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Sequenze terapeutiche nel trattamento medico del carcinoma prostatico resistente alla castrazione

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Academic year: 2021

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Università degli studi di Pisa

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia Tesi di Laurea

Sequenze terapeutiche nel trattamento medico del carcinoma

prostatico resistente alla castrazione

Relatore

Prof. Alfredo Falcone

Correlatore

Dott. Luca Galli

Candidato

Enrico Sammarco

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Indice

Indice ... 1

RIASSUNTO ... 4

1 INTRODUZIONE: CARCINOMA PROSTATICO ... 9

1.1 GENERALITA’ ... 9 1.2 FATTORI DI RISCHIO ... 10 1.3 ANATOMIA PATOLOGICA ... 11 1.3.1 Sede primitiva ... 11 1.3.2 Classificazione istologica ... 12 1.3.3 Grading ... 13 1.3.4 Diffusione ... 14 1.4 SCREENING ... 15 1.5 DIAGNOSI ... 18 1.5.1 Esplorazione digitorettale ... 18

1.5.2 Dosaggio del PSA ... 18

1.5.3 PCA3 ... 20 1.5.4 Ecografia transrettale ... 21 1.5.5 Risonanza magnetica ... 21 1.5.6 Agobiopsia prostatica ... 23 1.6 STADIAZIONE ... 23 1.6.1 Generalità... 23 1.6.2 Esplorazione digitorettale ... 24 1.6.3 Ecografia transrettale ... 25 1.6.4 Risonanza magnetica ... 25 1.6.5 Tomografia computerizzata ... 26 1.6.6 Scintigrafia ossea ... 26

1.6.7 Tomografia ad emissione di positroni (PET) ... 27

1.6.8 Linfadenectomia ... 28

1.7 TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA SENSIBILE ALLA CASTRAZIONE ... 29

1.7.1 Generalità... 29

1.7.2 Analoghi dell’LHRH ... 29

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1.7.4 Abiraterone acetato ... 35

1.8 TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA RESISTENTE ALLA CASTRAZIONE ... 37 1.8.1 Generalità... 37 1.8.2 Chemioterapia ... 39 1.8.3 Abiraterone acetato ... 42 1.8.4 Enzalutamide ... 45 1.8.5 Terapia radiometabolica ... 48

2 ANALISI RETROSPETTIVA DI ATTIVITA’ ED EFFICACIA DI DUE ALTERNATIVE SEQUENZE TERAPEUTICHE NEL CARCINOMA PROSTATICO RESISTENTE ALLA CASTRAZIONE ... 49

2.1 BACKGROUND E RAZIONALE DELLO STUDIO ... 49

2.2 MATERIALI E METODI ... 54

2.2.1 Criteri di selezione dei pazienti e trattamenti ... 54

2.2.2 Obiettivi ed endpoint dello studio ... 56

2.2.3 Disegno dello studio e considerazioni statistiche ... 57

2.3 RISULTATI ... 58

2.3.1 Caratteristiche dei pazienti alla diagnosi del carcinoma prostatico ... 58

2.3.2 Sequenze farmacologiche ... 59

2.3.3 Caratteristiche basali dei pazienti alla prima linea per carcinoma prostatico resistente alla castrazione ... 60

2.3.4 Time To Progression ... 62

2.3.5 Overall Survival ... 62

2.3.6 Objective Response Rate ... 63

2.3.7 AR-V7 ... 63 2.3.8 Eventi avversi ... 64 2.4 DISCUSSIONE ... 65 2.5 CONCLUSIONI ... 71 TABELLE ... 73 FIGURE ... 80 BIBLIOGRAFIA ... 90

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RIASSUNTO

Il carcinoma prostatico è la neoplasia più frequentemente diagnosticata nel sesso maschile e risulta essere la terza causa di morte per tumore nel maschio; la malattia metastatica può essere distinta sostanzialmente in due fasi, una di sensibilità e una di resistenza alla castrazione (chirurgica o, più modernamente, farmacologica).

Nell’ultima decade sono stati progressivamente sviluppati diversi farmaci dimostratisi in grado di prolungare la sopravvivenza di questi pazienti; tra i vari, si annoverano due taxani (Docetaxel e Cabazitaxel), due ormonoterapici di nuova generazione (Abiraterone ed Enzalutamide) e un radiofarmaco emittente particelle alfa (Radium-223).

Nonostante l’ampia disponibilità di nuovi agenti terapeutici, non esiste attualmente alcun fattore in grado di predire la risposta a un determinato farmaco; come tale, non è possibile stabilire se un paziente risponderà o meno e soprattutto non vi sono studi prospettici validati che dimostrino la superiorità dell’utilizzo di una determinata sequenza di farmaci anziché un’altra in un determinato gruppo di pazienti.

Il presente studio si pone come obiettivo valutare retrospettivamente l’esistenza di eventuali differenze in termini di attività, efficacia e tollerabilità tra due alternative sequenze farmacologiche.

Sono stati raccolti retrospettivamente i dati anagrafici, clinico-patologici, biochimici e radiologici di 62 pazienti trattati presso il Polo Oncologico dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana per carcinoma prostatico resistente alla castrazione (Castration Resistant Prostate Cancer, CRPC) con almeno due farmaci life-prolonging.

Le sequenze farmacologiche più largamente impiegate nella popolazione di pazienti includono un chemioterapico (Docetaxel) e uno tra i nuovi ormonoterapici (Abiraterone ed

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Enzalutamide, noti anche come ARTA, Androgen Receptor-Targeted Agents). Sono stati individuati due gruppi significativi di pazienti: nel primo, denominato CT-OT e in grado di contare 33 soggetti, la prima linea di trattamento è stata un regime chemioterapico con Docetaxel, mentre in seconda linea è stato loro somministrato uno tra Abiraterone ed Enzalutamide; nel secondo gruppo, denominato OT-CT e totalizzante 14 pazienti, è stata invece impiegata la sequenza speculare (ovvero un ARTA in prima linea e Docetaxel in seconda).

Gli endpoint misurati sono stati: sopravvivenza globale (Overall Survival, OS), tempo alla progressione dall’inizio della prima linea (Time To Progression, TTP1), tempo alla progressione dall’inizio della seconda linea (TTP2), tempo alla progressione complessivo (TT2P, ovvero l’intervallo tra l’inizio della prima linea e la progressione alla seconda), tasso di risposte obiettive (Objective Response Rate, ORR, ovvero la proporzione di pazienti che ha avuto una risposta parziale o completa, definite in accordo con i criteri RECIST, Response Evaluation Criteria In Solid Tumors versione 1.1). Sono state inoltre rilevate le tossicità sviluppate dai pazienti nel corso dei trattamenti, definendole secondo i criteri CTCAE (Common Terminology Criteria for Adverse Events) versione 4.03.

Nei pazienti della sequenza OT-CT è stato riportato un valore mediano dell’OS pari a 31 mesi (95% CI 25,43-36, 57), mentre i soggetti della sequenza opposta si sono assestati su valori mediani di 22 mesi (95% CI 8,28-35,72): tale dato ha raggiunto significatività statistica (p=0,021).

Il valore mediano del TTP1 è risultato lievemente più alto nei pazienti della sequenza OT-CT (10 mesi contro i 9 dei pazienti del gruppo CT-OT), parimenti al TTP2 (8 mesi vs 5 mesi) e al TT2P (21 mesi vs 16 mesi): va tuttavia sottolineato che per questi ultimi tre endpoint,

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differentemente da quanto visto per la sopravvivenza globale, non è stata raggiunta la significatività statistica.

La chemioterapia si è dimostrata maggiormente attiva nel CRPC, confrontata con gli ARTA: l’ORR è risultato pari al 51% in caso di impiego del Docetaxel in prima linea e del 21% in caso di somministrazione in seconda; i nuovi agenti ormonoterapici hanno determinato una risposta parziale o completa nel 12% dei casi se utilizzati dopo il Docetaxel e in nessun caso se somministrati in prima linea (ciò è facilmente intuibile in virtù del differente meccanismo di azione, citocida per la chemioterapia e citostatico per l’ormonoterapia).

In termini di safety, l’ormonoterapia ha confermato di possedere un profilo di tollerabilità nettamente migliore rispetto alla chemioterapia: il tasso di eventi avversi gravi (di grado maggiore o uguale a 3) è stato del 18% durante la somministrazione di Docetaxel in prima linea e del 29% nella somministrazione dello stesso farmaco in seconda; gli ARTA invece hanno condotto a tossicità severe il 6% dei pazienti della sequenza CT-OT (in un utilizzo post-Docetaxel) e in nessun caso nell’impiego in prima linea di trattamento.

