• Non ci sono risultati.

TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA RESISTENTE ALLA

1 INTRODUZIONE: CARCINOMA PROSTATICO

1.8 TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA RESISTENTE ALLA

1.8.1 Generalità

Con il termine di carcinoma prostatico resistente alla castrazione (Castration Resistant Prostate Cancer, CRPC) si intende un condizione abbastanza eterogenea, caratterizzata da una progressione di malattia a seguito della castrazione (medica o chirurgica), in presenza di livelli di castrazione di testosterone (<0,5 ng/mL). La progressione di malattia a CRPC può essere definita in accordo con i criteri del Prostate Cancer Clinical Trials Working Group 3 (PCWG3)77, mediante il riconoscimento di un trend in rialzo del PSA o il riscontro di una progressione delle lesioni a livello osseo, linfonodale o viscerale. La gran parte dei pazienti al momento della diagnosi di CRPC presenta metastasi, per lo più a livello scheletrico (circa l’84%)78

.

La castrazione ottenuta mediante terapia farmacologica (o, meno modernamente, con un intervento chirurgico) è in grado di indurre un certo grado di risposta nei pazienti con malattia metastatica per un tempo mediano di 14-30 mesi79. Nonostante risponda all’ormonoterapia in questa prima fase, la maggior parte dei soggetti successivamente mostra una progressione di malattia, entrando perciò in una fase successiva della storia tumorale e richiedendo in genere una modifica della terapia. L’evoluzione verso la resistenza alla castrazione è accompagnata

38

da un peggioramento della prognosi (la sopravvivenza dei pazienti con CRPC metastatico si aggira intorno ai 14 mesi78) e della qualità della vita (connesso con l’insorgenza di dolore osseo ed eventuali eventi scheletrici, quali fratture, cedimenti vertebrali e compressione midollare78).

Sono stati proposti numerosi meccanismi molecolari per spiegare l’evoluzione della malattia. Un evento critico alla base della resistenza alla castrazione è sicuramente l’iperespressione del recettore androgenico, che conduce ad una sua attivazione a dispetto dei bassi livelli di testosterone circolanti; inoltre, l’insorgenza di mutazioni può ridurre la specificità recettoriale, permettendo la trasmissione del segnale a seguito del legame con ligandi differenti dagli androgeni80. A dispetto dei bassi livelli plasmatici di androgeni, la concentrazione intratumorale di testosterone potrebbe mantenersi su valori più elevati, sufficienti a stimolare la crescita neoplastica: le cellule tumorali potrebbero acquisire meccanismi atti ad accumulare androgeni, grazie al sequestro della Sex Hormone Binding Globulin e alla disregolazione di enzimi deputati alla biosintesi e al metabolismo ormonale81. Altre ipotesi chiamano in causa la mutazione a carico del gene oncosoppressore PTEN (Phosphatase and tensin homolog) codificante per una fosfatasi implicata nella regolazione del ciclo cellulare, la downregulation dell’attività immunitaria e l’aumento dei processi di angiogenesi tumorale80

.

In passato, era solito riferirsi alle due fasi della malattia con i termini di tumore ormonosensibile e ormonorefrattario, descrivendo la risposta al trattamento farmacologico; nell’ultima decade tale terminologia è stata progressivamente abbandonata, non essendo in grado di riflettere i meccanismi alla base della progressione tumorale79. Oggi è consigliabile distinguere le due fasi sulla base della sensibilità o resistenza alla castrazione: è stato infatti ampiamente dimostrato come anche nel CRPC permanga comunque un certo livello di

39

ormonosensibilità delle cellule neoplastiche, in quanto una parte consistente dei pazienti risponde a terapie ormonali di seconda e terza linea82.

1.8.2 Chemioterapia

Fino ai primi anni 2000, i pazienti con CRPC metastatico erano trattati mediante l’associazione tra il Mitoxantrone (con schedula trisettimanale) e il prednisone: tale combinazione si dimostrava capace di determinare un miglioramento globale nella qualità della vita (con particolare attenzione al controllo del dolore e dell’insonnia)83

, ma nessun beneficio in termini di sopravvivenza, rivelandosi dunque come un mero trattamento palliativo84.

