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2.1. La gestione italiana delle migrazioni internazionali: percorsi storici e criticità

Storicamente caratterizzata da elevati tassi di emigrazione1, l’Italia è divenuta paese di immigrazione in tempi relativamente recenti senza avere un progetto preciso con il quale

1

Come ha documentato Pierre George, l’Italia è stato il primo paese di emigrazione di massa nel XIX secolo perché gli squilibri tra il Nord ed il Sud hanno reso i meridionali coscienti «di una permanente frustrazione e della possibilità di una promozione economica e sociale, a condizione di partire» (P. George, Le migrazioni

internazionali, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 72). Non è possibile analizzare la lunga e complessa vicenda

emigratoria italiana e le conseguenze che essa ha generato sul tessuto sociale e sull’assetto produttivo della penisola. In questa sede ci limitiamo ad evidenziare come l’emigrazione sia stato il fenomeno sociale che, più di ogni altro, ha condizionato i cambiamenti sociali ed i processi di modernizzazione avvenuti in Italia e in particolare nel Mezzogiorno a partire dal dopoguerra. Oltre a migliorare le condizioni economiche e di vita dei contadini meridionali ed a trasformare i rapporti tra le classi sociali nelle aree del Sud, l’apporto del reddito proveniente dall’emigrazione ha contribuito ad innalzare il livello complessivo dei consumi, stimolando indirettamente lo sviluppo economico delle regioni industriali del paese. Per tutte queste ragioni, l’emigrazione come soluzione all’eccedenza di manodopera e agli squilibri territoriali interni alla penisola è stata caldeggiata non solo da esponenti governativi, ma anche da singoli studiosi, come ad esempio Manlio Rossi Doria (M. Rossi Doria, I prossimi dieci anni in Lucania, Discorso tenuto al Teatro Stabile di Potenza il giorno 8 ottobre 1947, in Riforma Agraria e azione meridionalista, Edizioni Agricole, Bologna 1956). Quanto alla periodizzazione storica dei processi di mobilità, basti qui rilevare come l’Italia abbia conosciuto due grandi esperienze migratorie verso l’estero: quella transoceanica degli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo – la cosiddetta “Grande Emigrazione”, prima verso l’Australia e l’America latina, dopo verso gli Stati Uniti – e quella del secondo dopoguerra verso la Francia, la Svizzera, la Germania ed il Belgio. Oltre alle partenze verso i paesi esteri, il paese ha altresì registrato una significativa emigrazione interna: i venti anni compresi tra il 1955 e il 1975 sono considerati quelli della più intensa emigrazione dalle città del Sud verso le aree del Centro Nord e, in primo luogo, verso quelle del triangolo industriale. A partire dagli anni Settanta si è assistito ad una radicale inversione di tendenza dei movimenti di popolazione: da una parte si è registrato un aumento delle migrazioni di ritorno, dall’altra parte si è verificata una trasformazione dei movimenti di emigrazione, che si sono contraddistinti da quelli delle fasi storiche precedenti perché connotati da un più alto livello di scolarizzazione di coloro che decidevano di trasferirsi all’estero. Ciò è dipeso non soltanto dalla crescita del livello medio di scolarità della popolazione italiana, ma anche dal nuovo tipo di collocazione degli emigranti italiani all’estero. Per un confronto su queste tematiche, tra gli altri, si rimanda a: P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Roma-Bari 2007; E. Pugliese, L’Italia tra

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gestire il fenomeno. Al pari degli altri late comers dell’immigrazione in Europa2, i primi arrivi dei cittadini stranieri sono collocabili alla fine degli anni Sessanta quando giunsero sul territorio nazionale individui provenienti dal vicino Maghreb e dalle ex colonie del Corno d’Africa, ai quali si aggiunsero successivamente anche migranti di origine asiatica, centro-africana e centro‐americana. Fin da allora, gli organi del governo si trovarono a fare i conti con movimenti migratori molto diversi tra loro per composizione nazionale, lavorativa e di genere, scontrandosi con le difficoltà connesse alla loro regolamentazione politica:

Il primo di questi flussi è costituito da lavoratori tunisini impiegati in agricoltura e nella pesca in alcune aree della Sicilia (il porto peschereccio di Mazara del Vallo e alcune aree di agricoltura intensiva soprattutto nel Trapanese). L’altro ha invece provenienze molto varie e distanti fra di loro (paesi cattolici dell’America latina e dell’Asia o ex colonie italiane) ed è costituito in prevalenza da donne impegnate soprattutto nel lavoro domestico3.

