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VERSO TEORIE FEMMINISTE DIFFERENZIATE E STORICAMENTE SITUATE

«Sono tra gli uomini amo gli uomini amo l'azione amo il pensiero amo la mia lotta sei un essere umano nella mia lotta ti amo.»1

Nâzim Hikmet, Guardo in ginocchio la terra

In questo scritto si è voluta presentare la storia del Black Feminism e delle sue teorie, cercando di fornire una raffigurazione esaustiva e affatto semplicistica delle motivazioni, delle esperienze e dei vissuti che hanno condotto le donne nere statunitensi alla creazione di teorie femministe, antirazziste ed anticlassiste “altre” da quelle che caratterizzavano i movimenti di liberazione ad esse coevi. La loro è stata definita come una “pratica filosofica dell'esperienza del corpo” che, affondando le proprie radici epistemologiche nella vita di queste donne, nella loro esperienza storica e storicamente determinata dal peso di un passato di schiavitù, e nelle manifestazioni materiali dei rapporti di potere immediatamente visibili sui loro corpi di donne nere e lavoratrici, si rivelava in grado di fronteggiare e di esprimere al meglio la cosiddetta “intersezionalità” fra gli assi dell'oppressione, che può essere motivata da questioni relative al genere, al sesso e alla classe, prese nella loro singolarità oppure, spesso, simultaneamente.

La singolarità della loro posizione esistenziale esigeva delle azioni e delle risposte che non era possibile trovare né nel movimento di liberazione dei neri, interamente concentrato sulla questione razziale e in gran parte delle sue manifestazioni dichiaratamente misogeno, né nel movimento femminista bianco statunitense, focalizzato esclusivamente sul fronte del genere, le cui protagoniste spesso si rivelavano, chi più chi meno coscientemente, fedeli ai più biechi sentimenti ed ideologie razziste. Sulla base dell'esclusione e dell'assenza di una rappresentazione comprensiva delle loro esperienze, le donne nere sentirono premere sulle loro persone la necessità di affermare la loro soggettività femminile nera continuamente frustrata e negata, di riconoscersi prima, e vedersi riconoscere poi, la loro dignità di esseri umani che da secoli era loro negata da gran parte delle formazioni sociali, bianche o nere, maschili o femminili che fossero.

Sulla base di quanto detto sul Black Feminism, sulla teoria dell'intersezionalità e sulla necessità che le popolazioni cosiddette “subalterne” riescano, a partire dalla consapevolezza della loro condizione e della loro storicità, a formulare un pensiero contro-egemone capace di de-costruire il centro attraverso uno sguardo coscientemente marginale, a conclusione di questo nostro discorso si intende accennare ad altri esempi di declinazioni teoriche condotte attraverso l'assunzione di uno sguardo “altro” rispetto alle teorie e alle posizioni dominanti (bianche ed occidentali). Fautrici di queste nuove teorie sono le donne del cosiddetto Terzo Mondo stanche di vedere donne (femministe) bianche, occidentali e di classe media, portatrici di esperienze e posizioni sociali diametralmente opposte alle loro, farsi portavoce dei loro bisogni, delle loro necessità e delle loro istanze. Infatti, come sostiene De Pretis e come hanno mostrato le analisi da noi condotte nel corso del primo capitolo, secondo la rappresentazione condotta dal pensiero femminista mainstream,

«La donna del terzo mondo costituirebbe la figura monolitica di un ritardo storico rispetto alle “magnifiche sorti e progressive” dell'emancipazione occidentale, un'immagine unidimensionale ritagliata sul ruolo di vittima […]. E tuttavia, la realtà della sua condizione sarebbe perfettamente nota alle donne occidentali in quanto frutto di una comune oppressione al patriarcato, diversa per intensità ma non per natura […].

Dietro questa rappresentazione benevola si cela, secondo Mohanty, un grave disconoscimento […]. Quest'immagine confinerebbe le donne del terzo mondo in una condizione di sostanziale passività, nell'incapacità di opporre forme di resistenza autonome, di operare come soggetti attivi della propria storia; quelle donne dovrebbero in un certo senso essere “salvate da se stesse” e dall'arretratezza culturale e politica di cui sarebbero vittime.»2

