È noto che il trust rinvenga la sua origine nel diritto inglese in seno all’Equity265 e che, nei paesi di common law, costituisca uno degli strumenti più importanti e diffusi per la trasmissione della ricchezza familiare, tanto che l’istituto è spesso trattato, nella manualistica, nella sezione dedita al diritto successorio266. L’accoglimento dell’istituto nell’ambito del civil law, invece, è avvenuto con la Convenzione de l’Aja del 1985, ratificata dall’Italia con la legge n. 364 del 1989 ed entrata, infine, in vigore il 1° gennaio del 1992: nella Convenzione, peraltro, si dettava al tempo stesso una normativa volta non soltanto alla risoluzione di conflitti tra le leggi degli Stati aderenti, ma anche a fissare alcuni requisiti minimi, indispensabili per gli interpreti degli Stati di civil law.
Orbene, l’istituto delineato dalla Convenzione può considerarsi come un compromesso tra le diverse tradizioni giuridiche degli estensori, di common e di civil law: si è detto, in dottrina, che la Convenzione descriva non il trust in sé, ma “quali rapporti devono essere riconosciuti dagli stati aderenti con il nome di trust”267. In particolare, l’art. 2 della Convenzione definisce l’istituto, stabilendo:
265 Per un inquadramento della storia dell’istituto, LUPOI, Trusts, I) Profili generali e
diritto straniero, in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1995.
266 In PROBERT, Succession Law in England and Wales, 2007, in International
Encyclopedia of Laws, l’istituto del trust è trattato nel paragrafo “Acts inter vivos Related to te Estate”, all’interno della sezione dedita al succession Law.
267 ROVELLI, Libertà di scelta della legge regolatrice, in Trusts e att. fiduc., 2001,
“Per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente-con atto tra vivi o mortis causa- qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato.
Il trust è caratterizzato dai seguenti elementi:
a) I beni del trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee;
b) I beni in trust sono intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee;
Il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust o in conformità delle norme imposte dalla legge al trustee.
Il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà o che il trustee abbia alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”.
Orbene, del dato normativo si deve in primo luogo porre l’attenzione sull’espressione “rapporti giuridici”: da questa si ricava, infatti, che il trust non può avere una personalità giuridica autonoma, che sia indipendente da quella del trustee268. In secondo luogo, la norma individua i soggetti coinvolti e la struttura dell’atto: un disponente, nel possesso della piena capacità, manifesta la volontà di porre in essere un rapporto giuridico in virtù del quale determinati beni siano assoggettati al controllo di almeno un trustee; ciò a favore di un beneficiario o nei riguardi di un determinato fine. Nondimeno, dall’ultimo comma dell’articolo de quo si desume come sia possibile che il trustee sia al medesimo tempo il beneficiario; inoltre, potrebbe esservi una
268 VALAS, La convenzione dell’Aja e la legge regolatrice straniera, in Trust. Aspetti
sostanziali e applicazioni nel diritto di famiglia e delle persone, I, 2010, 53; cfr.
coincidenza tra il disponente e il trustee269. Un’altra caratteristica del
trust individuato dalla Convenzione riguarda la segregazione patrimoniale: questo, infatti, forma una massa distinta dal patrimonio del trustee, applicandosi necessariamente gli effetti segregativi minimi stabiliti dalla Convenzione nell’art. 11270. In particolare, nel primo comma dell’art. 11, in cui è dettata la disciplina minima, che si applica qualunque sia la legge scelta dal disponente ex art. 6271, si afferma che, in base al riconoscimento, il trustee può agire nella propria qualità, in ogni fatto o atto, a prescindere da qualsiasi conflitto di norme e senza che alcuno possa indagare in merito al titolo col quale questi agisca; differentemente, i requisiti ex secondo comma sono riconosciuti solo nella misura in cui essi siano previsti dalla legge applicabile272. Il conseguente articolo 12273, invece, dettato eminentemente per i paesi di
269 VALAS, op. cit., 55, dove si afferma in proposito: “il disponente può dichiarare
che, da un determinato momento, tiene determinati beni del quale trustee di un trust alle cui regole e condizioni, da tal momento, dichiara di conformarsi, con annessi obblighi e doveri. E’ questo il c.d. trust autodichiarato, ben conosciuto in tutti gli ordinamenti degli Stati-trust ove è frequentemente utilizzato.”
