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La lettera in versi: Canoni, variabili, funzioni

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Academic year: 2021

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QUADERNI

LABIRINTI 185

1 8 5

Dipartimento di Lettere e Filosofia

Università degli Studi di Trento

La lettera in versi

Canoni, variabili, funzioni

a cura di

Pietro Taravacci e Francesco Zambon

di Poesia, svoltosi tra l’8 e il 9 novembre del 2016 presso il

Dipar-timento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, ha avuto a tema La lettera in versi. Canoni, variabili, funzioni.

Solo apparentemente di limitata diffusione, la lettera in versi è sempre stata presente nella lirica occidentale. A partire dalla poesia latina (da Lucilio a Orazio) essa è divenuta un genere poetico suo iure. Nelle letterature medievali si contano le epistole poetiche dei trovatori, ma anche le lettere in versi di personaggi romanzeschi nonché la corrispondenza poetica del Duecento ita-liano. Tra XV e XVII secolo il modello oraziano è stato molto vitale, mentre nello stesso periodo, in Italia, anche le Heroides ovidiane hanno costituito un esempio assai diffuso. Nei secoli successivi i casi sono stati numerosi, spesso con funzione di poe-sia ‘militante’, di argomento letterario, morale, politico.

Il Novecento offre un panorama vario e complesso. Alle tipologie e funzioni tradizionali si sono aggiunte quelle legate alla riflessione su comunicazione e incomunicabilità poetiche. La lettera in versi contemporanea ha quindi invitato il soggetto lirico a uscire da se stesso, a tendere verso un tu concreto o ge­ nerico sviluppando, in particolare, una forte, costante tensione tra presenza e assenza dell’interlocutore­destinatario.

€ 15,00

La lettera in versi

Canoni, v

ariabili, funzioni

Pietro Taravacci è Professore ordinario di Letteratura spagnola presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. È direttore della rivista «Ticontre»; fondatore e coordinatore del Seminario Permanente di Poe-sia; già direttore delle collane «Labirinti» e «Reperti» (2008­2018).

Francesco Zambon è Professore emerito, già Professore ordinario di Filo-logia romanza presso l’Università di Trento; fondatore e coordinatore del Se-minario Permanente di Poesia, i suoi interessi di ricerca si concentrano sui bestiari, l’allegoria, la poesia mistica ed esoterica del Medioevo e del contem-poraneo.

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QUADERNI

LABIRINTI 185

1 8 5

Dipartimento di Lettere e Filosofia

Università degli Studi di Trento

La lettera in versi

Canoni, variabili, funzioni

a cura di

Pietro Taravacci e Francesco Zambon

di Poesia, svoltosi tra l’8 e il 9 novembre del 2016 presso il

Dipar-timento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, ha avuto a tema La lettera in versi. Canoni, variabili, funzioni.

Solo apparentemente di limitata diffusione, la lettera in versi è sempre stata presente nella lirica occidentale. A partire dalla poesia latina (da Lucilio a Orazio) essa è divenuta un genere poetico suo iure. Nelle letterature medievali si contano le epistole poetiche dei trovatori, ma anche le lettere in versi di personaggi romanzeschi nonché la corrispondenza poetica del Duecento ita-liano. Tra XV e XVII secolo il modello oraziano è stato molto vitale, mentre nello stesso periodo, in Italia, anche le Heroides ovidiane hanno costituito un esempio assai diffuso. Nei secoli successivi i casi sono stati numerosi, spesso con funzione di poe-sia ‘militante’, di argomento letterario, morale, politico.

Il Novecento offre un panorama vario e complesso. Alle tipologie e funzioni tradizionali si sono aggiunte quelle legate alla riflessione su comunicazione e incomunicabilità poetiche. La lettera in versi contemporanea ha quindi invitato il soggetto lirico a uscire da se stesso, a tendere verso un tu concreto o ge­ nerico sviluppando, in particolare, una forte, costante tensione tra presenza e assenza dell’interlocutore­destinatario.

€ 15,00

La lettera in versi

Canoni, v

ariabili, funzioni

Pietro Taravacci è Professore ordinario di Letteratura spagnola presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. È direttore della rivista «Ticontre»; fondatore e coordinatore del Seminario Permanente di Poe-sia; già direttore delle collane «Labirinti» e «Reperti» (2008­2018).

Francesco Zambon è Professore emerito, già Professore ordinario di Filo-logia romanza presso l’Università di Trento; fondatore e coordinatore del Se-minario Permanente di Poesia, i suoi interessi di ricerca si concentrano sui bestiari, l’allegoria, la poesia mistica ed esoterica del Medioevo e del contem-poraneo.

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Andrea Comboni (coordinatore) Università degli Studi di Trento Francesca Di Blasio

Università degli Studi di Trento Jean-Paul Dufiet

Università degli Studi di Trento Caterina Mordeglia

Università degli Studi di Trento

Il presente volume è stato sottoposto a procedimento di peer review.

Collana Labirinti n. 185 Direttore: Andrea Comboni Editing: Sergio Scartozzi

© 2020 Università degli Studi di Trento - Dipartimento di Lettere e Filosofia via Tommaso Gar, 14 - 38122 Trento

tel. 0461 281722

http://www.lettere.unitn.it/154/collana-labirinti e-mail: editoria.lett@unitn.it

ISBN 978-88-8443-912-3

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La lettera in versi

Canoni, variabili, funzioni

a cura di

Pietro Taravacci e Francesco Zambon

Università degli Studi di Trento Dipartimento di Lettere e Filosofia

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Introduzione VII Valeria Bertolucci Pizzorusso, La «partie non-

lyrique» nel libre di Guiraut Riquier: un epistolario eterogeneo 3 Matteo Largaiolli, Decoro e ordine. Vincenzo Calmeta

e le forme dell’epistola in versi volgare tra Quattro e Cinquecento 17 Clara Stella, «Come a donna si conviene». Riscritture

ovidiane in due esempi di epistole amorose d’autrice 55

Ambra Anelotti, Una riscrittura cinquecentesca delle Heroides: le Lettere sopra il Furioso dell’Ariosto di

Marco Filippi 69

Clara Marías, Antes de la barroca Epístola moral a

Fabio. La epístola ética del Renacimiento 93

Olga Perotti, Las epístolas morales de Diego Hurtado

de Mendoza 141

Flavia Palma, La lettera in versi come paratesto nei Tragicall Tales di George Turberville 161 Francesco Giusti, «Strange business, confessions»: il

de stinatario assente e il pubblico in ascolto in Birthday

Letters di Ted Hughes 187 Gian Luca Picconi, Pasolini e la metrica della

sopravvi-venza: una lettura di La Guinea 213 Sergio Scartozzi, La lettera in versi di Montale. Il tu,

l’io e l’attesa del «vero destinatario» 235

Nuria Pérez Vicente, Fuerza pragmática y discurso

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la d’oggi. La Carta de junio di Jacobo Cortines (1991) 289 Marina Bianchi, L’epistola in versi nel XXI secolo: il

caso dello scambio di mail tra Fernando Ortiz e José

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2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 I.

Pochi ricollegherebbero probabilmente fra di loro le Epistole di Orazio, i Sepolcri di Foscolo o il Requiem di Rilke, come si fa-rebbe, per esempio, con l’Iliade di Omero, la Chanson de Roland e la Gerusalemme liberata, opere che malgrado i molti secoli che le separano riconosceremmo immediatamente come appartenenti al genere epico. Eppure anche le prime tre opere menzionate ap-partengono a un genere ben individuato, quello della «lettera in versi», di cui non sembra sia stata scritta sinora una vera e propria storia. Si potrebbe perfino stabilirne la data di nascita nella let-teratura occidentale, se dovessimo prestar fede a quanto dichiara Ovidio in alcuni versi della sua Ars amatoria (vv. 341-346) in cui egli invita le donne cui è rivolta l’opera a recitare, tra gli altri, anche i suoi versi e fra di essi quelli di un genere – afferma – da lui stesso creato, la Epistula (trad. di Paolo Fedeli):

Leggi i versi eleganti di chi ci fu maestro coi quali egli istruisce le due parti in contesa

o dai libri che il titolo molle di Amori hanno scegli e leggi qualcosa dolcemente, con pronuncia educata,

o tu con voce modulata, cantante, recita un’Epistola genere ignoto agli altri che da lui fu fondato.

