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CAPITOLO 2: L’ESPATRIO

2.1 Introduzione alla figura dell’espatriato 1 Ruoli dell’espatriato

2.3.4 Valutazione del programma di formazione

L’ultima fase dell’approccio sistematico alla preparazione di un programma di formazione culturale riguarda la valutazione dell’efficacia dello stesso e la decisione se continuare o meno ad adottarlo in quella forma. Questa fase di valutazione prevede la raccolta sistematica di informazioni che vengono analizzate con criteri appositi e lo sviluppo di ricerche per determinare quali cambiamenti all’interno delle tre sfere sono avvenuti nell’individuo durante il training e quali benefici ne ha ricavato.

I criteri di valutazione devono essere stabiliti quando si individuano gli obiettivi di breve e lungo periodo durante la terza fase e infatti sono anch’essi suddivisi in queste due categorie; nello specifico, la valutazione degli obiettivi di breve termine consiste nella misurazione della portata dei cambiamenti a livello cognitivo, emotivo e comportamentale dell’espatriato che si sono resi necessari durante la formazione mentre la valutazione degli obiettivi di lungo termine mira a misurare il grado di adattamento culturale.

Nella valutazione degli obiettivi di breve periodo, i risultati avvenuti a livello cognitivo vengono usati per determinare se il programma fornisce all’espatriato una maggiore conoscenza e consapevolezza delle differenze che intercorrono tra le varie culture e vengono misurati mediante dei test; i risultati concernenti la sfera emotiva invece, relativi ad esempio all’atteggiamento od alla motivazione, evidenziano attraverso interviste individuali o discussioni di gruppo in che modo l’espatriato ha percepito il programma e come è cambiato l’approccio verso individui di altre culture; infine i risultati ottenuti a livello comportamentale manifestano le competenze e le abilità acquisibili a livello comunicativo e culturale in base alla formazione data.

A seconda del tipo di incarico si deciderà quale dei tre risultati ottenuti risulti più significativo per valutare il successo dell’espatrio; per esempio un incarico di tipo tecnico, che come visto prima non richiede interazioni significative con gli HCNs, verrà valutato privilegiando gli esiti dei risultati cognitivi, come per esempio la ricezione di alcune peculiarità e informazioni sul nuovo paese, mentre un incarico ai fini di uno sviluppo individuale o un incarico strategico necessiteranno di buoni risultati negli ambiti cognitivo ed emotivo.

Gli obiettivi di medio-lungo termine di un programma di formazione si possono dire raggiunti se, in generale, si è verificato l’adattamento culturale necessario per eseguire l’incarico al meglio e sono di solito misurati attraverso interviste personali, questionari e sondaggi che dovrebbero basarsi sia sui pareri raccolti nella casa madre che su quelli raccolti nella sede ospitante, per evitare che emergano distorsioni ascrivibili all’esame di un’unica prospettiva.

Ci sono diverse metodologie che si possono usare per valutare un programma formativo; a seconda che si voglia migliorarne i contenuti o verificarne la funzionalità si possono usare vari metodi di reportistica composti da test e sondaggi pre partenza e post ritorno e dati quantitativi piuttosto che dati aneddotici. Quello che è in ogni caso importante è l’individuazione di una o più variabili indipendenti, per esempio il tipo di formazione o il contenuto del programma, cui correlare una o più variabili dipendenti, come il grado di adattamento culturale, per verificarne la conformità agli obiettivi programmatici e quindi valutare l’efficienza del programma stesso (Kaeley e Protheroe, 1996).

Sfortunatamente, a prescindere dall’approccio metodologico con cui l’impresa può creare i suoi programmi di formazione, coprire ogni ipotetico particolare e prevedere ogni situazione è praticamente impossibile e all’impresa non rimane che fare del suo meglio, eventualmente affidandosi anche a consulenze esterne o all’esperienza di precedenti espatriati, per cercare di fornire ogni volta la preparazione più adeguata all’incarico. Tutte le strade percorribili e prevedibili dovranno essere

esplorate, dato che conviene all’impresa in primis creare le condizioni affinché l’incarico abbia successo, evitando così di sprecare l’investimento e la possibile perdita della risorsa umana impiegata.