270 Si riporta il testo dell’articolo 11: “Un trust istituito in conformità alla legge
determinata in base al capitolo precedente sarà riconosciuto come trust. Tale riconoscimento implica, quanto meno, che i beni in trust rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee, che il trustee abbia la capacità di agire ed essere convenuto in giudizio o di comparire, in qualità di trustee, davanti a notai o altre persone che rappresentino un’autorità pubblica. Nella misura in cui la legge applicabile lo richieda o lo preveda, tale riconoscimento implica in particolare: a) che i creditori personali del trustee non possano rivalersi sui beni in trust; b) che i beni in trust siano segregati rispetto al patrimonio del trustee in caso di insolvenza di quest’ultimo o di suo fallimento;
c) che i beni in trust non rientrano nel regime matrimoniale o nella successione del trustee;
d) che la rivendicazione dei beni in trust sia permessa nella misura in cui il trustee, violando le obbligazioni risultanti dal trust, abbia confuso i beni in trust con i propri o ne abbia disposto. Tuttavia, i diritti ed obblighi di un terzo possessore dei beni in trust sono disciplinati dalla legge applicabile in base alle norme di conflitto del foro”.
271 In base al primo comma dell’art. 6, “Il trust è regolato dalla legge scelta dal
disponente. La scelta deve essere espressa oppure risultare dalle disposizioni dell’atto che istituisce il trust o ne fornisce la prova, interpretate se necessario alla luce delle circostanze del caso.”
272 VALAS, op. cit., 62.
273 Art. 12: “Il trustee che desidera registrare beni mobili o immobili o i titoli relativi
a tali beni, sarà abilitato a richiedere l’iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che rilevi l’esistenza del trust, a meno che ciò sia vietato dalla legge dello Stato nella quale la registrazione deve aver luogo ovvero incompatibile con essa”.
civil law e correlato direttamente al primo comma dell’articolo 11, prevede la possibilità, necessaria ai fini della segregazione patrimoniale quando la legge richieda precipue forme pubblicitarie, di trascrivere la propria qualità di trustee: questo non solo quando sia prevista una forma di pubblicità costitutiva del diritto, ma anche quando essa abbia la funzione dichiarativa di garantire l’opponibilità ai terzi del diritto stesso274.
Una delle principali questioni che la Convenzione ha posto, oggi ritenuto risolta, è stato quella dell’ammissibilità del c.d. “trust interno”, espressione con cui si fa riferimento al trust i cui elementi soggettivi e obiettivi siano legati ad un ordinamento che non qualifica lo specifico rapporto come trust, mentre questo sia regolato d una legge straniera che gli attribuisca tale qualificazione275: ad esempio, si può pensare al caso del cittadino italiano che istituisca un trust su beni collocati in Italia a favore di beneficiari residenti, in cui il trustee, anch’egli residente in Italia, gestisca e amministri i beni secondo la disciplina di una legge straniera che disciplina il trust. Orbene, una parte della giurisprudenza276, recependo un indirizzo dottrinario alquanto
274 VALAS, op. cit., 63 ss.
275 Il primo a utilizzare tale espressione fu LUPOI, Trusts, cit., 546, laddove contestava
quanti utilizzavano l’espressione trust domestico, affermando che “domestico non ha
mai avuto cittadinanza nel diritto se non nel senso di “riguardante la domus” come in “collaboratrice domestica” o “economia domestica” con il medesimo suffisso che si trova in rustico; invece interno di contrappone a esterno o estero e per “ordinamento interno” si deve intende comunemente l’ordinamento del foro. Nel campo del trust l’aggettivo interno potrebbe allora designare due distinti fenomeni: sia i trusts retti dal diritto italiano sia i trusts i cui elementi soggettivi e oggettivi sono interamente (o prevalentemente) localizzati in Italia”.