Con il titolo di Epistola Ovidio si riferisce qui a quelle che poi saranno chiamate tradizionalmente le Heroides (cioè Epistulæ

Introduzione

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Heroidum), silloge di lettere immaginarie inviate per la quasi to-talità da figure femminili della mitologia ai loro amanti lontani. L’uso della forma epistolare fissa la situazione costante di parten-za, che è quella della donna abbandonata o tradita o comunque lontana dall’uomo che ama: una situazione che dà modo al poeta di sviluppare il tema elegiaco della perdita e del lamento amo-roso. E mediante l’artificio della lettera egli può scavare nel più intimo della psicologia femminile, rappresentandone in maniera diretta le contrastanti emozioni, i conflitti, i rimpianti, le rabbie, le speranze, le disperazioni. È abbastanza significativo che il ge-nere nasca sotto il segno della finzione: lo statuto epistolare dei testi non riflette una situazione reale, ma è un artificio per mettere in scena una tematica particolare, quella dell’elegia amorosa (per di più al femminile). Ovidio riprenderà però verso la fine della sua vita il genere della lettera in versi con le Epistulæ ex Ponto, opera che raccoglie in quattro libri le lettere poetiche da lui in-viate a diversi destinatari dal luogo in cui era stato esiliato, la remota Tomi, sul Ponto. Il tema ricorrente è qui la sua dolorosa condizione e i suoi tentativi di ottenere perdono da Ottaviano in modo da poter tornare a Roma: si tratta cioè degli stessi temi dei Tristia, che del resto comprendevano anche qualche lettera. Ma nella precedente raccolta lirica i loro destinatari erano ano-nimi, mentre ora ciascuna lettera ha un destinatario preciso, un amico influente, al quale il poeta si rivolge per chiedergli, se-condo le possibilità che gli consente il suo ruolo nella società, di fare quanto gli è possibile per favorire il perdono dell’imperatore e il suo rientro in patria. Ovidio si cala così nella parte che era stata quella delle amanti abbandonate, riprendendo anche alcuni temi morali delle Heroides come quello dell’amicizia; ma questa volta la situazione è reale, il genere epistolare (con il nome del reale destinatario) serve a esprimere le sofferenze dell’esilio e a formulare concrete e circostanziate richieste d’aiuto. Il modello mitologico è utilizzato per una precisa finalità pratica, che tutta-via ricorre alla forma poetica in un estremo tentativo di praticarla quando ormai ciò è divenuto difficile a causa delle condizioni

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esterne, della lontananza dagli amici letterati e del progressivo venir meno dell’ispirazione.

Ma il primato rivendicato da Ovidio è discutibile. Le prime quindici Heroides, le lettere senza risposta delle eroine, furono scritte fra il 10 e il 3 a.C.; le Epistulæ ex Ponto, iniziate nel 12 d.C., furono pubblicate postume. Certamente si può attribuire a Ovidio l’invenzione della «epistola amatoria», anche se una sorta di incunabolo del genere si può ravvisare nella terza elegia del libro IV di Properzio: un’epistola poetica indirizzata da Aretusa al marito Licata, da tempo combattente in Oriente, per comuni-cargli la tristezza che prova per la solitudine e il desiderio di ri-vederlo presto. Ma anche senza considerare una ben più antica lettera in versi di Lucilio (148-103 a.C.), che si lamenta con un amico perché non gli aveva fatto visita mentre era ammalato, nel 19 a.C. viene pubblicato il I libro di un altro grande archetipo del genere nella letteratura occidentale, le Epistole di Orazio. Il loro carattere è completamente diverso dalle Heroides come dalle Epistulæ ex Ponto; la forma della lettera è qui utilizzata dal poeta di Venosa per affrontare temi morali, sociali e anche letterari ri-volgendosi a persone reali con lo scopo di esercitare una concre-ta influenza nella società: quasi, si potrebbe dire, delle «lettere aperte» o dei pasoliniani «articoli in versi» ante litteram. Nume-rosissimi sono qui gli spunti autobiografici come i riferimenti alla vita quotidiana, talvolta con richieste che sollecitano un favore o presuppongono una risposta. Ma a partire dalle concrete vicen-de personali o vicen-dei suoi corrisponvicen-denti Orazio sviluppa riflessioni più generali, ispirate alle sue idee epicuree, che trasformano le Epistulæ in veri e propri poemetti filosofici: basti pensare alle tre lunghe lettere del II libro, dedicate alla poesia, fra cui la lettera ai Pisoni, la celebre Ars poetica.

Nel presente volume, che raccoglie gli Atti del convegno svol-tosi l’8 e il 9 novembre 2016 presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e organizzato dal Seminario Permanente di Poesia (Semper), non sono presenti contributi che

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affrontano questa fase antica della storia del genere. Ma i due grandi modelli costituiti dalle Epistulæ di Orazio e dalle Heroides di Ovidio (più che dalle sue Epistulæ ex Ponto) esercitarono un influsso incalcolabile sui suoi sviluppi successivi, dando origine a due grandi filoni letterari che, se non esauriscono la fenomeno-logia del genere, ne costituiscono comunque le espressioni prin-cipali almeno sino all’epoca contemporanea. Un nutrito gruppo di saggi esaminano qui alcune delle numerosissime traduzioni, riscritture, imitazioni che delle due opere classiche furono rea-lizzate fra Quattrocento e Seicento, soprattutto in ambito italiano e spagnolo. Nei secoli successivi, e soprattutto in epoca contem-poranea, i due lontani modelli classici sbiadiscono sempre di più senza però scomparire del tutto: non è difficile riconoscerli per esempio sullo sfondo della lettera Al conte Pepoli di Leopardi o delle numerose lettere poetiche del Montale «satirico».

II.

Nelle sezioni centrali del presente libro si raccolgono testi-monianze certamente significative di quelle che furono epoche determinanti per lo sviluppo di una storia del genere della «lette-ra in versi», o «epistola poetica», con un’attenzione particolare agli ambiti italiano e spagnolo. La maggior parte dei contributi qui raccolti sono relativi alle epoche rinascimentale e barocca, che perseguirono con particolare lucidità nuove espressioni a partire ogni volta da un cosciente e maturo confronto con l’epo-ca classil’epo-ca.

Ma l’importante saggio di Valeria Bertolucci Pizzorusso ci dà l’occasione di soffermarci su un ambito sicuramente nodale nella storia della scrittura poetica occidentale, ovvero quello dei trovatori provenzali. La necessità di mettersi in contatto con un destinatario, o comunque di dialogare, di misurarsi con un inter-locutore per valutare ciò che allo scrivente pare più importante e urgente, rimangono prioritari nella comunicazione ‘epistolare’ in

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versi anche quando il testo è privo, come accade sovente in Gui-raut Riquier, delle marche forti dello stile epistolare, quali pars pro toto, la salutatio e il nome del destinatario. In ognuno dei casi esaminati dalla studiosa, il testo che in diversa misura, e in modo più o meno formale, si avvicina all’epistola mostra potenza espressiva e una motivazione al dire del tutto eccezionali nonché un coinvolgimento di tutto l’essere vitale dello scrivente e del destinatario in un contesto umano, sociale e culturale assai vivo e sollecitato. L’autrice, nel legittimo tentativo di un bilancio del corpus guirautiano, chiama in causa Cesare Segre che definisce il genere epistolare proprio nella sua natura ibrida, caratterizzato per un verso da generalizzazioni astratte e istanze didascaliche e, dall’altro, attraversato da dati e da finalità personali e concrete.

Gli studi dedicati all’epistola in versi del periodo umanistico- rinascimentale mostrano una connaturata necessità, già evidente in un umanista come Vincenzo Calmeta (1460-1508) – piemon-tese, ma vissuto presso le maggiori corti italiane – di indaga-re i tratti tematici e formali e le specifiche funzioni del geneindaga-re, a partire, nei casi presi in considerazione da Matteo Largaiolli, dall’assimilazione tra epistola ed elegia. Il ricco corpus testuale e tipologico preso in esame dallo studioso conferma una specifica propensione dell’epistola in versi a intensificare e a rendere dina-mico e concreto il tema amoroso; di pari passo, una sua generale disponibilità a integrarsi in contesti scritturali più ampi e di varia natura. Elementi che ne confermano la centralità crocevia dei principali rapporti letterari dell’epoca.

Che lo sviluppo della letteratura del Rinascimento italiano passi attraverso l’epistola poetica in terza rima, nella produzione di scrittrici quali Vittoria Colonna, Gaspara Stampa e Veronica Franco – con la comune mediazione del Tebaldeo – è uno dei punti nodali del contributo di Clara Stella, che osserva, in par-ticolare, come il modello espressivo delle eroine ovidiane trovi nelle Rime diverse d’alcune nobilissime et virtuosissime donne,

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stampate a Lucca nel 1559 dal letterato-poligrafo Lodovico Do-menichi, un’evoluzione del tutto consona alla temperie culturale umanistica e a un contesto in cui la donna non è soltanto elemen-to tematico, ma soggetelemen-to attivo del processo letterario amoroso.

Il contributo di Ambra Anelotti è dedicato alla ripresa e alla riscrittura di uno dei modelli classici, quello appunto delle He-roides, in un antecedente cinquecentesco – le Lettere sopra il Furioso dell’Ariosto di Marco Filippi – di quello che sarebbe di-ventato un nuovo genere letterario tipicamente barocco, specie dalla Lettera di Rodomonte a Doralice di Giovan Battista Marino in avanti (1619). A partire dallo studio della struttura basilare di lettere indirizzate da alcune eroine agli ormai noti protagonisti del Furioso, Anelotti pone in risalto tanto il fruttuoso rapporto fra il modello classico ovidiano e il moderno adattamento ariostesco, quanto i fondamentali elementi che intervengono nella ridefini-zione e nella storia del genere epistolare poetico.