Considerati inizialmente eventi episodici e marginali – legati alla crisi economica del momento e al consequenziale blocco delle frontiere da parte dei paesi dell’Europa industrializzata –, tali arrivi si sommarono alla quota dei cittadini italiani che, attratti dal miglioramento delle condizioni economiche ed occupazionali del paese4, scelsero di rientrare dalla loro esperienza di emigrazione all’estero5. L’anno nel quale si verificò per la

2

U. Melotti, Migrazioni internazionali. Globalizzazione e culture politiche, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 135.

3

E. Pugliese, op. cit., p. 67.

4

I processo di rientro degli emigrati italiani va compreso meglio alla luce dello sviluppo economico che si verificò in quel particolare momento storico. Come ha messo in evidenza Sandro Trento, gli anni Cinquanta del Novecento segnarono la definitiva affermazione dell’industria: «il reddito nazionale crebbe a un tasso di quasi il 6% annuo, il contributo dell’industria alla formazione di prodotto interno lordo privato passò dal 41,2% al 44,7%. Si svilupparono i comparti ad alta intensità di capitale e a più elevato contenuto tecnologico, iniziò la migrazione interna dalla campagna alla città, dal Mezzogiorno e dal Veneto verso le regioni del triangolo industriale. Il forte incremento della produttività che ebbe l’Italia proprio a partire dagli anni Cinquanta (anni del miracolo economico), permise al nostro paese di entrare a far parte del novero delle grandi potenze economiche mondiali» (S. Trento, Il capitalismo italiano, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 77- 78). Per un confronto su questo tema si rimanda, tra gli altri, anche a V. Castronovo, L’Italia del miracolo

economico, Laterza, Roma-Bari 2010.

5

Oltre che alla congiuntura economica negativa degli anni Settanta, la riduzione dei flussi migratori in uscita è legata ad un compesso di fattori interni. A questo proposito, risulta molto esaustiva l’analisi proposta da Eros Moretti nel 1990: «Lo sviluppo economico e industriale che in questo periodo aveva caratterizzato

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prima volta un saldo migratorio attivo fu il 1973, «e ciò dopo che, nel corso dei precedenti cento anni, tra i 27 e i 30 milioni di italiani erano andati, come si soleva dire allora, a cercar fortuna all’estero»6

. Tale processo contribuì a determinare una cruciale inversione di tendenza, destinata a ripercuotersi significativamente non soltanto sugli assetti societari della penisola italiana, ma anche sui rapporti internazionali dei governi nazionali:

Col 1973 si può dire che per l’Italia si sia chiusa un’epoca; dopo oltre un secolo di emigrazioni […] si apre un periodo in cui il saldo migratorio netto, ossia la differenza tra tra rimpatriati ed espatriati, si mantiene costantemente positivo. Non solo, ma quasi contemporaneamente l’Italia diventa polo di attrazione per un significativo flusso migratorio dai paesi del Terzo mondo7.