Le reazioni avverse più frequentemente associate al Docetaxel sono state astenia (in più del 75% dei casi), diarrea (nel 64% dei soggetti nella chemioterapia di prima linea e nel 57% nella somministrazione in seconda), onicopatia (48% dei casi in prima linea), neurotossicità periferica (55% dei casi in prima linea e 36% in seconda), nausea e vomito (29% dei casi in seconda linea), mucosite orale (61% dei casi in prima linea, 29% in seconda), anemia (9% dei casi in prima linea e 21% in seconda), con rari casi di neutropenia e neutropenia febbrile (sviluppata da 2 pazienti del gruppo CT-OT e da 3 soggetti afferenti alla sequenza opposta).

Il trattamento con Abiraterone o Enzalutamide è stato, invece, relativamente scevro da tossicità clinicamente importanti: il 67% dei pazienti della sequenza CT-OT e il 50% di coloro che hanno ricevuto la sequenza opposta hanno sviluppato astenia correlata con la

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terapia; l’anoressia e le vampate di calore si sono invece manifestate rispettivamente in un terzo e un quinto dei soggetti che hanno ricevuto gli ARTA. Le tossicità cardiovascolare (insufficienza cardiaca, ipertensione arteriosa) ed epatica, associate unicamente alla somministrazione di Abiraterone, sono state riportate rispettivamente nel 7% e nel 3% dei pazienti. Enzalutamide ha avuto come uniche tossicità l’astenia e l’anoressia (oltre ad un unico caso di diarrea).

In virtù dei risultati ottenuti, il proporre un ormonoterapico di nuova generazione prima della chemioterapia nei pazienti affetti da CRPC metastatico sembra portare un vantaggio statisticamente significativo in termini di sopravvivenza globale; va tuttavia ricordato come le popolazioni afferenti alle due diverse sequenze presentassero delle differenze sin dall’esordio della malattia: i soggetti trattati primariamente con la chemioterapia avevano una malattia più aggressiva, con la presenza di metastasi già alla diagnosi nella metà dei casi e spesso con un volume tumorale più elevato. Tale dato potrebbe in parte spiegare lo svantaggio in termini di OS e ridurre la rilevanza clinica dei risultati raggiunti; la disponibilità relativamente recente degli ARTA va in parte però a controbilanciare tali discrepanze, poiché un maggior numero di pazienti inclusi nello studio ha ricevuto solo successivamente alla chemioterapia un ormonoterapico di nuova generazione, avendo quest’ultimo l’indicazione, durante il lasso temporale considerato, solo per la fase post-chemioterapia.

La possibile esistenza, in futuro, di fattori predittivi di risposta potrà giocare un ruolo cruciale nella scelta della miglior sequenza farmacologica: in tale senso, molto promettente appare la possibilità di ricercare sull’RNA esosomiale la presenza di una variante dello splicing del recettore androgenico (AR-V7, Androgen Receptor-Variant 7), associata con resistenza verso Abiraterone e Enzalutamide. Questa isoforma recettoriale sembra essere importante anche

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nella biologia tumorale del CRPC: ciò è confermato indirettamente dal fatto che su 15 pazienti del nostro studio valutati per la presenza di AR-V7, 8 sono risultati positivi.

In conclusione, non è ancora possibile definire con certezza un algoritmo universalmente riconosciuto che possa guidare l’oncologo nella scelta delle varie linee di trattamento del CRPC; la persistente centralità dell’asse androgenico in fase di resistenza alla castrazione è avvalorata dalla dimostrata efficacia degli ARTA, farmaci in grado di prolungare la sopravvivenza con un profilo di tollerabilità nettamente superiore ai taxani. Il nostro studio, pur presentando dei limiti intrinseci alla natura retrospettiva e al possibile bias di selezione, sembra suggerire come l’utilizzo di ormonoterapia prima della chemioterapia impatti positivamente sulla sopravvivenza dei pazienti. Al fine di definire meglio i vantaggi di una specifica sequenza, è necessario disporre dei risultati di studi prospettici randomizzati, possibilmente guidati da biomarcatori predittivi.

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1 INTRODUZIONE: CARCINOMA PROSTATICO

1.1 GENERALITA’

Il carcinoma prostatico è la neoplasia più frequentemente diagnosticata nel sesso maschile, rappresentando il 19% dei nuovi casi di tumore riscontrati nel maschio; è inoltre la terza causa di morte per tumore nel maschio (8% dei decessi oncologici totali), immediatamente dopo il carcinoma colon-rettale (responsabile del 9% delle morti per tumore nel maschio)1.

L’incidenza della malattia ha mostrato un trend in crescita fino ai primi anni 2000: tale dato potrebbe essere falsato, essendo correlato all’enorme diffusione del dosaggio del PSA negli ultimi decenni e all’incremento dell’età media della popolazione occidentale; nonostante ciò, la mortalità è in calo, grazie all’affinamento delle tecniche diagnostico-terapeutiche2.

Le casistiche italiane vedono un gradiente Nord-Sud (parimenti ad altri tumori), con un’incidenza annua che passa dai 153 casi su 100.000 abitanti delle regioni settentrionali sino ai 109 casi su 100.000 abitanti delle regioni meridionali3: questa discrepanza è probabilmente da ricondurre al diverso impiego del dosaggio del PSA4 e al ruolo esercitato dai fattori di rischio e dai fattori protettivi. Il numero di decessi annui da attribuire alla malattia si aggira intorno ai 32-36 casi ogni 100.000 abitanti, con valori leggermente più alti nel Meridione; come già accennato, il carcinoma prostatico rappresenta una causa di morte in costante e sensibile diminuzione (-2,6% anno) negli ultimi venti anni. La sopravvivenza a 5 anni è del 91%, con un massimo del 96% registrato tra i pazienti più giovani (fascia d’età 65-74 anni) e un valore minimo del 52% tra i pazienti più anziani (over 85)3.

La maggior parte delle diagnosi è effettuata in individui in età avanzata, rappresentando infatti la neoplasia più frequente a partire dai 50 anni di età. Con l’aumentare dell’età dei pazienti,

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sembra aumentare anche il numero di casi in cui la malattia si presenta in fase metastatica già alla diagnosi; aumenta inoltre con l’avanzare dell’età anche l’incidenza cumulativa di decessi da riferire in modo specifico alla malattia, sebbene si abbia anche un incremento età-correlato dei tassi di mortalità da ricondurre ad altre cause. Tale andamento potrebbe essere dovuto al minor impiego del dosaggio del PSA e di tecniche diagnostiche più approfondite (come la biopsia) in pazienti più anziani, se confrontati con pazienti più giovani (sotto i 75 anni): ciò causerebbe da un lato la sovradiagnosi di tumori poco aggressivi in soggetti più giovani, dall’altro un ritardo diagnostico di forme più aggressive di malattia nei pazienti ultrasettantacinquenni5.

1.2 FATTORI DI RISCHIO

L’eziologia del carcinoma prostatico è multifattoriale: come per molte neoplasie, essa è il risultato dell’interazione tra fattori ambientali e fattori genetici.

Tra i vari fattori di rischio si annoverano:

 età: la probabilità di sviluppare la malattia aumenta con l’avanzare dell’età, passando dallo 0,005% dei pazienti sotto i 39 anni al 13,7% degli uomini di età compresa tra i 60 e i 79 anni6;

 etnia: gli Afro-Americani hanno un’incidenza e una mortalità doppia rispetto alla popolazione bianca, con un numero maggiore di casi in cui la neoplasia si presenta in stadio avanzato già alla diagnosi7;

 ormoni: livelli elevati di testosterone circolante determinano un rischio maggiore di sviluppare il carcinoma prostatico, mentre alte concentrazioni di Sex Hormone Binding Globulin (SHBG) esercitano un ruolo protettivo, a prescindere dai valori di testosterone plasmatico8; più recentemente, è stato evidenziato un incremento, seppur

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modesto, del rischio di malattia in presenza di alti livelli di Insulin-Like Growth Factor 1 (IGF-1) e una lieve riduzione del rischio in caso di alti livelli di Insulin-Like Growth Factor Binding Protein 3 (IGFBP3)9;

 dieta: un regime alimentare caratterizzato da un’eccessiva assunzione di acidi grassi è correlato a un aumento rischio di cancerogenesi e di malattia di alto grado; probabilmente, i lipidi contribuiscono all’eziologia del carcinoma prostatico mediante il loro effetto pro-flogistico e aumentando lo stress ossidativo10;

 familiarità: il rischio relativo di sviluppare la malattia, in presenza di un familiare di primo grado affetto, è superiore a 2; in caso di 4 familiari di primo grado colpiti, il rischio relativo è superiore a 711;

 geni: la presenza di mutazioni germinali a carico dei geni BRCA1 e soprattutto BRCA2 è associata a un rischio maggiore di sviluppare una forma aggressiva di carcinoma prostatico, con maggior tendenza all’interessamento linfonodale e alla metastatizzazione a distanza12.

