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UN WHITE CUBE VISIONARIO: NUOVI MUSEI E AMBIENT

i progetti museali e i disegni di allestimento di Giuseppe Panza

III. 1. UN WHITE CUBE VISIONARIO: NUOVI MUSEI E AMBIENT

La preferenza di Giuseppe Panza per un contenitore neutro è la caratteristica principale dei suoi interventi nello spazio espositivo. Tale prerogativa lo conduce a un processo di decostruzione del contenitore a partire dall’opera d’arte. Questa elaborazione teorico-pratica sul display non implica, tuttavia, l’applicazione pedissequa del modello museale e architettonico del White Cube di origine modernista. Il progetto per un Environmental Art

Museum e quello attuato a Basilea fanno emergere soluzioni di adeguamento alle specifiche

caratteristiche dello spazio, mentre testimoniano la ricerca di caratteristiche comuni da perseguire nell’ambiente espositivo.

La convergenza con la cultura del Modernismo si risolve principalmente sul piano di una lettura evoluzionistica dell’arte e della storia dell’arte, tuttavia non va intesa come riproposizione di quel paradigma espositivo nella relazione dell’opera d’arte con lo spazio museale. Come hanno evidenziato gli studi sul Modernismo, in tale congiuntura storica si afferma il topos dell’opera d’arte autoreferenziale, disposta in un contesto caratterizzato dalla presunta neutralità delle pareti bianche e dalla minimizzata presenza di oggetti, secondo la canonizzazione del modello che ne fece il direttore del MoMA, Alfred H. Barr.

In ambito modernista, la nuova concezione dell’arte si riflette sulle modalità espositive:

With the new, Modern vision of art as a self-sufficient entity, rather than as a functional, religious object, an illusion of reality, or a decoration, came the tendency to isolate it in so-called neutral spaces, removed from everyday life.4

La qualità atemporale dell’opera viene sancita attraverso uno «script of the transparent museum», concetto brillantemente teorizzato da Julia Noordegraaf in merito alla presentazione delle opere nei musei funzionalisti del secondo dopoguerra:

The post-war script of museum presentation can be characterized as a strategy of effacement and simultaneous self-negation. Everything that used to remind visitors of them being in a museum - monumental architecture,

decoration, furniture - had to go, leaving the museum practically transparent. In addition, all clues as to how to interpret the works of art were removed. [...]. The 'transparent' presentation gave the art works a unique and timeless appearance, for with the decorations gone all references to the past had gone too.5

In questo processo di “dematerializzazione” del museo si ritrovano le radici storiche del concetto di spazio “interiorizzato” perseguito da Panza nella teoria e nella pratica progettuale. Per quanto storicamente debitrice a questa visione, l’opera, nella concezione espositiva del collezionista, non svolge una funzione autoreferenziale ma interagisce con lo spazio che la circonda, condizionandolo e venendone condizionata. Pertanto essa non deve essere decontestualizzata, ma stabilire un rapporto simbiotico con l’ambiente architettonico.

Ciò non esclude, come vedremo, una relazione con gli edifici storici che consente anch’essa di enfatizzare l’aura e l’energia dell’opera. I criteri e le strategie espositive del collezionista si sviluppano in un momento storico fortemente contrassegnato sia dal concetto di site-specificity che dall’emergere dell’Arte Fenomenica, sensibile agli elementi immateriali e trasformativi dell’esperienza artistica. Entrambi questi sviluppi dell’arte del XX secolo, a nostro giudizio, devono essere tenuti presenti in una valutazione sul paradigma di Panza in merito al display, contribuendo al superamento della visione unidirezionale di stampo modernista.

Come emerge dai progetti museali, la funzione passiva del contenitore è determinata e resa necessaria dal fatto che l’opera è anche la sua presentazione. Inoltre, emerge che lo spazio deve relazionarsi all’opera in virtù delle sue stesse caratteristiche. Il passaggio decisivo, rispetto ai criteri espositivi dei musei del Modernismo e in quelli dell’architettura funzionalista del dopoguerra, appare la ridefinizione del contenitore a partire dall’opera d’arte, sia che si tratti di un luogo storico-monumentale che di un edificio industriale.6

Da questo punto di vista, la posizione di Panza trova rispondenza con la poetica di fondo dell’arte minimalista americana sulla relazione imprescindibile dell’opera con lo spazio e collima, nonostante le note divergenze sulla fabbricazione delle sculture, con quella di

5 Julia Noordegraaf, Strategies of Display: Museum Presentation in 19th and 20th Century Visual Culture, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen; NAi Publishers, 2004, p. 161.