A testimonianza della diffusa inconsapevolezza con la quale le istituzioni affrontarono le trasformazioni geopolitiche di quel cruciale momento storico8, il paese cominciò a scoprirsi come area di immigrazione soltanto nel decennio successivo, in seguito alla pubblicazione dei dati relativi al XII Censimento generale della Popolazione del 19819, che consentirono di rilevare in via ufficiale come i movimenti umani in entrata si collocassero su livelli più elevati rispetto a quelli in uscita:

per la prima volta nella storia dell’Italia del dopoguerra l’entità complessiva della popolazione presente nel paese alla data del censimento risultava superiore a quello della popolazione residente:

anche il nostro paese, o almeno una parte di esso, aveva reso meno drammatica la piaga della disoccupazione e della sottoccupazione e favorito il parziale rientro degli emigrati; le migliorate condizioni economiche e culturali della popolazione avevano inoltre reso meno disponibili i giovani, compresi quelli delle regioni del Mezzogiorno ad emigrare per un lavoro qualsiasi» E. Moretti, La presenza straniera in Italia dai dati

censuari, in Id. (a cura di), I movimenti migratori in Italia in un quadro di riferimento internazionale, Atti del

convegno organizzato dall’Istituto di Matematica e Statistica dell’Università di Ancona, Clua, Ancona 1990, p. 59.

6

G. Scidà, Politiche europee d’integrazione sociale, in G. Scidà, G. Pollini, Stranieri in città. Politiche

sociali e modelli d’integrazione, FrancoAngeli, Milano 1993, p. 20.

7

A. Sala, Immigrati del Terzo Mondo in Lombardia, Eurostudio, Milano 1980, p. 10.

8

È importante sottolineare come l’impreparazione nei confronti del fenomeno migratorio coinvolse in quel periodo, oltre alle istituzioni, anche alcuni eminenti studiosi. A questo proposito, è emblematico evidenziare come Pierre George ne il suo Le migrazioni internazionali del 1978, pur registrando in Italia una quota non trascurabile di forza-lavoro proveniente dall’Africa e anche dall’Asia ed impiegata irregolarmente nel settore agricolo e in quello dei lavori domestici e familiari, non abbia incluso il paese tra le aree europee di immigrazione. Per un confronto si rimanda a P. George, op. cit., pp. 38 e sgg.

9

Istat, XII Censimento Generale della Popolazione, Atti del Censimento, 25 ottobre 1981, vol. IV, Istat, Roma 1987.

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________________________________________________________________________________ in altri termini c’era più gente in Italia di quanta di quanta non ne risultasse iscritta presso le anagrafi comunali. In passato, invece, soprattutto nelle regioni meridionali, la maggiore consistenza numerica della popolazione residente aveva indicato l’esistenza di un flusso in uscita. Ciò per il semplice fatto che la cancellazione anagrafica avviene sempre dopo un certo lasso di tempo dalla partenza10.

Data la sua tradizione emigratoria e l’assenza di strumenti legislativi11 con i quali regolare gli spostamenti di immigrazione, l’Italia rappresentò la meta verso la quale una quota sempre più significativa di individui indirizzò il proprio progetto migratorio in Europa. I migranti fecero registrare una notevole crescita della loro presenza nel periodo dei cosiddetti golden eighties (1982-1989), anche in seguito al consolidarsi di ulteriori limitazioni all’immigrazione nei paesi tradizionalmente importatori di manodopera migrante. Secondo i dati del Ministero dell’Interno italiano, riportati qualche anno fa in uno studio pubblicato da Umberto Melotti12, il numero dei cittadini stranieri regolarmente residenti nel territorio nazionale si raddoppiò nel corso degli anni Settanta, passando dai 150.000 del 1970 ai 300.000 del 1980 e raggiungendo quasi le 800.000 unità nel 1990. Nonostante l’acuirsi di una nuova fase recessiva13

ed il consolidarsi dei primi provvedimenti legislativi finalizzati a contenere gli ingressi non autorizzati,