1.3 ANATOMIA PATOLOGICA

1.3.1 Sede primitiva

Nel 70% dei casi la neoplasia origina a partire dalla porzione periferica della ghiandola, risultando apprezzabile all’esplorazione digitorettale. Nel 20% dei casi trae origine dalla zona di transizione, sede tipica dell’ipertrofia prostatica benigna; più rara è invece l’origine a partire dalla zona centrale dell’organo. Sebbene le forme insorte a livello della zona di transizione siano spesso caratterizzate da un maggior volume tumorale e da livelli più elevati di PSA alla diagnosi, il decorso clinico risulta essere più favorevole rispetto ai tumori

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originati dalla zona periferica dell’organo, con una minor tendenza all’invasione linfovascolare e extracapsulare: ciò potrebbe essere la conseguenza di rilevanti differenze nella biologia tumorale13.

1.3.2 Classificazione istologica

L’istotipo più frequentemente diagnosticato è l’adenocarcinoma acinare: esso costituisce il 90-95% dei casi di neoplasia prostatica maligna.

Nel restante 5% dei casi si riscontrano istotipi rari, caratterizzati però da una differente presentazione clinica e da una prognosi peggiore: si annoverano tra questi il carcinoma a piccole cellule (con aspetti neuroendocrini), il carcinoma a cellule basali, l’adenocarcinoma duttale, il carcinoma squamoso, il carcinoma adenosquamoso, il carcinosarcoma, il carcinoma uroteliale. Queste varianti possono presentarsi come forme pure o frammiste ad aree di adenocarcinoma acinare; nonostante la loro eterogeneità dal punto di vista istologico, tendono ad avere un atteggiamento aggressivo e a dare lesioni secondarie, localizzate non solo a livello osseo, ma anche a livello linfonodale, polmonare, encefalico e viscerale. Il riscontro di questi istotipi assume rilevanza sul piano terapeutico: si tratta infatti di forme che mostrano risposta scarsa (nel caso dell’adenocarcinoma duttale) o nulla (nel caso del carcinoma a piccole cellule) all’ormonoterapia, implicando perciò il ricorso alla chemioterapia. La prognosi è solitamente sfavorevole, con l’eccezione del carcinoma a cellule basali, considerato un tumore di basso grado14.

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1.3.3 Grading

Il Gleason Score rappresenta tutt’oggi lo standard internazionale per la definizione del grado istologico del carcinoma prostatico; questo sistema prende in considerazione il grado di differenziazione citoarchitetturale delle ghiandole e i rapporti della neoplasia con lo stroma. Si identificano 5 gradi:

 Grado 1: nodulo circoscritto di acini fitti ma distinti, uniformi, ovalari, di medie dimensioni;

 Grado 2: simile al grado 1, ma le ghiandole sono disposte in modo meno serrato e uniforme; sono inoltre possibili minime infiltrazioni ai margini;

 Grado 3: unità ghiandolari discrete, di dimensioni inferiori e con notevole variabilità morfologica; sono presenti talora aspetti cribriformi;

 Grado 4: ghiandole microacinari confluenti, mal definibili, con lume scarsamente formato; ghiandole cribriformi, talora con bordi irregolari;

 Grado 5: relativa assenza di differenziazione ghiandolare, cordoni solidi compositi o singole cellule, comedocarcinoma con necrosi centrale circondata da masse papillari, cribriformi o solide.

Inizialmente, la valutazione prevedeva la somma del punteggio relativo al grado primario (maggiormente rappresentato) e del grado secondario (rappresentato in almeno il 5% del tessuto neoplastico, ma in minor quantità rispetto al primario); nel 2005, a seguito della Consensus Conference dell’International Society of Urological Pathology (ISUP), sono state apportate delle modifiche allo score: il grado primario è sempre dato dal pattern più rappresentato, mentre il grado secondario corrisponde al peggiore tra gli altri pattern15.

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È inoltre possibile inserire il Gleason terziario, in modo da evidenziare la presenza di pattern aggressivi (4 o 5), pur quantitativamente limitati; nonostante lo scarso impiego nella pratica clinica, la notifica del grado terziario ha un impatto rilevante in termini prognostici, in particolare esiste una correlazione tra la presenza di un Gleason terziario di alto grado e il rischio di recidiva di malattia dopo prostatectomia radicale16.

Sulla base del Gleason Score è possibile identificare 5 gruppi prognostici: gruppo di grado 1 (Gleason Score inferiore o uguale a 6); gruppo di grado 2 (Gleason Score 3+4=7); gruppo di grado 3 (Gleason Score 4+3=7); gruppo di grado 4 (Gleason Score 4+4=8 o 3+5=8 o 5+3=8); gruppo di grado 5 (Gleason Score 9 o 10). Questa suddivisione ha una grande valenza dal punto di vista prognostico: nel gruppo di grado 1 si riscontrano per lo più neoplasie che si presentano a seguito della prostatectomia in stadio pT2 (malattia organo-confinata), mentre nel gruppo di grado 4 più del 50% dei casi si presentano in stadio pT3 o con interessamento linfonodale N1; vi sono inoltre rilevanti differenze in termini di sopravvivenza libera da progressione biochimica (BFS)17.

1.3.4 Diffusione

Il carcinoma prostatico può diffondere a livello regionale, interessando i linfonodi contenuti nella piccola pelvi: tra le stazioni linfatiche più frequentemente colpite vi sono i linfonodi pelvici, otturatori, periprostatici, sacrali e iliaci.

La principale sede di metastasi della malattia è lo scheletro: per spiegare la predominante distribuzione assiale delle lesioni secondarie è stata proposta inizialmente la teoria della diffusione per via ematogena delle cellule neoplastiche. Tuttavia, nel corso dei decenni, ha acquisito maggior rilevanza la teoria “seed and soil” di Paget: le cellule tumorali acquisiscono un fenotipo osteoblastico che ne consente la localizzazione nel tessuto osseo, nel quale

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vengono rilasciati per via paracrina una serie di fattori (tra cui TGF-β, IGF-1, endotelina 1) che permettono loro di sopravvivere e proliferare18. Tale sede assume grande importanza dal punto di vista clinico, in quanto la gran parte della sintomatologia deriva proprio dall’impegno a livello osseo della malattia.

Tra gli altri tessuti potenzialmente bersaglio di lesioni secondarie, si annoverano i linfonodi extraregionali, il fegato (interessato in un numero ristretto di casi e soprattutto in presenza di una neoplasia con caratteri neuroendocrini, nella quale le metastasi epatiche possono essere più precoci19) e il polmone.

1.4 SCREENING

Numerosi studi hanno valutato l’impatto dell’adozione di strategie di prevenzione secondaria sulla malattia, soprattutto in termini di riduzione della mortalità specifica. Come per altre neoplasie, è stato preso in considerazione l’impiego di uno screening di popolazione, basato sull’utilizzo del dosaggio periodico del PSA, considerato il test più adatto allo scopo in ragione dei bassi costi e dell’accuratezza diagnostica.

In particolare, sono stati condotti due studi randomizzati in Europa e negli Stati Uniti al fine di determinare l’efficacia e il rapporto costi/benefici dell’adozione dello screening per il carcinoma prostatico.

Lo studio europeo (European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer, ERSPC), iniziato nel 1991, ha arruolato circa 182.000 soggetti, dei quali 162.000 ricadevano nella fascia di età tra 55 e 69 anni; tale numero di pazienti fu randomizzato tra un gruppo di screening e uno di controllo. A seguito di un follow up medio di 9 anni, l’incidenza cumulativa di carcinoma prostatico è stata dell’8,2% nel gruppo di screening e del 4,8% in

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quello di controllo. Tuttavia, in termini di rischio assoluto di morte, la differenza tra due gruppi è stata di 0,71 decessi ogni 1000 pazienti sottoposti a screening, ovvero dovrebbero essere sottoposti a screening 1410 soggetti per prevenire una singola morte per tumore della prostata. Le conclusioni dello studio evidenziano un duplice aspetto dello screening: da un lato, la riduzione relativa del rischio di morte correlato al tumore del 20%; dall’altro, il considerevole tasso di sovradiagnosi (definita come la diagnosi della malattia in pazienti che non avrebbero avuto manifestazioni cliniche correlate al tumore durante la loro vita), che si attesta intorno al 50% nel gruppo di screening20.

