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IV. QUANDO LA DIASPORA SI ORGANIZZA

1. Vietnamese American Community Center

Antoine Drive, un‟ampia strada che corre dritta a nord ovest di Houston, lontana dalle zone più congestionate del downtown, a circa 35 km da Bellaire. Capisco di essere entrato nell‟area vietnamita quando intorno a me, dal finestrino della macchina, noto per lo più insegne di negozi vietnamiti: ristoranti, supermercati, gastronomie, bar, dentisti, centri medici, uffici legali. Ad essi si affianca un gran numero di negozi ispanici, segno che la popolazione sudamericana in quest‟area è altrettanto numerosa. L‟area commerciale che sto attraversando non ha i colori sgargianti di Bellaire e si nota subito l‟assenza di un elemento decorativo, la bandiera sud-vietnamita. Arrivo finalmente al civico 9530, sede del Vietnamese American Community Center. Un edificio color crema, introdotto da un ampio parcheggio e circondato su un lato da un gran numero di coltivazioni in vaso, dall‟altro lato da un‟ampia e malridotta area di coltivazione a

1 Tratto da Lam A., 2005, Perfume Dreams. Reflections on the Vietnamese Diaspora, Berkeley, California, Heyday Books, p.11.

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terra2, che va infittendosi fino a diventare bosco. La facciata dell‟edificio è incorniciata tra due alberi e l‟immagine è suggestiva, perché racchiude due simboli importanti per la comunità diasporica vietnamita: la facciata del centro è identica a quella del Ben Thanh Market, cui abbiamo già detto ispirarsi altri edifici ubicati a Bellaire; ai lati della facciata due alberi di delonix regia (noto in italiano con il nome di “albero di fuoco” e chiamato in vietnamita cây phượng vĩ), una pianta che in Vietnam orna le strade ed è simbolo degli studenti, dato che, essendo il suo periodo di fioritura compreso tra maggio e luglio, esso coincide con la fine dell‟anno scolastico. Appena fuori dalla porta d‟ingresso, mi saluta una donna sudamericana, che col figlioletto sta sistemando alcuni scatoloni. Entrati all‟interno dell‟edificio, si apre una sorta di auditorium: in fondo, sul lato lungo, si trova un palco, sui due lati corti si aprono invece da una parte la cucina, dall‟altra alcuni uffici e una piccola sala adibita a biblioteca. Mentre mi guardo intorno, noto diverse donne sudamericane in cucina, una delle quali mi viene incontro. Una volta presentatomi brevemente, le dico che vorrei parlare con il direttore. Poco dopo, eccomi venire incontro un uomo vietnamita sulla sessantina, capelli sale e pepe, vestito elegantemente e sorprendentemente alto per la media vietnamita. Il suo nome è Joseph Do ed è il direttore esecutivo nonché fondatore del centro. Mi saluta cordialmente stringendomi la mano, parla un inglese reso non meno fluente da un marcato accento. Mi invita a sedermi e col sorriso sulle labbra, mi ascolta con attenzione mentre gli spiego della mia ricerca. La riflessione che, fra le altre, ispira questo capitolo, nasce proprio dalle parole di Do, il quale, dopo avergli nominato le altre associazioni con cui ero entrato in contatto precedentemente (VCSA e Vietnamese Civic Center), mi risponde che il Vietnamese American Community Center è «diverso» e me ne spiega il motivo: diversamente da quelle che Do chiama le «associazioni di Bellaire», il VACC non serve solo la comunità vietnamita, ma anche quella ispanica, quella afroamericana e

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quella americana. Do parla in termini statistici, affermando che il 45% degli utenti del centro è asiatico (principalmente vietnamiti e pochi cinesi), il 25% ispanico, un altro 25% afroamericano e il 5% americano. La seconda grande differenza, mi dice, è la natura a-politica del centro, che non è interessato a «combattere i comunisti», ma piuttosto ad «affrontare i problemi sociali della comunità di qui»3.

