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DELL’UOMO, FINE O MEZZO, E DEI BENI D ’OZIO

Luigi Bandini, Uomo e valore, Giulio Einaudi, editore, Torino, 1942. Un voi.

in 8° di pp. 206. Lire 20 nette.

1. — Il periodo che intercorre tra la fine del secolo XVIII et il tempo nostro è quello « dell’industrialesimo moderno, la cosidetta età della macchina », nel quale « ha inizio e svolgimento una vera e propria civiltà nuova ; con forme peculiarissime, che lo distaccano dalle età precedenti in una maniera cosi netta e sicura, da essere la nozione di un cangiamento profondo rispetto ad esse, ed all’umanità anteriore nel suo complesso, la più comune ed universale della consapevolezza storica dell'uomo odierno, una così convinta ed estesa certezza come è da credere che nessun’altra età di rinnovamento abbia avuto: onde sarebbe pressoché ridicolo nella sua super­ fluità il tentativo di convalidare mediante argomentazioni di qualsivoglia natura l'assunzione di una tale novità e tipicità» (p. 13). Bene si caratterizza l’età nostra con la designazione di « trafficante », poiché « l'attività economica, la produzione delle cose, il loro scambio e gli organi a ciò atti, riempiono di sé in tal modo questa età che è la nostra, da potersi dire che ogni altro aspetto della vita umana, ogni altra attività ed interesse, diventa al confronto secondario e d’incomparabilmente minor rilievo » (pp. 13-14). Essa è anche caratterizzata « dal culto del numero, dall’adorazione della quantità » (p. 14). Più che la macchina, è caratteristico l’ele­ mento « traffico », parola che « bene si presta ad indicare quella attività irriflessiva e passionale, quell’operosità rumorosa, inquieta, ansiosa ed, invero, abbastanza in­ sensata, che dell’età è certo una delle peculiarità più appariscenti » (p. 16). A pro­ muovere la « tonalità spirituale caratteristica della nostra età », tonalità « economi­ cistica », contribuisce « la stessa materia economica : le macchine, le fabbriche, gli impianti tecnici ed amministrativi, gli organismi tutti dell’economia, con le loro com­ plesse ed intersecantisi ragioni economiche di vita, stretti da un’inderogabile esigenza d’indefessa attività, anzi come perseguitati da un sempre più aspro assillo di accre­ scimento di efficienza : il fato del capitale che all'infinito richiede e all’infinito genera