2.4 Il rimpatrio

“L’abilità di un’impresa di produrre, trasferire e utilizzare la conoscenza è riconosciuta come la base di sostegno per il vantaggio competitivo” (Mariano et al., 2011) e il ruolo giocato dalla mobilità internazionale e dal suo protagonista, l’espatriato, è essenziale proprio per queste ragioni.

Non è chiaro allora perché le imprese spesso sprechino il vantaggio di poter sfruttare le competenze acquisite dal dipendente appena rientrato al termine di un incarico internazionale, compromettendo così anche l’opportunità di migliorare la propria dinamicità e la reattività nell’affrontare le sfide all’interno dei mercati globali. Probabilmente la ragione sta nella sottovalutazione delle problematiche connesse al rientro; le aziende presumono che il ritorno nel proprio paese sia relativamente semplice non ravvisando problemi, ma, anzi, solo benefici, dato che l’espatriato di rientro in fondo si riappropria della propria lingua e della propria cultura e si riavvicina alle persone care; in rari casi viene riconosciuta la difficoltà di questo momento, simile invece per complessità e delicatezza a quello della partenza tanto da essere stato definito in letteratura come shock culturale inverso.

Nel 67% delle multinazionali esaminate da Brookfield nel 2014 viene applicata una politica di rimpatrio scritta creata dalla società insieme con il dipendente che considera contemporaneamente le possibilità offerte dalla prima e le accresciute esperienze del secondo, a fronte di una media storica del 72%. Per contro alla domanda posta ai partecipanti se la compagnia avesse una precisa strategia di rimpatrio collegata alla carriera del manager e mirata al suo mantenimento negli organici della società, il dato relativo alle risposte positive risulta in pesante flessione rispetto all’anno precedente (16% nel 2014 a fronte del 24%).

Visto quanto considerato sopra in merito allo scetticismo delle imprese verso una pianificazione dettagliata e rigorosa della fase precedente all’espatrio, non è difficile immaginare che alla fase successiva allo stesso, che di norma avviene a due-quattro anni di distanza, sia riservata un’attenzione ancora minore.

Foster (2000) asserisce che la gestione del rimpatrio più che quella dell’espatrio è il più grande problema affrontato dalle compagnie inglesi negli ultimi dieci anni; svariati studi condotti da Adler (1991) dimostrano che meno della metà dei rimpatriati interpellati sono stati promossi in seguito all’esperienza all’estero e che circa due terzi pensano che l’incarico internazionale abbia influenzato negativamente la loro carriera. Oltre la metà dei rimpatriati risulta essere stata messa in attesa di un nuovo incarico per periodi anche lunghi ed il 75% di questi ha sperimentato una retrocessione.

Considerando che un incarico all’estero di quattro anni costa in media ad una multinazionale circa 2 milioni di dollari (Downes et alt., 2007), perché rischiare di sprecare l’investimento, visto che l’assenza di politiche di reinserimento può compromettere anche la permanenza del dipendente

all’interno dell’azienda? In dottrina non emergono spiegazioni adeguate che giustifichino l’inerzia e l’indifferenza da parte dello HRM nei confronti delle nuove potenzialità acquisite dal dipendente, ma è chiaro che la negligenza con cui viene affrontato il momento del rimpatrio può comportare una perdita economica secca, sia in relazione all’investimento effettuato (la perdita di un rimpatriato è stimata in 1,2 milioni di dollari) che in relazione al dipendente (il 29% degli espatriati lascia la compagnia entro un anno dal ritorno alla casa madre) e può alterare i piani di crescita internazionale per il futuro dato che gli altri dipendenti diverranno riluttanti nei confronti di queste tipologie di incarico.