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La visione di Pasolini relativa alla società italiana del trentennio post-bellico

61 Pasolini 19731, 242.

62 Ivi, 242-256.

63 Pasolini 19684, 151-155 e Pasolini 19686, 159-162. Nel 1968, in segno di protesta nei confronti del Premio Strega, Pier Paolo Pasolini decise di ritirare il suo romanzo “Teorema” dalla competizione.

64 Pasolini 19684, 153.

65 Ivi, 151-155.

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Pasolini nei suoi articoli da ampio spazio alla riflessione sul tema della società, soffermandosi in particolar modo sull’avvento della società neocapitalistica, sul fenomeno del consumismo e sul ruolo imperante assunto in Italia dalla classe borghese. Il tema della società, insieme a quello politico, è quello più dibattuto dall’autore e lo accompagna per tutto il corso della sua esperienza giornalistica, descrivendo così i mutamenti che stava affrontando la società a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino agli anni Settanta. Pasolini più volte nel corso degli anni afferma che la società al finire del secondo conflitto bellico ha iniziato a mutare completamente la sua fisionomia: la distinzione sociale che ha caratterizzato per decenni il Paese lascia il posto a un’omologazione che realizza il sogno interclassista del regime fascista. Tale omologazione è da ricondurre all’avvento del “nuovo Potere”, ovvero della società neocapitalistica. La mutazione si rende evidente nella sua determinazione nel trasformare la popolazione contadina e sottoproletaria in piccola borghesia, e nella sua furia implacabile di portare alle estreme conseguenze lo sviluppo dell’Italia, producendo e consumando inesorabilmente. In tale situazione si assiste ad un clima di falsa tolleranza in quanto l’uomo per non sentirsi un “diverso” deve conformarsi ed essere così un avido consumatore. Più volte nel corso degli anni il nuovo tipo di società è paragonato da Pasolini a una forma “totale” di fascismo: l’autore ritiene che la nuova società dei consumi sia stata in grado di realizzare persino ciò che il regime fascista non era stato capace di attuare, ovvero la cancellazione dei vari particolarismi in favore di un modello dominante imposto dall’alto. Essa è stata in grado di trasformare l’individuo in semplice uomo che consuma, facendolo dimenticare delle proprie origini e del proprio passato.67 Pasolini, tuttavia, afferma che nel corso degli anni Settanta un fascismo come quello che si è verificato nel Paese dagli anni Venti agli anni Quaranta non potrebbe più assumere una posizione di potere e di autorità in Italia. La vecchia forma di fascismo per riacquistare l’antico prestigio dovrebbe perseguire lo scopo di garantire alla popolazione comodità e benessere, elementi propri dell’edonismo che caratterizza la società consumistica e a cui gli individui non riescono più a fare meno. Dunque, la nuova società capitalistica si fonda su principi totalmente opposti a quelli che caratterizzano il fascismo classico, tuttavia il filo conduttore che Pasolini rintraccia in queste due forme di governo consiste nel clima di confusione che vige in campo morale ed economico e sull’ignoranza che caratterizza la popolazione nell’ambito della politica.68 Il “nuovo Potere” è dunque

67 Pasolini 19745, 313-318.

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definito da Pasolini il più violento e totalitario che si sia mai verificato in Italia: esso, infatti, è in grado di manipolare e di cambiare radicalmente le grandi masse contadine e operaie italiane, di cambiare la natura degli individui e di entrare nel profondo delle loro coscienze. La “borghesizzazione”, così Pasolini definisce tale mutamento in seno alla società, interessa tutti i suoi settori ed essa è in grado di omologare il Paese anche culturalmente. Il mondo borghese è formato da professionisti, da tecnici, da industriali, da produttori e da consumatori. Pasolini individua come causa principale dell’imborghesimento l’industrializzazione del Paese avvenuta in quei decenni: per porre rimedio all’avvento della borghesia perciò è necessario cessare di industrializzarsi, cosa tuttavia ritenuta impensabile. In tale stato di cose, secondo Pasolini, non rimane altra alternativa che fare una distinzione tra borghesi ritenuti “buoni” e borghesi ritenuti “cattivi”: i borghesi “buoni” sono coloro che simpatizzano con le idee del socialismo, sono amanti della cultura e lottano contro i livellamenti e contro le massificazioni, mentre i borghesi “cattivi” sono coloro la cui unica fede è il capitalismo, utilizzano la cultura a solo fine tecnico e sono sottoposti all’omologazione e alla frenesia del consumo.69 Pasolini afferma che la borghesia non dovrebbe essere identificata come una classe sociale, ciò risulta errato sia sul piano ideologico che sul piano politico, bensì come una malattia. Essa è vista dall’autore come un virus in grado di avvelenare tutti i settori della società: è dunque una forma di terrorismo sia morale che ideologico, il quale interessa anche le nuove generazioni. Per intervenire efficacemente e tentare di curare tale stato insano del Paese è necessario avere coscienza del male borghese.70

