui abbondano. Il clero, il principe, le città, i grandi, alcuni cittadini autorevoli sono divenuti, insensibilmente, padroni di tutta la regione: questa è incolta; ma le famiglie distrutte hanno lasciato loro dei pascoli, e l’uomo che lavora non ha nulla» (Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., vol. II, libro

Senza il possesso della terra, l’uomo rimane un essere naturalmente «antisociale», vaga per la pampa formando le fila degli eserciti di riserva e

vaga ancora, fuggendo anche dall’ultimo mezzo che gli consente di entrare –

vivo o morto non fa differenza – nello spazio della civiltà, dal destino della guerra. Spossessato dal colonialismo prima e dal repubblicanesimo poi, nel suo ininterrotto vagare l’abitante della pampa trascina con sé i pochi residui d’ordine. Ecco come Sarmiento prosegue la sua narrazione:

«Puede levantar la fortuna un soberbio edificio en le desierto; pero el estímulo falta, el ejemplo desaparece, la necesidad de manifestarse con dignidad, que se siente en las ciudades, no se hace sentir allí, en el aislamiento y la soledad. Las privaciones indispensabiles justifican la pereza natural, y la frugalidad en los goces trae, en seguida, todas las exterioridades de la barbarie. La sociedad ha desaparecido completamente; queda sólo la familia feudal, aislada, reconcentrada; y, no habiendo sociedad reunida, toda clase de gobierno se hace imposibile: la municipalidad no existe, la policía no puede ejercerse y la justicia no tiene medios de alcanzar a los delincuentes»118.

Il gaucho, dunque, è barbaro perché non coltiva la terra. Ed è proprio a proposito della pastorizia – che per estensione Sarmiento identifica anche con l’allevamento di bestiame stanziale – che la narrazione fa un salto ai tempi remoti delle prime civiltà, per vestire la maschera di Abramo:

«Ya la vida pastoril nos vuelve, impensadamente, a traer a la imaginación el recuerdo del Asia, cuyas llanuras nos imaginamos siempre cubiertas, aquí y allá, de las tiendas del calmuco, del cosaco o del árabe. La vida primitiva de los pueblos, la vida eminentemente bárbara y estacionaria, la vida de Abraham, que es la del beduino de hoy, asoma en los campos argentinos, aunque modificada por la civilización de un modo extraño [...] En las llanuras argentinas, no existe la tribu nómade: el pastor posee el suelo con títulos de propriedad; está fijo en un punto, que le pertenece; pero, para ocuparlo, ha sido necesario disolver la asociación y derrata las familias sobre una inmensa superficie. Imaginaos una extensión de dos mil leguas cuadradas, cubierta toda de población, pero colocadas las habitaciones a cuatro leguas de distancia, una de otras, a ocho, a veces, a dos, las más cercanas»119.

Pagine più avanti troviamo un’altra citazione orientalista, tratta dalla penna di Victor Hugo. A vestire la maschera dell’oriente questa volta è il

XXVIII, p. 773.

118 D. F. Sarmiento, Facundo, cit., pp. 30-31 119 Ivi, p. 30..

cavallo, narrato da Sarmiento come una sorta di appendice umana, essenziale al gaucho quanto la sua stessa vita. La figura dell’animale – indomito come il suo padrone – attraversa l’intera narrazione del Facundo, quasi a pensare che nelle sue cavalcate sia contenuta una parte del «segreto» della campagna americana:

«El caballo es una parte integrante del argentino de los campos; es para él lo que la corbatta para los que viven en el seno de las ciudades. El año 41, el Chaco, caudillo de los Llanos, emigrò a Chile. – “¿Cómo le va, amigo? Le preguntaba uno –. –¡Cómo me ha de ir – contestò, con el acento del dolor y la melancolía – en Chile y a pie!” – Sólo un gaucho argentino sabe apreciar todas las desgracias y todas las angustias que estas dos frases expresan.

Aquí vuelve a aparecer la vida árabe, tártara. Las siguientes calabra de Victor Hugo parecen escritas en la Pampa: “No podría combatir a pie; no hace sino una sola persona con su caballo. Vive a caballo; trata, compra y vende a caballo; bebe, come, duerme y sueña a caballo”»120.

Nella narrazione sarmientina, dunque, il cavallo può svelare il segreto della pampa perché rappresenta la figura di mediazione che conduce dalla guerra alla pace e di nuovo alla guerra. Con il cavallo il gaucho può dedicarsi alle sue scorribande al largo della campagna per riempire le fila delle

montoneras quando, finita la breve tregua, il conflitto si riaccende con ancor

maggiore brutalità. Da appendice del gaucho – simbolo del suo essere uomo della natura – a mezzo – insieme al pugnale – di quella che Sarmiento considera la più brutale e disumana forma di guerra. Ancora una volta, muovendo dal dettaglio particolare, siamo giunti – attraverso il principio ordinante dell’orientalismo – al «quadro vivente», al centro del sistema: il

caudillismo, maschera americana del dispotismo. Da questo punto di vista,

Feinmann nota che la prima identificazione tra l’americano e l’orientale è di tipo geografico – l’estensione desertica –, per investire subito dopo l’ambito dei costumi – brutalità, rozzezza, ozio, contemplazione –, il modo di vestire121

–, fino ad arrivare alla bandiera: quella «colorata»122, rosso porpora, è il

120 Ivi, p. 58. La citazione di Victor Hugo è tratta da Le Rhin (1845), Nelson, Paris (s.d).

121 «Cada civilización ha tenido su traje, y cada cambio en las ideas, cada revolución en las

instituciones, un cambio en el vestir. Un traje, la civilización romana, otro, la Edad Media; el frac no principia en Europa sino despúes del renacimiento de las ciencias; la moda no la impone al mundo, sino la nación más civilizadas: de frac visten todos los pueblos cristianos, y cunado el sultán de Turquía, Abdul Medjiil, quiere introducir la civilización europea en sus estados, depone el turbante, el caftán y la bombachas, para vestir frac, pantalón y corbata» (D. F. Sarmiento, Facundo, cit., p. 122).

122 «Pero hay algo más, todavía, que revela desde entonces, el espíritu de la fuerza pastora, árabe,

tártara, que va a destruir las ciudades. Los colores argentinos son el celeste y el blanco; el cielo tranparente de un día sereno, y la luz nítida del disco del sol: la paz y la justicia para todos [...] En el seno de la República dal fondo de sus entrañas, se levanta el color colorado y se hace el vestido del soldado, el pabellón del ejército y, últimamente, la cucarda nacional, que, so pensa de la vida, ha de