6 Si pensi in particolare all’esempio costituito da Mies van der Rohe alla Neue Nationalgalerie di Berlino

Donald Judd. Tale assonanza si riscontra specialmente nelle concezioni dell’artista americano in merito allo spazio espositivo attuate presso la Chinati Foundation di Marfa in Texas, un complesso di ex edifici militari convertiti in museo aperto al pubblico dal 1986.7

Come osserva Karsten Schubert:

L’insistenza di Judd sul concetto di spazio in sé - che non deve essere portatore di altri significati se non la sua stessa spazialità, ossia una sorta di spazio tautologico - può essere letta come strategia per sfuggire al potere omologante del museo.

Difatti, l’autore aggiunge:

Per Judd, lo spazio doveva funzionare soprattutto in quanto spazio. Doveva essere neutro [...] e secondo il suo pensiero questo risultato si otteneva al meglio adattando edifici che già c’erano.8

Si tratta di caratteristiche affini all’approccio del collezionista rispetto agli edifici preesistenti. Tuttavia, si riscontra una differenza sostanziale rispetto alla visione dell’artista. Laddove Judd concepisce il suo “museo ideale” in diretta relazione con gli spazi immensi degli altipiani desertici del West Texas, Panza intende trasmettere al visitatore l’esperienza del deserto nella dimensione civica del museo e dello spazio espositivo storicamente connotato. Di conseguenza, «se è vero che l’esperienza della collezione ha simbolicamente qualcosa a che vedere con quella del deserto,»9 Panza opera da umanista, nel tentativo di conciliare l’esperienza introspettiva e conoscitiva dell’arte (che corrisponde all’ascetismo della cultura del deserto) con la dimensione storica, per quanto questa possa essere percepita dall’uomo contemporaneo come frammentaria. Il tentativo è quindi la ricostruzione di una totalità perduta.

7 Per la storia della fondazione si rimanda a: Marianne Stockebrand, Chinati: The Vision of Donald Judd, Marfa

(Tex); New Haven, Chinati Foundation; Yale University Press, 2010.

8 Karsten Schubert, Museo. Storia di un’idea. Dalla rivoluzione francese a oggi, Milano, Il Saggiatore, 2004

(ed. orig. The Curator’s Egg, London, One-Off Press, 2000), pp. 101, 102.

9 Giuseppe e Giovanna Panza collezionisti. Conversazione con Philippe Ungar, Cinisello Balsamo (MI),

Accanto a questo aspetto, emerge l’idea di un’esperienza fisica dell’arte in evidente relazione con le indagini degli artisti che interessarono Panza a partire dagli anni ’70. Siamo nel 1972 quando Bruce Kurtz, in un’intervista al collezionista, osserva acutamente: «You seem to be interested in the physical world and the imaginative ways artists have invented to deal with it»10; difatti Panza stava interessandosi alle investigazioni sulla corporeità in relazione allo spazio nelle opere di Bruce Nauman e alle indagini percettive di Irwin. Sono proprio questi gli anni in cui elaborerà una personale riflessione sull’Arte Ambientale con l’Environmental Art Museum.

1. 1. Il museo come ambiente: The Environmental Art Museum

Les musées, comme je les conçois, sont les lieux où des hommes peuvent vivre et peuvent avoir une vision synthétique de la vie réelle. [...] L'espace et l'architecture en seront organisés suivant les indications que je donne aux architectes. Et l'installation des oeuvres d'art sera conçue par moi-même, parce que je trouve essentiel que ce lieu soit vraiment quelques chose de différent des musées habituel. Quand on va voir des musées d'art contemporain, on a l'impression d'être au marché des arts; des oeuvres

différentes se choquent entre elles et s’annulent par les qualités opposées qu’elles ont. Tandis que pour comprendre vraiment la qualité d'une oeuvre d'art, il faut l’isoler; il faut la placer dans un

espace neutre, dans un espace homogène où il n'y a pas dés éléments contrastant.11

Nel 1974 fu pubblicata sulla rivista di arte contemporanea “Data”, diretta da Tommaso Trini, una proposta museale inedita e destinata a diffondersi presso i principali museo del mondo (Tav. VIII). Artefice ne fu Giuseppe Panza il quale, in qualità di collezionista, presentò per la prima volta la sua idea di museo dell’Arte Ambientale da realizzarsi con i progetti e le opere della collezione installati soltanto in minima parte nella villa di Varese. La

10 Bruce Kurtz, Interview with Giuseppe Panza di Biumo, “Arts Magazine”, New York, 46, n. 5 (March 1972),

pp. 40-43, qui p. 43. Corsivo dell’autrice.

