Prassi di ermeneutica formativa
FAMIGLIA RAGAZZI EDUCATOR
3.2.4 Voglia di comunità
Chiedendo ai ragazzi quali sono le prime parole che vengono loro in mente quando pensano alla comunità, queste sono state le risposte:
-“Penso, ma non lo so, a dei ragazzi, ci sono tanti ragazzi diversi che devono stare insieme. Sì a dei ragazzi.”
-“Divertimento, casino, disprezzo!”
-“Casa, famiglia, persone che stanno insieme e cercano di essere una famiglia…”
-“Cosa sono queste domande?Non lo so, mi fai pensare troppo. Non te lo dico.” -“Comunità, è normale, c’è della gente che si sposta.”
L’identità è un surrogato della comunità27; seguendo questa direttrice interpretativa si aprono orizzonti d’indagine sulle percezioni che ogni singolo soggetto ha circa la propria identità, i suoi bisogni e le personali aspettative.
Una grande contraddizione abita la comunità: l’obbligo di permanenza “subito” dai ragazzi e il bisogno di libera scelta, senza la quale non è possibile sviluppare il
25 Ivi, cit. p. 38. 26 Ivi, cit. p. 65.
senso di appartenenza. È infatti la dimensione della scelta che permette il passaggio dalla convivenza alla condivisione. Il sentimento dell’appartenenza, del resto, diffonde un effetto rassicurante, perché placa il senso di solitudine attraverso la possibilità di partecipare all’intrapresa del percorso segnato dal sentire di un comune destino e dall’incontrarsi di desideri, paure, storie solitarie ed affini. “Una comunità fondata sulla non appartenenza finisce con l’essere un’aggregazione di anime solitarie”28, che poco può insegnare in termini di relazioni solidali e ancor meno riuscirà a consolare il senso di ignoto che la solitudine incessantemente trasporta. Non si tratta di forzare relazioni amicali all’interno della comunità, ma di incoraggiare (laddove è possibile) situazioni di scelta, per ovviare quelle circostanze di non-scelta che si riflettono anche nella non partecipazione alla vita comunitaria e in termini di non assolvimento dei propri doveri.
La sensazione di “non-appartenenza e quindi di non-comunità” può portare alla costituzione di idoli, di leader che aiutano il gruppo nell’evocare l’esperienza della comunità.29 L’elezione del capo, insieme al gruppo accondiscendente, trasforma così la comunità da paventata nemica della libertà delle scelte individuali in fautrice e promotrice di autonomie che risultano individualistiche, piuttosto che individuali. Il rischio, in questo modo, è di rinforzare la “nudità sociale”30 dei ragazzi, già spogliati di un loro abito sociale, cioè del loro habitus- habitat. Privati dei loro ripari, sono alla ricerca di un rifugio che, sempre esistente nell’immaginario, si esprimerà in fragili e veloci richieste di sicurezza; è, ad esempio, il caso di Giacomo che va dall’educatore chiedendo: “di’ a Paolo che smetta di lanciarmi la pallina da tennis che voglio dormire!” Giacomo richiede un’attenzione, una protezione, insomma il riconoscimento di esser degno di esser apprezzato, perché “Altri devono amarci prima che noi possiamo iniziare ad amare noi stessi.”31
28 Ivi, cit. p. 66. 29
Ivi, p. 68.
30 Z. Bauman, Vita liquida…Op. cit., cit. p. 112. 31 Z. Bauman, Amore liquido…Op. cit., cit. p. 111.
Questo rifugio immaginato, sperato se ascoltato, racconta non solo la nudità retrostante, ma anche un bisogno di riscatto che, nell’essere soli, non può realizzarsi. Ogni richiesta di aiuto, anche quella più nascosta, più violenta, più impaurita si appella all’esistenza di una relazione significativa, alle volte, forse sfruttabile, e calcolata. Ma il calcolo riporta la paura di un mondo approfittatore e di un io inadeguato. Se nel vissuto degli educatori è presente questa sensazione di essere ingannati, resta il fatto che il loro compito educativo risiede anche nell’offrirsi come elementi di autoidentificazione e di autogoverno socialmente riconosciuto, affinché la comunità da immaginata diventi reale. “La comunità fatta di comprensione comune, dunque, quand’anche la si riuscisse a creare, resterà sempre un’entità fragile e vulnerabile, costantemente bisognosa di vigilanza, fortificazione, e difesa.”32 La comunità immaginata e quella reale non sono completamente rispondenti, poiché vivere in comunità richiede comunque dei costi: ritorna il binomio sicurezza-libertà, ancora non pienamente risolto. Il mito dell’anarchia, che fervido vive nei ragazzi, combatte le proprie battaglie per la libertà con le sue contraddizioni. “La comunità che cercano è sinonimo di ambiente sicuro, libero da ladri e da estranei. Comunità è sinonimo di isolamento, separazione, muraglie protettive e cancelli monitorati.”33
Così, come ogni ricerca, anche quella di un ambiente sicuro prevede continue rivisitazioni, momenti di instabilità e di riassestamento: la ricerca di sicurezza passa attraverso l’incerto, perché incerte e instabili sono le storie che si affrontano in comunità. E attraverso la frapposizione di posizioni discordanti e chiassose, lo scontro, facilmente innescabile, vede nel momento del ricongiungimento il suo fulcro più critico, laborioso, formativo. Gli educatori, come i ponti, “se non coprono l’intera distanza che separa le due sponde opposte”34 non raggiungono la pienezza e l’efficacia della loro funzione. Se accettare il dibattito significa accogliere l’altro come propositore di significazione, non veder riconosciuto il proprio diritto di essere ascoltato, considerato, costituisce un misconoscimento, un’umiliazione della propria soggettività. Ritorna il tema della salvaguardia della