Ad essere negata alle donne colorate è, dunque, la loro capacità di agency, la loro possibilità d'azione all'interno degli specifici vincoli strutturali che caratterizzano la loro collocazione storica, geografica e culturale. Il pregiudizio - e la presunzione - che spesso caratterizza la posizione degli occidentali nei confronti degli ex-colonizzati, derivato da secoli di dominazione coloniale e di programmatica rimozione e distruzione delle culture dei dominati, è fatto proprio anche da gran parte dei discorsi femministi bianchi e occidentali e conduce alla raffigurazione delle donne del Terzo Mondo esclusivamente come vittime di sistemi di relazione patriarcali, trascurando di

2 S. De Pretis, Tra “Agency” e Differenze: percorsi del femminismo postcoloniale, in Studi Culturali, anno II, n.2, dicembre 2005.

cogliere la loro collocazione all'interno degli assi che formano la loro esperienza soggettiva (su tutti i classici razza, genere e classe) e non riconoscendo i loro specifici atti di resistenza e di ribellione. L'idea tipicamente occidentale (e razzista) secondo cui i “subalterni”, i colorati e i poveri, a causa dell'arretratezza della loro civiltà rispetto all'avanzamento della nostra non riuscirebbero a raggiungere il pieno sviluppo senza che noi illuminassimo loro la via, conduce all'offuscamento delle loro voci. Gli intellettuali, gli economisti, gli storici, ecc. occidentali si trovano a parlare dei “reali” problemi e delle “reali” soluzioni dei paesi de Terzo Mondo al posto di coloro che vivono questi problemi sulla loro pelle e che si impegnano quotidianamente per trovarvi delle soluzioni che, invece, vengono zittiti; barbari come sono, d'altra parte, non hanno proprio i mezzi per riuscire a parlare in prima persona.

La soluzione viene trovata nell'universalizzazione dei nostri modelli culturali, civili, economici, sociali ed intellettuali, gli unici veri modelli di libertà e di democrazia che noi, popoli immensamemente sviluppati, naturalmente, applichiamo alla perfezione. Questo accade anche per l'universalizzazione delle teorie e dei modelli di emancipazione femminile sviluppate dai movimenti di liberazione delle femministe bianche ed occidentali, che avanzano la pretesa di conoscere la condizione di tutte le donne del mondo, generalizzando la loro oppressione sessuale come unico fattore di sofferenza e come comun denominatore per tutte le donne, ergendo l'esperienza bianca a modello universale, come se essa non fosse immanente ad una precisa posizione storica ma fosse in qualche modo un qualcosa di metafisico.

Come nota, invece, Adrienne Rich, una femminista bianca, occidentale e lesbica che è riuscita ad evitare derive universalizzanti e “generalizzanti” per sviluppare, invece, una coscienza storica della propria condizione e della differenza delle altre donne rispetto alla sua esistenza, attraverso quella che lei stessa definisce una politica del posizionamento:

«Dobbiamo riconoscere la natura circoscritta del (nostro) essere bianche/i. Sebbene siamo state emarginate come donne, abbiamo pure emarginato altri in qualità di produttrici di teoria bianca e occidentale, perché la nostra esperienza di vita è, senza alcun dubbio, bianca, perché anche le nostre “culture delle donne” sono radicate in qualche tradizione occidentale. Avendo riconosciuto il nostro posizionamento, avendo dato per scontate queste condizioni creando confusione tra quello che volevamo, le nostre aspettative bianche ed occidentali e quelle propriamente femminili, abbiamo avuto paura di perdere la centralità dell'uno anche se tendevamo (rivendicavamo l'altro) verso l'alto.»3

Investire la propria condizione particolare di una validità universale ed universalizzante, significa fissarla come la norma, trascurando e mortificando così i problemi e i bisogni di quelle donne che vivono in condizioni assolutamente diverse dalla nostra. Si è ampiamente discusso, ad esempio, del diverso posto occupato dalla questione lavorativa nella vita delle donne di diversa condizione socio- economica e dell'importanza che veniva attribuita dalle femministe bianche alla possibilità di entrare a far parte del mondo del lavoro. Infatti, mentre per le donne bianche di classe medio-alta il lavoro avrebbe significato la possibilità di un'affermazione personale e una chance di evasione dalla sfera domestica nella quale i canoni tradizionali della femminilità la volevano relegata, le altre donne escluse dai privilegi economici della classe media (principalmente donne colorate e povere) e costrette a svolgere i lavori più alienanti e degradanti per riuscire a mantenere loro stesse e la loro famiglia, mai avrebbero potuto – né voluto – rivendicare il loro diritto di poter lavorare, dal momento che erano coscienti da secoli che questo non avrebbe comportato la loro libertà o l'affermazione della loro dignità umana, ma che, anzi, avrebbe solamente aumentato lo sfruttamento dei loro corpi e la mortificazione delle loro persone. Come nota ancora Adrien Rich, le femministe bianche occidentali nel presentare le loro istanze, le loro ideologie e le loro necessità, spesso dimenticano che esistono donne che vivono situazioni diverse dalle loro4 e ne rifiutano la voce,

