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Uomini nel settore dell'assistenza familiare Le testimonianze raccolte.

Par. 1 Progetti migratori e strategie di adattamento nelle testimonianze raccolte dalla ricerca "Nazionalità, genere e classe nel nuovo lavoro domestico. Cambiamenti nella famiglia italiana ed evoluzione dei sistemi migratori."

Dopo avere descritto la caratteristiche principali che contraddistinguono il rapporto di lavoro domestico, con particolare riguardo alle casistiche di assistenza familiare e di uomini impiegati nel settore, è possibile completare il quadro integrando le informazioni rilevate con alcune dichiarazioni dei diretti interessati, ovvero i lavoratori domestici immigrati stessi. Le interviste riportate nel presente paragrafo sono state effettuate da Maria Rita Bartolomei e raccolte da Raffaella Sarti, Maurizio Ambrosini e Bianca Beccalli162.

Partendo dalla base del progetto migratorio, ovvero le cause per le quali la maggior parte degli individui ha deciso di lasciare il proprio Paese, emerge dalle interviste come le motivazioni più diffuse siano spesso le stesse che in seguito convinceranno l'individuo ad accettare di svolgere lavori dequalificanti e poco remunerati, e sono dettate generalmente dalla disperazione, dalle difficoltà economiche, dalle difficili condizioni di vita nel proprio Paese (si tratta in alcuni casi di zone di guerra o colpite da calamità naturali) e dalla necessità di mantenere una famiglia. A., sri lankese di 44 anni e in Italia dal 1991, testimonia: “Così io capii che potevo vivere una vita non tanto prosperosa come guadagni.

Quindi ho pensato che se volevo migliorare o dovevo rubare, o dovevo emigrare, o al massimo cambiare lavoro.”

L'impatto iniziale con la nuova società, e in particolare con il settore domestico può essere traumatico. Anche in questo caso è generalmente la disperazione e la necessità di stringere i denti e racimolare il denaro necessario per la realizzazione dei propri progetti a far andare avanti queste persone e a far accettare loro con pragmatismo la difficile situazione. V., mauriziano, di 31 anni,

in Italia dal 1994, lavorava da barista nel suo Paese. Giunto in Italia (inizialmente con visto turistico) e trovato lavoro come domestico, ha descritto così le sensazioni provate nell'impatto iniziale con la nuova realtà: “Dove sono finito?

No, non ho mai lavorato [in casa] in vita mia! Non ho mai preso una scopa!”

Sulla stessa linea d'onda giungono le parole di M., sri lankese di 42 anni, in Italia dal 2002, il quale dice: “Io non pensi [=ci penso] perché son venuto qua perché

lavorare no? Non mi piace cucinare, lavare casa, vedere anziano no? Però difficile trovare qualche lavoro […] mangiare come fare?” M., mauriziano di 45

anni e in Italia dal 1988, aggiunge: “All'inizio mi sono sentito molto...No a mio

agio, perché sento un lavoro per femmine, mi sento a un livello basso, poi ho detto morire di fame o lavorare? È stato duro integrarmi in questo lavoro, mi sento umiliato, purtroppo alla fine devi lavorare, non è che puoi rimanere digiuno.” Come ribadisce R, suo connazionale quarantaduenne e presente in Italia

dal 1988, “L'importante è soldi, soldi.” Molte altre sono le voci concordanti con questa mentalità.

Le parole degli intervistati pongono poi in evidenza quello che è uno dei lati connessi al lavoro domestico-assistenziale più umilianti e frustranti per gli uomini in esso impiegati, ovvero il fatto di dover far convivere la propria mascolinità con lo svolgere di mansioni generalmente percepite come femminili. Come si è illustrato nel capitolo precedente, sono varie in questo senso le strategie messe in pratica dagli addetti al settore per ovviare a questo problema. Vi sono alcune voci che asseriscono il fatto che il lavoro domestico debba in realtà essere considerato come prerogativa tipicamente maschile, in quanto richiedente sforzi e abilità che si possono ritrovare più facilmente in un uomo. A., ucraino di 28 anni in Italia dal 2002, afferma: “Io no penso questo è un lavoro da

donne, adesso come, adesso fare io. Non penso quello fare donne lavoro, perché bisogna alzare signore. Signore un poco pesante, quello no lavoro per donna, eh.” Inizialmente, a precisa domanda, A. risponde che i classici lavori da donna

sono “pulire, fare pulizie, fare compagnia, andare a fare spesa. Però no fare

qualcosa pesante, no.” Quando però l'intervistatrice lo incalza e gli domanda

quale sia l'impressione che gli faccia lo svolgere quel tipo di mansioni (pulizie e spesa), A. corregge in parte il tiro, cercando nuovamente una via per proteggere la propria identità di genere: “No, no c'è problema, io abituato. Io ho detto perché

anche quando bambino aiutato per mamma, anche quando bambino piccolo, andato io mercato fatto spesa, già Ucraina. Allora abituato a fare questo. Per me no c'è problema, io no guarda questo. Va bene. Tranquillo.”

