• Non ci sono risultati.

2.2 Kataribe

2.2.1 Ueno Keiko

Ueno Keiko lavora presso il museo della città come narratrice poiché vittima di Minamata, ha perso il marito e la figlia a causa della malattia. Attraverso una visitatrice di nome Eustacia Tan, che visitò il museo municipale di Minamata durante il suo viaggio in Giappone nel 2008, veniamo a conoscenza dell’esperienza vissuta da Keiko. Eustacia, colpita dal racconto della narratrice, decise di scrivere un libro elettronico riportando la testimonianza cui assistette136.

Keiko inizia il racconto parlando di come suo marito e suo fratello in un giorno di marzo dell’anno 1958 andarono a prendere come sempre il pesce e, tornando a casa, il braccio di suo fratello cominciò ad avere delle reazioni strane e la sua mano cominciò a tremare. Tutta la famiglia pensò che lui avesse contratto la malattia; allo stesso tempo suo marito divenne instabile e lei gli suggerì di recarsi in ospedale per una visita. La notte seguente Keiko non fu più in grado di capire cosa suo marito e suo fratello cercavano di dirle. Come lei sostiene, fu l’inizio di un periodo molto difficile e tormentato. Quando suo marito andò all’ospedale locale il dottore non seppe indicare con esattezza se si trattasse proprio dell’intossicazione da mercurio e suggerì di andare in un altro ospedale più grande che forse sarebbe stato in grado di fornirle delle risposte più precise. Keiko racconta di come all’ospedale gli altri fissavano suo marito in modo dispregiativo e di come il cuore le si spezzò quando le condizioni fisiche del marito peggiorarono tanto da non riuscire più ad afferrare le bacchette per mangiare. Eustacia comprese che in quegli anni Keiko e tutti quelli che accusarono i sintomi della malattia furono discriminati; vennero, infatti, maltrattati e derisi, oltre che allontanati dal resto della comunità. Per di più lei, essendo incinta, rivelò che la sua più grande preoccupazione fu di dover badare a suo figlio una volta nato. Pochi giorni passarono dalle visite in ospedale e, poiché il marito non riuscì più ad alzarsi, lei, andava a ritirare il quotidiano in giardino al suo posto. La donna dovette chiedere persino aiuto ai vicini per calmarlo, dato che era sempre arrabbiato e irascibile; dopo che riuscivano a tranquillizzarlo, lui scoppiava in un lungo pianto e allo stesso modo, come riporta Eustacia, anche Keiko finiva per piangere.

Un’altra difficoltà importante che i due dovettero sopportare, come accennato in precedenza, fu la discriminazione da parte di molte persone del vicinato, che pensavano

136 Eustacia T

AN, Keiko-san’s Story: An Account of the Minamata Tragedy, in “www.allsortsofbooks.blogspot.com”, gennaio 2012,

54

potesse essere una malattia contagiosa, essendo non ancora stata trovata la causa effettiva dell’epidemia. Persino suo padre, quando andava a farle visita, la incolpava e la rimproverava costantemente. Lei sostiene, però, che amando suo marito, l’avrebbe soccorso fino alla fine e la sua sofferenza era enorme nel sentirlo pronunciare parole come: “Odio gli ospedali, amo Minamata e la mia città. Quando morirò voglio morire qui”.137

Il marito di Keiko, con il passare dei giorni, peggiorò sempre più, fino a che una sera la picchiò come se fosse un matto. Lei spiega che in quel momento pensò che le reazioni del marito derivassero dal fatto che non si sentisse bene e dal troppo calore estivo, quindi gli suggerì di farsi un sonnellino per calmarsi; il 3 settembre 1985 morì. Durante il funerale, dice che la sua unica preoccupazione di quel momento era riuscir a crescere da sola il figlio che portava in grembo per garantirgli un futuro positivo; ma dopo tre mesi che diede alla luce una bambina dal nome Ryoko, sua sorella che venne a trovarla, battendo forte le mani per richiamare l’attenzione della piccola, questa sorrise versa una direzione opposta a dove lei era.

Subito la sorella pensò che quella povera creatura ingenua avesse contratto la stessa malattia del padre ed ebbe un litigio con Keiko a riguardo, che si preoccupò e portò la figlia in ospedale per fare un controllo in cui il medico le disse che Ryoko aveva una paralisi infantile. La donna tornò a casa stordita tanto che, per tutta la notte, pianse tenendo la figlia tra le braccia. Ogni giorno si recavano all’ospedale per fare le cure fino a che, due anni dopo, un dottore dell’università di Kumamoto che si era interessato alle ricerche inerenti al caso Minamata, venne a visitarla e le suggerì di andare al centro di salute dove vi erano altri quindici bambini con sintomi simili. Qui, Keiko osservò per tre anni il modo in cui i medici si prendevano cura di sua figlia e degli altri pazienti. Spiega ai visitatori che, quando toglievano il liquido dalla schiena di questi, lei piangendo sperava si fermassero.

Un giorno Ryoko impallidì e non si riuscì più a muovere; la madre cercò di protestare e chiedere quale fosse la causa, ma il dottore le rispose che l’avrebbe saputo solo quando uno dei bambini dell’ospedale sarebbe morto.

Molti genitori manifestarono davanti alla Chisso per ottenere dei risarcimenti. Eiko ricorda come, in una giornata fredda di dicembre, se ne stette seduta davanti all’azienda per un giorno interno con solo del latte e due pannolini; racconta che quel giorno c’erano persone che urlavano, gridavano per ricevere dei bonus e dei soldi.

137

55

Da questa sua esperienza capì come la felicità derivi dall’amore e dall’essere in salute, non dal denaro. La visitatrice Eustacia, ricordando sempre le parole di Keiko, descrive come, in una notte di marzo dell’anno 1961, Ryoko cominciò ad avere delle convulsioni. Lei, spaventandosi molto, all’una di notte, corse in ospedale mentre gridava alla figlia di non morire138.

Una volta arrivata in ospedale, però, il dottore le disse che era troppo tardi e la piccola morì.

Anche se inizialmente un pò titubante, Keiko decise di far sezionare il corpo della figlia, in modo da poter aiutare gli altri quattordici bambini. La donna spiega che la stanza in cui si fanno le autopsie sembrava una cucina al cui centro vi era un tavolo con sopra un coltello, simile a quello che si usa per tagliare la carne. La donna così riferisce durante la sua narrazione:

“come tenni tra le braccia mia figlia malata, allo stesso modo me ne corsi subito via.”139

Dopo quattro mesi dall’autopsia, Keiko apprese dal giornale che cosa fosse in realtà la malattia che in quel periodo si era diffusa tra gli abitanti e si rivolge agli ascoltatori, come riporta Eustacia, con queste parole:

“mi domando sempre il perché non abbiano trovato le cause della malattia prima e perché abbiano insistito a dire che mia figlia avesse una paralisi infantile, quando invece era la stessa malattia che causò la morte del padre.”140

Keiko confessa, inoltre, che quando si risposò, il dottore le disse che non avrebbe più potuto avere bambini; indi per cui, decise di lavorare all’ospedale Tōmeisuien per aiutare i malati congeniti in modo da sentirsi di nuovo una madre.

Eustacia afferma che le ultime parole di Keiko al museo furono:

“non lasciate che questa tragedia possa continuare e prendetevi cura della vostra salute; abbiate sempre un cuore caldo; non guardate male le persone e non

138 Eustacia T

AN, Keiko-san’s Story: An Account of…

139 Ibid. 140

56 discriminatele. Ѐ facile essere puliti e puri fuori ma è molto difficile esserlo dentro.”141