10

E. Pugliese, op. cit., p. 68.

11

Come ha sottolineato Corrado Bonifazi, i nuovi movimenti di immigrazione verso l’Italia si trovarono davanti ad una legislazione praticamente inesistente, tanto che «una delle cause più frequentemente indicate per spiegare l’inizio dei flussi verso l’Italia è proprio l’assenza di una normativa adeguata e di controlli efficaci, nel momento in cui i tradizionali paesi d’arrivo mettevano in atto politiche di ingresso sempre più restrittive» (C. Bonifazi, L’immigrazione straniera in Italia, Il Mulino, Bologna 1998, p. 90). Questo vuoto legislativo – che ha peraltro accumunato in questa specifica fase storica tutti i paesi dell’Europa meridionale trasformatisi, al pari dell’Italia, solo da pochissimi anni in aree di immigrazione – «si è trovato così a rappresentare un potente fattore di attrazione verso quelle correnti migratorie che negli anni precedenti trovavano il loro sbocco naturale nell’Europa centrosettentrionale» (Ibid.). A questo proposito, particolarmente suggestive, per via della loro portata predittiva rispetto all’attuale modello italiano di

governance delle migrazioni internazionali, sono anche le considerazioni di George Tapinos il quale, nel

sottolineare il ritardo con cui l’Italia si è dotata di dispositivi giuridici atti a governare i movimenti migratori, già nel 1989 ha ribadito come il tradizionale atteggiamento di difesa dei propri emigrati abbia condizionato l’attitudine dei governi nel procrastinare le scelte politiche in materia di immigrazione. Per un confronto si veda: G. Tapinos, Il futuro delle migrazioni Sud-Nord nel bacino mediterraneo, in E. Moretti (a cura di), I

movimenti migratori in Italia in un quadro di riferimento internazionale, Atti del convegno organizzato

dall’Istituto di Matematica e Statistica dell’Università di Ancona, Clua, Ancona 1990, p. 22.

12

U. Melotti, Migrazioni internazionali. Globalizzazione e culture politiche, cit., pp. 136-137.

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l’immigrazione verso l’Italia mantenne un ritmo sostenuto per tutti gli anni Novanta attestandosi su una cifra pari a 1.700.000 individui già sin dai primi mesi del 2000.

L’incremento del numero dei cittadini stranieri non è riconducibile esclusivamente al persistere dei fattori di spinta nei paesi di esodo e nemmeno – come si riteneva in quegli anni – alla porosità delle frontiere nazionali e alla vicinanza delle coste meridio nali mediterranee. Pur non essendo il frutto di un calcolo di natura meramente economica né da parte degli immigrati14, né da parte degli stessi attori istituzionali italiani, la presenza migratoria finì con l’assecondare i mutamenti sociali ed occupazionali che incisero profondamente sull’assetto societario del paese. Lo sviluppo economico degli anni Ottanta, il progressivo cambiamento demografico e l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro si aggiunsero a specifici fattori di richiamo delle immigrazioni, legati alla struttura produttiva italiana fondata sulla piccola e media impresa, all’elevata frammentazione territoriale ed al peso del settore informale nell’economia nazionale:

Come è noto, a partire dalla seconda degli anni Settanta, l’asse dello sviluppo si sposta dalle regioni dalle regioni del triangolo industriale verso le regioni della cosiddetta Terza Italia, le regioni del Centro e del Nord-Est. Ciò che caratterizza l’economia di questa area è un tipo di sviluppo industriale fondato sulla piccola impresa diffusa sul territorio, spesso a conduzione, e con manodopera, familiare. Questo tipo di impresa si caratterizza per un elevato grado di flessibilità che si esprime anche in variazioni significative dei tempi e dei carichi di lavoro15.

14

Come evidenziano i risultati di una ricerca pubblicata nel 1985 (Comune di Milano – Settore Economia, Lavoro e Problemi Sociali, La nuova immigrazione a Milano. Primi dati di una ricerca, a cura di U. Melotti, Mazzotta, Milano 1985), la preferenza che in quel periodo i migranti esprimono per l’Italia è spesso in subordine e quasi mai legata a motivi esclusivamente economici. È questo il caso dei cittadini eritrei che costretti a lasciare la propria terra, «scelgono di venire in un Paese di cui già conocono in parte la lingua, gli usi e i costumi […] È questo anche il caso di molti latino-americani […] che, costretti a riparare all’estero per sottrarsi a crudeli regimi repressivi, preferiscono recarsi in un Paese latino, per la somiglianza della lingua, di costumi e di cultura» (U. Melotti, Le nuove migrazioni internazionali, in Comune di Milano – Settore Economia, Lavoro e Problemi Sociali, op. cit., p. 29). All’interno di questo quadro storico, un canale molto significativo è stato rappresentato dalla Chiesa cattolica che si è rivelata un importante tramite per molti profughi di religione cristiana, condizionandone il trasferimento in Italia. Ad incidere significativamente nella scelta dei migranti di dirigersi verso la penisola è stato, altresì, il carattere democratico del governo che, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ha differenziato l’Italia da altri paesi dell’Europa meridionale come la Spagna ed il Portogallo, dominati dal regime fascista.