11 Giuseppe Panza in Hervé Fischer, Entretien Hervé Fischer - Giuseppe Panza à Milan (Italie) février 1976,

proposta s’inserisce nell’ambito delle investigazioni sui musei che il collezionista andava compiendo dagli inizi degli anni ’70, con la finalità di trovare un’istituzione che potesse conservare le 80 opere della prima parte della collezione, in seguito confluite al MOCA di Los Angeles. Gli spazi di Varese erano ormai insufficienti per ospitare l’arte recentemente acquistata.

Si tratta di una proposta sperimentale e tuttavia concreta: un edificio da realizzarsi su tre piani con un ingombro massimo calcolato in 5.299 mq (Tav. IX). L’Environmental Art

Museum fu concepito come potenziale ampliamento di strutture museali preesistenti oppure

come museo da realizzarsi ex novo. Tale progetto fu principalmente motivato dalla necessità di ideare uno spazio museale apposito per le opere di grandi dimensioni, una nuova ricerca artistica verso la quale i musei del momento raramente si rivolgevano, sia in termini di acquisizioni museali sia di esposizioni temporanee. Per questo motivo, la proposta assunse una diffusione globale, come testimoniano i carteggi conservati presso il Getty Research Institute che consentono di ricostruire il contesto culturale e l’estesa rete di relazioni che il collezionista promosse allo scopo di esporre una collezione ormai giudicata matura per la fruizione pubblica.

Al centro del progetto si trova la relazione tra opera e ambiente investigata da Minimal

Art e Arte Ambientale. Ciononostante, Panza incluse anche alcuni artisti dell’Arte

Concettuale. Analizzando il disegno di allestimento, schematico ma preciso in quanto a suddivisione degli spazi, scelta degli artisti e dimensioni delle opere, emerge una definizione allargata di Arte Ambientale, non esclusivamente ricondotta alle tendenze denominate dalla critica statunitense Light & Space. Possiamo affermare che il progetto riguarda sia un museo dell’Arte Ambientale che l’idea di un museo ambientale tour court. Nel testo a corredo della pianta, Panza enfatizzò la necessità di reperire uno spazio omogeneo per le recenti tendenze dell’arte americana, incentrate sulle grandi dimensioni, in quanto «[...] lo spazio circostante determina la fruibilità intellettuale di ciò che vi si colloca.»12

Le considerevoli dimensioni delle opere comportano, secondo la prospettiva del collezionista, un allargamento del campo visivo allo spazio circostante, per tale motivo gli

elementi estranei al rapporto, da privilegiare, tra opera e spettatore devono essere eliminati. In linea con le problematiche sulla fruizione sollevate dagli artisti della Minimal Art, e da Donald Judd in particolare, Panza evidenziò l’esigenza di stimolare una concentrazione della visione.13 A suo giudizio, i musei sono raramente in grado di veicolare questa comprensione psicofisica dell’arte. In primo luogo, perché sono necessari ampi spazi per fruire correttamente le caratteristiche delle opere, che richiedono un approccio intuitivo da parte dello spettatore. In secondo luogo, se l’edificio ha velleità pseudo-artistiche viene a mancare la funzione stessa del museo. A ben guardare la pianta proposta, infatti, il principio basilare di tutto il progetto è la creazione di una struttura estremamente semplificata nella suddivisione degli spazi interni nei quali ogni stanza è dedicata a ciascun artista.

Si tratta di una struttura evidentemente riduzionista, ma la cui essenzialità non può andare nella direzione indicata dalla berlinese Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe, inaugurata sette anni prima. Benché non si menzioni alcun caso specifico di contenitore che prevale sul contenuto, non è da escludersi che il bersaglio della sua critica fosse questo edificio, primo museo in Europa a eliminare ogni connotazione storica, ma al contempo fortemente condizionante nella fruizione delle opere. Le amplie vetrate e l’assenza di pause tra un’opera e l’altra non potevano evidentemente concordare con l’esperienza intima e personalizzata che il collezionista propose in questo come in altri progetti.