Nel 2012 i dati di tale studio furono aggiornati e in parte modificati, a seguito di due anni aggiuntivi di follow up (passato così da 9 a 11 anni complessivi): la riduzione del rischio relativo di morte correlato al tumore è stata sostanzialmente confermata (21%) e l’aggiustamento per il bias di selezione e per la non-compliance ha innalzato questo valore al 29%; il numero di soggetti che è necessario sottoporre a screening (espresso come NNI, number needed to invite) per prevenire un solo decesso per carcinoma è risultato più basso, seppur alto in termini assoluti, rispetto alle conclusioni dell’articolo precedente (1055 invece che 1410), come il numero di tumori prostatici che devono essere diagnosticati, espresso come NND, ovvero number needed to diagnose (37 invece che 48)21. È plausibile ritenere che questi numeri siano destinati a decrescere ulteriormente con un follow up più prolungato22. Tuttavia, nella discussione si evidenzia la necessità di confrontare l’effetto dello screening sulla mortalità con tutti gli svantaggi che esso può avere: in particolare, si fa nuovamente riferimento agli elevati tassi di sovradiagnosi, stimati attorno al 50%23; sono inoltre descritte in letteratura possibili complicanze della biopsia, soprattutto di tipo infettivo24; infine, un altro aspetto da affrontare è lo scarso risultato in termini di riduzione della mortalità assoluta della prostatectomia radicale, confrontata con una strategia di vigile attesa (watchful waiting) in una popolazione di pazienti con tumore confinato all’organo (la differenza è appena del 6%)25.

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Lo studio americano PLCO (Prostate, Lung, Colorectal and Ovarian Cancer Screening Trial), iniziato nel 1993, ha arruolato (relativamente al suo braccio sul tumore prostatico) 76693 soggetti maschi asintomatici, randomizzati tra un gruppo di controllo e uno di screening. A seguito di un follow up di 7 anni, si evidenzia una differenza minima e assolutamente poco significativa per quanto riguarda i tassi di mortalità causa-specifica (peraltro molto bassi) tra i due gruppi (2,0 decessi per 10000 pazienti l’anno nel gruppo di screening, 1,7 su 10000 nel gruppo di controllo)26.

Nel 2012, l’aggiornamento dei dati dello studio americano ha confermato le conclusioni precedenti, corroborandole con un prolungamento del follow up medio (giunto a una durata complessiva di 13 anni). Si conclude perciò che non esiste alcun beneficio nell’aggiungere uno screening organizzato a uno opportunistico, mentre sono evidenti i potenziali danni associati ai falsi positivi e all’elevato tasso di sovradiagnosi (in particolare nei soggetti più anziani)27.

Attualmente, non è proposto alcuno screening di popolazione basato sul dosaggio periodico del PSA; per quanto concerne l’uso spontaneo del test, è necessario fare una valutazione caso per caso, prendendo in considerazione le caratteristiche del paziente. L’età assume grande rilievo: in soggetti con un’aspettativa di vita inferiore ai 10 anni, è consigliabile scoraggiare l’uso del test, poiché il rapporto rischi/benefici sembra a totale vantaggio dei danni e delle complicanze; se l’aspettativa è superiore ai 10 anni, il medico deve informare il paziente di tutti i potenziali rischi (quali biopsie non necessarie, conseguenze del trattamento chirurgico, farmacologico e radioterapico), che anche in questo caso superano i benefici28. Altro aspetto da valutare, nell’ottica di un approccio personalizzato allo screening, è l’eventuale presenza di fattori di rischio per la malattia, quali l’etnia afroamericana e la familiarità.

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18 1.5 DIAGNOSI

1.5.1 Esplorazione digitorettale

L’esplorazione rettale rappresenta spesso il primo approccio per la diagnosi del carcinoma prostatico: poiché nella gran parte dei casi la neoplasia origina dalla zona periferica della ghiandola, la palpazione sarà spesso in grado di evidenziarne la presenza.

L’esame presenta dei limiti rilevanti, soprattutto in termini di sensibilità e valore predittivo positivo (inferiori al 50%)29; pertanto, non può essere utilizzata da sola, ma in associazione con altre metodiche diagnostiche (quali dosaggio del PSA30, agobiopsia e tecniche d’imaging).

1.5.2 Dosaggio del PSA

L’Antigene Prostatico Specifico (PSA) è una serin-proteasi prodotta quasi esclusivamente dalla ghiandola prostatica; come tale, esso è un biomarker organo-specifico, ma non malattia-specifico, in quanto risulta essere aumentato anche in patologia benigne, quali ipertrofia prostatica benigna e prostatite31.

Il tradizionale valore soglia di 4 ng/mL (PSA totale) è caratterizzato da uno scarso potere predittivo sia negativo che positivo: la prevalenza di tumori diagnosticati nei pazienti con valori inferiori a 4 ng/mL è tutt’altro che basso, arrivando fino al 26,9% nei pazienti con PSA compreso tra 3,1 e 4,0 ng/mL32; d’altro canto, nei soggetti compresi nel range 4-10 ng/mL esiste una certa sovrapposizione tra coloro che presentano un’ipertrofia prostatica benigna e coloro che hanno un carcinoma prostatico in stadio T1, non palpabile né visibile con le tecniche di imaging33.

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In virtù di tali dati, oggi le linee guida non sono concordi nell’indicare un medesimo cut-off di PSA: in riferimento alla realtà europea, il valore soglia indicato per poter selezionare i pazienti candidati alla biopsia è di 3 ng/mL34.

Oltre al PSA totale, ai fini diagnostici assume rilievo la valutazione del rapporto tra il PSA libero (non legato a antichimotripsina o macroglobulina) e il PSA totale: in caso di neoplasia, i pazienti presentano valori di ratio tendenzialmente più bassi rispetto ai soggetti affetti unicamente da ipertrofia benigna. La valutazione del rapporto free/total PSA mostra una sensibilità maggiore nell’identificare i casi di carcinoma rispetto al PSA totale e permette di identificare tumori potenzialmente curabili in pazienti con PSA inferiore a 10 ng/mL, riducendo il numero di biopsie non necessarie35.

Al fine di aumentare l’accuratezza diagnostica sono stati proposti nuovi approcci di valutazione del PSA. La PSA velocity (tasso di incremento del PSA nel tempo) è sensibilmente più elevata nei pazienti affetti da tumore, consentendo un’anticipazione diagnostica della malattia36; tuttavia, la metodica necessita di ulteriori studi che ne permettano anche una maggiore standardizzazione: il valore diagnostico della PSA velocity può essere influenzato da molteplici variabili, quali il valore basale del PSA, l’intervallo tra i dosaggi, il metodo di calcolo matematico37. Allo stato attuale, le linee guida europee consigliano di non prendere in considerazione la PSA velocity nel selezionare i candidati alla biopsia.

L’utilizzo della PSA density (rapporto tra valore del PSA circolante e dimensioni della ghiandola misurate con tecniche di imaging) si basa sul presupposto che il carcinoma determini un rilascio nel torrente ematico di un maggior quantitativo di PSA per unità di volume rispetto all’ipertrofia benigna; tale misurazione può trovare impiego soprattutto nei pazienti con PSA totale compreso tra 2 e 4 ng/mL, nei quali risulta avere maggior specificità diagnostica rispetto al rapporto free/total PSA38. Una parziale evoluzione di questa metodica è

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la PSA-TZ density (rapporto tra PSA totale e il volume della zona di transizione), dimostratasi più accurata nel predire la positività bioptica rispetto alla PSA density nei pazienti con PSA compreso tra 4,1 e 10 ng/mL39. Entrambe le tecniche presentano però dei limiti: l’interpretazione del risultato può essere condizionata da molti fattori, in primis dalla variabilità nella determinazione ecografica del volume ghiandolare e da potenziali errori nell’individuazione di questo valore.

1.5.3 PCA3

Il gene Prostate Cancer Antigen 3 (PCA3), localizzato sul cromosoma 9, è trascritto in un mRna non codificante iperespresso nel 95% dei carcinomi prostatici; si osservano invece bassi livelli di PCA3 in pazienti con biopsia negativa per tumore (tessuto normale o con aree di ipertrofia benigna)40. Il PCA3 score (PCA3 urinario normalizzato per l’mRna del PSA) può essere valutato sia allo scopo di selezionare i candidati per una prima biopsia (uno score superiore al 60% aumenta la probabilità di diagnosticare il carcinoma) che al fine di supportare la decisione riguardo un’eventuale ripetizione dell’esame bioptico (uno score inferiore a 20 possiede un alto valore predittivo negativo e permette di evitare nuove biopsie non necessarie)41. Tuttavia, le linee guida si mostrano generalmente prudenti riguardo l’utilizzo del PCA3: secondo le raccomandazioni della European Association of Urology, questo test è indicato principalmente per valutare la necessità di ripetizione della biopsia a seguito di un primo referto istologico negativo (sebbene l’efficacia clinica di questa proposta diagnostica resti comunque incerta)42.

