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Assieme alle proprietà gli enti ecclesiastici nel corso del seco- lo XIV perdettero, legalmente o meno, gran parte delle giurisdi- zioni sopravvissute all’epoca dei ‘riscatti’ dell’età comunale. All’inizio del secolo XV, nella generale situazione di restaura- zione sotto il dominio veneziano, essi poterono tornare ad eserci- tare diritti di giurisdizione da lungo tempo inattivi, a volte recen- temente riacquistati con le proprietà.

[108] I territori soggetti giurisdizionalmente ad enti ecclesia- stici erano certamente di gran lunga inferiori per numero ed im- portanza all’epoca del maggior sviluppo delle signorie rurali, nei secoli XI-XII. L’episcopio ebbe la giurisdizione su Monteforte, Bovolone e Pol; S. Zeno su Erbé, Roncolevà, Trevenzuolo, Mo- ratica, Pigozzo, Romagnano e Cellore d’Illasi; S. Maria in Orga- no su Sezzano, Sorgà e Roncanova; la Congregazione del Clero Intrinseco su Marega; S. Giorgio in Braida su Orti (287).

Le giurisdizioni quattrocentesche, meglio conosciute come vicariati, non rivestivano il ruolo politico delle precedenti signo- rie rurali: i giurisdicenti non erano domini che detenevano nello

287 G. Varanini, L’amministrazione del distretto veronese nel Quattro- cento, di imminente pubblicazione.

stesso tempo, sia pure localmente, il potere politico, amministra- tivo, giudiziario e, soprattutto, militare, appoggiando infatti la lo- ro signoria sulla piena proprietà di una fortezza. I loro diritti pub- blici, che continuavano a rappresentare una fonte non indifferente di reddito, erano limitati non solo dal governo veneto, ma anche dalla continua ingerenza del comune cittadino attraverso la vo- lontà del Consiglio di controllare il loro operato. La loro autono- mia era solitamente amministrativa e giudiziaria, escludendo tut- tavia, tranne che per l’episcopio, le sanzioni penali implicanti il diritto di sangue ovvero la pena di morte. E proprio per lo ius sanguinis, oltre che per aver dato ricetto a contrabbandieri di panni forestieri ed altre trasgressioni simili, il Consiglio cittadino si lamentava con il governo veneto per l’attività del vescovo Bar- baro (288). Rinviamo tuttavia per i rapporti fra città e titolari ec- clesiastici di vicariati al recente studio del Varanini, ove il pro- blema è affrontato nella prospettiva globale dell’amministrazione del territorio veronese e sono istituiti confronti con le situazioni, conosciute finora, dell’Italia centrosettentrionale. (289).

34. Conclusione

Dal secolo IX al XV gli enti ecclesiastici e monastici, soprat- tutto quelli maggiori, rivestirono nell’ambito cittadino un ruolo di primo piano, pur se diversamente articolato.

Nell’età catolingia e nei secoli seguenti chiese e monasteri crebbero ininterrottamente in ricchezza e potenza politica, costi- tuendo con la disponibilità di grandi proprietà curtensi, incentrate dal secolo X per lo più intorno ad un castello, la base per l’assunzione e l’esercizio del potere. Nuclei di vassalli, piú o me- no potenti, si legarono alle chiese per averne beni e protezione, concedendo a loro volta appoggio ed anche protezione militare.

La situazione mutò nel secolo XIII. La costituzione di un go- verno cittadino, autonomo e con carattere spiccatamente pubbli- co, e la pressione ‘dal basso’, nelle campagne, contro il regime

288 A.S.VR., Archivio del Comune, Atti del Consiglio, reg. 61, c. 253v. 289 Varanini, L’amministrazione cit.

signorile, nel Veronese rappresentato in larga misura da episco- pio, capitolo della cattedrale e grandi monasteri, concorsero a li- mitare prima, ad annullare poi in gran parte le signorie locali. Le scarse sopravvivenze di diritti signorili – le curiae del secolo XV – non possono più essere poste sullo stesso piano delle signorie rurali affermatesi nei secoli precedenti: l’esercizio del potere, an- che su base locale, avviene non più [110] in rapporto diretto fra signori e soggetti, ma attraverso la mediazione di un potere cen- trale effettivo, rappresentato dapprima dal governo comunale, poi da quello signorile cittadino, infine da un governo lontano, quelli visconteo e veneto. Le prerogative pubbliche ormai sono più che altro un completamento, un supporto assai utile ed opportuno al mantenimento ed al rafforzamento delle prerogative della grande proprietà terriera.