Pasolini, inoltre, paragona l’avvento della società borghese a un genocidio: «la distruzione e la sostituzione dei valori nella società italiana», avvenuta dalla fine degli anni Quaranta fino agli anni Settanta, porta «senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa».71 Gli strati della popolazione che sono da sempre stati indenni al dominio borghese o alle conseguenze della sua rivoluzione subiscono tale “genocidio”, ovvero si ritrovano a essere sottoposti a un’assimilazione del modo di vivere borghese. Questa sostituzione di valori è avvenuta clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta e con modi abili e complessi: i nuovi valori sono subentrati a quelli antichi di soppiatto. La società in tale modo, secondo Pasolini, perde il suo antico modello

69 Camon 1969, 1626-1646.

70 Pasolini 19687, 1094-1169.

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di vita, quello di cui gli individui in qualche modo erano contenti e persino fieri anche se implicava le miserie e i lati negativi che la caratterizzavano. In tale situazione gli individui che erano da sempre stati estranei alla sfera della borghesia cercano di imitare il nuovo modello imposto dalla classe dominante. Questi modelli di comportamento imposti possono essere individuati nell’imitazione del vestiario e nel comportamento di fronte a ciò che la pubblicità dei grandi prodotti industriali presenta a loro. I risultati che tutto ciò porta sono disastrosi in quanto l’individuo appartenente alla classe sottoproletaria o contadina non è ancora abituato a tali modelli e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano spesso alle soglie della nevrosi. Un altro modello imposto dalla nuova società borghese viene individuato da Pasolini nella mutazione del codice morale e dei tabù a cui la popolazione delle campagne faceva riferimento: tale cambiamento è fortemente voluto dalla classe dominante, la quale ha la necessità che l’individuo sia prima di tutto un consumatore. La popolazione contadina cerca di adeguarsi anche a questo modello, ma lo sforzo porta anche in tal caso a comportamenti nevrotici. Tali profonde e tragiche trasformazioni sono dovute a un’acculturazione imposta subdolamente dal “nuovo Potere”, il quale separa il concetto di progresso da quello di sviluppo: l’interesse della borghesia si focalizza esclusivamente su quest’ultimo in quanto solo dallo sviluppo è in grado di trarre i suoi profitti.72 Secondo Pasolini, le masse popolari devono «prendere coscienza di questa dissociazione atroce […] perché appunto essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano».73

Fin dagli esordi della sua carriera, Pasolini sostiene che fino agli anni Quaranta, coloro che si trovano in una forte condizione d’indigenza risultano essere portatori di modelli puri di comportamento. Questo tipo di popolazione, consistente nei contadini, nei manovali e nei piccoli artigiani, viene etichettato con il termine di sottoproletariato e sono portatori di vecchie culture particolaristiche per lo più regionali. La loro vita si svolge all’interno di queste loro culture che, secondo la mentalità borghese, corrispondono a enormi ghetti. Nonostante tale condizione d’indigenza, essi vivono nella più piena libertà e non si sentono minacciati dalle limitazioni imposte da una cultura differente dallo loro in quanto essi non la conoscono e la percepiscono solamente come una realtà a loro estranea. Pasolini constata che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, la condizione di vita del sottoproletario muta profondamente. A favorire tale cambiamento, secondo l’autore, non