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In un simile contesto, la manodopera straniera costituì una risorsa particolarmente utile e preziosa per la sua caratteristica di adattabilità e di flessibilità, rispondendo alle necessità di un sistema occupazionale connotato da un modello di regolazione di tipo “micro- sociale”16

, nel quale l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro è disciplinato da procedure perlopiù informali che presuppongono spesso relazioni fiduciarie consolidatesi nel tempo ed il capitale sociale degli individui – sotto forma di appartenenze ascritte e legami interpersonali – ha un peso assai rilevante nel condizionare i processi di reclutamento lavorativo. Al ruolo di primo piano esercitato dalle imprese “marginali”, caratterizzanti il tessuto produttivo italiano ed interessate soprattutto a comprimere il costo del lavoro17, fece da contraltare la rilevanza della domanda di lavoro espressa dalle famiglie e, più in generale, «connessa ai fabbisogni di cura e di assistenza, specchio di una società che invecchia e che deve fare i conti con sistemi di welfare sempre più vistosamente in affanno»18, con la conseguenza di stabilizzare la presenza migratoria come componente strutturale del sistema economico e demografico della penisola.

Alla luce di tali considerazioni, non deve sorprendere che i governi in Italia abbiano adottato negli anni una logica economicista nella lettura delle migrazioni internazionali, mettendo al centro – per riprendere le suggestioni fornite da Abdelmalek Sayad19 – un’immigrazione da lavoro piuttosto che un’immigrazione da popolamento. Nella definizione di tale modello di governance, gli attori istituzionali sono stati chiamati a fare i conti con una contraddizione di fondo: lo scarto tra una reticenza culturale e politica nei confronti del fenomeno migratorio ed un inserimento economico de facto dei cittadini stranieri nei contesti locali. Riconosciuti come meri “lavoratori”, i migrati sono stati richiesti dal mercato ma, al tempo stesso, sono stati respinti dalle istituzioni e dalla popolazione locale come parte del tessuto societario. Il risultato di questo processo si è

16

E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna 1996.

17

L. Zanfrini, Il lavoro, in Fondazione Ismu, Ventesimo Rapporto sulle migrazioni: 1994-2014, FrancoAngeli, Milano 2014, p. 99.

18

Ibidem.

19

A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 (ed. or. 1999), pp. 105-106.

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tradotto, come mostreremo più estesamente nelle pagine successive, nella possibilità per i governi nazionali «di ammettere ufficialmente l’immigrazione soltanto a seguito del suo inserimento di fatto nel mercato del lavoro, con il minimo possibile di diritti di cittadinanza»20.

2.2. Il “paradosso irrisolto” del modello migratorio italiano

L’immigrazione in Italia ha un’origine essenzialmente esogena. Essa, lungi dall’essere riconducibile a scelte politiche esplicite, si è sviluppata «per l’operare di meccanismi autopropulsivi»21, largamente indipendenti dai tentativi – peraltro assai timidi e densi di effetti perversi22 – di regolarla.