L’utilizzo del Docetaxel ha consentito di ottenere buoni risultati dal punto di vista dell’OS in questi pazienti; tale chemioterapico fa parte della famiglia dei taxani, farmaci in grado di arrestare la mitosi, alterare processi cellulari (quali motilità, trasporto, trasduzione del segnale) e indurre l’apoptosi, grazie alla loro capacità di stimolare la polimerizzazione della tubulina, inibendone la disaggregazione.

Nel 2004, un ampio studio randomizzato di fase 3 (TAX 327) ha reclutato 1006 pazienti affetti da carcinoma prostatico con evidenza clinica o radiologica di metastasi, andati incontro a progressione (indicata dal rialzo del PSA in tre misurazioni consecutive o progressione di malattia riscontrata agli esami strumentali) durante l’ADT. I pazienti sono stati poi randomizzati a ricevere il Docetaxel (in schedula trisettimanale al dosaggio di 75 mg/m2 o settimanale al dosaggio di 30 mg/m2) o il Mitoxantrone (al dosaggio di 12 mg/m2 ogni 21 giorni); tutti i soggetti hanno ricevuto 5 mg di Prednisone due volte al giorno. Ad un follow up mediano di 20,8 mesi, la sopravvivenza mediana è risultata di 18,9 mesi nel gruppo di trattati con Docetaxel trisettimanale, 17,4 mesi per coloro che avevano ricevuto la schedula

40

settimanale di Docetaxel e 16,5 mesi in chi aveva ricevuto la terapia standard, ovvero il Mitoxantrone (Figura 3)85. Inoltre, i pazienti che avevano ricevuto il Docetaxel hanno mostrato risultati migliori anche in termini di controllo del dolore, riduzione del PSA di almeno il 50% e risposta tumorale. L’incidenza di neutropenia di grado 3-4 è stata relativamente bassa (con casi rari di neutropenia febbrile) e la maggior parte degli eventi avversi (fatigue, alopecia, diarrea, nausea, vomito, neuropatia sensoriale) ha interessato i pazienti nel gruppo del Docetaxel, senza grosse differenze tra schedula settimanale e trisettimanale; il gruppo di pazienti riceventi il Mitoxantrone ha sperimentato un maggior numero di eventi cardiovascolari. La percentuale di pazienti che ha riferito un miglioramento nella qualità della vita è stata nettamente più alta nel gruppo di pazienti trattati con Docetaxel (22-23% a seconda della schedula vs il 13% del gruppo Mitoxantrone)85. In conclusione, il trattamento trisettimanale con Docetaxel si è dimostrato il più efficace e il più attivo in prima

linea nel CRPC metastatico, potendo determinare un prolungamento dell’OS e un

miglioramento nel controllo del dolore e nella qualità della vita rispetto alla “vecchia” terapia a base di Mitoxantrone. Nei pazienti fragili, con comorbidità multiple e verosimilmente non in grado di tollerare il regime trisettimanale, può essere preso in considerazione un dosaggio inferiore (50 mg/m2 ogni 2 settimane), gravato da una minor incidenza di reazioni avverse di grado 3-4 (soprattutto leucopenia, neutropenia e infezioni a essa correlate) e con un tempo al fallimento della terapia (Time To Treatment Failure, TTTF) significativamente più lungo rispetto alla schedula trisettimanale86 (che resta ad ogni modo lo standard per la maggior parte dei soggetti, soprattutto nei casi in cui si abbia come obiettivo principale un maggior prolungamento della sopravvivenza).

In caso di progressione dopo il trattamento con Docetaxel, fino a meno di dieci anni fa si tendeva a somministrare il Mitoxantrone, in virtù del suo impatto positivo sulla qualità della vita. Dal 2010 è invece disponibile il Cabazitaxel, facente anch’esso parte della famiglia dei