Anche in un diverso ambito culturale come quello dell’In-ghilterra elisabettiana, la lettera in versi mostra una sua predi-sposizione a inserirsi in contesti di sperimentazione letteraria, come avviene nel singolare caso dei Tragicall Tales, dell’inglese George Turberville (1540 ca.-1597), noto e fortunato traduttore delle Heroides ovidiane (1567). Utilizzate come paratesti che in-troducono l’intera opera e ciascuno dei dieci Tales (anch’essi in versi), le epistole liriche, indirizzate al lettore, assumono un’im-mediata funzione prefativa, ma svolgono, in ultima analisi, una più importante funzione critico-letteraria, fornendo utilissimi dati sulle intenzioni dell’autore e sulla cultura elisabettiana. Concen-trandosi in particolare sulla lettera introduttiva al lettore, nella quale Turberville confessa le ragioni della sua scelta letteraria, e rivendica il proprio ruolo di creatore, ben al di là quello di sem-plice traduttore, nel suo contributo Flavia Palma osserva come proprio avvalendosi del verso, l’autore dei racconti di ispirazione italiana (quasi tutti derivati dal Boccaccio) riesca a dare piena

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espressione alla gravità della materia che ha scelto di riproporre al pubblico. Un virtuoso connubio, quello tra verso e tema ‘tra-gico’, che l’epistola comunica direttamente ed emotivamente al lettore, rendendolo partecipe delle vicende narrate e svelando, non a caso mediante il genere più adatto, una sostanziale affinità tra le infelici vicende narrate e il personale stato di sofferenza dell’autore, tra realtà e finzione letteraria.

III.

Decisamente ricca e significativa è l’attenzione che al genere epistolare si è prestata in ambito letterario spagnolo tra Cinque e Seicento vale a dire nell’epoca aurea la quale, nello specifico del genere epistolare, ha conosciuto un terminus post e un terminus ante quem con la Epístola moral a Fabio. Al periodo precedente a quello che a torto o a ragione è ritenuto il testo cardine del ge-nere è esplicitamente dedicato lo studio di Clara Marías, rivolto in particolare a esaminare, anche sotto il profilo statistico, lo svi-luppo dei subgeneri dell’epistola etica e autobiografica in autori operanti tra la fine del XV e le prime tre decadi del XVI secolo.

L’analisi sistematica di un corpus testuale che la studiosa de-finisce «laberinto genérico» – e che include autori che vanno dal poeta e drammaturgo portoghese Sá de Miranda (1481-1558) a Eugenio de Salazar (1530-1602), passando per i famosi Boscán e Garcilaso, ma anche Baltasar del Alcázar e Gutierre de Cetina (per citarne alcuni) – conferma come nella realtà iberica il genere epi-stolare, prima ancora di subire una più cosciente formalizzazione, fosse particolarmente adatto a recepire le maggiori innovazioni culturali ed estetiche dell’Umanesimo e dalla nascente epoca aurea, tutte connotate da un impulso verso una nuova flessibilità e una ricca varietà di temi e registri espressivi. Il panorama osser-vato da Clara Marías si allarga ben al di là della componente ora-ziana dominante e divenuta canonica negli studi sull’epistola in versi, fino a comprendere testi quali quelli di Núñez de Reinoso,

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che permettono di apprezzare la componente ovidiana sopra ri-cordata, nonché assetti metrici, come ad esempio l’ottosillabo, del tutto estranei alla terza rima. Le considerazioni riservate alla tradizione – manoscritta e a stampa, privata e pubblica – dell’epi-stola etica e autobiografica, infine, rappresentano un prezioso contributo non solo per comprendere la vera importanza di realtà testuali e di autori del primo Rinascimento, ma per capire più compiutamente la funzione che la lettera in versi ha esercitato in un’epoca di grande fermento letterario e culturale. Funzione e rilievo tanto effettivi da trasformarsi in paradigmi letterari o da determinare riscritture e contrafacta «a lo divino».

L’ambito cronologico preso in considerazione dallo studio di Olga Perotti (che va da Garcilaso a Boscán, per soffermarsi su Diego Hurtado de Mendoza) coincide con l’ingresso nelle lette-re spagnole di istanze petrarchesche e classiche che, convivendo con un impianto lirico tradicional (sia popolare che colto), pro-ducono un peculiare rimpasto, unico in Europa, fra classicità e modernità. In quello specifico ambito l’epistola poetica è in grado di far emergere un’interiorità del poeta che la lirica amorosa cancioneril aveva congelato in stereotipi tematici, in paradigmi formali diretti a, e fruiti quasi esclusivamente da un pubblico di corte. Perotti dunque conferma come l’epistola cinquecentesca abbia giocato un ruolo determinante nel nuovo sistema della co-municazione letteraria, inserendosi particolarmente bene in un complesso, fruttuoso processo di riscrittura del modello orazia-no, nonché nello sviluppo dell’epistola lirica in volgare (in ciò interagendo col dialogo: un genere fondamentale nelle lettere del Rinascimento tout court).

L’analisi del corpus lirico-epistolare del Mendoza, tra cui di certo spicca la lettera all’amico Boscán, rileva la grande abilità raggiunta dall’autore nel padroneggiare gli elementi che, a parti-re dall’antichità, hanno fatto dell’epistola morale uno dei generi più rappresentativi della temperie culturale e artistica della Spa-gna del primo Cinquecento. Il rigore formale della terza rima,

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mediante la sua dinamica strofica propulsiva, mostra la necessi-tà di un’argomentazione poetica articolata e insieme grave, così come la dinamica tra il monotematismo e l’opportuna fioritura di aneddoti ad esso funzionali sottende l’urgenza e la complessi-tà dell’impianto espressivo. Ma, soprattutto, nella prospettiva di una evoluzione del genere poetico spagnolo, l’epistola morale fa affiorare il più innovativo intreccio fra imitazione e invenzione, tra modello e soggetto lirico autobiografico.

IV.

Nel Settecento e nell’Ottocento non mancano numerosi e im-portanti esempi di epistole in versi: basti pensare, in ambito ita-liano, ai già menzionati Sepolcri e alla lettera Al conte Pepoli. Ma particolarmente vario e articolato è il panorama contempora-neo, che presenta novità radicali rispetto alla tradizione anteriore; alle tipologie e funzioni assunte precedentemente dal genere si aggiungono quelle legate alle problematiche sociali, filosofiche, epistemologiche e letterarie del nostro tempo: crisi del soggetto, statuto del linguaggio, comunicazione e incomunicabilità. L’epi-stola lirica diventa così uno degli strumenti espressivi per affron-tarle e illuminarle. Innumerevoli sono gli esempi di lettere, per lo più fittizie, nella poesia contemporanea: per citare solo alcuni grandi poeti, basti pensare a Invece di una lettera di Majakovskij, alle due lettere ai morti che formano il Requiem di Rilke, alla «Missiva letta | da fogli | non scritti» di Paul Celan, alla Lette-ra d’amore di Sylvia Plath. Un caso emblematico è quello delle Lettres à Lou di Apollinaire, un’intera raccolta poetica formata da lettere all’amata lontana, inviate dal fronte di guerra in cui il poeta si trovava allora a combattere. La forma della lettera poe-tica contrassegna qui in profondità la dolorosa condizione di una lontananza fisica che suscita un desiderio struggente del corpo della donna, espresso nei termini di un erotismo fra i più esplici-ti, tanto più forte in quanto il luogo in cui si trova lo scrivente è

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un luogo di morte e di sofferenza: «ton cœur est ma caserne», le scrive nella sua rêverie serale.

Un altro esempio straordinario, studiato in questo volume da Francesco Giusti, sono le Birthday Letters di Ted Hughes, mari-to di Sylvia Plath, alla quale le lettere poetiche sono indirizzate dopo la morte di lei, suicida. Come ha spiegato lo stesso Hughes la forma della lettera è nata per un’esigenza di confessione im-mediata, quasi naïve, e di liberazione di una storia fino a quel momento evitata: dei contenuti che non potevano essere detti in poesia, nella poesia quale egli la intendeva. Se tuttavia la lettera lo avvicina, come egli scrive, al suo io, non si tratta comunque di un diario: la verità dei fatti e dei sentimenti non è mai garantita – per quanto possa essere mai garantita – da un io che si raccon-ta, ma presuppone sempre il corrispondente, che potrebbe forni-re una versione diversa, anche se qui il corrispondente è morto. Tanto più che in questo dialogo impossibile Hughes risponde ai testi o agli abbozzi di Sylvia, proseguendo uno scambio poetico e sentimentale che era iniziato in vita. Come osserva Giusti:

La lettera poetica sembra essere una forma particolarmente adatta ad affrontare tale dinamica: il suo carattere di risposta a missive precedenti legittima la ripresa, la rilettura ed eventualmente la misinterpretazione di motivi, forme e frasi propri della lettera ricevuta […]. La forma re-sponsiva infrange l’illusione di autonomia monologica per portare in superficie una relazione più o meno antagonistica che definisce il sé attraverso l’altro, le sue parole, le sue richieste.