Do non parla del Centro in terza persona, ma utilizza il pronome «noi» («We are different»). Nel parlare alla prima persona plurale, Do stabilisce fin da subito una differenza netta fra noi (del Vietnamese American Community Center) e loro (delle altre associazioni). È altrettanto interessante che Do utilizzi spesso l‟espressione «te lo dico» («You know why? I‟ll tell you»), con cui sembra pormi come destinatario privilegiato della riflessione che sta per seguire, invitandomi a mantenerla confidenziale. Il tono della voce ha un‟importanza notevole: per tutta la durata della conversazione (e a dire il vero per tutte le conversazioni che avremmo avuto anche in seguito), esso è gioviale, accompagnato da un‟espressione sorridente, curiosa, che mi mette a mio agio. Anche l‟orgoglio è una componente essenziale che emerge della prosodia e dal lessico usati da Do. Il discorso prosegue con una mia domanda riguardante la natura per così dire monadica delle associazioni vietnamite di Houston: se davvero a guidare gli obiettivi di ciascuna è l‟auspicio di un miglioramento delle condizioni della comunità vietnamita di Houston e il mantenimento del proprio patrimonio culturale, perché mai esse continuano a operare separatamente indipendentemente le une dalle altre, senza aiutarsi a vicenda nel perseguire i propri comuni obiettivi? A tal proposito, Do mi ha proposto questa riflessione (annotata nel diario di campo, 2 novembre 2015):

3 Conversazione con Joseph Do, annotata nel diario di campo, 2 novembre 2015. Il Vietnamese American Community Center è un centro ricreativo per anziani. I servizi che offre sono in parte gratuiti, in parte a pagamento. Si tratta di attività della cui didattica si prendono carico altri membri della comunità, ad esempio corsi per l‟utilizzo del computer, corsi di ballo, corsi di inglese. Alcuni corsi sono tenuti in vietnamita, altri in spagnolo, altri ancora in inglese.

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La ragione risiede nella cultura agricola dei vietnamiti. Quando ti dedichi all‟agricoltura, significa che tu coltivi la terra, badi alle tue coltivazioni e sei autonomo, perché dipendi solo dal meteo e dalle stagioni. Gli americani invece hanno una cultura industriale, in cui sei costretto a collaborare, perché sei come parte di una catena.

Questa sorta di analisi antropologica, per quanto appena accennata e superficiale, manifesta una presunta consapevolezza dei meccanismi che regolamentano i rapporti interpersonali nelle due culture lavorative. Certo, la stessa riflessione non può dirsi pienamente antropologica, ed è per di più, a mio avviso, errata, nella misura in cui generalizza una tendenza per molti versi confutabile. Cionondimeno risulta plausibile, nella misura in cui mi è stato da molti vietnamiti riferito, ad esempio, che sia in Vietnam che all‟interno delle comunità vietnamite all‟estero, vi è una certa reticenza a lavorare alle dipendenze di qualcuno. Si preferisce essere capi di se stessi, aprendo attività autonome. Questo spiegherebbe perché a Houston esistano una miriade di piccole attività, per lo più a gestione familiare e con pochi dipendenti, piuttosto che attività di medie e grandi dimensioni con strutture gerarchiche più articolate.

Do prosegue ammettendo di aver provato a confrontarsi con i rappresentanti di altre associazioni riguardo alla possibilità di unire le forze, ma ciò sembra essere ostacolato da tre fattori: 1) il fatto che esse non siano d‟accordo con la sua mancanza di interesse politico; 2) il fatto che il VACC non supporti in maniera esclusiva la comunità vietnamita; 3) il fatto che, pur avendo Do 60 anni, si sia trovato a scontrarsi con persone più anziane che pretendevano cieca obbedienza.

Si può quindi comprendere come l‟esigenza di ubicare l‟associazione nell‟area nord- occidentale di Houston e non a Bellaire, dove avrebbe sicuramente ricevuto più visibilità, sia stata dettata dalla volontà di prescindere dal contenuto intrinsecamente politico del quartiere e di sottrarsi alle dinamiche che reggono i rapporti fra associazioni

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vietnamite, ancora fortemente improntate a una gerontocrazia percepita molto più come un esplicito nepotismo, piuttosto che come eredità dell‟etica confuciana.