41

taxani. Tale chemioterapico è un taxano semisintetico, che agisce con un meccanismo d’azione simile a Docetaxel e Paclitaxel, ovvero stimolando la polimerizzazione dei microtubuli e inibendone la depolimerizzazione, determinando in tal modo un arresto del ciclo cellulare. Tuttavia, a differenza dei suoi predecessori, il Cabazitaxel presenta una minor affinità per la pompa di efflusso glicoproteina P di membrana (grazie all’aggiunta di gruppi metili alle catene laterali) e una conseguente maggior capacità di attraversare la barriera ematoencefalica87, con evidente attività nelle popolazioni neoplastiche resistenti al Docetaxel. Lo studio TROPIC, uno studio multicentrico di fase 3, ha arruolato 755 uomini con CRPC metastatico andato incontro a progressione dopo la somministrazione di Docetaxel; i pazienti sono stati randomizzati a ricevere Cabazitaxel alla dose di 25 mg/m2 ogni 21 giorni o Mitoxantrone al dosaggio di 12 mg/m2 (tutti hanno ricevuto somministrazioni giornaliere di Prednisone 10 mg). Con un follow up mediano di 12,8 mesi per entrambi i gruppi, la OS mediana è stata di 15,1 mesi per il braccio trattato con Cabazitaxel e 12,7 mesi per i pazienti trattati con Mitoxantrone, con una riduzione nel primo gruppo del rischio relativo di mortalità del 30%88. Parimenti all’OS, anche la valutazione degli altri endpoint ha evidenziato un vantaggio per il Cabazitaxel (prolungamento della sopravvivenza libera da progressione, del tempo alla progressione tumorale e alla progressione del PSA). In termini di controllo del dolore e tempo alla progressione del dolore non si sono invece osservate differenze significative tra i due trattamenti. La tossicità più comune del Cabazitaxel è stata quella ematologica (l’82% dei pazienti ha sviluppato nel corso del trattamento una neutropenia di grado≥3, risultata inoltre la causa più frequente di morte in tale gruppo a causa delle conseguenti infezioni), mentre le altre reazioni avverse severe (diarrea, fatigue, emesi di grado 3) sono state relativamente poco frequenti in entrambi i gruppi. A causa di queste rilevanti tossicità, la decisione di intraprendere un trattamento con Cabazitaxel deve accompagnarsi a un attento monitoraggio del paziente, con eventuali aggiustamento della dose e profilassi con

42

fattori stimolanti le colonie di granulociti; a fronte di questi provvedimenti, questo farmaco può garantire un netto vantaggio in termini di OS, trovando così spazio in seconda linea, soprattutto in quei pazienti che hanno mostrato scarsi risultati con la somministrazione del Docetaxel, andando incontro a progressione durante o entro 3 mesi dalla fine del trattamento88 (questi dati confermano l’attività antitumorale dimostrata dal Cabazitaxel nei tumori refrattari al Docetaxel in fase preclinica). Nei pazienti più fragili l’impiego di un dosaggio inferiore (20 mg/m2 ogni 21 giorni anziché 25 mg/m2) consente di ottenere lo stesso risultato per ciò che concerne la sopravvivenza con un netta riduzione delle tossicità. Uno studio di non-inferiorità (PROSELICA) non ha evidenziato differenze significative di OS tra i due dosaggi, mentre l’incidenza di reazioni avverse di grado 3-4 è risultata considerevolmente inferiore nei pazienti trattati con la dose più bassa89; alla luce di questi risultati, oggi si tende a utilizzare in genere il dosaggio da 20 mg/m2.

1.8.3 Abiraterone acetato

L’Abiraterone Acetato trova oggi indicazione nel CRPC metastatico sia nei pazienti chemio- naive, non precedentemente trattati con Docetaxel, che dopo progressione di malattia al trattamento con tale chemioterapico.

Lo studio COU-AA 302 è un trial clinico di fase 3, condotto in doppio cieco, che ha valutato l’efficacia e l’attività del trattamento con Abiraterone Acetato nei pazienti chemio-naive. Sono stati reclutati 1008 soggetti con CRPC metastatico in progressione (biochimica o radiologica sulle lesioni scheletriche o sui tessuti molli), in assenza di sintomi o con sintomi lievi; un altro criterio di esclusione è stato la presenza di metastasi viscerali. I 1008 pazienti sono stati randomizzati a ricevere Abiraterone (al dosaggio di 1000 mg/die, in 4 somministrazioni da 250 mg) combinato a Prednisone (5 mg per due volte al giorno) oppure