276 In questo senso, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 17 luglio 1999, in Trusts e attività
fid., 2000, 251 ss; Trib. Belluno, 25 settembre 2002, in Trusts e attività fid., 2003,
329, dove si afferma “Non ammettendo il nostro ordinamento negozi di trasferimento
privi di causa e dovendo applicarsi, a norma dell’art. 4 della Convenzione dell’Aja, la legge italiana alle questioni inerenti alla validità degli atti giuridici relativi alla costituzione dei trusts interni e/o al trasferimento di beni al trustee, gli atti di attribuzione di beni ad un trust interno sono nulli in ragione del combinato disposto degli artt.1325, n. 2 e 1418, comma 2°, c.c.”.
diffuso277, riteneva l’istituto de quo non ammissibile: in particolare, si
affermava che le parti non possano sottrarsi alla disciplina dell’ordinamento che non contempla l’istituto in esame quando in questo siano collocati tutti i soggetti e i beni da questo interessati278. Nondimeno, la dottrina più autorevole279 non ha mai posto in dubbio l’ammissibilità del trust interno: in particolare, il supporto testuale di tale orientamento si rinviene nell’art. 6 della Convenzione, il quale, come si è già visto, consente alle parti di scegliere la legge applicabile al trust con la massima autonomia, prescindendo dunque dal luogo di amministrazione del trust, dall’ubicazione dei beni in trust nonché dal luogo di residenza del trustee ovvero da quello in cui realizzare la finalità del trust; dopo un lungo periodo di oscillazione, la giurisprudenza si è infine assestata su tale ordine di idee, bocciando oggi in modo pressoché unanime la tesi dell’irriconoscibilità del trust interno280.
277 BROGGINI, Il trust nel diritto internazionale privato, in BENEVENTI (a cura di), I
trusts in Italia oggi, Milano, 1996, 11; FUMAGALLI, La convenzione dell’Aja sul trust
e il diritto internazionale privato, in Dir. commerciale internazionale, 1992, 560.
278 In tal senso BROGGINI, op. cit., 11 ss.
279 Il riferimento è sempre a LUPOI, Trusts, cit., 516; in questo senso anche BRAUN,
Trusts interni, in Riv. dir. civ., 2000, II, 573.
280 Tra le numerose sentenze in tal senso, molto importante quella di Trib. Bologna,
1° ottobre 2003, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2004, 826 ss. con nota di RENDE,di cui si riporta un significativo estratto: “Al contrario, è elemento sicuro,
che emerge dalla Convenzione, l’assoluta libertà di scelta della legge regolatrice del trust da parte del settlor (secondo autorevole dottrina “la libertà incondizionata del disponente ... costituisce il pilastro della Convenzione de L’Aja”); infatti: – non ha senso affermare che la Convenzione riguarda esclusivamente i trust “stranieri”. La Convenzione non indica quale presupposto per la sua applicazione la presenza di elementi di estraneità ulteriori rispetto alla scelta della legge straniera applicabile, purché il diritto applicabile ex art. 6 (o, eventualmente, ex art. 7) della Convenzione conosca il trust o la categoria di trust in questione, secondo l’espressa prescrizione dell’art. 5; proprio quest’ultima disposizione conferma che l’unico presupposto applicativo della disciplina convenzionale (e del consequenziale riconoscimento del trust istituito) è la specificazione di una legge secondo le disposizioni del Capitolo II. Ragionando sul significato da attribuire al concetto di trust “straniero”, da una parte, pare scontato che il riconoscimento del trust (artt. 11 ss. Convenzione) postula l’esistenza di un fenomeno giuridico estraneo al diritto interno (quale è, pacificamente, l’istituto del trust); dall’altra, poiché i lavori preparatori della Convenzione – sui quali si dirà in seguito – hanno escluso qualsiasi limitazione legata al sito dei beni in trust o alla nazionalità/residenza del disponente o dei beneficiari, il “riconoscimento” può prospettarsi anche quando il trust è soltanto regolato da una legge straniera e questo è l’unico elemento di estraneità, necessario e sufficiente, per
Non può portare ad escludere l’ammissibilità del trust interno neppure la norma contenuta nell’art. 13 della Convenzione, il quale recita: “Nessuno stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”.