118 LUIGI EINAUDI a sé stesso capitale » (p. 33). Si rovescia così « il rapporto fra uomo e cosa », si innalza « ad ideale supremo la realtà economica », « diventa di più in più esteso ed esclusivo e penetrante ed assorbente il predominio dell’economia e delle sue esigenze nella società e nella vita umana » ; e questo « postula il passaggio alla funzione di guide, educatori e plasmatori spirituali dell’umanità dei più diretti rappresentanti dell’economica attività » (p. 35). La nuova classe dirigente accetta come « alcunché di pacifico, di naturale, di definitivo » il fatto che « la organizza­ zione economica che ci doveva essere per creare mezzi di vita e di benessere agli uomini tali mezzi li toglie tutti » (p. 36). Con la sua « tendenza a prendere la produzione ed il suo incremento come dei fini in sé, ai quali si è disposti a sacrificare l’uomo stesso » (p. 17), la civiltà trafficante nega in fatto quella dottrina liberale di cui gli economisti auspicavano il trionfo. La sua prassi si risolve, invece, nella negazione, nonché del diritto di libertà, del diritto stesso alla vita per una gran parte dei membri della società » (p. 18), si risolve, cioè, « in un massimo di servitù per una gran quantità di soggetti umani » (p. 25). « La sconcertante legge di Ri­ cardo », fondamentalmente la stessa che il Lassalle denominerà « la legge di bronzo dei salari », non fu considerata propria di « una soltanto ipotetica ed astratta economia pura, ma come una caratteristica sopportabile della realtà concreta » ; ed « in un’atmosfera di consenso quasi universale, uomini trattarono uomini come delle cose, come delle macchine, la cui sola differenza dalle macchine vere e proprie si direbbe che apparisse questa : che, siccome non costituivano capitale e si rinnova­ vano da sé, era indifferente che si guastassero anche rapidamente, per eccesso di carico » (pp. 36-37). N é contro quei dirigenti dell’economia « ci si sente in animo di pronunziare una condanna severa. Più che dei mostri di egoismo, di sfrenata cupidigia, di brutalità e di freddo cinismo, gli uomini che hanno promosso la grande industria moderna appaiono piuttosto come degli allucinati, dei soggiacenti ad un fascino » (p. 38). L’atteggiamento mentale di questi uomini è tale che « nella sua maturità riconosce un idolo al quale tutto va sacrificato. Ed al quale i suoi adoratori fanno, in primo luogo, incondizionato sacrificio di sé medesimi. Sono, questi uomini dell’economia, dei combattenti strenui, dei lavoratori poderosi, instancabili; e c’è qualche cosa di titanico nella maniera della loro incontenibile attività costruttiva. Insaziabilmente cupidi di guadagno bensì, ma non per il godimento: non per loro stessi, sibbene per innalzare templi sempre più superbi alla loro esigente divinità... Orbene, se è vero che danno tutti sé stessi alla bisogna, senza risparmio, illimitata­ mente, è certo con non diverso sentimento che prendono, a manciate, le folle strac­ cione degli operai, uomini donne fanciulli, e le buttano, col gesto austero e sicuro di un dovere vocazionale che comanda dall’alto, nella fornace ardente e stritolante del Moloch ! La realtà economica, l’impresa : ciò sta al sommo... Il tono vero e più intimo del quadro... [è] ... quello dell'esaltazione del lavoro in sé, dell'esaltazione dello sforzo, dell’esaltazione del fare, del produrre, del trasformare, della volontà di dominio del mondo oggettivo, di assoggettamento della materia » (pp. 40-41). La mentalità economica « è divenuta tutt'uno con la forma stessa essenziale della nostra società.... » ; e « anzi sembra tendere decisamente a dare al rapporto uomo (mezzo) - cosa (fine) il carattere del sacro » (p. 43). « Non soltanto come collabo­ ratori diretti o indiretti, ma persino come consumatori la produzione tende a con­ siderare gli uomini piuttosto mezzi che fini. Al consumo come termine finale,àella

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produzione, essa tende a sostituire un consumo al quale essa è fine. Si deve con­ sumare affinché si possa produrre! » (p. 45). Con la moda, con la pubblicità, si sti­ molano artificialmente bisogni, allo scopo di poter vendere ciò che l'industria pro­ duce. « Forse non è lontano il giorno, o forse è già venuto, in cui essa entrerà come fattore determinativo diretto — che indiretto lo è già largamente — anche nelle sfere più elette della spiritualità; in cui si scriveranno poesie, per esempio, soltanto per le necessità dell'industria tipografica, si scolpiranno statue unicamente per il vantaggio dell'industria estrattiva, si dipingeranno quadri esclusivamente al fine di sostenere l'industria dei colori » (p. 46). « La nascita della scienza economica nella ispirazione moderna, in quelle prime e tuttavia ben salde delineazioni che iniziano quella che si suole oggi indicare come economia politica classica », risale appunto al momento (fine secolo XVIII e inizio XIX) nel quale « si manifesta este­ samente quello spirito di sopravalutazione della ricchezza, del bene economico in genere, apprezzato in vista più del produrre stesso per sé preso e dell'accumulo, che non dell'utilità vera cioè riferita all’uso e al consumo » (p. 17). Non solo assistiamo al rovesciamento dei reali rapporti — consumare per produrre, invece che produrre per il consumo — ma « si giunge addirittura alla distruzione dei prodotti allorché il loro eccesso sembra pregiudicare il ritmo economico » e così alla « negazione del principio produttivo, in sostanza l'assurdo » (p. 46). Il sacrificio dell'uomo alla cosa, ecco la caratteristica dell'economia trafficante : « la colonizzazione, la conquista dei grandi mercati, le lotte per l’accaparramento delle materie prime, le cosidette guerre del petrolio, del cotone e simili, certi momenti bancario-borsistici, certi scorci di storia europea ed americana, la rivoluzione russa, offrono cospicua massa di episodi in cui si mostra con la più piena evidenza l’atteggiamento caratteristico economistico e il poco o nessun conto che solitamente si fa dell’uomo al confronto degli interessi variamente economici » (p. 53).