Come visto, l'accentuazione della pesantezza fisica della professione, e il sottolineare come certi compiti richiesti possano essere portati a termine efficientemente e senza troppe difficoltà soltanto da un uomo adulto è una delle strategie più diffuse messe in atto con lo scopo di salvaguardare la propria identità maschile e convincere se stessi e gli altri della propria adeguatezza alle mansioni svolte. Inoltre, viene spesso ricordato come vi siano diverse mansioni collegate al lavoro di assistente familiare considerate prettamente maschili, come fare da autista, svolgere lavori di manutenzione all'interno della casa, riparare oggetti, fare da giardiniere, ecc...

C'è chi invece enfatizza le differenze che contraddistinguono la percezione del lavoro domestico tra il loro Paese di provenienze e l'Italia. Alcuni sostengono come da loro sia più comune e “normale” dividere i compiti domestici tra i componenti, maschi e femmine, di un nucleo familiare anche nella vita privata. Altri invece ricordano come la divisione dei ruoli nella realtà da cui provengono sia molto più marcata, e precisano come in Italia sia molto più diffuso l'impegno maschile nello svolgimento delle faccende di casa, anche in privato. Ad esempio J., ecuadoregno nato nel 1954 e giunto in Italia nel 2001, afferma: “Nel mio pais,

per esempio, il lavoro di casa è quello della moglie e il lavoro de fuori è del marito; perché di là la maggior parte della gente sposata lavora come contadini, diciamo di più...Se no si dedica alla casa, fare il mangiare, la moglie, badare ai bambini, a tutto, a tutto quello...E il marito a tutto quello che è il lavoro dell'uomo [...] Qui na Italia è diverso porchè tutti lavorano, moglie e marito lavora, tutto è diverso. Qui sì...c'è comprensione, dialogar tra marito e moglie...Se dà una mano de l'uno all'altro, chi arriva primo del lavoro facci el mangiare: si io arrivo io lo faccio io, se arriva mia moglie faccia lei. El piacere è che chi arriva più tardi se senta bene con la persona che arriva prima. Io penso che è normale questo.”

Quella di enfatizzare l'importanza della divisione dei compiti domestici tra i generi e la non appropriatezza di certe configurazioni ancora oggi vigenti in larga parte del mondo è senza dubbio un'altra delle strategie più diffuse per

ribadire la propria adeguatezza al mestiere svolto. Uno step ulteriore può essere rappresentato dall'affermare come il lavoro domestico non sia nemmeno in realtà da considerarsi un lavoro da donna. M., rumeno di 53 anni in Italia dal 2003, alla domanda se consideri il lavoro svolto come prevalentemente femminile risponde: “Non è una cosa speciale per donne. Si può fare facilmente con un po' di buona

volontà”. Aggiungendo: “Secondo me queste cose non c'è bisogno di ordinare, di divisare (dividere) […] per me sono 26 anni di matrimonio e non ho mai detto “Queste sono cose di fare, queste sono cose di lavare, li lava mia moglie, lasciali lì trenta ore fino a quando arriva mia moglie che li lava”. No. Questo mai. Io l'ho fatto. Io ho lavato, ho stirato, non lo so, voglio dire, in poche parole, che non ho aspettato mia moglie per fare qualcosa, non c'è cosa di lavoro speciale per mia moglie.”

Infine, per ribadire la propria adeguatezza alla situazione, è pratica diffusa da parte degli intervistati l'enfatizzare la soddisfazione della persona assistita e del relativo nucleo familiare di fronte al servizio prestato. A., sri lankese di 48 anni, nel nostro Paese dal 1982, afferma: “Perché loro stanno...Questa famiglia dove

lavoro è stata molto contenta che sono andato a lavorare là. Perché faccio tutti i servizi. Perché prima di arrivare io, gli altri non cucinavano. E quando sono arrivato io, la famiglia ha quasi risparmiato 500 euro. Sì, perché io cucino, faccio tutti i piatti. Perché questa signora ha visto che cucinavo bene. Poi ha visto che quando c'era qualche cena io sempre lavavo tutti i piatti e aiutavo per tutto.”

Il possesso di una simile mentalità può portare dei grandi vantaggi e alleviare fortemente il peso derivante dal tipo di lavoro svolto. Chiaramente, anche laddove viene risolto il problema dell'accettazione delle mansioni richieste e della tutela della propria identità di genere, restano le difficoltà derivanti dalla pesantezza fisica e mentale che caratterizzano la professione in questione. Il già citato M., nonostante non abbia problemi a far convivere il suo lavoro con la sua identità maschile, lamenta comunque gli innumerevoli “svantaggi di natura psicologica” che rendono il mestiere a tratti “umiliante”.

L'angoscia provata può derivare da vari fattori. Primo su tutti il fatto di sentirsi dequalificati e poco appagati dalla propria professione. J. , di 36 anni, proveniente dal Congo e in Italia dal 1994, si sfoga dicendo: “l'angoscia che c'ho...Me lo

sento, me lo sento che posso fare un'altra cosa, ho studiato, ho fatto un sacco di anni, ho studiato, finire a fare un lavoro così per cinquecento, seicento euro è frustrante.”