43

Prednisone associato a 4 compresse di placebo. Il follow up mediano per entrambi i gruppi è stato 22,2 mesi; gli endpoints primari sono stati la sopravvivenza libera da progressione radiologica (Radiographic Progression-free Survival, rPFS) e l’OS. L’Abiraterone si è rivelato in grado di determinare una riduzione del rischio di progressione radiologica del 57%, con una rPFS di 16,5 mesi (nel braccio del placebo è stata di 8,3 mesi), e una riduzione del rischio di morte del 25% (l’impatto positivo sull’OS è stato evidente in tutti i sottogruppi di pazienti, con Hazard Ratio di mortalità sempre inferiori a 1; Figura 4)90. I dati conclusivi relativi all’OS sono stati disponibili pochi anni dopo: a seguito di un follow up mediano di 49 mesi, l’OS è risultata di 34,7 mesi nei pazienti trattati con Abiraterone (contro i 30,3 mesi dell’altro braccio)91. Anche la valutazione degli endpoint secondari ha messo in evidenza un chiaro vantaggio nel trattamento con Abiraterone: prolungamento dell’intervallo di tempo prima di iniziare la chemioterapia, prima della progressione del PSA e tempo al declino dell’ECOG (Eastern Cooperative Oncology Group) performance status di almeno un punto; il tempo mediano alla progressione del dolore è stato di 8 mesi maggiore nel braccio dell’Abiraterone (con un ritardo dell’inizio della terapia con oppiodi), accompagnandosi inoltre ad una miglior risposta tumorale, con un maggior numero di pazienti con malattia stabile o in risposta definita secondo i criteri RECIST (Response Evaluation Criteria In Solid Tumours)90. Fra gli eventi avversi più comuni nei pazienti trattati con l’ormonoterapico si annoverano fatigue, artralgia ed edema periferico; reazioni di grado 3-4 sono state riportate nel 48% dei pazienti trattati e nel 42% del braccio placebo. Tossicità epatica di grado 3-4 è stata osservata nell’8% dei soggetti che hanno assunto Abiraterone (senza alcun decesso ad essa correlato), mentre le reazioni avverse dovute all’aumento dei mineralcorticoidi (quali ipertensione arteriosa, ipokaliemia ed edemi), sebbene più frequenti nel gruppo dei trattati, sono state perlopiù di grado 1-2. In ragione degli evidenti risultati positivi e del rassicurante profilo di tossicità, oggi l’Abiraterone può trovare impiego già in prima linea nel CRPC metastatico, soprattutto in

44

pazienti asintomatici o paucisintomatici, con progressione di malattia a livello scheletrico (senza secondarismi viscerali), non pretrattati con Docetaxel e nei quali si preferisca differire l’utlizzo della chemioterapia90

.

Prima ancora di essere impiegato nei pazienti chemio-naive, l’Abiraterone è stato testato sui pazienti con CRPC metastatico in seconda linea, a seguito di progressione dopo somministrazione di Docetaxel. Nel 2011 sono stati pubblicati i dati relativi allo studio COU- AA 301, anch’esso di fase 3 e condotto in doppio cieco; i pazienti arruolati sono 1195, tutti pretrattati con Docetaxel e con progressione di malattia (due rialzi consecutivi del PSA al di sopra di una valore di riferimento o progressione radiologica di lesioni ossee o nei tessuti molli). Il totale dei soggetti è stato randomizzato 2:1 a ricevere Abiraterone (anche in questo caso 1000 mg/die in 4 somministrazioni) associato a Prednisone oppure 4 compresse di placebo combinate a Prednisone. Ad un follow up mediano di 12,8 mesi, nei pazienti trattati con Abiraterone è stata osservata una riduzione del rischio relativo di morte del 35%, con un’OS mediana di 14,8 mesi (contro i 10,8 mesi del gruppo placebo); è stato inoltre rilevato un vantaggio per ciò che riguarda il tasso di risposta del PSA, la risposta tumorale secondo i criteri RECIST, il tempo alla progressione del PSA e sopravvivenza libera da progressione radiologica92 (Figura 5). L’analisi finale nell’anno successivo ha confermato questi risultati: a un follow up di 20,2 mesi, l’OS mediana per i pazienti trattati è stata di 15,8 mesi (contro gli 11,2 mesi dei pazienti riceventi il placebo), con una riduzione del rischio relativo di morte del 26%93. Il rischio di progressione di malattia sulla base delle concentrazioni del PSA è stato ridotto del 42%, mentre in quello di progressione radiologica è stato osservato un decremento del 33%. Tra gli eventi avversi, fatigue, nausea, artralgia e dolore osseo hanno avuto incidenza simile nei due gruppi; le tossicità cardiaca, epatica e quella specificatamente correlata con il rialzo dei mineralcorticoidi sono risultate più frequenti nel gruppo Abiraterone, senza tuttavia differenze significative in termini di eventi cardiaci fatali92. Tali