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1.5.4 Ecografia transrettale

L’ecografia transrettale (Trans Rectal UltraSound, TRUS) può fornire ausilio diagnostico nei pazienti con sospetto clinico di neoplasia, derivante dalla valutazione del PSA circolante o dall’esplorazione rettale. La lesione si presenta frequentemente con aspetto ipoecogeno in confronto al circostante tessuto normale; tuttavia, in presenza di neoplasie più estese, con invasione delle strutture circostanti o con aree calcifiche, l’aspetto ecografico può essere più variegato, con alternanza di zone iperecogene, ipoecogene e isoecogene43.

La valutazione ultrasonografica è inoltre fondamentale nel guidare l’esame bioptico: è ormai nota la superiore accuratezza di questa metodica rispetto all’agobiopsia digito-guidata, mentre non sono state rilevate differenze significative tra l’impiego di un approccio transrettale o transperineale, purchè sia ecoguidato44.

Infine, le immagini ecografiche possono essere fuse con quelle ottenute dalla Risonanza Magnetica Multiparametrica, al fine di localizzare più precisamente la lesione da campionare: questo nuovo approccio incrementa l’accuratezza diagnostica rispetto alla semplice biopsia ecoguidata sia nei pazienti sottoposti per la prima volta all’indagine che in coloro che presentano in anamnesi esami istologici con risultato negativo45.

1.5.5 Risonanza magnetica

Il ruolo della Risonanza Magnetica multiparametrica (multiparametric Magnetic Resonance Imaging, mp-MRI) nella diagnosi del carcinoma della prostata è stato ampiamente studiato negli ultimi anni. La tecnica raccomandata include l’acquisizione di sequenze T2 pesate (nelle quali la zona periferica ha normalmente un aspetto iperintenso in virtù del maggior contenuto d’acqua, mentre il focus tumorale appare ipointenso), di sequenze di diffusione DWI (che

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permettono di misurare il coefficiente apparente di diffusione e di valutare perciò la restrizione dei movimenti delle molecole d’acqua nel tessuto neoplastico), di sequenze di perfusione (Dynamic Contrast Enhanced MRI) e imaging spettroscopico (nell’area carcinomatosa si osserva frequentemente un’elevazione del picco di segnale dovuto ai protoni della colina e un decremento di quello legato al citrato)46.

Nel 2015 è stata pubblicata la seconda versione del PI-RADS (Prostate Imaging Reported and Data System), frutto della collaborazione tra l’American College of Radiology e la European Society of Uroradiology. Questo nuovo standard si prefigge come obiettivi fondamentali semplificare la terminologia dei referti radiologici, ridurre la variabilità nell’interpretazione delle immagini e stratificare i pazienti in 5 categorie, sulla base della probabilità di un carcinoma clinicamente significativo, in modo da adottare l’iter terapeutico più adatto per il singolo individuo47.

L’impiego della mp-MRI per selezionare i candidati alla prima biopsia permetterebbe di ridurre il numero di biopsie non necessarie e la sovradiagnosi di tumori clinicamente non significativi: il valore predittivo negativo nell’escludere un carcinoma clinicamente significativo è infatti alto, raggiungendo l’89% se si considerano neoplasie prostatiche con Gleason Score≥4+348.

Come già accennato in precedenza, è possibile fondere le immagini ottenute dalla mp-MRI con quelle ultrasonografiche per incrementare la performance diagnostica di tumori clinicamente significativi45; tuttavia, data la scarsa diffusione di strumentazioni per la fusione delle immagini, già la sola mp-MRI può essere impiegata con successo al fine di eseguire esami bioptici mirati (MRI-targeted biopsy), limitando i falsi negativi all’esame istologico e la sovradiagnosi di neoplasie non clinicamente importanti49.

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1.5.6 Agobiopsia prostatica

In presenza di un valido sospetto clinico di neoplasia, dato dal riscontro di una massa anomala all’esplorazione rettale o di valori elevati di PSA o di lesioni con caratteri neoplastici agli esami d’imaging, l’esecuzione di un’agobiopsia consente di ottenere una diagnosi di certezza.

Un singolo valore elevato di PSA necessita di un secondo dosaggio di conferma, prima di indirizzare il paziente all’esecuzione della biopsia; inoltre, secondo le linee guida della European Society for Medical Oncology (ESMO), è auspicabile intraprendere una strategia di valutazione del rischio individuale che non prenda in considerazione unicamente il PSA plasmatico, ma valuti anche altri fattori, quali età, comorbidità, etnia e familiarità50. In presenza di un primo esame istologico negativo, le indicazioni per una ripetizione dell’indagine bioptica includono un PSA in rialzo, aree sospette evidenziate dalla mp-MRI, lesioni rilevate all’esplorazione digitorettale, la presenza di una neoplasia intraepiteliale prostatica (Prostatic Intraepithelial Neoplasia, PIN) multifocale di alto grado nel referto anatomopatologico50.

1.6 STADIAZIONE

1.6.1 Generalità

La stadiazione rappresenta il primo fondamentale passo per poter definire la migliore strategia terapeutica e valutare la prognosi del paziente. La stadiazione clinica è storicamente poco accurata: sebbene dall’avvento del PSA si sia osservato un decremento del numero di casi di malattia non organo confinata, ancora oggi si osserva un tasso elevato di sottostadiazione (il numero di neoplasie che si presentano apparentemente come organo confinate alla stadiazione

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clinica ma risultano estese oltre la ghiandola prostatica alla stadiazione patologica è pari almeno al 24%51).

L’estensione della malattia e le sue eventuali localizzazioni secondarie vengono indicate secondo la classificazione TNM (Tabella 1), in accordo con la settima edizione dell’AJCC (American Joint Committee on Cancer) Cancer Staging Manual.

La suddivisione in stadi permette di diversificare il trattamento in base all’estensione della neoplasia: è doveroso perciò distinguere i pazienti che si presentano con malattia localizzata (T1-T2, Nx-N0, M0) o con malattia localmente avanzata (T3-T4, Nx-N0-N1, M0) da coloro che sviluppano metastasi (M1).

Combinando lo stadio di malattia con i valori preoperatori del PSA e il Gleason Score è possibile stratificare i pazienti in 5 categorie di rischio (NCCN risk groups, National Comprehensive Cancer Network; Tabella 2); tale ripartizione assume grande valore dal punto di vista prognostico, poiché è dimostrato che i pazienti a rischio intermedio-alto hanno un outcome meno favorevole di coloro che rientrano nella categoria a basso rischio, sia in termini di intervallo libero da recidiva biochimica o locale di malattia che per ciò che concerne la sopravvivenza globale e causa-specifica52. In virtù di tali dati, è fondamentale valutare il rischio del paziente prima di intraprendere una determinata strategia terapeutica.

1.6.2 Esplorazione digitorettale

L’esplorazione rettale (Digital Rectal Examination, DRE) è la più semplice metodica per valutare l’estensione della neoplasia a livello locale (T). Esiste però una significativa discordanza tra lo stadio clinico rilevato alla DRE e la stadiazione patologica a seguito di

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prostatectomia, soprattutto nei pazienti con malattia clinicamente localizzata; globalmente, la DRE sottostadia il 60% dei pazienti con diagnosi istologica di carcinoma53.

1.6.3 Ecografia transrettale

L’ecografia transrettale (TRUS) può essere d’aiuto nella stadiazione del carcinoma prostatico, sebbene presenti dei limiti inequivocabili: a fronte di una buona sensibilità per i casi di malattia organo confinata, la TRUS mostra però scarsi valori di sensibilità per i tumori estesi oltre la capsula; inoltre, in virtù della caratteristica operatore-dipendenza dell’esame, l’accuratezza nella stadiazione è influenzata dal livello di esperienza del clinico54

.

1.6.4 Risonanza magnetica

La Risonanza Magnetica è l’esame migliore per definire l’estensione locale della malattia. Come già accennato nel capitolo inerente la diagnosi, la metodica più accurata è la mp-MRI, che permette di valutare sequenze in T2, sequenze di diffusione e di perfusione ed eventualmente di spettroscopia: la MRI multiparametrica presenta buoni livelli di sensibilità e specificità (tra l’80 e il 90%) e valore predittivo negativo ancor più alto nei confronti dell’estensione extracapsulare (97,3%) e dell’invasione delle vescicole seminali (98,9%)55

.