negano loro la possibilità di autorappresentarsi nella lotta per l'emancipazione, essendo auto-elette come loro magnanime portavoci. Come afferma Adrianne Rich, infatti:

«Con luce fioca vedo ancora questa donna e così anche la sua sveglia interiore che spinge fuori dal letto le sue membra pesanti e forse anche doloranti. Accettando nel suo corpo l'ultimo freddo spicchio della notte e andando incontro al sole nascente, sento il suo respiro che dà vita alla sua stufa, alla sua casa, alla sua famiglia. Nel mio mondo nord americano, bianco hanno cercato di dirmi che questa donna non pensa, né tantomeno riflette sulla sua vita; che le sue idee non sono idee reali come quelle di Karl Marx o di Simone de Beauvoir e che i suoi calcoli, la sua filosofia spirituale, le sue attitudini per la legge e l'etica, le sue

dell'articolo è stato tratto e tradotto dalla raccolta degli scritti dell'autrice pubblicati dal 1979-85 da W. W. Norton & Company, New York-London.

4 «In tutto il globo ci sono donne che si alzano prima del sorgere del sole; ci sono donne che si alzano prima degli uomini e dei bambini per pestare il riso, per accendere il fuoco, per preparare la pappa ai bambini, il caffè, per stirare pantaloni, per intrecciare i capelli, per tirar su l'acqua per un giorno intero dal pozzo, per bollire l'acqua per il tè, per fare il bagno ai bambini che vanno a scuola, per raccogliere le verdure e portarle al mercato, per correre a prendere l'autobus per andare al lavoro. Non so quando queste donne dormano. Nelle grandi città, all'alba, ci sono donne che ritornano a casa dopo aver pulito gli uffici tutta la notte, o dopo aver lucidato le sale degli ospedali o dopo aver tenuto compagnia ai vecchi, ai malati e ai moribondi, spaventati nell'ora della loro morte.» (Ivi, p. 8)

decisioni politiche di emergenza sono solo reazioni istintive o condizionate. Hanno anche cercato di dirmi che solo un certo tipo di persone può fare teoria; che solo la mente bianca colta è capace di formulare qualsiasi cosa; che il femminismo borghese sa per “tutte le donne” e che sia da prendere sul serio solo un pensiero formulato da una mente bianca.»5

Le questioni finora sollevate fanno da fulcro allo sviluppo degli studi postcoloniali6

, attraverso i quali intellettuali provenienti da retroterra culturali caratterizzati dal colonialismo e dal neoimperialismo, intendono presentarsi sulla scena culturale mondiale come portatori di punti di vista nuovi e di teorie rivoluzionarie, affermando così, una volta per tutte, la validità delle voci delle popolazioni storicamente tacitate dal colonialismo, e rivendicando il loro riconoscimento. Un filone molto fertile degli studi postcoloniali è rappresentato dai Subaltern Studies, che vedono una grande rappresentante nella filosofa femminista indiana-bengalese Gayatri Chakravorty Spivak, affermatasi a livello internazionale con il suo significativo Can the Subaltern Speak?, uno scritto poi rielaborato in uno delle più importanti opere del pensiero postcoloniale, la Critica della ragione postcoloniale7

. L'autrice, attraverso il titolo chiaramente ricalcato sul modello delle tre famose critiche kantiane, dichiara esplicitamente che il suo intento è quello di sottoporre a rigorosa critica (nel senso kantiano, hegeliano e, soprattutto, marxista del termine) le «strutture della produzione della ragione postcoloniale»8, attraverso lo studio e la decostruzione di un particolare soggetto, definito

dall'antropologia culturale come “Informante Nativo”, da intendersi come una figura scelta in rappresentanza e a modello della cultura di una specifica popolazione. La figura dell'Informante Nativo si rivela chiarificatrice ai fini del nostro discorso perché essa, come coglie Missana,

5 Ibidem.

6 Per un interessante approfondimento sul significato del termine postcoloniale, sulle sue problematicità e sui suoi limiti si rimanda alla lettura di A. Loomba, Colonialismo/Postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2006.