Orbene, secondo la dottrina maggioritaria281, questa non deve essere riferita a “trust interni”: il giudice, infatti, può non riconoscere il trust quando i suoi elementi essenziali siano più strettamente connessi a Stati che non riconoscano quel particolare tipo di trust. Dunque, quando ci si chiede in quali casi il giudice possa negare il riconoscimento, secondo la dottrina in esame, si deve ritenere che l’art. 13 costituisca una norma di chiusura, un rimedio estremo applicabile soltanto ai casi in cui il giudice ritenga che quel trust produce degli effetti inaccettabili in quel dato ordinamento sebbene non sia ravvisata la violazione delle norme impositive di limiti contenute nella Convenzione, ovverosia degli articoli 15, 16 e 18282.
Di questi, l’articolo più rilevante ai fini del presente lavoro è il 15, che recita:
“La convenzione non costituisce ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di
farsi applicazione della disciplina convenzionale e delle norme di conflitto in essa contenute. In definitiva, “non esiste il trust che, retto da una legge straniera, sia «non abbastanza straniero» per alcun effetto previsto dalla Convenzione”: questa trova il presupposto della propria applicazione tutte le volte che un trust si trovi a spiegare effetti in un ordinamento diverso da quello dal quale è disciplinato. Del resto, la stessa previsione dell’art. 13, relativo alla facoltà concessa agli Stati di escludere il riconoscimento dei cc.dd. trust “interni”, sta proprio
a significare che, almeno in linea di principio, detti trust sono compresi nell’ambito di applicazione della disciplina di cui alla Convenzione de L’Aja.
281 VALAS, op. cit., 66; LUPOI, ult. op. cit., 5; ROVELLI, Libertà di scelta della legge
regolatrice, in Trusts, 2001, 514.
leggi quando con un atto volontario non si possa derogare ad esse, in particolare nelle seguenti materie:
(…)
c) Testamenti e devoluzione ereditaria, in particolare la successione necessaria;
Da questa disposizione, quindi, emerge che perché il trust possa essere usato con funzione successoria, dovrà valutarsene la compatibilità, soprattutto, con il divieto di patti successori ex 458 c.c. nonché con le norme poste a tutela dei legittimari.
Si è già affermato, in dottrina283, che nel nostro ordinamento sarebbe in vigore un principio di unità della successione, in base al quale non è prevista differenziazione alcuna, nella regolamentazione della successione, sulla base della natura dei beni ovvero dei bisogni dei soggetti coinvolti dalla successione: in particolare, si è già visto, introducendo il patto di famiglia, come nel caso dell’azienda il profilo della continuità, che assume un’importanza capitale, sia messo a repentaglio dalle dinamiche classiche della successione mortis causa, la quale si è più volte detto che non guarda alla natura del bene ma regola la vicenda successoria nella sua interezza, come un evento indissolubilmente unitario284. Orbene, proprio per aggirare alcune di queste problematiche, la dottrina285 ha prospettato, per tali situazioni,
un uso precipuo del trust, il quale, pur con forma di atto inter vivos, andrebbe in tal modo a proiettare i suoi effetti al di là della morte del settlor: in particolare, nel negozio in questione, il proprietario del bene
283 IEVA, Sub. art. 458 c.c., in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli,
Torino, 2009, 32; DE NOVA, Successioni anomale, in Dig. disc. priv., 182 ss.
284 Circa i problemi derivanti dai meccanismi successori ordinari per la trasmissione
dell’impresa, PALAZZO, Istituti alternativi al testamento, Napoli, 2003, 240 ss.
285 In questo senso numerosi autori, tra cui ROMANO, Gli effetti del trust oltre la morte
del disponente: dal trust in funzione successoria al trust testamentario, Notariato,
2014, 597; SICLARI, Trust e passaggio generazionale d’impresa, Trusts e attività
produttivo ne trasferisce la titolarità a un trustee, prevedendo al tempo stesso che a determinate scadenze il trustee corrisponda un reddito al beneficiario e che soprattutto, scaduto il trust (in un momento successivo rispetto alla morte del settlor imprenditore), questi ne trasferisca la proprietà al beneficiario medesimo. Invero, le problematiche che questo meccanismo apparentemente complesso permette di risolvere sono molteplici, per cui occorre averne riguardo per ognuna delle fasi dell’operazione descritta.