La MRI può essere utile anche per la valutazione dei linfonodi locoregionali (parametro N), identificando le aree sospette sulla base della dimensione e della morfologia; vi sono tuttavia numerosi falsi positivi (legati alla presenza di micrometastasi linfonodali non evidenziabili con gli esami d’imaging), in parte evitabili con l’impiego della sequenze di diffusione DWI (misurando il coefficiente apparente di diffusione, più basso nei linfonodi neoplastici rispetto

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a quelli normali o reattivi) e di nuovi mezzi di contrasto superparamagnetici (quali USPIO, Ultrasmall Superparamagnetic Iron Oxide)56, tuttora poco diffusi.

1.6.5 Tomografia computerizzata

La Tomografia Computerizzata (Computerized Tomography, TC) non riveste un ruolo decisivo nella valutazione del parametro T; essa può essere d’aiuto per definire l’eventuale impegno linfonodale, con i medesimi limiti descritti per la MRI. Inoltre, la TC può essere combinata alla scintigrafia ossea al fine di incrementare il dettaglio anatomico e di identificare meglio le metastasi ossee57.

Le linee guida dell’ESMO restringono l’impiego della whole body MRI e della TC toraco-addominale ai pazienti con malattia a rischio intermedio o elevato, per avere una stadiazione più accurata e individuare eventuali metastasi50.

1.6.6 Scintigrafia ossea

Lo scheletro costituisce la principale sede di metastatizzazione del carcinoma prostatico; la

scintigrafia ossea total body eseguita con l’impiego di bifosfonati marcati con ⁹⁹mTecnezio (e combinata con la TC) possiede una sensibilità dell’86% e una specificità pari al 98% nella diagnosi di lesioni secondarie a livello scheletrico58, consentendo così di ridurre i falsi positivi. Poiché la probabilità di lesioni ossee è estremamente bassa nei pazienti a basso rischio, l’esecuzione dell’esame è consigliata perlopiù in pazienti con sintomi indicativi di interessamento scheletrico o in pazienti asintomatici che presentino valori di PSA>10 ng/mL o un Gleason Score≥8 o uno stadio clinico≥T3 (ovvero pazienti che rientrino nelle categorie di rischio intermedio o elevato)59.

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1.6.7 Tomografia ad emissione di positroni (PET)

Numerosi sono i radiofarmaci a emissione di positroni che possono trovare impiego nella stadiazione del carcinoma prostatico.

Il 18F-Fluoruro presenta un meccanismo di accumulo simile a quello dei bifosfonati,

mimando il metabolismo del calcio e depositandosi nelle sedi di rimaneggiamento osseo. La sensibilità della PET/CT con 18F-Fluoruro nel diagnosticare ripetizioni ossee è pari al 93%, ben superiore rispetto alla scintigrafia ossea, pur presentando una bassa specificità60; il costo di tale metodica è nettamente superiore a quello dell’indagine scintigrafica e ne limita la diffusione.

La PET/CT con 18F-Fluorodesossiglucosio (FDG) non è un esame di routine nella stadiazione

del carcinoma prostatico: nella maggior parte dei casi vi è uno scarso accumulo di questo tracciante, in particolare nelle forme tumorali indolenti e poco aggressive; tuttavia, essa può trovare impiego nei tumori di alto grado, scarsamente differenziati, con Gleason Score≥8 (pazienti ad alto rischio), nei quali è più frequente il riscontro di lesioni ipercaptanti il FDG61.

La PET/CT con 11C/18F-Colina sta invece trovando un utilizzo sempre maggiore nella

stadiazione di questa neoplasia. In merito alla possibilità di identificare un eventuale interessamento linfonodale, la metodica raggiunge elevati valori di specificità (96%) e discreti di sensibilità (66%) per le metastasi linfonodali di dimensioni superiori ai 5 mm, mentre mostra scarsa accuratezza nella diagnosi di linfoadenopatie maligne di dimensioni inferiori ai 5 mm o di micrometastasi (ciò potrebbe essere causato dalla limitata risoluzione spaziale dei

PET scanner attualmente in uso)62. Ancor più importante è il ruolo che la PET con Colina radiomarcata riveste nella fase di ristadiazione, ovvero in pazienti che vanno incontro a recidiva biochimica (Biochemical Recurrence, BCR) dopo prostatectomia radicale o

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radioterapia con intento radicale; la valutazione della cinetica del PSA può essere utile nel supportare la decisione di eseguire l’esame: valori di PSA≥1 ng/mL, PSA doubling time (tempo di raddoppiamento del PSA)<6 mesi e PSA velocity>1 ng/mL/year predicono fortemente il risultato positivo della PET63.

Un ulteriore e innovativo radiofarmaco PET è l’Antigene di Membrana Specifico Prostatico

(Prostate Specific Membrane Antigen, PSMA) marcato con 68Ga, che da recenti studi sembra

presentare una superiorità diagnostica rispetto alla PET con 11C-Colina nell’identificazione di metastasi ossee e linfonodali, sia nella stadiazione iniziale che in fase di recidiva biochimica, soprattutto in pazienti con bassi livelli di PSA circolante64.

1.6.8 Linfadenectomia

Nonostante i miglioramenti tecnici degli ultimi anni, gli esami strumentali sono tuttora poco affidabili per la diagnosi di metastasi linfonodali; pertanto, la linfadenectomia pelvica resta ancora oggi la miglior metodica per valutare il parametro N.

Al fine di stabilire il rischio individuale d’interessamento linfonodale è possibile utilizzare dei nomogrammi che prendano in considerazione il PSA, lo stadio clinico di malattia e il Gleason Score. L’asportazione dei linfonodi locoregionali è pertanto riservata ai soggetti a rischio intermedio-alto; in coloro che presentano un rischio basso è controverso e poco indagato il beneficio di una linfadenectomia estesa, a fronte di un incremento della morbidità dato dallo sviluppo di linfocele, edema alle estremità e trombosi venosa65.

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1.7 TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA SENSIBILE ALLA CASTRAZIONE

1.7.1 Generalità

L’ormono-dipendenza del carcinoma prostatico rende possibile l’impiego di una serie di terapie che agiscono bloccando lo stimolo alla proliferazione cellulare esercitato dagli ormoni androgeni. La castrazione chirurgica mediante orchiectomia bilaterale ha rappresentato il primo efficace metodo per ridurre permanentemente i livelli di testosterone circolante; oggigiorno è possibile ottenere un effetto simile mediante l’impiego di terapie mediche che inducono una castrazione farmacologica parzialmente reversibile.

Nella storia naturale della malattia prostatica, si individuano due fasi cronologicamente conseguenti: la malattia metastatica sensibile alla castrazione e la malattia metastatica

resistente alla castrazione.

1.7.2 Analoghi dell’LHRH

I primi trial terapeutici che prevedevano l’impiego di analoghi dell’LHRH (Luteinizing Hormone-Releasing Hormone) in pazienti con carcinoma della prostata si ebbero a metà degli anni ’80. Questi farmaci (Leuprorelina, Buserelin, Triptorelina) fungono da agonisti dell’LHRH: dopo un iniziale stimolo alla liberazione dell’LH, inducono un blocco nell’ulteriore rilascio di gonadotropine da parte dell’ipofisi, con conseguente caduta degli androgeni circolanti a valori molto bassi (livelli di castrazione) nell’arco di 3-4 settimane. Studi randomizzati hanno messo a confronto l’orchiectomia bilaterale con l’utilizzo di Triptorelina in formulazione long-acting in pazienti con tumore prostatico avanzato: i due

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gruppi non hanno presentato differenze in termini di Overall Survival (OS), mentre la terapia farmacologica ha dimostrato di avere dalla sua la possibile reversibilità della castrazione indotta e un impatto psicologico molto più favorevole rispetto alla chirurgia66. Nonostante gli indubbi vantaggi, anche la castrazione farmacologica (Androgen Deprivation Therapy, ADT) è gravata da reazioni avverse, come fatigue, riduzione della libido, ginecomastia, vampate di calore, osteoporosi e aumentato rischio cardiovascolare, con possibilità di sviluppare la sindrome metabolica67.

Nel 2000, una vasta metanalisi di 27 trial randomizzati curata dal Prostate Cancer Trialists’ Collaborative Group ha provato a evidenziare eventuali discrepanze tra la semplice soppressione androgenica ottenuta mediante somministrazione di analoghi dell’LHRH e il blocco androgenico totale (BAT, o Maximum Androgen Blockade, MAB) dato dall’aggiunta di un antiandrogeno (Nilutamide, Bicalutamide o Flutamide) all’analogo dell’LHRH. Andando a valutare le curve di sopravvivenza a 5 anni, i due gruppi mostravano differenze minime: il vantaggio in termini di OS del blocco androgenico totale era pari al 2-3%68; in accordo con le linee guida dell’ESMO, tale beneficio è considerato insufficiente per giustificare l’impiego sistematico del BAT nei soggetti con malattia metastatica50

. Gli antiandrogeni non steroidei, quali la Bicalutamide, trovano spazio in associazione con l’analogo dell’LHRH solo nelle prime 4 settimane di terapia, al fine di contrastare l’iniziale rialzo dell’LH e del testosterone (fenomeno del flare up), che potrebbe portare a una ripresa o ad un aggravamento della malattia, con conseguenze cliniche importanti (aumento del dolore osseo, fratture patologiche, compressione midollare)69.