Come accennavo, le riflessioni appena riportate, nate dall‟incontro con Joseph Do, mi hanno condotto alla stesura di questo capitolo, in cui desidero affrontare il tema delle associazioni nella cornice teorica che ho già adoperato nei precedenti capitoli, vale a dire quella del transnazionalismo. Francesco Marini (2015: 48) parla, con particolare riferimento alle associazioni di immigrati, di «diaspora trasnazionale», comprendendo nella sua definizione «tutti quei processi in cui, indipendentemente dalla durata della permanenza nel paese di emigrazione, i migranti creano gruppi sulla base dell‟appartenenza ad una patria comune e della conseguente condivisione di valori culturali, sociali o religiosi; questi gruppi si caratterizzano inoltre per una simultanea appartenenza dei propri membri sia al contesto di origine sia a quello di destinazione che sono messi in relazione attraverso le relazioni e le pratiche dei migranti stessi». Un interrogativo sorge tuttavia spontaneo, almeno nel caso della diaspora vietnamita, caratterizzata da un rapporto assai conflittuale con la madrepatria, dovuto a ragioni di ordine storico e politico:

It is clear that the continuing existence of diasporas hinges on their members‟ wishes to maintain their ethno-national identities and contacts with their homelands and with other dispersed communities of the same ethnic origin. It is less obvious why diaspora members are willing to invest substantial effort and resources in creating elaborate organizations dedicated to nurturing relationships with their host societies and governments, homelands, global and regional actors, and other groups from the same nation residing in other host countries: first, to promote the well-being and ensure the continuity of their communities in their lost countries; second, to increase their ability to extend support to beleaguered homelands and other diaspora communities of the same national origins (Sheffer 2003: 26).

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La creazione, da parte delle comunità etniche e di immigrati, di associazioni volte a promuovere la realizzazione e la difesa di interessi comuni, riflette il carattere dinamico del processo di integrazione ed è il segnale che gli immigrati stanno assumendo con una sempre maggiore energia il ruolo di soggetti sociali, piuttosto che quello di meri oggetti passivi di assistenza. Tali associazioni assumono aspetti molto diversi: esse variano dai gruppi informali e temporanei a carattere locale, agli organismi statutari ufficiali con personale altamente qualificato e sussidi governativi. Alcune associazioni raggruppano membri di una determinata comunità, altre reclutano i loro membri in comunità diverse. Un‟altra categoria degna di menzione è poi sicuramente quella delle associazioni gestite dai giovani di origine immigratoria, come ad esempio la già citata LDBP, ma anche le associazioni studentesche vietnamite costituitesi all‟interno di molte università, l‟unione formale delle quali ha dato origine alla Union of North American Vietnamese Student Associations. Alcune associazioni concentrano i propri sforzi sulla conservazione dell'identità e del patrimonio culturale del paese d‟origine, altre sulla tutela degli interessi dei loro membri, ma nella maggior parte dei casi sono attive, seppure in proporzioni diverse, in entrambi i campi. In alcuni casi l'impegno esclusivo per la conservazione della propria identità può far nascere sentimenti di nostalgia culturale, che possono tendere a rallentare processo di integrazione. D'altro canto, la conservazione dell'identità consente ai membri delle comunità etniche e di immigrati di trarre pieno beneficio dal proprio specifico patrimonio culturale. L'equilibrio tra i due aspetti è piuttosto delicato e può non essere uguale per tutti gli individui. Da un lato, dunque, le associazioni di immigrati svolgono un ruolo importante nel favorire l'integrazione degli immigrati e delle comunità etniche (un segnale di progresso nell'integrazione è dato dalla tendenza crescente a partecipare attivamente alla vita della società, e proprio le associazioni rappresentano spesso il veicolo di tale partecipazione), dall‟altro lato, tuttavia, le medesime associazioni favoriscono la dipendenza di una

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porzione non esigua della comunità etnica stessa da enti che reiterano una specifica identità.

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