Un aspetto caratteristico e significativo dall’età comunale in poi della nuova realtà politica è la volontà, presente fin dalla fine del secolo XII, del governo cittadino di assoggettare chiese e mo- nasteri al pagamento delle imposte comunali; tale volontà politica andò sempre più concretizzandosi, rimanendo un elemento costi- tutivo dei rapporti fra clero e città, anche quando, con la conqui- sta veneziana, entrambi, clero e città, vennero assoggettati ad un potere politico superiore.

Ricchezza e potenza politica favorirono la formazione e la diffusione del vassallaggio. Ben presto i vassalli, più che ricevere protezione, furono in grado di condizionare le chiese stesse. Si- gnificative, fra le altre, le vicende dei rapporti fra le famiglie maggiori di età precomunale e comunale e i monasteri, quali quelli fra gli Avvocati ed il monastero di S. Giorgio in Braida, di questi ancora, dei Crescenzi e dei di Chiavica con S. Zeno. Per recuperare possibilità di azione i monasteri, con l’aiuto di vescovi o di imperatori, dovettero liberarsi della loro invadente presenza.

L’influenza delle grandi famiglie cittadine, anche sull’episcopio, raggiunse il grado maggiore in età comunale e si- gnorile, sia pure esercitata con intensità e modi diversi. Anche i conventi dei nuovi ordini religiosi, che pure avevano reagito alla decadenza dei monasteri tradizionali, dovuta in parte ai loro stret- ti legami con la società locale, dovettero subire l’intervento si- gnorile che, se in un primo tempo li favorì, impose in seguito

sempre più la presenza di membri della famiglia signorile al loro interno e spesso alla loro guida.

Con la conquista veneta l’influenza dell’aristocrazia veronese diminuì sensibilmente a vantaggio dei Veneziani. Episcopio e grandi abbazie divennero di norma loro appannaggio. Alcuni ve- scovi veneziani e abati commendatari tuttavia si interessarono ad eliminare gli abusi più gravi della chiesa veronese ed a favorire l’inserimento di antichi monasteri in congregazioni riformate. La stessa ‘opinione pubblica’, espressa dal Consiglio cittadino, si in- teressò attivamente, in modo non disinteressato certo, del buon funzionamento delle chiese cittadine: governo veneto e pontefice non rimasero insensibili agli appelli congiunti della città e dell’episcopio.

Alcuni monasteri, per influsso di un abate commendatario particolarmente sollecito o sulla spinta di un rinnovamento reli- gioso, procedettero a riordinamenti amministrativi che favorirono l’attività economica e che poterono tradursi in ristrutturazioni delle grandi proprietà superstiti o, più frequentemente, nel ricorso a nuovi tipi di contratti agrari, che portarono agli antichi mona- steri entrate più redditizie; un fenomeno questo, che rispondeva ad una tendenza generale di ristrutturazione dell’economia agra- ria dell’epoca, realiz [111] zata nello stesso periodo anche da grandi proprietari laici, e che si concretizzava in una rinnovata ‘presa’ sulla terra e ancor più sugli uomini che la coltivavano. Il che costituì uno dei supporti della supremazia sociale ed econo- mica dell’aristocrazia cittadina veronese in età moderna.

Nota.

Il documento del 24 giugno 813 (C.D.VR., I, doc. 101), citato alle note 12, 20 e 63, è un falso, attribuibile alla seconda metà del secolo XI, come è stato dimostrato da C. La Rocca, Pacifico di Verona. Il passato carolingio nella costruzione della memoria urbana, Roma, 1995, pp. 54-81.