Basti notare in questa sede che la problematicità più evidente del termine “postcoloniale” deriva dal prefisso “post” che, infatti, «implica una “consequenzialità” in due sensi: temporale, nel senso di venire dopo, e ideologica, nel senso di prendere il posto. È questa seconda implicazione a essere contestata dagli studiosi: poiché gli squilibri del governo coloniale non sono stati cancellati, è forse prematuro proclamare la cessazione del colonialismo» (Ivi, pp. 23-24). Perciò in questo lavoro si vuole usare il termine “postcoloniale” in un'accezione più flessibile, seguendo quel filone di pensiero che con “postcolonialismo” non intende semplicisticamente «qualcosa che viene

letteralmente dopo il colonialismo e significa la sua cessazione» ma una «contestazione del dominio e dell'eredità coloniali» (Ivi, p. 28). In questo senso, all'interno della categoria di “studi postcoloniali” possono essere inserite anche le posizioni delle afro-americane o delle popolazioni straniere impiantate in paesi occidentali; Loomba spiega infatti che «una posizione di questo tipo ci permetterebbe di includere nel fenomeno postcoloniale popolazioni geograficamente disperse a causa del colonialismo, come gli afro-americani o le popolazioni di origine asiatica o caraibica in Inghilterra, anche se vivono all'interno di culture metropolitane. Questo ci permette di avvicinare la storia della resistenza anti-coloniale alla resistenza contemporanea contro l'imperialismo e la cultura occidentale dominante» (Ibidem).

7 G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, tr. it. di A. D'Ottavio e prefazione di P. Calefato, Meltemi, Roma, 2004.

8 G. C. Spivak, Risistemare i desideri, attendere l'inatteso, in “Aut-Aut”, 333, gennaio-marzo 2007, p. 24; citato in E. Missana (a cura di), Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, cit., p. 47.

«può venire eletta come emblematica del modo in cui la modernità europea e occidentale prima, durante e dopo il colonialismo costruisce la propria autorappresentazione e autocelebrazione mediante e grazie alla produzione di Altri/e che vengono in diversi modi a occupare lo spazio di un “fuori” costitutivo del “dentro”. […]

L'esame condotto da Spivak […] mette in luce come nella produzione del Discorso coloniale e in forme diverse nel Discorso postcoloniale, che ne costituisce una sorta di Aufhebung hegeliana (che supera ma conserva), l'Informatore Nativo […] viene prodotto, come Altro dall'Europa […] secondo un codice che lo rende decifrabile, e nel contempo espulso e silenziato perché la sua voce, e la sua specifica agentività (agency), vengono ignorate e/o significate unicamente all'interno del Discorso che lo nomina.»9

Nel corso dell'analisi di Spivak, che afferma la necessità dell'adozione di uno sguardo femminista, emergerà come «il modello dell'Informante Nativo attualmente forcluso sia la più povera donna del Sud»10. La via che dovrebbe essere perseguita dovrebbe essere quella di una visione

transnazionazionale capace di compiere, non attraverso una sorellanza globale universalizzante ma attraverso una solida e cosciente solidarietà fra donne, una reale de-colonizzazione non solo del pensiero egemone, ma anche delle menti dei colonizzati. Il femminismo occidentale deve, quindi, rendersi conto che la sua lotta non deve indirizzarsi solamente contro l'oppressione di genere, ma deve anche comprendere l'influenza e l'importanza degi assi della razza e della classe nelle esistenze delle altre popolazioni “subalterne”, abbandonando ogni sorta di paternalismo pregiudizievole nei loro confronti che, invece, risulta ancora preponderante. Come afferma Spivak, infatti:

«[...] le femministe con una coscienza transnazionale dovrebbero anche essere consapevoli che qui la stessa struttura civile, di cui sono in cerca per puntellare la giustizia di genere, può continuare a partecipare alla costruzione di alibi per l'operare di un'attività transnazionale maggiore e definitiva (la finanziarizzazione del globo) e quindi per sopprimere la possibilità di decolonizzazione – la costruzione e il consolidamento di una società civile lì, il solo mezzo per un