«L a produzione dunque esaurirebbe il suo fine in sé stessa? ». Non in tutto vera, la proposizione ha in sé qualcosa di vero ; « la produzione ha suoi fini che non coincidono coi fini umani ». Ci si sente « afferrati come in una visione allu­ cinante, grottesca. Di un mondo di cose che concresce a sé stesso per propria intima capacità di vita, quasi una nuova natura accanto all'antica. Una natura creata dal­ l'uomo, ma tosto a lui ribelle, e ritrovante solo in sé stessa e a sé rivendicante la propria legge di vita ». Una natura nella cui « legge ed autonoma finalità » rientra « il consumo stesso, la necessità del molto consumo e persino la guerra, nella tipica forma dell’oggi prevalentemente di distruzione ». Un mondo in cui « tutti gli or­ gani... che della produzione sono insieme resultati e strumenti », insieme con « la produzione loro sovrana e genitrice, avanzino, ciascuno quale organismo a sé prov­ visto di una sua propria energia e volontà di vita e di una sua propria legge, delle analoghe singole pretese di fini in sé e per proprio conto si svolgano, divengano e crescano, ciascuno secondo esigenze interne a sé medesimo, pur concorrendo alla finalità suprema d’insieme, del produrre, del gettito ». Sicché accada veramente « che per sé e per quella finalità d'insieme, ma non già per gli uomini e ai fini proprii di questi, le città si facciano sempre più grandi e più popolose; per sé e per quella le strade sempre più ampie, le case sempre più alte, i mezzi di trasporto sempre più capaci e veloci ; per sé le imprese del traffico sempre più estese e le industrie sempre più poderose e le fabbriche sempre smisurate; per sé i macchinari sempre più

120 LUIGI EINAUDI giganteschi e possenti; per sé gli organismi amministrativi sempre più ramificati e invadenti ; per sé e anche per quella gli eserciti sempre più formidabili e immensi e oberanti; per sé e per quella gli strumenti di guerra sempre più spaventosamente distruttivi. E che a tutti questi immani esseri, a questa nuova creatura, l’umanità sia resa infine irredimibilmente serva: il suo compito non più che quello di uno scorrente sangue, circolante in mille guise per ogni dove, tutt’intorno e per entro alle creature troppo cresciute da essa chiamate alla vita, e irrorarle di anima, che esse, neU’assorbirle, stampano di più in più della loro ottusa natura » (pp. 57-59).

2. — Se taluni tratti del « carattere » che il Bandini delinea dell’imprenditore sono, riferiti a talune non infrequenti eccezioni, esatti, il quadro allucinante del­ l’uomo fatto schiavo dell'idolo p r o d u z i o n e , m a c c h i n a , a t t i v i t à f i n e a s é s t e s s a , dell’uomo che costruisce città, innalza case, prolunga strade, lancia navi a solcare i mari non per sé ma perché da città nasca città, da casa casa, da strada strada, da nave nave; e fornisce armi ad eserciti affinché questi possano, distruggendole, richiedere sempre nuove armi, a quale realtà si riferisce? Quel quadro si contempla nel primo capitolo (Rovesciamento: l’uomo da fine divenuto mezzo alle cose, pp. 11-59) di un libro, del quale gli altri tre capitoli (Umana sostanza - Il come e il quanto - Dialettica della svalutazione, pp. 60-206) sono dedicati ad un’analisi del processo per il quale nella società moderna si osserva un lento progressivo attenuarsi dell’individualità umana, sicché l’uomo individuo tende a scomparire nella massa e, quel che è più rilevante, a svalutare sempre più sé stesso. Se anche quel quadro dovesse essere giudicato romanzesco, non perciò scemerebbe il pregio del libro; ché quel pregio sta non nel riattaccare il processo di disindividuazione e di svalutazione dell’uomo al fatto economico della civiltà trafficante, ma nell’analisi del processo medesimo. Analisi finissima e veramente degna di lettura e di meditazione. Il Bandini ha scritto pagine e note a piè di pagina: — sull’uomo che non è libero da natura, ma per sua natura e per con­ quista continua contro la natura (p. 73); sull’individualità che è la vera umanità del­ l’uomo (p. 81); sull’uomo che non tanto è parte della società, quanto la società è parte intima costitutiva di lui (p. 90); sulla ragione per la quale, potendola ri­ solvere in uomini aventi modi e volti noti individuali, amiamo più la gente nostra che non quella altrui, che per noi sono solo il «francese», il «tedesco» (p. 95); sul livellamento, il quale si risolve nel sopprimere nell’uomo l’individualità, nel risommergerlo nell’animalità (p. 96); sull’importanza crescente della donna nella civiltà presente dovuta all’essere l’uomo già ridotto a modi di attività accessibili alla donna (pp. 108-109); sulla perdita del sentimento di comunione dell’uomo con la natura (p. 110); sulla morte che nel piccolo centro toglie qualcosa al quadro, lad­ dove nella città manca ogni simpatia e conoscenza vicendevole anche tra vicini