E nello stesso tempo tale modo consente al poeta di risponde-re pubblicamente ai suoi critici (come Ovidio nelle Epistulæ ex Ponto, alle quali Birthday Letters sono state accostate), specie alle femministe militanti degli anni ’70, che avevano visto in lui il tipico uomo-carnefice. Francesco Giusti spiega ottimamente, nel suo saggio, come la forma della lettera poetica abbia offerto precise soluzioni all’espressione del complesso groviglio psico-logico-letterario che aveva indotto Ted Hughes a tacere per tanti anni su una esperienza cruciale della sua vita.

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Particolarmente ricco e interessante è il panorama italiano. Per il primo Novecento basterà ricordare le Epistole entomologiche di Gozzano, Lettera e Lettera alla madre di Saba, ma anche le let-tere dal fronte di Ungaretti, che spesso sono veri e propri abbozzi delle poesie del Porto sepolto. Questo volume contiene due studi sulle epistole poetiche di due fra gli autori più significativi sotto questo profilo: Pasolini e Montale. Gian Luca Picconi analizza il caso di Guinea, lettera poetica che si inserisce in «un vero e proprio epistolario in versi tra Bertolucci e Pasolini». Rifacen-dosi in qualche modo alle Satire dell’Ariosto (anche per la libera ripresa della terzina incatenata, da lui utilizzata sistematicamen-te nel suo libro di versi politicamensistematicamen-te più impegnato, Le ceneri di Gramsci), Pasolini esprime il suo sogno «africano»: quello di una rinascita della bellezza in Africa, bellezza che in Europa può forse soltanto sopravvivere. Come scrive Picconi, «un’elegia a carattere epistolare diventerebbe allora una forma di metro so-pravvivente, perfetto per rappresentare il luogo della storia da cui Pasolini, in quanto “forza del passato”, parla».

Senza alcun dubbio, tuttavia, il poeta italiano in cui il modo o la forma della lettera in versi assume un ruolo veramente deci-sivo è Eugenio Montale, qui studiato in maniera esauriente da Sergio Scartozzi. Numerosissimi sono nell’opera in versi del poeta genovese gli esempi di lettere, fin dalle sue poesie giova-nili (la Lettera levantina del 1923). Ma il significato della forma epistolare varia notevolmente nel corso del tempo, pur riferendo-si costantemente ai temi fondamentali della poetica montaliana. Le lettere confezionate da Montale nel recto della sua opera (in particolare nelle Occasioni e nella Bufera) sono dirette a un tu assente e quasi irraggiungibile nel quale è riposta una speranza, mai realizzata, di una salvezza, di una liberazione dalla Storia che ci assedia: si pensi a Notizie dall’Amiata e a Su una lettera non scritta, entrambe indirizzate all’angelica Clizia.

Le cose cambiano a partire da Satura, dove la lettera poetica svolge una funzione addirittura strutturale con le tre Botta e

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rispo-sta collocate in punti strategici del libro, una sorta di «poemetto» in tre tempi, come lo definisce Scartozzi, in cui Montale tenta di illustrare il senso stesso della sua opera. Nella prima, rivestendo gli impolverati panni del suo alter ego Arsenio, il poeta riassume le sue vicende passate, sotto il fascismo e quindi nell’immedia-to dopoguerra; nella seconda rimpiange la scomparsa di tutnell’immedia-to un mondo letterario e culturale primonovecentesco che egli aveva fatto in tempo a conoscere e descrive alla sua corrispondente im-maginaria le strategie di resistenza che sta elaborando nell’apoca-lisse-carnevale del presente; nella terza infine, la cui destinataria è la sua traduttrice in greco Margherita Dalmati, Montale affronta il problema del ruolo della poesia nel tempo presente, che è es-senzialmente quello di conservare «l’essenza della memoria». In questi testi, nelle numerose altre lettere contenute in Satura e nei libri successivi il poeta recupera dunque a modo suo la funzio-ne, diremmo, oraziana della epistola poetica, quella di strumen-to per intervenire direttamente nell’attualità, sociale e letteraria: si pensi alla durissima polemica sviluppata proprio con Pasolini nella Lettera a Malvolio.

Sul versante ispanico contemporaneo, l’epistola poetica in-crocia momenti di grande ripensamento del ruolo della poesia e della scrittura, come quello detto della Posguerra, particolar-mente interessato dal dibattito su una poesia intenta a comunicare contenuti e messaggi, in primis sociali, o tesa a una conoscen-za profonda della realtà tramite una parola esposta alla propria imprevedibilità e alla propria insufficienza. Sul versante di una poesia comunicativa si colloca senz’altro un poeta come Gabriel Celaya (1911-1991), che proprio nei tratti fondativi dell’epistola rintraccia uno strumento persuasivo e perlocutivo specialmente idoneo alla funzione politica e sociale che egli attribuisce priori-tariamente alla poesia. Nella sua analisi delle epistole poetiche A Andrés Basterra, incluse nella nota raccolta de Las cartas boca arriba (1951) del poeta basco, Nuria Pérez Vicente mette in rilie-vo la complessità di quello che in Celaya può apparire mero

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col-loquialismo comunicativo o semplice poesia prosastica, troppo spesso sottolineati dalla critica (in virtù di un intenzionale antifor-malismo e ‘antigarcilasismo’ dell’autore), ma che, di fatto, cor-rispondono a una precisa retorica celayana dell’antiretorica. An-cora una volta si può notare come, in pieno Novecento, mediante una complessità stilistica dissimulata e perfino negata, attraverso un potenziale simbolico mai esibito, il genere dell’epi stola poe-tica persegua obiettivi apparentemente opposti e contraddittori, inalienabili alla poesia contemporanea.

Il significato dell’epistola in versi, così come le sue funzioni letterarie e le sue potenzialità estetiche si arricchiscono ulterior-mente in anni di più attuale contemporaneità, ai quali si rivolgo-no i due giovani ispanisti Matteo Lefèvre e Marina Bianchi. Il contributo di Lefèvre conferma che anche nelle sue realizzazioni più recenti come la Carta de junio (1991) del poeta andaluso Ja-cobo Cortines (1946), la lettera in versi porti con sé una consa-pevolezza degli strumenti espressivi della tradizione classica e moderna, anche laddove sia dominata dalle più devastanti aporie della modernità. A ben vedere la lettera di Cortines al padre svela tanto un’intima componente oraziana quanto uno stoicismo che la colloca sulla scia di quella Epístola moral a Fabio il cui ultimo verso – ricorda Lefèvre – è significativo esergo del testo: «antes que el tiempo muera en nuestros brazos», rinnovata attestazione del virgiliano «tempus fugit». Sebbene, poi, l’istanza affettiva e una tutta personale urgenza espressiva sovvertano nel profondo e frantumino così spesso ogni equilibrio, ogni prevedibile o pre-esistente assetto. Non è un caso, perciò, che lo studioso definisca la lettera di Cortines una vera e propria «sfida» letteraria la quale, nel superamento di dinamiche contrastanti e antitetiche, mira a continui riequilibri, a una ricerca di una qualche misura il cui punto di equilibrio, sul fronte metrico, è indicato nella terzina. Il tessuto dell’epistola, allora, necessariamente vario e lacerato per la vivezza delle inquietudini che la attraversano, e pur dibatten-dosi tra narrazione e aspri sondaggi dentro il pensiero e la

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me-moria, aspira – in ragione di una sostanziale classicità dell’autore e del genere adottato – a presentarsi al lettore come un insieme coeso che persegue una sorta, diremmo, di perspicuo disincanto.

Nel 2014 l’epistola poetica approda all’ultima thule della scrittura virtuale: uno scambio di posta elettronica, anche questo in qualche modo inedito, tra due poeti spagnoli, entrambi sivi-gliani, ma di età e formazione differenti, Fernando Ortiz (1947-2014) e José Manuel Velázquez (1973) che, per l’appunto, tra il 2012 e il 2013 intercambiano decine di lettere poetiche di im-pronta volutamente oraziana, al cui centro essi collocano un loro comune interesse metaletterario, non senza divagazioni di ogni tipo sulla realtà e il tempo presente. Non è di secondario interes-se notare come lo stesso sviluppo del dialogo epistolare in versi – che al suo interno accoglie, quasi per dovere epistemologico, un’evidente sperimentazione polimetrica – sia come guidato e condizionato dagli stessi tòpoi del pensiero oraziano, tanto che entrambi i poeti, pur da due situazioni esistenziali diverse, sono come spinti dall’impulso di vincere un tempo in rapida e ineso-rabile fuga per comprendere il più possibile, nel presente della parola poetica, il dono di una lunga e sostanziale tradizione, di un legato irrinunciabile che, proprio nello scambio lirico-epistolare trova frutti particolarmente convincenti e approdi a volta destabi-lizzanti, a volte consolatori.