Un punto chiave inerente la modalità dell’ADT è la possibilità di intraprendere una terapia intermittente (Intermittent Androgen Deprivation, IAD) anziché una terapia continuativa (Continuous Androgen Deprivation, CAD). La IAD, basandosi su una terapia con cicliche

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interruzioni, consentirebbe un ripristino dei livelli ormonali nelle fasi off, con conseguente beneficio in termini di qualità della vita e, teoricamente, un ritardo nella progressione alla malattia resistente alla castrazione70. Diversi studi randomizzati hanno provato ad approfondire l’argomento, tra cui uno studio di fase III condotto dal Southwest Oncology Group (SWOG 9346). Nel suddetto trial sono stati arruolati 3040 pazienti con malattia metastatica e PSA>5 ng/mL e successivamente sottoposti ad ADT (Goserelin e Bicalutamide) per un ciclo di induzione di 7 mesi; coloro che mostravano risposta al trattamento (definita come un PSA<4 ng/mL al sesto e settimo mese dall’inizio dell’ADT) sono stati randomizzati tra un braccio che proseguiva in modo continuativo la soppressione ormonale (CAD) e un braccio che la interrompeva per poi riprenderla a intermittenza in funzione del PSA (ovvero per valori del PSA che raggiungevano i 20 ng/mL o che tornavano ai livelli basali nei soggetti che avevano un PSA pre-arruolamento<20 ng/mL). Gli obiettivi primari dello studio sono valutare l’eventuale non inferiorità della IAD rispetto alla CAD in termini di sopravvivenza e definire se vi sono differenze tra i due gruppi di pazienti per ciò che concerne la qualità della vita. La sopravvivenza globale è risultata inferiore nel braccio di pazienti sottoposti a terapia intermittente (5,1 anni vs 5,8 anni del braccio sottoposto a terapia continuativa), con un aumento del rischio relativo di mortalità del 10%, fallendo così l’obiettivo71

. A 3 mesi dalla randomizzazione, la terapia intermittente ha mostrato un beneficio in termini di qualità della vita (in riferimento soprattutto al miglioramento del deficit erettile e alla salute psicologica) che però si è perso ad una osservazione più prolungata nel tempo. Un’analisi secondaria, eseguita per sottogruppi, ha permesso però di evidenziare delle differenze tra i soggetti con malattia minima (limitata a pelvi, linfonodi, rachide) e quelli con malattia estesa (interessante coste, ossa lunghe, organi viscerali): nei primi, la IAD si è dimostrata nettamente inferiore (HR, Hazard Ratio di mortalità 1,19) alla CAD; nei secondi, si può parlare di una sostanziale non inferiorità della IAD (HR 1,02)71.

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In conclusione, secondo i dettami dell’ESMO, una deprivazione androgenica continuativa rappresenta la prima linea standard di trattamento in pazienti con malattia metastatica sensibile alla castrazione50

1.7.3 Chemioterapia

Dai primi anni 2000 in poi l’interesse per la chemioterapia nell’ambito del trattamento del carcinoma della prostata metastatico sensibile alla castrazione è progressivamente cresciuto. L’evidente beneficio dimostrato dall’utilizzo del Docetaxel nei pazienti con malattia resistente alla castrazione ha spinto diversi gruppi di ricerca a valutare l’impatto di un impiego più precoce di tale chemioterapico (ovvero già in fase di sensibilità alla castrazione).

Lo studio franco-belga GETUG-AFU 15 ha arruolato 385 pazienti con tumore prostatico con evidenza radiologica di metastasi, randomizzati successivamente a ricevere solo l’ADT (ottenuta mediante orchiectomia o analoghi dell’LHRH, da soli o combinati con un antiandrogeno non steroideo) o l’ADT associata al Docetaxel. L’endpoint primario era l’OS: la sopravvivenza mediana è risultata 58,9 mesi nel braccio in cui è stato aggiunto il chemioterapico e 54,2 mesi nei pazienti trattati con la sola ADT. L’aggiunta del Docetaxel si è quindi rivelata incapace di determinare un vantaggio statisticamente significativo in termini di OS72. Un discorso a parte deve essere invece fatto per gli endpoint secondari, ovvero la sopravvivenza libera da progressione biochimica (biochemical progression-free survival, bPFS) e la sopravvivenza libera da progressione clinica (clinical progression-free survival, cPFS): in entrambi i casi si può notare una differenza statisticamente significativa con evidente vantaggio nella terapia di combinazione. Un altro dato che emerge da tale studio di fase III è quello relativo al profilo di tossicità, peggiore per la terapia di associazione: tra gli eventi avversi più frequentemente riscontrati nel braccio trattato con Docetaxel si annoverano

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neutropenia di grado 3-4 e neutropenia febbrile, con 4 decessi trattamento-correlati (di cui 2 da ricondurre proprio alla neutropenia)72. In considerazione di tali risultati, gli autori dello studio sconsigliano l’aggiunta del Docetaxel all’ADT nella terapia di prima linea per la malattia sensibile alla castrazione.

Risultati ben differenti si evidenziano invece nello studio dell’Eastern Cooperative Oncology Group ECOG 3805 (meglio noto come CHAARTED) che ha arruolato un totale di 790 pazienti metastatici, randomizzati anche in questo caso a ricevere la sola ADT o l’ADT combinata a 6 cicli di Docetaxel. Ad un follow up mediano di quasi 29 mesi, l’OS mediana è risultata significativamente superiore nel braccio della terapia combinata (57,6 mesi vs 44 mesi). Ancor più importante è il risultato emerso dall’analisi per sottogruppi (Figura 1): il vantaggio in termini di OS è stato ancor più evidente se si considerano i soli pazienti con malattia ad alto volume (definita come la presenza di metastasi viscerali o almeno 4 lesioni scheletriche, con almeno una al di fuori del rachide o della pelvi). Nei soggetti con malattia a basso volume esiste un trend a favore dell’aggiunta della chemioterapia, sebbene sia sicuramente meno significativo e richieda probabilmente un follow up più lungo per avvalorarne l’impiego. Parimenti all’OS, anche per quel che concerne gli endpoint secondari lo studio CHAARTED offre dati confortanti: il tempo mediano alla progressione clinica è stato di 33 mesi per la terapia di associazione contro i soli 19,8 mesi dell’ADT senza Docetaxel, mentre il tempo mediano dallo sviluppo della malattia resistente alla castrazione è risultato di quasi 9 mesi più lungo per il braccio di combinazione. L’aggiunta del chemioterapico non ha portato ad un incremento rilevante delle reazioni avverse: il 3% dei pazienti hanno sviluppato fatigue di grado 3 e solo il 2% ha avuto reazioni allergiche severe correlate con il trattamento73.

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Nel 2016 sono stati pubblicati i risultati dello studio STAMPEDE, un trial randomizzato e multibraccio ancor più ampio dei precedenti: sono stati reclutati 2962 soggetti con tumore metastatico o localmente avanzato ad alto rischio, randomizzati successivamente a ricevere solo la terapia standard (ovvero l’ADT), l’ADT in associazione all’Acido Zoledronico per 2 anni, l’ADT combinato con 6 cicli di Docetaxel e infine l’ADT associata sia con l’Acido Zoledronico che con il Docetaxel. Ad un follow up mediano di 43 mesi, la sopravvivenza mediana è risultata di 81 mesi nel gruppo di pazienti trattati con l’aggiunta del Docetaxel (con o senza il bifosfonato) e di 71 mesi in coloro che avevano ricevuto solo l’ADT; la chemioterapia ha inoltre consentito di ottenere un prolungamento dell’intervallo di tempo alla recidiva di malattia nel 38% dei pazienti, con risultati migliori nel sottogruppo di pazienti metastatici. A fronte di un evidente beneficio in termini di OS, il Docetaxel ha però determinato anche un aumento del numero di reazioni avverse severe (grado 3-4), presenti nel 52% dei pazienti del braccio di combinazione (ADT + Docetaxel o ADT + Docetaxel e Zoledronato). L’aggiunta dell’Acido Zoledronico non ha invece portato a nessun tipo di vantaggio74. Gli autori concludono raccomandando l’aggiunta del Docetaxel alla soppressione ormonale nei pazienti metastatici adatti a una terapia di combinazione (gravata evidentemente da maggiore tossicità rispetto alla sola ADT); l’aggiunta della chemioterapia può inoltre essere presa in considerazione anche nei soggetti non metastatici ma con malattia localmente avanzata ad alto rischio.