45

dati dimostrano la persistente ormonosensibilità del tumore prostatico ai seppur bassi livelli di testosterone circolante (<50 ng/dl) in fase di resistenza alla castrazione: l’impiego dell’Abiraterone consentirebbe di ridurre ulteriormente questi valori fino a 1-2 ng/dl, ottenendo una risposta in un buon numero di pazienti andati incontro a progressione dopo chemioterapia con Docetaxel e mantenendo un livello di tossicità accettabile.

1.8.4 Enzalutamide

L’Enzalutamide è un antiandrogeno non steroideo di ultima generazione, in grado di legare il recettore androgenico con maggiore affinità rispetto ai farmaci di prima generazione (come la Bicalutamide). Oltre alla capacità di inibire in modo competitivo il legame del diidrotestosterone (DHT) con il recettore, questo farmaco è in grado di impedire la traslocazione nucleare del complesso recettore-DHT e il successivo legame al DNA: tale complesso meccanismo d’azione lo distingue dagli antiandrogeni precedenti e consente di mantenere attività antitumorale anche in caso di amplificazione genica e sovraespressione recettoriale94 (fenomeni spesso alla base della resistenza alla castrazione).

Similmente ad altri studi di fase III precedentemente citati, anche il PREVAIL ha assunto come endpoint coprimari l’OS e la rPFS, valutando l’uso di Enzalutamide in soggetti chemio-naive; i pazienti reclutati sono stati 1717, provenienti da diversi Paesi. I criteri d’inclusione prevedevano la presenza di un CRPC metastatico, con progressione del PSA o progressione radiologica di malattia su scheletro e/o tessuti molli e livelli di castrazione di testosterone (<50 ng/dL); inoltre, i soggetti dovevano essere asintomatici o paucisintomatici e non dovevano esser stati pretrattati con chemioterapia, Ketoconazolo o Abiraterone. Il totale dei pazienti è stato randomizzato a ricevere Enzalutamide (160 mg in singola compressa giornaliera) o placebo: ad un follow up mediano di 12 mesi il tasso di rPFS nei soggetti trattati

46

con Enzalutamide è risultato del 65% (14% nel gruppo placebo), con una riduzione dell’81% del rischio di progressione radiologica. L’analisi ad interim dell’OS pianificata ad un follow

up mediano di 22 mesi ha evidenziato una riduzione del rischio relativo di morte del 29%, con

un’OS mediana di 32,4 mesi (Figura 6)95

. La valutazione conclusiva dopo ulteriori 9 mesi di

follow up ha confermato questi risultati, con un’OS mediana di 35,3 mesi (a fronte dei 31,3

mesi del gruppo placebo)96. La superiorità dell’Enzalutamide sul placebo si è mantenuta anche in relazione agli endpoint secondari, come il tempo all’inizio della terapia citotossica, il rischio di eventi scheletrici, tempo al declino della qualità della vita, incidenza di risposte complete e parziali e riduzione di almeno del 50% del valore del PSA. Le reazioni avverse più comuni nei pazienti trattati con Enzalutamide sono state fatigue, artralgie, dolore lombare, ipertensione arteriosa (solo un paziente ha sviluppato crisi comiziali e nessuno ha accusato tossicità epatica); tuttavia, ben pochi pazienti hanno avuto eventi avversi di grado≥395. L’Enzalutamide si configura così come un valido strumento terapeutico in prima linea nei pazienti chemio-naive metastatici resistenti alla castrazione e con sintomi blandi o assenti; l’assenza di importanti effetti avversi cardiologici e la possibilità di evitare la concomitante somministrazione di corticosteroidi può farne preferire l’utilizzo al posto dell’Abiraterone nei pazienti con comorbidità cardiovascolari o diabete mellito.