Le divergenze e convergenze di vedute attorno a temi condi-visi e alla poesia parimenti amata da Ortiz e Velázquez (ma po-tremmo dire lo stesso di Montale e Pasolini, di Hughes e di tutti gli altri autori e autrici studiati nella presente opera) non fanno che confermare come l’epistola poetica, anche nelle sue forme provocatoriamente estreme e ultracontemporanee, tenda a man-tenersi fedele a tutte le potenzialità attribuitele dai modelli classi-ci, straordinariamente arricchite dalla tradizione occidentale nel corso dei secoli.

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2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35

La lettera in versi

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Valeria Bertolucci Pizzorusso

La «partie non-lyrique» nel libre di Guiraut Riquier: un epistolario eterogeneo

L’importante serie di componimenti in distici monorimi alla

fine del libre di Guiraut Riquier1 non è stata adeguatamente

con-siderata nel suo significato complessivo e soprattutto nella sua funzione all’interno del libre del trovatore, prevalendo l’interes-se per alcune sue componenti, come la più notevole per le va-lenze anche sociali che espone, il famoso dittico di Supplica ad Alfonso X il Sapiente con la risposta-Dichiarazione del re

casti-1 Cfr. V. Bertolucci Pizzorusso, Il canzoniere di un trovatore: il ‘libro’ di

Guiraut Riquier, «Medioevo Romanzo», V (1978), pp. 216-219. Per i testi si

rinvia all’edizione di J. Linskill, Les Épîtres de Guiraut Riquier, troubadour du

XIIIe siècle, édition critique avec traduction et notes, Brepols, Liège 1985

(As-sociation Internationale d’Études Occitanes), avvertendo che in essa il numero dei testi è ridotto a quindici, avendo l’editore riunito sotto lo stesso numero (n. XI, I e II) la Suplicatio e la Declaratio, e non numerando il Testimoni relativo al riconoscimento ottenuto alla corte di Rodez per l’Exposition del trovatore; i testi sono diciassette nell’unico manoscritto R e nel relativo rubricario, in cui sono trascritti come unità distinte; così anche nella ottocentesca edizione di S.L.H. Pfaff, in C.A.F. Mahn (Hrsg.), Die Werke der Troubadours, Dümmler-Klincksieck, Berlin-Paris 1853. I testi sono in esasillabi monorimi tranne i pri-mi due e il Testimoni, che sono in ottosillabi. Riproduco per comodità la nume-razione dei testi data nell’edizione Linskill, a cui si farà riferimento nell’analisi: I. Qui a sen et entendemen, p. 1; II. Al pus noble, al pus valen, p. 13; III. Al

noble, mot onrat, p. 21; IV. Qui conois et enten, p. 29; V. A sel que deu voler,

p. 57; VI. Per re non puesc estar, p. 71; VII. Si·m fos saber grazitz, p. 85; VIII.

Al car onrat senhor, p. 115; IX. Aitan grans om devers, p. 129; X. A penas lunh pro te, p. 149; XI. I Pus Dieu m’a dat saber, p.167; XI. II Si tot s’es grans afans, p. 221; XII. Tant petit vey prezar, p. 247; XIII. Als subtils aprimatz,

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gliano sull’opportunità di una distinzione anche nominale all’in-terno della giulleria, e il commento del trovatore ad una canzone

sull’amo re del trovatore Guiraut de Calanson (Exposition).2

Tra-scritto unicamente nel canzoniere R (ms. fr. 22543 della Bibl. Nat. de France, Chansonnier d’Urfé), il corpus non-lirico testi-monia una produzione ingente di poesia didattica quale non ri-sulta per altro trovatore, e in certo modo sorprende in un poeta (e

2 Cfr. Linskill, Les Épîtres, pp. 168-245. Edizioni precedenti di singoli testi:

V. Bertolucci Pizzorusso, La Supplica di Guiraut Riquier e la risposta di Alfonso

X di Castiglia, «Studi Mediolatini e Volgari», XIV (1966), pp. 11-135; E. Vuolo, Per il testo della Supplica di Guiraut Riquier ad Alfonso X, «Studi Medievali»,

IX (1968), pp. 729-806; M.G. Capusso, L’Exposition di Guiraut Riquier sulla

canzone di Guiraut de Calanson Celeis cui am de cor e de saber, Pacini, Pisa

1989. Contributi critici sul complesso didattico-epistolare di Guiraut Riquier: J. Anglade, Le troubadour Guiraut Riquier. Étude sur la décadence de

l’an-cienne poésie provençale, Féret et fils-Fontemoing, Bordeaux-Paris 1905, pp.

122-153, 263-282; J. Anglade, Épître du troubadour Guiraut Riquier à un de ses

amis de Majorque (1266), in Miscelanea filologica dedicada a D. Antonio M.a Alcover, Palma de Mallorca 1932, pp. 187-193; C.M. Claveria, Sobre las epi-stolas de Guiraut Riquier, in Homenatge a Antoni Rubió i Lluch. Miscellánea d’Estudis literaris, histórics i lingüistics, Barcelona 1936, vol. II, pp. 125-136;

C. Segre, Le forme e le tradizioni didattiche, in Grundriss der romanischen

Li-teraturen des Mittelalters, C. Winter Universitätsverlag, Heidelberg 1968, VI/1,

pp. 58-145, p. 98; D.A. Monson, Les Ensenhamens occitans. Essai de définition

e de délimitation du genre, Klinksieck, Paris 1981, in particolare pp. 114-127;

F. Zufferey, La partie non-lyrique du chansonnier d’Urfé, «Revue des Langues Romanes», XCVIII (1994), pp. 1-29; R. Cholakian, Riquier’s Letras: an

Epis-temology of Self, «Tenso», XI (1996), pp. 129-147; M. Longobardi, Sondag-gi retorici nelle epistole di Guiraut Riquier. Figure di ripetizione e proverbio,

«Critica del testo», VI (2003), pp. 665-720; V. Bertolucci Pizzorusso,

Galante-ries riquiériennes et mélange de genres, in D. Billy, A. Buckley (éds), Études de langue et de littérature médiévales offertes à Peter T. Ricketts à l’occasion

de son 70ème anniversaire, Brepols, Turnhout 2005, pp. 387-392 (Ead., Studi

tro-badorici, Pacini, Pisa 2009, pp. 113-118); C. Alvar, De Epistolas y Quaestiones en la corte poética de Alfonso X, in V. Beltran, M. Simó, E. Roig (cui.), Troba-dors a la Península Ibèrica, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, Barcelona

2006, pp. 13-28; V. Bertolucci Pizzorusso, Conseil: un motivo/tema nella poesia

dei trovatori, in V. Beltran, T. Martínez, I. Capdevila (cui.), 800 anys després de Muret. Els trobadors i les relacions catalonoccitanes, Universitat de Barcelona,

Barcelona 2015, pp. 75-99; S. Vatteroni, La fine del trobar: per un capitolo di

(27)

musico) autore di una ricca e articolata produzione lirica,3 nella

quale egli ostenta ed esalta la sua eccellenza nell’arte del verso, il

saber de trobar, accogliendo infine con somma cura la sua opera4

in una antologia personale: il suo libre.

A questo gruppo di testi non-strofici si dà tradizionalmente nelle edizioni l’etichetta-titolo Épîtres (Briefe), che non compare nel manoscritto, un termine dotto e raro nella scripta

occitani-ca,5 che rinvia immediatamente all’epistola fortemente strutturata

prescritta dall’ars dictaminis,6 rispetto al più comune Letras,

ri-corrente peraltro in due rubriche relative a singoli testi riquieriani e all’interno di alcuni di essi; inoltre il termine letras trova anche

3 Nel canzoniere R la notazione musicale è prevista per tutti i testi lirici in

esso contenuti, anche se non sempre eseguita sui tetragrammi: cfr. Bertolucci,

Il canzoniere, in particolare p. 219; E. Aubrey, A Study of Origins, History, and Notation of the Troubadour Chansonnier, Paris, Bibliothèque nationale f. fr. 22543, Ph.D. Thesis, University of Maryland 1982; G. Brunel-Lobrichon, L’iconographie du chansonnier provençal R. Essai d’interpretation, in M.

Tys-sens (éd.), Lyrique romane médiévale. La tradition des chansonniers. Actes du

Colloque de Liège (1989), Université de Liège, Liège 1991, pp. 245-271.

Ri-guarda in particolare le melodie di testi guiraudiani S. Milonia, Rima e melodia

nell’arte allusiva dei trovatori, La Nuova Cultura, Roma 2016.

4 Calcolando anche proporzioni numeriche corrispondenti nel complesso

canzoni-vers, come dimostra M.-A. Bossy, Cyclical composition in Guiraut

Riquier’s Book of Poems, «Speculum», LXVI (1991), pp. 277-293.