Conversando con Pierre Restany negli anni ’90, dichiarò in merito agli architetti che avrebbero potuto realizzare un “contenitore” per la collezione:

Questa scatola ideale me la potrebbe fare Frank Gehry perché sa rispettare la neutralità degli spazi interni, si sbizzarrisce all'esterno. Invece un Richard Meier no, e anche Mies van der Rohe della grande Halle della Nationalgalerie di Berlino non mi convince affatto.14

Nelle intenzioni del collezionista, la vera sfida consisteva nel costruire una relazione osmotica tra contenuto e contenitore. Nel progetto, il museo diveniva ambientale in quanto

13 Si veda: Donald Judd, Complete Writings 1959-1975, Halifax, Nova Scotia College of Art and Design, 1975,

dove queste considerazioni emergono chiaramente e in più parti del testo.

14 Pierre Restany, Giuseppe Panza di Biumo: come mostrare l'arte, “Domus”, 747 (marzo 1993), pp. 14-16, qui

inclusivo di una serie di ricerche artistiche che ripensano criticamente i rapporti spaziali. Di conseguenza, Panza propose una lettura dell’arte Minimal e Concettuale sotto forma di ambienti. In aggiunta alla definizione di Arte Ambientale storicamente circoscritta all’arte prodotta a Los Angeles tra la fine degli anni ’60 e ’70, si trovano inclusi nella proposta esponenti della pittura minimalista e riduzionista come Robert Ryman. La suddivisione delle opere nei tre piani del museo avrebbe dovuto convogliare le diverse soluzioni di ricerca perseguite dagli artisti nei riguardi del rapporto con lo spazio.

Insieme a esponenti del Minimalismo, quali Dan Flavin e Donald Judd, il progetto comprendeva artisti tradizionalmente associati al movimento Light & Space. Inoltre, venivano presentate le ricerche sul linguaggio di Robert Barry, Joseph Kosuth e Lawrence Weiner, nel tentativo di evidenziare le caratteristiche ambientali di alcune tendenze in seno al concettualismo (di Kosuth sono incluse le Eight Investigations e le Definitions).15

Un interessante elemento che potrebbe sollecitare un’indagine monografica sul progetto, è l’inclusione di due opere site-specific destinate alla villa di Biumo: Varese Corridor (1976) di Flavin e Varese Scrim di Robert Irwin, quest’ultima in situ dal 1973. È un fatto piuttosto significativo in quanto denota un atteggiamento flessibile rispetto al concetto di site-

specificity, si tratta tuttavia di un approccio che Dan Flavin non condivideva. Come ha

evidenziato James Meyer, Panza avrebbe chiesto nel 1980 all’artista di poter realizzare il

Varese Corridor negli spazi della villa medicea di Poggio a Caiano, luogo da destinarsi a

museo dell’arte ambientale.16

Panza però si vide opporre il rifiuto dell’assistente dell’artista poiché l’opera era stata creata appositamente per i rustici della villa e non adattabile ad altri spazi. Nel 1972, due anni prima del progetto pubblicato su “Data”, Panza dichiarò a Bruce Kurtz: «I don’t like to have works made on commission for a specific space.»17 Nonostante l’anno successivo avrebbe

15 Il progetto incluse i seguenti artisti, oltre ai già citati: Bruce Nauman, Jan Dibbets, Richard Serra, Robert

Irwin, Michael Ascher, Richard Long, Brice Marden, Robert Mangold, Louis Cane, Alan Charlton, Lawrence Weiner, Maurizio Mochetti, Douglas Huebler, Robert Morris e Larry Bell.

16 Cfr. James Meyer, The Minimal Unconscious, “October”, n. 130 (Fall 2009), pp. 141-176, qui p. 156.

L’assistente di Dan Flavin, Helen Geary, scrisse a Panza il 30 settembre 1980: «Dan feels the corridor installation must remain in place at Varese. The work was designed specifically for that space and is, therefore, uniquely situated; it cannot be adapted to changed circumstance», p. 156.

chiesto a Irwin di intervenire negli spazi della villa, Panza rimase legato a una visione poco ortodossa del site-specificity, riconducibile alla sua concezione piuttosto eterogenea di Arte Ambientale. Al contempo, l’accezione di significato conferita dal collezionista trova una rispondenza abbastanza puntuale con il concetto di site-generated (o site-conditioned) di Robert Irwin. Secondo la prassi dell’artista californiano, il luogo determina la configurazione del progetto che si rende di conseguenza adattabile ad altri siti.18