Le ricerche condotte nei decenni scorsi23 hanno ben messo in evidenza come il modello nazionale di immigrazione, nonostante l’assenza di programmi di reclutamento attivo sul

20

M. Ambrosini, Richiesti e respinti. L’immigrazione in Italia come e perché, il Saggiatore, Milano 2010, p. 59.

21

G. Scidà, Politiche europee d’integrazione sociale, cit., p. 21.

22

C. Saraceno, N. Sartor, G. Sciortino (a cura di), Stranieri e diseguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle

condizioni di vita degli immigrati, Il Mulino, Bologna 2013, p. 11.

23

Per un confronto sui primi studi sulle migrazioni nel panorama nazionale si rimanda a: A. Sala, op. cit.; F. Calvanese, Gli immigrati stranieri in Italia, in «Inchiesta», n. 62, 1983, pp. 14-23; F. Calvanese, E. Pugliese,

Emigrazione ed immigrazione in Italia: tendenze recenti, in «Economia&Lavoro», n. 1, 1983, pp. 147-158;

Comune di Milano – Settore Economia, Lavoro e Problemi Sociali, op. cit.; I.M. Hornziel, La condizione

degli immigrati stranieri in Italia, FrancoAngeli, Milano 1986; AA.VV., La presenza straniera in Italia,

numero monografico di «Studi Emigrazione», n. 91-92, 1988; F. Ferrarotti, Oltre il razzismo. Verso una

società multirazziale e multiculturale, Armando, Roma 1988; U. Melotti, L’immigrazione dal Terzo Mondo in Italia: cause, tendenze e caratteristiche, in Id. (a cura di), Dal Terzo mondo in Italia, Centro Studi Terzo

Mondo, Milano 1988; G. Cocchi (a cura di), Stranieri in Italia. Caratteri e tendenze dell’immigrazione dai

paesi extracomunitari, Istituto Cattaneo, Bologna 1989; G. Ancona (a cura di), Migrazioni mediterranee e mercato del lavoro, Cacucci, Roma 1990; M. Colasanto, M. Ambrosini (a cura di), Noi e l’altro, Avsi,

Cesena 1990; E. Moretti, op. cit.; L. Zanfrini, L’immigrazione extra-comunitaria in Italia, in «Lavoro e sindacato», maggio-giugno 1990, pp. 3-6; M.I. Macioti, E. Pugliese, Gli immigrati in Italia, Laterza, Roma- Bari 1991; E. Reyneri, L’immigrazione extra-comunitaria in Italia: prospettive, caratteristiche, politiche, in «Polis», n. 1, 1991, pp. 145-155; G. Zincone, Immigrazione tra integrazione e clandestinità, in «Relazioni Internazionali», marzo, 1991, pp. 34-45; Ead., Da immigrati a cittadini. Una questione europea, in «Il Mulino», n. 342, 1992, pp. 645-661; G. Mottura (a cura di), Arcipelago immigrazione. Caratteristiche e

modelli migratori dei lavoratori stranieri in Italia, Ediesse, Roma 1992; S. Allievi, F. Dassetto, Il ritorno dell’Islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, Roma 1993; F. Chiarello, Movimenti periferici. L’immigrazione straniera nel Mezzogiorno d’Italia, in «Politiche del Lavoro», n. 24, 1993, pp. 177-217; M.

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mercato del lavoro internazionale, si sia caratterizzato fin dalle sue prime fasi storiche per la presenza di individui in particolar modo orientati alla ricerca di un’occupazione24. A partire dagli anni Settanta, le dinamiche di crescita della popolazione straniera sono state accompagnate da percorsi di inserimento lavorativo tendenzialmente “deistituzionalizzati”25

, affidati alla disponibilità dei migranti a ricoprire le posizioni di impiego rifiutate dai locali e alla loro capacità di penetrare svariate nicchie occupazionali del mercato formale e informale. Questo approccio largamente inconsapevole nei confronti delle migrazioni ha avuto ricadute significative sul versante normativo e istituzionale, con una governance che continua a caratterizzarsi ancora oggi

in termini di emergenzialità e provvisorietà, con una politica dei flussi di ingresso basata essenzialmente sulla regolazione ex post piuttosto che su una chiara e stabile strategia che sappia

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