Come per l’Abiraterone, anche per l’Enzalutamide gli studi che ne hanno testato l’utilizzo in

seconda linea dopo il fallimento della chemioterapia hanno preceduto quelli relativi

all’impiego in fase pre-Docetaxel. In particolare, un ampio studio di fase III (AFFIRM), pubblicato nel 2012, ha randomizzato con schema 2:1 1199 soggetti affetti da CRPC metastatico in progressione già sottoposti a chemioterapia con Docetaxel a ricevere Enzalutamide (800 pazienti hanno ricevuto una dose giornaliera di 160 mg) o il placebo (i restanti 399). L’analisi ad interim ad un follow up mediano di di 14,4 mesi ha messo in risalto la superiorità dell’Enzalutamide, con un’OS mediana di 18,4 mesi (contro i 13,6 mesi del

47

placebo) e una riduzione del rischio di morte del 37% (Figura 7)97; tali risultati si sono osservati anche nei vari sottogruppi a seguito di una distinzione dei pazienti sulla base di età, regione geografica, tipo e numero di trattamenti ricevuti in precedenza, tipo di progressione, numero di lesioni ossee e presenza di metastasi viscerali. Gli endpoint secondari hanno confermato il vantaggio del trattamento con Enzalutamide: i tassi risposta del PSA e di risposta di malattia localizzata nei tessuti molli sono stati assolutamente superiori rispetto al placebo; il tempo alla progressione del PSA e la rPFS sono stati nettamente più durevoli nel gruppo di soggetti trattati. Le tossicità più frequentemente riscontrate con la somministrazione di Enzalutamide sono state fatigue, diarrea, cefalea, hot flashes e dolore muscoloscheletrico; disordini cardiaci sono stati rilevati nel 6% dei pazienti trattati e nell’8% del braccio placebo, mentre la tossicità epatica di grado≥3 è stata riscontrata in meno dell’1% dei pazienti riceventi l’ormonoterapico. Le crisi comiziali, osservate nello 0,6% del gruppo dei trattati, sono state spesso ricondotte a eventuali fattori predisponenti, quali la presenza di metastasi cerebrali97. I buoni risultati ottenuti in termini di OS hanno confermato l’importanza dell’ormonoterapia nella fase di resistenza alla castrazione, evidentemente non più equiparabile a una banale ormonorefrattarietà; a differenza di Bicalutamide e Flutamide, l’Enzalutamide è priva di attività agonista e come tale sarebbe in grado di rallentare la progressione di malattia a dispetto dei bassi livelli di androgeni circolanti. Le convulsioni (nonostante la bassa incidenza rilevata negli studi di fase III) rimangono un rilevante problema per l’utilizzo di tale farmaco, somministrato con molta cautela in pazienti con storia di epilessia o di alcolismo o con fattori predisponenti quali stroke, metastasi encefaliche e danni cerebrali97.

48

1.8.5 Terapia radiometabolica

Nei primi anni ’90 diversi radiofarmaci beta emittenti sono stati impiegati nel trattamento specifico delle metastasi ossee da carcinoma prostatico: sia il Samario-153 che lo Stronzio-89 si sono però rivelati come dei farmaci utilizzabili a scopo unicamente palliativo, non essendo in grado di determinare alcun prolungamento della sopravvivenza. I trial clinici effettuati hanno inoltre messo in risalto una importante mielotossicità per entrambi i radionuclidi, tra cui anemia, leucopenia e trombocitopenia98,99.

Negli ultimi anni è stato invece testato nei pazienti con secondarismi ossei un radiofarmaco emittente particelle alfa a corto raggio d’azione: il Radium-223 si è rivelato capace di prolungare la sopravvivenza globale e ritardare il primo evento scheletrico; le caratteristiche fisico-nucleari del nuclide hanno inoltre permesso di ridurre notevolmente la tossicità midollare e i danni sui tessuti sani100. Lo studio di fase III ALSYMPCA ( Alpharadin in Symptomatic Prostate Cancer Patients) ha arruolato 921 soggetti affetti da CRPC con almeno due lesioni secondarie scheletriche e in assenza di metastasi viscerali, non più responsivi al

Documenti correlati