5 Si trova la forma pistola in Cerverí de Girona: cfr. Bertolucci, Conseil, p.

85, e pistola è rubricata la lettera alla sorella di Matfre Ermengaud, cfr. l’edi-zione di P.S. Ricketts, Le Breviari d’Amor de Matfre Ermengaud, Brill, Leiden 1976, t. V, pp. 333-337. Inoltre: E. Levy, Petit dictionnaire provençal-français, C. Winter, Heidelberg 19232, p. 295.

6 Questa tecnica compositiva, come è noto, si è largamente imposta

all’epo-ca; cfr. J. Murphy, La retorica nel Medioevo. Una storia delle teorie retoriche

da s. Agostino al Rinascimento, tr. it., Napoli 1983, in particolare pp. 223-304;

G.C. Alessio, Preistoria e storia dell’ars dictaminis, in A. Chemello (cur.), Alla

lettera. Teorie e pratiche epistolari dai Greci al Novecento, Guerini, Milano

1988, pp. 33-49; S. Lefèvre (éd.), La lettre dans la littérature romane du Moyen

Âge, Paradigme, Orléans 2008. Per pratiche epistolari nel genere

lirico-didat-tico dei salutz, buone osservazioni in S. Cerullo, Introduzione e nota ai testi, in F. Gambino (cur.), Salutz d’amor. Edizione critica del corpus occitanico, Salerno, Roma 2009, pp. 17-159 e 795-824.

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nella rubrica generale premessa alla sezione finale della sua

tra-scrizione («letras e novas e comtes», fol. Bv).7 Un’indicazione

di genere per il complesso epistolare non si trova neppure nella grande rubrica-titolo generale data dal canzoniere C (B.N.F., fr. 856), l’altro testimone della poesia riquieriana:

Aissi comensan lo[s] cans d’en Guiraut Riquier de Narbona, enaissi cum es de cansos e de verses et de pastorellas e de retroenchas e de descortz e d’albas e d’autras diversas obras enaissi adordenadamens cum era adordenat en lo sieu libre, del qual libre ecrig per la sua man fon aissi tot translatat.

Al contrario di quanto avviene per le composizioni lirico-stro-fiche (cansos, vers, pastorellas, retroenchas, descortz, albas), di cui è specificata l’appartenenza di genere di ciascuna di esse, non vi sono menzionati i testi in distici monorimi, probabilmente compresi nella sintetica espressione che segue: «autras diversas obras», in quanto non interessavano l’organizzatore di un canzo-niere esclusivamente lirico quale C.

Tornando all’unico testimone R, risalta la frequente mancanza di tali precisazioni anche in gran parte delle singole rubriche rela-tive ai testi in distici nella serie di quest’ultima sezione del libro

ri-quieriano,8 in cui ricorre nella metà di esse un indeterminato Aiso =

‘questo, ciò’, seguito dalla forma verbale fe = ‘fece’, e dal nome

del poeta.9 Il tipo è «Aiso fe G.R» e datazione; solo in alcune è

spe-cificato il genere o sottogenere: Suplicatio, Declaratio, Expositio e Testimoni; solo due volte letras, in un caso novas. Questa singolare situazione di alternanza e/o assenza di titolazioni generiche nel ru-bricario riquieriano ha prodotto la sensazione di un ordine confuso

7 Cfr. A. Tavera, La table du Chansonnier d’Urfé, «Cultura Neolatina», LII

(1992), pp. 23-138, p. 118; Zufferey, La partie non-lyrique, p. 7.

8 Cfr. Bertolucci, Il canzoniere, pp. 235-238. I testi sono tutti in senari

ac-coppiati, tranne due (e il Testimoni) in ottonari.

9 Su questa formula cfr. Linskill, Les Épîtres, p. 6; già Anglade, Le

tro-badour Guiraut Riquier, pp. 191-192, rileva «le titre très vague» che il

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dell’insieme,10 e invita ad essere ripercorsa con un’analisi orientata

specificamente al fine di meglio intendere la pertinenza o meno di un titolo generale quale quello di Épîtres al complesso di poesie non strofiche che chiude il libro di Guiraut Riquier.

Qualche rapida osservazione sui casi ora citati. Possiamo defi-nire senz’altro un’epistola la Suplicatio (Pus Dieu m’a dat saber,

1274, XI I)11 al re Alfonso X sulla questione del nome dei giullari

con la relativa risposta del re (Declaratio: Tant petit vey prezar, 1275 XI II, a cui è data nel testo la prima persona), anche se il dittico configura un tipo molto particolare di corrispondenza epi-stolare con personaggi del più alto rango (in cui la distanza socia-le fa socia-le veci dell’assenza; non è peraltro esclusa una componen-te orale precedencomponen-te la redazione scritta). È indubbio infatti nella Suplicatio il rispetto delle fasi prescritte nell’epistola (salutatio, esordio con l’elogio del regale destinatario, narratio, pe titio, con-clusio), come nella risposta del re, che si autonomina con tutti i suoi titoli, citando anche il nome del richiedente Guiraut, di cui riassume l’istanza (assimilabile ad una narratio), prima di concludere con una sentenza o giudizio (jutjamen). Non

identifi-cabile come un’epi stola,12 benché corredata dai nomi dell’autore

e del committente e dalle circostanze di tempo e di luogo, è in-vece l’Expositio (Als subtils aprimatz, 1280, XIII): essa è appun-to una ‘sposizione’, cioè la glossa e il commenappun-to interpretativo (ricordiamo lo «sponitore» Brunetto Latini nella sua Rettorica), verso per verso, della canzone sul «minor terzo dell’amore» di Guiraut de Calanson, che viene tutta inserita nel testo guirautia-no. Ad essa è annesso il Testimoni, dichiarato in rubrica come trascrizione della motivazione del premio conferitogli dal nobile committente, il conte Enrico II di Rodez, nel 1285.

10 Cfr. Bertolucci, Il canzoniere, pp. 48-249; Linskill, Les Épîtres, p. X. 11 Il numero d’ordine dei testi rinvia alla citata edizione Linskill.

12 Si nota comunque per questo testo una preferenza per la definizione

di ‘commento’ o ‘glosa’ da parte degli studiosi: cfr. Capusso, L’Exposition, pp. 5-8, con ampio corredo bibliografico.

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La rubrica novas13 (Si·m fos saber grazitz, 1269, VII) rinvia ad

una lunga disquisizione moralistico-religiosa (un «vero sermone»,

secondo Anglade),10 senza destinatario espresso, in cui si

descri-vono sei specie di vergogna, tra cui la timidezza, da cui il poeta si dichiara particolarmente afflitto e danneggiato nei rapporti con la corte, e si espongono i doveri del signore, che non deve privile-giare i più sfacciati; il poeta dichiara di riporre ‘buona speranza’ nel sapiente re Alfonso, che peraltro non sa ancora se riuscirà ad incontrare.

Rispondono alle prescrizioni dell’ars dictandi, che definisce epistola un dettato o messaggio inviato ad un destinatario assente, imponendo nella salutatio i nomi in terza persona sia del mitten-te che del destinatario, i due mitten-testi rubricati letras. Sono destinamitten-te ad Aimeric, figlio del visconte di Narbona Almeric: nella prima, questi si trova alla corte di Castiglia (Al pus noble, al pus valen, II, 1265), e Guiraut lo prega di raccomandarlo al re Alfonso X il Sapiente, «padre del sapere»; nella seconda, indirizzata allo stesso a Tunisi per partecipare alla crociata di san Luigi (Al car e onrat senhor, VIII, 1270, forse poi non inviata poiché Aimeric

probabil-mente non vi partecipò),14 si raccomanda di esaltare e onorare il re

di Francia, tenendo alto il prestigio della casa di Narbona, di cui fa grandi lodi; lo prega di non dimenticarsi di lui, aggiungendo anche i saluti da parte degli amici (di alcuni fa i nomi); di far leggere la sua lettera a tutti coloro, amici e stranieri, che lo accompagnano.

Possono aggiungersi a queste gli altri testi in cui non compare il termine letras, ma sono presenti marche forti dello stile epistola-re, come la forma verbale trames ‘inviò’ (il sostantivo letras

com-13 Anglade, Le troubadour Guiraut Riquier, p. 317. Tale indicazione

pre-senta qualche difficoltà rispondendo se non molto parzialmente ad un dettato ‘narrativo’, quale troviamo espresso anche dallo stesso Guiraut, che apprezza «novas comtar», «novas de bon grat, / de bels essenhamens / mostran tempo-ralmens / o espiritual / c’om pot ben de mal, / sol se vol, elegir» (Declaratio, vv. 227 e 266-271): cfr. nota di Linskill, Les Épîtres, pp. 239-240.