(p. 115); sulla abitudine ad accogliere dai giornali le idee già fatte, propria di chi, abituato ad un lavoro diviso, piccolissima frazione di un tutto collettivo, non sa da sé far nulla di utile a lui medesimo (p. 141); sull’assurdo di impedire le guerre mercé regolamentazioni e collettivizzazioni (p. 145); sulla canonizzazione la quale prova essere l’esaltazione dell’individuo la vera caratteristica del cristianesimo, che fa l'uomo, tutti gli uomini, creati da Dio a propria immagine e somiglianza ed è ben diversa dall’uguaglianza di essi (pp. 161-62) — pagine e note le quali

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DELL'UOMO, FINE O MEZZO, E DEI BENI D'OZIO 121 illuminano vivamente aspetti noti od inavvertiti della vita sociale e costringono alla meditazione.

Anche quando si dissente — è vero che la città gigante, la grande fabbrica imponga all'uomo di uniformarsi, all'impiegato di agire con lo stesso gesto e di trascorrere la sua giornata con lo stesso ritmo di tutti? (p. 109); e come si spiega, se questa soltanto è la verità, l'aifannosa ricerca che fanno i capitani d'industria di giovani che siano diversi dagli altri, di uomini degni di salire, perché « eccezio­ nali », il più frequente aggettivo che in bocca di quei capitani abbia significato di lode specialissima? Può darsi che l’uomo nella fabbrica, nell'impiego si senta oppresso dall’ordinamento, di cui è parte e di cui non intravvede come liberarsi (p. 124); ma il contadino si sente forse libero rispetto alla terra; e chi dei due, operaio o contadino, ha lo sguardo maggiormente rivolto verso le cose terrene, chi dei due riesce un po' meno di rado a pensare, sulle cose e gli uomini che lo circondano, altri­ menti che in termini di denaro? Può darsi che la svalutazione dell’uomo a favore della collettività, la sua disindividuazione ed immersione nella nazione siano uno dei fattori dell’odio e del disprezzo che gli uomini, cessando di essere individui, sentono per le altre genti e per lo straniero in genere (p. 144); ma quanto piccolo e derivato è questo fattore di odio, di invidia e di disprezzo in confronto al fattore massimo che ha creato colla grande guerra del 1914-1918, e di nuovo creerà in cir­ costanze consimili, tanto odio e invidia fra ceto e ceto, fra uomo e uomo, fra nazione e nazione ed è il « repentino » e « grandioso » (ambi gli aggettivi sono necessari) rivolgimento di fortune e di redditi verificatosi in «occasione» di quella guerra? E la « causa » non fu un modo particolare, forse inevitabile, di condurre la guerra medesima? V'è una connessione logica necessaria fra l’inflazione monetaria ed il colossale che si dice caratteristico dell’economia trafficante? — anche quando si dissente, il dissenso nasce dallo stimolo a pensare offerto dal libro. Il quale pertanto è un bel libro, ben degno di essere letto anche dagli economisti professionali.

3. — Ma l’economista consente e dissente al tempo stesso nella tesi che connette il « livellamento » universale, la disindividuazione e la svalutazione degli uomini con qualcosa di « economico » che sia accaduto durante il secolo XIX. Nel quaderno del giugno ho qui discorso lungamente del processo verso il grande e il colossale, verso il livellamento, verso le grandi città tentacolari, nelle quali gli uomini sono ridotti « ad una massa informe confusa di atomi sciolti da vincoli di famiglia, di sede stabile, di orgoglio di mestiere, di professione, di proprietà della terra che nutre, della casa che ospita, incapaci a creare ed a far vivere di vita indipendente autonoma istituti di vita comune: la chiesa, il municipio, la cooperativa, la società mutua, la associazione di difesa e di mestiere » (cfr. Economia d i concorrenza e capitalismo storico, §§ 6 ed 8, 15 e 16). L’economista consente nella tesi che il

capitalismo « storico », sorto verso il 1840 e forse oggi avviato verso la sua fine, sia responsabile della tendenza verso il gigante, il grosso, verso i colossi, i con­ sorzi, i monopoli, verso ciò che incatena ed asserve gli uomini e di cui l'ultima e più perfetta e diabolica espressione è il comunismo russo; ma non consente nel­ l’altra tesi, tutta diversa, che la tendenza verso il colossale, distruttivo dell’uomo, come persona autonoma, e volontà indipendente, sia propria dell’economia contem­ poranea, capitalistica o trafficante. Quando dico che l’economista non consente, mi