9 Ivi, p. 48; i corsivi sono dell'autrice.

calcolo continuato ed efficiente della giustizia di genere ovunque.»11

Un chiaro esempio dell'atteggiamento paternalistico, pregiudizievole ed intrinsecamente razzista che investe le posizioni delle donne occidentali rispetto alla condizione di quelle colorate e, spesso, povere è rappresentato da molti dei discorsi occidentali sulla situazione delle donne musumane. Si deve infatti notare come, spesso, la questione della segragazione e dell'oppressione sessuale indubbiamente preponderante nei paesi arabi sia spesso strumentalizzata da donne e uomini occidentali per giustificare i loro attacchi, specificatamente razzisti e/o economici, verso la cività araba nella sua totalità. Le oppressioni, le privazioni e le costrizioni che caratterizzano l'esistenza della maggior parte delle donne arabe sono impugnate, dalla propaganada e dall'ideologia occidentale, capitalista e bianca, come dimostrazione dell'arretratezza, della barbarie e dell'ignoranza di questi popoli e del fatto che noi, in quanto rappresentanti della civiltà compiuta e “secolarizzata”, dove libertà e democrazia regnano sovrane, siamo necessariamente chiamati ad intervenire per “educare” questi barbari, in modo che anche loro possano conoscere ed adottare la vera e unica cultura (quella capitalistica, bianca ed occidentale, s'intende!).

Oltre al fatto che agendo in questo modo alle donne musulmane viene intrinsecamente negata la coscienza della loro condizione e la capacità di azione e di resistenza, emerge anche la presunzione delle donne occidentali che, intente a giudicare e a parlare al posto delle altre donne, non si soffermano a riflettere sulla loro condizione specifica. Convinte come sono della loro superiorità, si scandalizzano delle modalità e dei simboli dell'oppressione delle donne musulmane e, mentre si adoperano per esprimere disprezzo per la loro costrizione e per le relazioni di dominio patriarcali in cui le loro vite sono inserite, si rivelano ignare dei simboli della loro propria costrizione. Naturalmente la rappresentazione e la forza delle cosiddette donne del Terzo Mondo risulterebbero assolutamente diverse se si lasciasse loro la possibilità di esprimeresi autonomamente riguardo alle loro esperienze e se le si interorogasse sulle motivazioni dei loro comportamenti e delle loro azioni, invece di categorizzarle esclusivamente sotto la voce “vittime passive”, incapaci di assumere sulle proprie persone le loro necessità e le loro rivendicazioni. Per questo, in conclusione di questo lavoro, si vogliono presentare degli spunti di riflessione diversi rispetto a quelli cui il nostro sguardo occidentale, bianco e, spesso, borghese, è abituato, sorti in seno a donne che, non essendo riconducibili alla “norma” definita del centro, sono solitamente lasciate nell'ombra.

Si vuole, quindi, accennare brevemente alle riflessioni condotte dalla sociologa marocchina Fatema Mernissi, un'intellettuale musulmana molto impegnata sul fronte dell'emancipazione femminile nei paesi arabi ed autrice di opere capaci di rendere le mille sfacettature delle donne arabe, molte volte

affatto passive, come le vorrebbe dipingere l'Occidente. Uno dei temi scottanti, sia per quanto riguarda la sua influenza sulla raffigurazione della donna colorata (esotica) nell'immaginario dell'uomo occidentale (europeo in primis), sia per quel che riguarda la vita delle donne arabe, è senza dubbio quello dell'istituzione dell'harem femminile. È innegabile, infatti, quanto l'idea di poter avere sempre a propria disposizione donne mansuete, permissive e passive abbia stuzzicato i pensieri degli uomini occidentali, che guardavano a quelle terre straniere come alle patrie erotiche per eccellenza, cui contrapporre, invece, la morigeratezza e l'integrità delle loro mogli e figlie; grandi artisti come Ingres, Delacroix, Picasso, Matisse non ce ne hanno di certo fatto mancare gli esempi. A questa rappresentazione occidentale dell'harem, tuttavia, si oppongono quelle arabe, indigene, nelle quali le donne che vi abitavano non erano assolutamente connotate dalla passività. Erano donne attive, combattive, certamente separate dagli uomini ma non per questo private della loro capacità d'azione. Mernissi, nata in un harem di Fez, in Marocco, nel 1940 in La terrazza

proibita12

conduce un magnifico racconto della vita nell'harem, in cui riesce a restituire le differenze

fra le donne che ne sono le protagoniste. Il risultato è un quadro di donne completamente diverse fra loro, talune attive, intellettualmente impegnate, acculturate, desiderose di evasione, altre, invece,