In virtù dei risultati positivi degli ultimi due studi citati, le linee guida ESMO raccomandano oggi con un livello elevato di evidenza l’utilizzo di una terapia combinata (ADT + 6 cicli di Docetaxel) come prima linea standard in pazienti metastatici con malattia ancora sensibile alla castrazione, purchè siano sufficientemente fit da ricevere la chemioterapia50 e abbiano una malattia ad alto volume.

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1.7.4 Abiraterone acetato

L’Abiraterone Acetato è il profarmaco dell’Abiraterone, composto in grado di inibire selettivamente la 17α-idrossilasi/C17,20-liasi, enzima chiave nella biosintesi degli androgeni. Tale farmaco esplica chiari effetti antitumorali, mediante la riduzione della sintesi di ormoni androgeni a livello di testicolo, surrene e dello stesso tessuto prostatico.

Nell’ultimo anno sono stati pubblicati i risultati di LATITUDE, un ampio studio di fase III, randomizzato e in doppio cieco, che ha arruolato 1199 pazienti con malattia ad alto rischio in fase di sensibilità alla castrazione, aventi metastasi documentate agli esami d’imaging. Per essere eleggibili per lo studio, i candidati dovevano presentare almeno due delle seguenti caratteristiche associate con una prognosi peggiore: un Gleason Score≥8, almeno 3 lesioni scheletriche e la presenza di metastasi viscerali misurabili. Il totale dei pazienti è stato randomizzato a ricevere l’ADT associata ad Abiraterone (1000 mg/die in unica somministrazione) e Prednisone (5 mg/die, volto a ridurre gli eventi avversi da aumento dei mineralcorticoidi) o l’ADT combinata con un doppio placebo. Gli endpoint primari dello studio sono stati l’OS e la sopravvivenza libera da progressione radiologica. Per quanto riguarda il primo, il tasso di sopravvivenza globale è stato del 66% a 3 anni nel braccio trattato con l’aggiunta dell’Abiraterone e del 49% nei pazienti che ricevevano il placebo; inoltre, nei soggetti trattati con Abiraterone il rischio relativo di morte è stato del 38% più basso rispetto all’altro braccio del trial (Figura 2)75

. Anche il valore mediano della sopravvivenza libera da progressione radiologica è stato significativamente più alto nel gruppo trattato con Abiraterone (33 mesi contro i 14,8 mesi del gruppo placebo)75. L’Abiraterone ha confermato la sua superiorità sul placebo anche per ciò che concerne gli

endpoint secondari dello studio, ovvero l’intervallo di tempo libero da eventi scheletrici

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prima di intraprendere una nuova terapia e la chemioterapia, l’intervallo di tempo prima della progressione del dolore. Tuttavia, in termini di safety, è stato riportato un numero più alto di eventi avversi di grado 3 o 4 nel gruppo di pazienti trattati con Abiraterone75; nella fattispecie, l’attenzione è stata posta sullo sviluppo di tossicità direttamente riconducibili all’incremento dei mineralcorticoidi (quali ipertensione e ipopotassiemia) causato dall’inibizione dell’enzima target: tali reazioni sono state nettamente più frequenti nei soggetti trattati con la terapia di combinazione.

L’aggiunta dell’Abiraterone all’ADT nella fase di neoplasia metastatica ancora sensibile alla castrazione potrà diventare un valido ausilio terapeutico in uno specifico sottogruppo di pazienti, ovvero in coloro che presentano una malattia ad alto rischio; attualmente però tale farmaco non presenta ancora l’indicazione AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) per poter essere impiegato in questa fase, ma solo nella malattia resistente alla castrazione.

Recentemente, sono emersi i primi dati relativi ad un confronto tra Abiraterone e Docetaxel nei pazienti sensibili alla castrazione, al fine di individuare differenze significative tra i due trattamenti. Una metanalisi ha preso in considerazione i risultati degli studi STAMPEDE, LATITUDE e PEACE-1(in corso): l’Abiraterone sembra avere un beneficio per ciò che concerne la sopravvivenza globale e la sopravvivenza libera da progressione clinica e radiologica; nei pazienti trattati con Abiraterone si osserva un maggior numero di eventi avversi severi di tipo cardiovascolare ed epatico, mentre nei soggetti trattati con Docetaxel la principale tossicità è quella ematologica (in particolare neutropenia e neutropenia febbrile)76. Il follow up di questi pazienti è piuttosto breve; come tale, sono necessari altri studi al fine di stabilire quale dei due farmaci possa essere più indicato e in quali pazienti (considerando inoltre il diverso profilo di tossicità). Un ulteriore punto interrogativo è quello relativo ad un possibile effetto additivo di questi due farmaci: la seconda fase dello studio PEACE-1

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potrebbe nei prossimi anni fornire risultati riguardo una possibile terapia di combinazione che preveda l’aggiunta sia di Abiraterone che di Docetaxel all’ADT nei pazienti sensibili alla castrazione.

1.8 TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA RESISTENTE ALLA CASTRAZIONE

1.8.1 Generalità

Con il termine di carcinoma prostatico resistente alla castrazione (Castration Resistant Prostate Cancer, CRPC) si intende un condizione abbastanza eterogenea, caratterizzata da una progressione di malattia a seguito della castrazione (medica o chirurgica), in presenza di livelli di castrazione di testosterone (<0,5 ng/mL). La progressione di malattia a CRPC può essere definita in accordo con i criteri del Prostate Cancer Clinical Trials Working Group 3 (PCWG3)77, mediante il riconoscimento di un trend in rialzo del PSA o il riscontro di una progressione delle lesioni a livello osseo, linfonodale o viscerale. La gran parte dei pazienti al momento della diagnosi di CRPC presenta metastasi, per lo più a livello scheletrico (circa l’84%)78

.

La castrazione ottenuta mediante terapia farmacologica (o, meno modernamente, con un intervento chirurgico) è in grado di indurre un certo grado di risposta nei pazienti con malattia metastatica per un tempo mediano di 14-30 mesi79. Nonostante risponda all’ormonoterapia in questa prima fase, la maggior parte dei soggetti successivamente mostra una progressione di malattia, entrando perciò in una fase successiva della storia tumorale e richiedendo in genere una modifica della terapia. L’evoluzione verso la resistenza alla castrazione è accompagnata

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da un peggioramento della prognosi (la sopravvivenza dei pazienti con CRPC metastatico si aggira intorno ai 14 mesi78) e della qualità della vita (connesso con l’insorgenza di dolore osseo ed eventuali eventi scheletrici, quali fratture, cedimenti vertebrali e compressione midollare78).

Sono stati proposti numerosi meccanismi molecolari per spiegare l’evoluzione della malattia. Un evento critico alla base della resistenza alla castrazione è sicuramente l’iperespressione del recettore androgenico, che conduce ad una sua attivazione a dispetto dei bassi livelli di testosterone circolanti; inoltre, l’insorgenza di mutazioni può ridurre la specificità recettoriale, permettendo la trasmissione del segnale a seguito del legame con ligandi differenti dagli androgeni80. A dispetto dei bassi livelli plasmatici di androgeni, la concentrazione intratumorale di testosterone potrebbe mantenersi su valori più elevati, sufficienti a stimolare la crescita neoplastica: le cellule tumorali potrebbero acquisire meccanismi atti ad accumulare androgeni, grazie al sequestro della Sex Hormone Binding Globulin e alla disregolazione di enzimi deputati alla biosintesi e al metabolismo ormonale81. Altre ipotesi chiamano in causa la mutazione a carico del gene oncosoppressore PTEN (Phosphatase and tensin homolog) codificante per una fosfatasi implicata nella regolazione del ciclo cellulare, la downregulation dell’attività immunitaria e l’aumento dei processi di angiogenesi tumorale80

.

In passato, era solito riferirsi alle due fasi della malattia con i termini di tumore ormonosensibile e ormonorefrattario, descrivendo la risposta al trattamento farmacologico; nell’ultima decade tale terminologia è stata progressivamente abbandonata, non essendo in grado di riflettere i meccanismi alla base della progressione tumorale79. Oggi è consigliabile distinguere le due fasi sulla base della sensibilità o resistenza alla castrazione: è stato infatti ampiamente dimostrato come anche nel CRPC permanga comunque un certo livello di

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