72 Pasolini 19748, 511-517.

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contribuisce solamente l’avvento della società neocapitalistica e i loro modelli imposti, ma anche l’emigrazione. Tale fenomeno, infatti, fa sì che il popolo dei poveri si possa trasferire in mondi completamente diversi dai suoi, come quello borghese e proletario. Contemporaneamente, anche il mondo borghese inizia ad affacciarsi al mondo dei sottoproletari grazie alla rivoluzione delle grandi infrastrutture, la quale permette che lo spirito della classe dominante si possa dilagare anche tra i meno abbienti. Essa fa sì che scompaiano le vecchie culture con i loro dialetti caratteristici rendendo il sottoproletariato privo di una propria tradizione e di una propria lingua. Esso si ritrova di colpo senza quella libertà che da sempre lo ha caratterizzato e senza i suoi classici modelli di riferimento. Si avvia un inevitabile processo di omologazione in cui il sottoproletariato inizia ad assumere i comportamenti tipici della borghesia e a prendere come riferimento i modelli che essa gli offre.74

Tutta l’Italia, in particolare quella centro-meridionale, ha proprie tradizioni regionali e una lingua viva, un dialetto ricco di gerghi quasi poetici che costituiscono una certa vitalità linguistica: il modello imposto dalla classe dominante blocca la popolazione anche dal punto di vista linguistico. Ciò causa il fatto che gli individui inizino a parlare una lingua “finta”, incapace di inventare metafore: nell’inabilità a parlare i giovani iniziano ad assumere altre forme di comunicazione che esulano dal campo verbale e che si esemplificano in mugolii, spintoni e sghignazzi. Tale trasformazione dal punto di vista linguistico si manifesta, secondo Pasolini, in modo evidente nella sostituzione della lingua umanistica con una nuova lingua tecnica, la cui massima espressione viene individuata dall’autore nello slogan. Tale breve frase, incisiva e sintetica, coniata a fine pubblicitari, appartiene al linguaggio puramente comunicativo dell’industria. Il canone linguistico che vige all’interno di questa durante l’avvento del “nuovo Potere” tende a espandersi anche all’interno della società in maniera tale da creare un profondo legame tra coloro che producono e coloro che consumano. Lo slogan ha lo scopo di essere espressivo in maniera tale da impressionare e convincere la popolazione.75 Esso è considerato da Pasolini come «il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato».76

74 Cancrini 1973, 441-448.

75 Pasolini 19734, 278-283.

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Per Pasolini la seconda rivoluzione industriale e il consumismo, che interessano la società italiana nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, portano a gravi conseguenze all’interno del Paese: la perdita da parte del popolo dei propri valori morali e della propria cultura particolarista causano anche uno stato criminaloide di massa. L’autore pone l’accento sul fatto che la popolazione è priva di una coscienza informata sugli sconvolgimenti che sono in atto nel tessuto sociale e politico del Paese. Le proposte di Pasolini per eliminare la criminalità sono individuate nell’abolizione della scuola media dell’obbligo e della televisione. La scuola media è vista dall’autore come un percorso «di iniziazione alla vita piccolo-borghese: vi si insegnano cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori».77 L’insegnamento è considerato un’attività inutile in quanto le nozioni che la giovane generazione apprende tra i banchi di scuola non trovano un’applicazione concreta nella vita di tutti i giorni. Le scuole elementari sono sufficienti al figlio del proletario in quanto da un lato la prosecuzione degli studi lo renderebbe presuntuoso a causa delle poche conoscenze acquisite, dall’altro lo renderebbe frustato e angosciato in quanto l’apprendimento gli renderebbe manifesto il suo stato d’ignoranza. La televisione invece fornisce un cattivo esempio per le masse, in quanto presenta un’esistenza che il proletario non potrebbe mai concretizzare nella sua vita.78 Inoltre, per quanto riguarda le aspirazioni e il riscatto sociale, il “nuovo Potere” non permette a coloro che provengono da una condizione sottoproletaria di invadere il campo a cui sono destinati per privilegio i piccoli borghesi.79