In primo luogo, si è visto come l’azienda venga attribuita, in via transeunte, ad un trustee, soggetto di comprovata professionalità: in questo modo, si riesce dunque a evitare il pericolo di una vacatio nella gestione dell’azienda derivante dalla morte dell’imprenditore286. Nondimeno, è chiaro come l’elemento fondamentale del trust sia la definitiva attribuzione del bene, riservata al beneficiario finale: in virtù dell’effetto segregativo, infatti, si evita la frammentazione proprietaria tra gli eredi dell’imprenditore; assente uno stato di temporanea contitolarità, si evitano i rischi legati alla fase di divisione, spesso contrassegnata da conflittualità familiari, che possono pregiudicare anche pesantemente l’integrità patrimoniale nonché la produttività stessa del bene de quo287. Inoltre, l’utilità del trust rispetto al testamento emerge anche nell’ipotesi in cui l’imprenditore non sia in grado, come accade sovente, di scegliere a chi attribuire l’azienda: infatti, in tale ipotesi, si può attribuire al trustee il compito di individuare, anche successivamente rispetto all’apertura della successione, il soggetto beneficiario dell’attribuzione288. Infine, vi è un ultimo aspetto da considerare: l’effetto di segregazione patrimoniale derivante dal trust
286 ROMANO, op. cit., 597.
287 ROMANO, op. cit., ibidem.
288 Sul punto PISCHETOLA, Il trust quale strumento per la successione generazionale
dell’impresa, in Vita notarile, 2010, 960, dove si parla di “valutazione postuma e ragionata da parte del trustee dei bisogni, delle attitudini professionali, delle reali capacità imprenditoriali del o dei beneficiari, al fine di attuare il piano di intenti del disponente”.
impedisce il cumularsi sul patrimonio aziendale di pretese creditorie derivanti dalla caduta in successione dell’impresa289.
Alla luce di tali considerazioni, la risposta ai quesiti posti in precedenza assume un’importanza capitale, dal momento che, nel caso in cui fosse positiva, potrebbe introdurre un importante elemento di flessibilità in un sistema rigido come quello successorio italiano e del quale, d’altro canto, proprio nel divieto ex 458 c.c. e nel sistema di tutela dei legittimari sono individuati gli elementi di massima rigidità.
Per quanto riguarda il divieto dei patti successori, bisogna verificare, secondo l’insegnamento della dottrina più autorevole, se si tratti di negozio funzionalmente mortis causa, cioè di un negozio la cui funzione sia di regolare rapporti e situazioni giuridiche che si formano in via originaria alla morte del disponente; invece, si ha un atto vivos con efficacia post mortem quando la morte costituisca solo modalità del negozio290. Dunque, solo nel primo caso potrà aversi un patto successorio (istitutivo), essendo invece perfettamente lecita la redazione di un atto con mera efficacia post mortem: in proposito, si è già evidenziato come la giurisprudenza291 abbia ricostruito alcuni indici che dovrebbero aiutare l’interprete a riconoscere quando si sia in presenza di un patto istitutivo. Orbene, nel caso del trust, secondo l’impostazione dominante292 in dottrina, da ritenersi condivisibile, non
289 ROMANO, op. cit., 598.
290 GIAMPICCOLO, Atto mortis causa, in Enc. dir., IV, cit. 291 Vedi supra, Cass. 13 febbraio 1995 n. 1683.
292 PALAZZO, X) Fenomeni parasuccessori, in Enciclopedia giuridica Treccani, 2002;
LUPOI, Trusts: Convenzione dell’Aja e diritto italiano, in Enciclopedia giuridica
Treccani, 1995; ROMANO, op. cit., passim; La dottrina contraria, invece, sostiene che tale uso del trust sarebbe illecito in base alla lettura combinata degli articoli 458 e 1344: sulla scorta di tale orientamento, il negozio dovrebbe considerarsi in frode alla legge in quanto posto in essere con lo specifico fine di aggirare una norma imperativa dell’ordinamento. In proposito, si può citare GAZZONI, Tentativo dell’impossibile