14 Per la probabile rinuncia di Aimeric a parteciparvi, dovuta a circostanze

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pare all’interno del testo, v. 78), in cui, chiedendo un consiglio, prega il destinatario di una risposta: si tratta della III (Al noble, mot onrat, 1266), inviata al suo amico Guilhem de Rofian che si trova a Maiorca, al quale confida la sua tristezza per l’ostilità di Bel Deport, la donna-icona letteraria della sua poesia lirica, e per il suo isolamento a Narbona («car soi tot sol sai», ‘sono tutto solo qui’ v. 75). Analogamente nella V (A sel que deu voler, 1267), indirizzata a Sicart de Puy Laurens che si trova allora alla corte di Francia, in cui chiede una presentazione particolare alla regi-na Margherita (figlia del conte di Provenza Raimondo Berengario IV) a cui leggere lo scritto (indicato con ‘aiso’, v. 231) e ai suoi figli, sottolineando le parole e i punti importanti; anche qui una richiesta di risposta «en letras», v. 239).

Venendo ora alle poesie genericamente rubricate «Aiso fe», quella relativa al testo più antico (Qui a sen e entendemen, 1259, I) si distingue per essere indirizzata ad una donna e per una sua modu-lazione particolarmente elegante e ricercata. I tratti epistolari sono qui come attenuati e dissolti in un iperbolico elogio della

viscon-tessa Vaqueira de Lautrec,15 che il poeta non conosce di persona,

le cui virtù cortesi vengono personificate allegoricamente in una fortezza, che la difende dagli immeritevoli di penetrarla. Si tratta piuttosto di un’interessata ‘poesia d’invio’, una sorta di biglietto galante che Guiraut intende far pervenire alla nobildonna per au-topresentarsi come il poeta che può esaltarla in versi, ed essere in questo modo accolto, grazie al suo saber de trobar, cioè comporre in versi «dig valen», nel cerchio della nobiltà narbonese, di cui no-mina alcuni membri. Si augura infine che Na Vaqueira voglia,

ac-cettandolo, conoscere il suo nome firmandosi nell’ultimo verso.16

15 Ricordata anche nel tornejamen Senh’en Jorda, si ·us manda Livernos

(ed. M. Betti, Le tenzoni del trovatore Guiraut Riquier, «Studi Mediolatini e Volgari», XLIV [2000], pp. 7-194, 103-110). Esponente della nobiltà narbone-se, rimase vedova nel 1267.

16 Sull’autonominatio nell’opera di Guiraut Riquier, cfr. V. Bertolucci

Piz-zorusso, Per una rilettura della Supplica sui giullari di Guiraut Riquier, in Ead., Studi trobadorici, pp. 105-111 (p. 108).

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Nella IV (Qui conois et enten, 1266) non c’è un riferimento espli-cito al destinatario mancando la salutatio (si desume che si sia trattato del cavaliere Sicart de Puy Laurens da un rinvio ai vv. 120-121 della V, 1267); il mittente è l’‘io’ in prima persona del poeta («Et ieu, quant aug parlar», vv. 20ss.). Il testo, di notevole lun-ghezza (522 vv.) si apre con considerazioni di carattere religioso: in questo mondo bisogna acquisire conoissensa, cioè sapere, dagli uomini sapienti per meglio servire Dio che ci ha dato vista e udito e, insistendo su questi sensi in senso filosofico-morale, termina sul dovere di servire e onorare un signore, perché Dio ci saprà ricom-pensare: che la Vergine Maria interceda per noi. Si tratta di un testo assai prossimo ad un ensenhamen. La VI (Per re non puesc estar, 1268) è una poesia didattico-moralistica, di tono molto umile, con riferimento alla meditazione quotidiana (ricorrenza frequente del verbo cossir, sost. cossirier) sulla necessità di rispetto della me-sura nel parlare e nell’agire, sull’opportunità di guardarsi dalla maldicenza rovinosa della reputazione altrui. L’elogio finale di Aimeric de Narbona, che ha accresciuto le sue buone qualità nel suo soggiorno alla corte di Castiglia, si sposa con quello del re Al-fonso X, sovrano di regno e di fama. Mancando la salutatio, quin-di il nome del destinatario, esso è inquin-dividuabile inquin-direttamente in Aimeric di Narbona. La IX (Aitan grans com devers, 1272) tratta dei doveri del signore, al quale consiglia calorosamente (i termini

conseil e conseillar costellano il testo)17 di tener presente, prima di

agire, del consiglio di altre persone degne di fede e veritiere, quali l’‘io’ che parla (Guiraut non si nomina espressamente) è e si ri-promette di essere, guardandosi dai lauzengiers maldicenti e falsi ingannatori (anticipazione dei principali idoli polemici contro i quali egli si scaglia nella Supplica del 1274). Benché il destinata-rio non sia esplicitamente nominato, il componimento è diretto al re Alfonso X, con la preghiera di voler ricevere «aiso» (il termine

17 Sul motivo/tema del consiglio frequente nella poesia di Guiraut Riquier, che

s’intensifica in particolare in questo componimento, coinvolgendo i trovatori con-temporanei Cerverí de Girona e At de Mons, cfr. Bertolucci, Conseil, pp. 87-96.

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ricorre anche nel testo al v. 360), il cui argomento lo stesso re gli avrebbe suggerito trovandosi in sua presenza (vv. 140-141 «E pois li es venguda / (et ieu li soi denan) / esta razo»). Nella letteratura critica su questo componimento lo si giudica, come il precedente,

una «specie di ensenhamen».18 La X (A penas lunh pro te, 1274)

si presenta come una sorta di continuazione della IX, con maggio-re concentrazione sull’ambiente deteriorato della corte (toni quasi violenti in sintonia con la contemporanea Supplica (v. supra, XI.I) che egli denuncia, benché sappia che le sue parole saranno vane, alludendo anche a determinate persone di alto rango ma di pessi-ma condotta, che però non nomina, pessi-ma dichiara di essere pronto a farne il nome se non si correggono; il suo signore onorato (il re Alfonso) non dovrebbe tollerare tale situazione.

La XII (Tant petit vey prezar, 1278) è anche l’ultima poesia composta alla corte di Castiglia, da cui si congeda. Guiraut ri-prende qui la tematica antigiullaresca della Supplica, lamentan-do ancora una volta che vili esecutori di creazioni altrui vi siano premiati. Nei versi finali emerge un esplicito appello al valente e sapiente re Don Alfonso, che non intende ormai inutilmente chastiar, cioè ammonire e consigliare, ma continua a rendergli omaggio, benché per ben sedici anni gli abbia dedicato «tutto il suo sapere»: Dio faccia che sia contento di lui, affinché sia solle-vato dalla povertà.

Restano ancora due brevi componimenti (in rubrica «Aiso fe») risalenti al 1281 e al 1282 (Sel que sap cocelhar, XIV; Si·m fos tan de poder, XV) strettamente uniti, con minima variazione, dalla te-matica del ‘consigliare’: il cosselh è esposto sia nelle relative rubri-che rubri-che nei testi, rivolti a personaggi non nominati, rubri-che sono in dif-ficoltà economiche e che lo hanno consultato al riguardo: Guiraut intende esibire ancora la sua capacità di esperto consigliere. Colui che sa consigliare gli altri (umilmente ammette che non sa

con-18 Linskill, Les Épîtres, p. 140; e già Monson, Les Ensenhamens occitans,

p. 119; Segre, Le forme e le tradizioni, p. 102, lo giudica addirittura come un «de regimine principum».

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sigliare se stesso), ha il dovere di farlo. Guiraut consiglia all’uno di chiedere personalmente, e non attraverso un intermediario, un prestito ad un amico; all’altro di non esagerare nelle spese ingiusti-ficate, osservando la misura, attento alla propria reputazione. Nei versi finali di XIV (vv. 152-170), l’infelice poeta parla solo di sé, dichiarando in rime insolitamente aspre di essere ‘mezzo morto’ («yeu soi mieitz mortz», v. 156) d’indigenza perché i signori non l’hanno ricompensato adeguatamente. Nella seguente (XV, 1282) Guiraut termina pregando benevolenza nei suoi riguardi, che gli permetta di continuare a compiere buone azioni. I due destinatari restano anonimi, probabilmente si tratta di borghesi abbienti, se sono veramente soggetti reali e non fittizi, come si può sospettare, sui quali il poeta esercita ancora una volta quel ruolo di consigliere che tanto aveva desiderato, senza successo, in ben più alti ambienti.

La mancanza dell’indicazione di genere in un tale rilevante numero di rubriche nella sezione didattica (e finale) del libre, non è agevole a spiegarsi, in assenza di un possibile riscontro nell’al-tro testimone dell’opera guirautiana (C: v. sopra), molto più pre-ciso al riguardo in relazione ai testi che i due codici hanno in comune. Risultando altamente maggioritaria la costante dell’in-dicazione di genere nel complesso del grande rubricario dei due canzonieri, potremmo quindi non escludere che essa fosse stata sempre fornita dal poeta. Si nota d’altra parte una decisa

tenden-za alla riduzione testuale delle rubriche in R,19 già nella sezione

lirica, che aumenta in particolare nella sezione didattica per la difficoltà di spazio tra le colonne della scrittura, che quasi si ad-dossano le une alle altre. Vale la pena di notare che la rubrica del primo testo (lirico) inizia in R con Aiso es, subito dopo specifica-to dal genere del componimenspecifica-to: Aiso es la premieira canso d’en Gr. Riquier… Specificazione che non trova seguito nel prosieguo delle trascrizioni del valente, troppo oberato, copista.