Uno degli aspetti del lavoro in questione che può contribuire ad alleggerire la pesantezza del rapporto professionale o, in alternativa, può renderlo ancora più difficile da sopportare è rappresentato dalla relazione intercorrente con la persona assistita e il relativo nucleo familiare.

In tal senso emblematica è la storia di S., 1972, proveniente dalla Repubblica Moldova. In patria violinista e laureato al conservatorio, nel 2003 arriva in Italia per una tournée, e qui vi rimane in cerca di lavoro. La sorella deve sottoporsi ad una costosa operazione agli occhi e la famiglia necessita di risorse economiche. I primi giorni dorme per strada, vicino ad una chiesa dove un prete polacco ha promesso di aiutarlo. Poi va a dormire alla Caritas, e in seguito trova una sistemazione lavorativa ed abitativa andando ad assistere un anziano. Le sue mansioni vanno dal fare la spesa a cucinare al fare le pulizie di casa a curare e intrattenere l'anziano. “[Il] vecchietto secondo me è una brava persona, sono

fortunato per questo e quindi sto con lui, lui mi rispetta e [lo] rispetto anch'io.”

“A lui piace sentire il violino.” Al momento dell'intervista, a due anni e mezzo dal suo arrivo in Italia, S. è senza permesso di soggiorno e guadagna 450 euro al mese, gran parte dei quali inviati alla famiglia in patria. Ciò che gli pesa più di tutto del suo lavoro è fare le pulizie e “stare chiuso in quattro pareti per tanto

tempo, tutta [la] settimana, con [il] vecchietto.” Il rapporto con la persona

assistita è dunque da un lato un ancora di salvataggio, visto lo svilupparsi di un legame positivo tra le due parti, ma allo stesso tempo non è sufficiente per alleviare il peso di una convivenza per sua stessa natura stressante e dequalificante.

Il caso di R., ventiquattrenne proveniente dallo Sri Lanka e in Italia dal 2001, è invece ancora più complicato, vista la difficoltà provata nello stringere un legame con la persona assistita e la sua famiglia:

R: “Perché loro arrivano tardi. La signora arrivava prima, il marito arrivava

dopo e dopo il mangiare chiacchieravano a tavola, e avanti fino a mezzanotte. Qualche volta lasciavo la cucina e andavo a dormire. Poi la signora mi rimproverava perché dovevo lavare i piatti prima di andare a dormire. Quando

con la lingua che conoscevo ho detto che non potevo aspettare fino a quell'ora “O mangiate prima o vado a dormire”, papà non era d'accordo con me, perché non sapevo la lingua, non sapevo lavorare, ma io non ero d'accordo di lavorare fino a mezzanotte.”

D:” Fino a mezzanotte cosa facevano?”

R: “Chiacchieravano. Io dovevo solo stare lì in piedi ad ascoltare quelle

stupidaggini che io non capisco niente. Stare lì finché non finivano loro.”

D: “In salotto in piedi?”

R: “In camera da pranzo, sì, in piedi. Poi ogni tanto andavo alla finestra almeno

a vedere fuori. La signora ha detto: “No, se vieni qua non devi andare in giro, devi stare qua.” Dovevo ancora stare in piedi. Ero un cameriere trattato male, come si dice.”

Ultimo risvolto interessante ricavato dalle interviste analizzate è rappresentato dal fatto che molte persone abbiano ammesso di provare vergogna nel parlare ai parenti e conoscenti rimasti in patria del proprio lavoro. A., sri lankese, che in precedenza aveva fatto notare con soddisfazione l'entusiasmo dei datori di lavoro verso il servizio da lui prestato, a proposito, ha confessato: “Loro

non sanno che lavoriamo nelle case. Perché loro si vergognano di noi. Loro pensano che noi qua in Italia lavoriamo in qualche negozio, qualche altra cosa, non sanno che facciamo i domestici.” Gli fa eco il connazionale K.,

quarantottenne e in Italia dal 2000: “Loro non hanno mai saputo che io lavoro

come domestico...No! Loro non sanno che io lavoro come domestico...Quando sono andato al Paese io non ho detto che io lavoro come domestico...No!”

Stesso disagio è provato da V., mauriziano di 31 anni presente sul territorio italiano dal 1994, che ammette: “[solo] mia madre e mia sorella e li parenti

stretti sanno che tipo di lavoro faccio qua […] non dico tutti i fatti a tutti che io […] lavo la camicia, lavo qua. Perché lì alle Mauritius sono le donne che fa più meno questo tipo di lavoro.”

Se il presente dei lavoratori domestici è dunque spesso difficoltoso, incerte sono le prospettive future, anche se, da quanto emerge, non mancano mai fiducia nelle proprie capacità e nella propria adattabilità ad ogni situazione e speranze di uscita da questa area lavorativa. Il violinista moldavo S., in proposito, afferma che tra i

suoi desideri per il futuro c'è sempre la musica, oltre agli studi in psicologia e, più in generale, una vita più bella e movimentata, priva di difficoltà economiche. Nel frattempo, per alleggerire la sua situazione, dice di prenderla come una “vacanza”, cioè “con calma, per accumulare forze, per imparare [la] lingua, per

imparare qualche programma [di] violino.”