La proposta di Panza, all’indomani della pubblicazione, sollevò reazioni da parte di direttori e curatori di museo in merito agli aspetti teorici così come prettamente operativi.19 La più interessante tra queste può essere ritenuta quella di Jean-Christophe Ammann, direttore del Kunstmuseum di Lucerna, poiché direttamente connessa alle problematiche museali sollevate dalla nuova arte.20 Nell’articolo intitolato Messinscena Ambientale. Come

va presentata l’arte contemporanea? Ammann mise al centro delle sue argomentazioni la

questione dei criteri espositivi, rilanciando una controproposta.21

Dichiarando che nessun museo sarebbe stato in grado di accogliere il progetto in ragione delle limitazioni di spazio disponibile, il curatore aprì a una questione di primaria importanza per la relazione tra mecenatismo e arte prodotta negli anni ’60: la crescente affermazione

18 Ammette Irwin: «By the seventies, people like Bob Morris were beginning to talk about ‘site-specific’ art:

that is, they would visit a site and tailor their proposal to the particular character of the site; but it was still very much their ideas overlaid onto this particular new site; or perhaps, phrased differently, their ideas in the version allowed by this site. What I’m moving toward in my recent work is something I would call, by contrast, ‘site- generated.’ The site in its absolute particularity dictates to me the possibilities of response.» In Lawrence Weschler, Seeing Is Forgetting the Name of the Thing One Sees: A Life of Contemporary Artist Robert Irwin, Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1982, pp. 194-195. Si rimanda anche a: Robert Irwin, Notes Toward a Conditional Art, introduced and edited by Matthew Simms, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2011.

19 Ricordiamo che la Biennale del 1976, curata da Germano Celant, faceva ampio ricorso al display

monografico per le sale dedicate agli ambienti nella ricerca contemporanea degli artisti: Blinki Palermo, Daniel Buren, Dan Graham, Joseph Beuys, Sol LeWitt, Mario Merz, Bruce Nauman, Jannis Kounellis, Vito Acconci, Robert Irwin, Maria Nordman, Dough Wheeler e Michael Asher. Germano Celant, Ambiente/Arte: dal futurismo

alla body art, Venezia, La Biennale di Venezia, 1977.

20 Curatore dalla prolifica attività, tra i primi ad occuparsi delle nuove ricerche tra gli anni ’60 e ’70, Jean

Christophe Ammann lavorò a fianco di Harald Szeemann tra il 1967-68 alla Kunsthalle di Berna. Dal 1978 al 1988 diresse la Kunsthalle di Basilea.

21 Jean-Christophe Ammann, Im Raum inszeniert. Wie soll zeitgenössische Kunst präsentiert werden?, “Basler

Zeitung”, Samstag 25. Januar 1975, pp. III-IV. Panza aveva fatto tradurre l’articolo dal tedesco, ci avvaliamo di tale traduzione per le citazioni che seguono.

della mostra temporanea nel processo di ricezione pubblica di tali ricerche artistiche, motivata dalla mancanza di ambienti espositivi nei musei.

Si tratta di un aspetto che, come abbiamo evidenziato, costituiva un motivo di preoccupazione per Panza in quanto, oltre a rendere difficile la realizzazione dei progetti e la sistemazione delle opere, andava di fatto a incidere sull’educazione del pubblico verso la nuova arte. Secondo il curatore tedesco, il museo si trovava nell’impossibilità di poter fornire una panoramica esaustiva sull’arte prodotta nel presente. In una situazione siffatta, il ruolo di promotore dell’arte era demandato alla figura del collezionista, malgrado in quel periodo si riscontrassero pochi casi di mecenatismo europeo di arte americana contemporanea.

L’acquisizione tardiva da parte del museo è, tuttavia, soltanto uno degli elementi del problema. A questo si deve aggiungere, secondo Ammann, la difficoltà da parte del museo ad acquisire nuclei consistenti di opere di un medesimo artista, specialmente se si tratta di progetti sulla carta. Per favorire una panoramica sull’attività di un artista il curatore preferisce acquisire opere già realizzate piuttosto che elaborazioni progettuali. Considerata da una prospettiva storica, si tratta di un’argomentazione senz’altro realistica alla luce delle

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