122 LUIGI EINAUDI riferisco, s'intende, a qualcuno degli affiliati a quella schiera, non foltissima, di studiosi, sparsi variamente nei più diversi paesi del mondo, i quali tacitamente, senza alcun rapporto personale, si riconoscono, leggendosi a vicenda, membri di una par­ ticolare congrega di iniziati. Non occorre, per l'iniziazione, nessun rito; né si pro­ nuncia alcun atto di fede comune; ché anzi l'unico obbligo assunto istintivamente è quello di discutere e di attaccar briga gli uni con gli altri. Ma, pur discutendo ed abbaruffandosi, gli affiliati alla confraternita partono da premesse accettate da tutti ed adottano metodi comuni di ragionamento. Purtroppo i laici, i quali si interessano di cose economiche e vorrebbero trarne qualche aiuto nello sforzo di interpretare la vita che si svolge attorno ad essi, non leggono, per citare a caso alcuni nomi di contemporanei viventi, né gli inglesi Keynes, Hicks o Robbins, né gli americani Viner o Knight, né i tedeschi Mayer, Schumpeter, Ropke, von Hayek o Mises, né gli italiani Jannaccone, Bresciani, Cabiati od Amoroso; ma capitano diritti e filati su libri di uomini che gli economisti hanno, col silenzio, escluso dalla confraternita, tipici, fra i citati dal Bandini, Marx, Sombart e, in parte, anche Max Weber. Li hanno esclusi perché costoro si occupano di un altro mondo, di cui gli economisti non hanno alcuna esperienza o notizia. Può darsi sia un mondo realmente esistente anche quest'altro; ma non sembra agli economisti franchi la spesa perder tempo a correre dietro a quel che ad essi pare una visione allucinante bensì, ma fantastica.

4. — Questa visione può dirsi abbia avuto origine in principio del secolo XIX, quando Io storico Sismondi ne fu grandemente impressionato; prese corpo nel

Capitale di Marx, ed ebbe, tra noi, varie vicende sovratutto nei libri sul capitalismo

di Achille Loria — che pure nei libri stessi ed in altri, ad esempio in quello sul

Valore della moneta, dimostrò di appartenere nel tempo stesso con pieno diritto

alla sullodata confraternita degli iniziati — ed altrove, più tardi, in quelli sulla storia del capitalismo, sugli ebrei, sul borghese di Werner Sombart. E cito solo i maggiori sacerdoti. È la visione di una economia che vive di vita propria, autonoma, indipendente dall'uomo. La fabbrica, la macchina, il macchinismo, la banca, la borse, il traffico, il treno ferroviario, il piroscafo a vapore, incarnazioni concrete di una entità superiore, detta capitale, la quale continuamente cresce in cerca di profitto ; e per ottenere profitto deve produrre e per produrre deve vendere e costringere gli uomini a consumare. È una visione davvero allucinante, la quale ha il suo poema in Pasl and Present di Carlyle il cui titolo i francesi appropriamente voltarono in

Cathédrales d’autrefois et Usines d'aujourd'hi/i, e la satira in Erewhon di Samuel

Butler, dove il romanziere narra la guerra civile sorta secoli or sono nel paese di utopia fra i fautori ed i nemici delle macchine, guerra vinta dai nemici riusciti a persuadere il popolo che la macchina era dotata di virtù sua propria di incremento e di comando, sicché gli uomini sarebbero alla fine divenuti suoi schiavi ubbidienti come automi e i templi destinati alla macchina avrebbero preso il posto delle chiese dedicate a Dio; e macchine e fabbriche e ferrovie furono distrutte e se ne perdette sino la memoria. In verità siamo passati tutti attraverso questa visione del Moloch economico, divinità trascendente e posta fuor dell'uomo, agitata da insaziabile sete di

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