32 Z. Bauman, Voglia di comunità…Op. cit., cit. p. 15. 33 Ivi, cit. pp. 110-111.
soggettività, quindi della differenziazione: un eccesso di omologazione, del resto, riduce le esperienze del diverso e le abilità di negoziazione con esso. Non solo, ma fomenta le difese e la strutturazione di spazi di interdizione35, l’erezione di “piccole fortezze” che indeboliscono il mondo comunitario. Il costituirsi di queste roccaforti della propria integrità evoca un clima di tensioni e scontri. La tentazione “del chiudere a chiave”, in alcuni momenti di particolare crisi, ritorna negli educatori. Se questo può essere alle volte doveroso, allorquando viene fatto per evitare un pericolo (ad esempio chiudere i coltelli sotto chiave), implica però la necessità del muoversi nella consapevolezza che “le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze” causanti le collisioni, “possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire.”36 Gli strumenti per governare, nell’esperienza della comunità, sono ravvisati nella mediazione e nel dialogo. Al momento, però, le discussioni con il gruppo dei ragazzi, chiamato ad affrontare con gli educatori alcune tematiche, che riguardano la gestione della comunità (come ad esempio richiami all’ordine, alla pulizia, all’aiuto nell’apparecchiare…) fatica a strutturarsi. I timori legittimi, legati ad aspetti biografici della comunità che in questa sede non approfondiremo, sono quelli del creare uno spazio di rivendicazione, di richieste da parte degli utenti. Gli educatori stanno comunque muovendosi in questa direzione nell’organizzazione di eventi straordinari, come la pianificazione di una vacanza o dell’imminente trasloco. L’esperienza della condivisione risulta però maggiormente difficile senza momenti e spazi di elaborazione comunitaria.
Le perpetue incertezze legate agli ingressi di nuovi adolescenti nella comunità, acuisce sentimenti di estraneità verso gli ultimi arrivati e sentimenti di rinforzo e chiusura relazionale tra chi già abita la casa: “gli insediati hanno tutti i motivi di sentirsi minacciati. Oltre a rappresentare l’ignoto che tutti gli stranieri incarnano, i profughi portano con sé echi distanti di guerra e il tanfo di case sventrate e di città rase al suolo, e tali echi non possono che rammentare all’insediato quanto
35 Ivi, p. 151. 36 Ivi, cit. p. 191.
facilmente il bozzolo della routine sicura e familiare possa essere infranto. Il rifugiato…è un messaggero di sventure.”37 Così, nell’estraneo tutte le paure per la propria incerta condizione trovano un depositario. Esse sono così invasive che, nel momento in cui l’estraneo non esiste (non ci sono nuovi ingressi in comunità) esso viene inventato. La costituzione del capro espiatorio prende corpo e si ripropone periodicamente tra i ragazzi e gli educatori, ormai allenati nel riconoscere tali dinamiche. Se l’ingresso di un nuovo minore rappresenta un momento di “crisi” del sistema-comunità, con conseguente riorganizzazione, lo stesso vale per le dimissioni che comportano, come ogni interruzione relazionale, una ferita.
Ritorna il tema della solitudine, in un ambiente in cui la transitorietà della permanenza è una questione strutturale e costitutiva e in cui i riferimenti familiari sono tutt’altro che solidi; la ricerca di riferimenti che ispirino fiducia, di un’autorità cui aggrapparsi è un percorso sempre vivo e intrapreso dai pellegrini che abitano questi territori. Così l’equità relazionale si alterna all’esclusività di momenti che possano provvedere al favorire il crescere di spazi intimi. L’intimità, fuggita perchè caotica e ancora non pienamente strutturata, necessita di relazioni attente e premurose. L’obbligata convivenza con l’irruenza di tanti sfoghi di rabbia, le relazioni dei e con i Servizi sociali che periodicamente entrano nelle case e nelle famiglie di questi adolescenti, accorciano il tempo e riducono lo spazio della dedizione all’intimo. Essa, invece, rassicura l’io fragile, che si sente minacciato e invaso. Il costituirsi di un territorio personale e incalpestato pone i presupposti di un’identità vissuta come propria e preziosa. “E’ il sogno di uno spazio difendibile, un luogo dai confini sicuri ed effettivamente protetti, un territorio semanticamente trasparente e semioticamente leggibile, un posto in cui non si corrono rischi, e, in particolare, rischi imprevedibili.”38
L’attenzione all’intimità come risposta al rifugio immaginato. All’idea di casa che, per questi ragazzi, sembra non esistere mai. Così il carattere irreale e solo immaginato di questo luogo di riparo “fa sì che l’unica modalità di edificare la
37 Ivi, cit. pp. 198-199.
dimora sia uno stato di guerra territoriale e gli unici strumenti efficaci per far diventare reali i confini e la dimora stessa siano le battaglie di frontiera.”39
Occorre riempire di questi significati gli scontri con i ragazzi, affinché gli educatori possano esser sostenuti nel reggere la conflittualità e le durezze con le quali, in prima persona, entrano in relazione.