19 Il fenomeno risalta chiaramente scorrendo il rubricario da me pubblicato

(Bertolucci, Il canzoniere, p. 243). R tende a ridurre le informazioni, in alcuni casi in un caso omette la rubrica, in altri fornisce soltanto il nome del poeta.

(35)

Un altro indizio di fretta o di minore attenzione si può regi-strare nell’imperfetta successione cronologica della sequenza dei primi testi, ristabilita dal rigoroso editore nell’ordine II, I,

IV, VI, V.20 Una eccezione all’ordine cronologico senza dubbio

da non correggere concerne, a mio parere, un altro grande testo, l’Exposition, datato 1280 e premiato nel 1285, che è posposta nel manoscritto alle due ultime ‘lettere’ datate 1281 e 1282. Con tale spostamento Guiraut ha voluto dare ad esso una posizione evi-denziata, quella finale, nell’antologia della sua opera che raccon-ta la sua storia compleraccon-ta e articolaraccon-ta di artisraccon-ta del trobar. Il suo commento a un difficile testo sull’amore, coronato da una sorta di diploma da parte del nobile visconte Enrico II di Rodez, equivale ad una dotta esercitazione che potremmo dire ‘accademica’, alla quale affidare per tempo la funzione di chiusura del libre, che resta aperto ad apporti posteriori di canzoni e vers fino al 1292. Come in un’impennata d’orgoglio, egli intende mostrare di aver ottenuto l’auspicato titolo di doctor de trobar: si delinea ora la figura del poeta laureato, di prestigiosa discendenza.

Venendo al carattere e al senso della parte finale del libro di Guiraut, questa rapida scorsa denunzia già chiaramente che la scelta formale unificante del distico monorimo del complesso te-stuale non-lirico riquieriano che si suole intitolare Épîtres sotten-de una sostanziale eterogeneità di generi e di contenuti. Cesare Segre aveva parlato di genere ibrido con riferimento al contenuto di carattere teorico:

L’appartenenza al genere epistolare è spesso esplicita […]. Si tratta però d’un genere ibrido, dato che il contenuto è prevalentemente teo-rico, se non didattico; tra l’allusione personale e la generalizzazione astratta s’insinua spesso uno scopo preciso: acquisto di favori, passi per ottenere ospitalità.21

20 Come rileva giustamente Fabio Barberini, che sta attualmente lavorando

sul canzoniere R, e che qui ringrazio.

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L’ibridismo è soprattutto interno ai molti testi che colludono con l’ensenhamen, e spesso, benché indirizzati a destinatari nobili d’alto rango, slittano nel sottotipo della littera familiaris, con inse-rimento di saluti e da parenti e amici. Il carattere principale e spe-ciale del gruppo misto di poesie didattico-epistolari di Guiraut è la presenza invasiva dell’‘io’ dell’autore, che riferisce a se stesso, alla sua situazione soggettiva (diremmo oggi al privato), ogni que-stione trattata, in sé oggettiva, a cui sovrappone la sua personale.

L’‘io’ ipertrofico del poeta22 fornisce il filo che lega un gruppo

di testi disomogenei, dominati da un’istanza espressiva primaria che li attraversa con una notevole varietà di modalità generiche o pseudogeneriche sotto un’unificante (e privata) superficie metri-ca. Tale istanza che sottostà costantemente, implicita ed esplicita, alla facies testuale, affiora anche attraverso le formule di riverenza e di umiltà, presentando una figura di autore che sembra ‘confes-sare’ i problemi esistenziali e ambientali affrontati per continuare a coltivare l’arte cortese per eccellenza, il trobar. Ostentando la sua cultura che gli permette di chiosare e di interpretare prodotti poetici altrui, di atteggiarsi a dotto etimologista e storico del tro-bar nella Declaratio, assumendo un comportamento esemplare a

livello morale,23 Guiraut si assume il ruolo di fustigatore

dell’in-consistenza culturale dei troppi maldestri esecutori, di indecorosa condotta, che infestano ormai le corti di pregio.

Il genere didattico-moralistico coltivato da questo trovatore rivela caratteri suoi specifici che potremmo definire originali,

in linea con le tematiche cortesi e religiose24 esperite nella sua

22 Analizzato con notevole acutezza dal punto di vista psicologico da R.

Cholakian, Riquier’s Letras; cfr. inoltre M. Zink, La subyectivité littéraire.

Au-tour du siècle de Saint Louis, Champion, Paris 1976.

23 Cfr. nella Declaratio le etimologie e paraetimologie messe in bocca al

re castigliano, nonché la ricca serie nominalistica dei tipi di operatore dello spettacolo di corte medievale, dal trovatore al buffone: per il commento, cfr. Bertolucci, La Supplica, pp. 33-45 e 115-118.

24 Da ricordare che Guiraut è anche autore di poesie liriche a tematica

reli-giosa, in particolare mariana, che inserisce nel suo ‘libro’ in ragione dell’anno di composizione: esse sono raccolte da F.J. Oroz Arizcuren, La lírica religiosa

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grande produzione lirica, svolgendosi in parallelo ad essa, ma accentuando la costante richiesta ‘economica’ al fine di ottenere una posizione stabile nell’ambito della corte. Le poesie didattiche contribuiscono ad illustrare una società cortese ormai in disso-luzione, nel cui contesto Guiraut avverte tutta la sua solitudine. Siamo in un’epoca di trapasso in cui, abbandonate le antiche ma-schere della cortesia, si assiste al disvelamento di un io anagrafi-co anagrafi-con anagrafi-conseguente personalizzazione del dettato poetianagrafi-co.

L’in-terferenza di ars dictaminis e ars grammatica, è stato rilevato,25

ha prodotto poi una tendenza generale di ogni struttura testuale ad assumere un andamento epistolare o paraepistolare che può ulteriormente smussarsi e sfumare, come infatti avviene, in una successione di considerazioni moralistico-religiose: Guiraut Ri-quier si inserisce con grande libertà in quest’ambito. Potremmo forse rinunciare anche da parte nostra ad insistere nel tentativo di classificare questi testi entro ristretti confini di generi e

pseudo-generi,26 assumendo in relazione all’istanza didattica la proposta

di «ripensamento della teoria dei generi lirici in antico proven-zale» di Stefano Asperti, per il quale non si dovrebbe parlare di en la literatura provenzal antigua, Pamplona 1972. Il suo iter letterario che può

essere letto anche come un percorso verso una poesia di conversione, secondo M. Zink, Poésie et conversion au Moyen Âge, pp. 48-66, giusta il severo rim-provero della pastora (VI pastorella, 1282) che si dichiara stanca dei suoi canti leggeri («En Guiraut Riquier, lassa / suy quar tant seguetz la trassa / d’aquestz leugiers chantars», vv. 74-76). Cfr. anche V. Bertolucci Pizzorusso, Guiraut

Riquier e il genere della pastorella, in V. Beltran, M. Simó, E. Roig (cui.), Tro-badors a la Península Ibèrica, pp. 121-134, in particolare pp. 132-133.

25 E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a c. di R.

Antonel-li, La Nuova Italia, Firenze 1992: «Il tentativo di subordinare tutta la retorica all’insegnamento dello stile epistolare è peraltro una novità dell’XI secolo», p. 88; Murphy, La retorica, p. 265. L’influenza della teoria retorica italiana e bolognese in particolare nella corte alfonsina è documentabile: cfr. V. Bertoluc-ci Pizzorusso, Un trattato di ars dictandi dedicato a Alfonso X, «Studi Mediola-tini e Volgari», 15 (1967), pp. 3-82; Ead., Los tratados retóricos italianos y la

corte alfonsina, «La Corónica», 34/2 (2006), pp. 75-91.

26 Come io stessa avevo cercato di fare: cfr. Bertolucci, Il canzoniere, pp.

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Gattung, ma di Arten, ossia più semplicemente di «tipi e modi di

poesia».27

Guiraut Riquier racconta sempre se stesso nei diversi generi poetici da lui coltivati. La sua ‘narrazione’ è quella dell’artista non solo incompreso e indigente, ma estremamente cosciente dell’inarrestabile decadenza del contesto che nutre la sua poesia. Non resta che rimettersi a Dio e in particolare alla Vergine Maria, nella quale egli ha trasformato, intrecciando canzoni e vers, la sua icona femminile profana, che di quell’arte di cantare l’amore era il simbolo. Delinea infine le fasi della sua sfortunata frequentazione della corte più prestigiosa del tempo inserendosi nella tradizione didattica della versificazione non-strofica. Sempre in versi: è un trobador e la sua fedeltà al trobar è ferma e incrollabile.

27 S. Asperti, Per un ripensamento della ‘teoria de generi lirici’ in antico

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