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Progetto per un museo Rossiniano e città della musica a Pesaro

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Academic year: 2021

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SEDE DI CESENA

FACOLTÀ DI ARCHITETTURA “Aldo Rossi”

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA A CICLO UNICO IN

ARCHITETTURA

PROGETTO PER UN MUSEO ROSSINIANO

E CITTA’ DELLA MUSICA A PESARO

TESI IN

COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA E URBANA

Relatore Laureandi

Prof. Arch. Francesco Saverio Fera Andrea Banci

Matteo

Cavina

Correlatore

Arch. Massimo Brigidi

Sessione III

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«Siede Pesaro in riva al mare, tra il monte Accio e l’Ardizio, che, avvicinandosi alla città,

chiudono sull’Adriatico la valle spaziosa ove il Foglia serpeggia. La pianura ridente e ben coltivata che si distende all’intorno,

le verdeggianti colline che ad essa fanno corona, danno alla contrada un aspetto di tranquillità serena,

cui risponde quello della città,

recinta ed attorniata da bastioni e viali alberati.»

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SOMMARIO

9 LA CITTA’ DI PESARO E LA FIGURA DI GIOACHINO ROSSINI 11 Cenni sulla storia della città

23 Gioachino Rossini

27 Note sull’eredità di Rossini

29 IL MUSEO. CASI STUDIO

31 Tadao Ando. Chichu Art Museum, Isola di Naoshima, Giappone rifl essioni sull’ipogeo

spazi verdi “vuoti” fruibili

47 Aldo Rossi. Deutsches Historisches Museum, Berlino, Germania limite e museo a confronto

57 Rafael Moneo. Moderna Museet, Stoccolma, Svezia 61 Max Dudler. Ritter Museum, Waldenbuch, Germania 65 Peter Zumthor. Kolumba Museum, Colonia, Germania

57 PROGETTO PER UN MUSEO ROSSINIANO E CITTA’ DELLA MUSICA A PESARO 59 L’area

63 Stato di fatto

65 Note sul centro storico 69 Le mura

71 Il progetto

le residenze

il museo rossiniano la città della musica

93 APPARATI Bibliografi a

Regesto fotografi co Tavole di progetto

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LA CITTA’ DI PESARO

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LA CITTA’ DI PESARO

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1.1 Cenni sulla storia della città

Secondo la ricostruzione eff ettuata da Italo Zicari1 la pianta della città

di fondazione di Pesaro, risalente al 184 a.C., era di forma rettangolare, con il lato nord-ovest rientrante a formare una concavità in corrispondenza della relativa porta di ingresso.

Il cardo coincideva con il tratto di attraversamento urbano della Flamin-ia, lastricata nel 174 a.C. e oggi corrispondente a via S. Francesco. Il decumano, disposto perpendicolarmente al cardo e con andamento est-ovest, corrispondeva alle attuali via Rossini e via Branca. All’incrocio di questi era sito il foro oggi Piazza del Popolo.

“Il tracciato delle mura, cominciando dal lato prospiciente il mare, aveva inizio in corrispondenza dell’angolo interno della Rocca Costanza, at-traversava via Rossini all’altezza della Canonica e raggiungeva la volta della Ginevra. Il lato successivo si sviluppava sul tracciato via Zanucchi fi no a via delle Galligarie. Il terzo lato occupava via Galligarie e via Morselli; il quarto lato correva all’incirca su via Gramsci fi no a raggi-ungere nuovamente la fortezza, dopo aver attraversato piazza Matteotti. In corrispondenza del cardo e del decumano le mura si aprivano con quat-tro porte. La struttura delle mura era formata di grossi blocchi di tufo locale squadrati, montati a secco, al disopra dei quali si alzava un muro di mattoni per circa sei metri. In corrispondenza ai quattro angoli della cinta muraria vi era un bastione e forse anche un torrione: quello della

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LA CITTA’ DI PESARO

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Ginevra, chiamato Torre Antinora, fu abbattuto soltanto al principio del XVIII secolo.”2

Extra moenia si confi gurano diverse aggregazioni di tipo residenziale. In principio la distribuzione di questi in corrispondenza delle Porte risulta essere abbastanza omogenea, privilegiando poi lo sviluppo all’esterno di porta Collina e porta Ravegnana a discapito delle aggregazioni al di fuori di porta Fanestra. L’espansione residenziale fuori le mura scompare com-pletamente nella direzione mare. Questa mancanza viene tuttavia sostituita da un teatro e un anfi teatro, per interporsi tra l’interno e l’esterno della città, come era consuetudine della pratica edilizia della città romana. Ulteriori manufatti da attribuirsi all’epoca romana sono il porto e il ponte sul fi ume Foglia.

Il tessuto interno della città era ripartito in sette vici (quartieri più periferici della città) orientati secondo gli andamenti del cardo e del decumano.

Periodo altomedioevale

La documentazione inerente al periodo che va dall’Altomedioevo al controllo di Pesaro da parte dei Malatesta, non è suff iciente per defi nire la precisa trasformazione della città. Questo è dovuto al burrascoso periodo conseg-uente le numerose invasioni barbariche. Questa epoca vede quindi Pesaro distrutta e ricostruita più volte. Le fortifi cazioni e i monumenti vengono infatti sistematicamente reimpiegati quali materiali da costruzione per la creazione, in tale periodo di povertà, di nuove unità abitative. In questo arco di tempo la città si trovò sotto il controllo dei Goti prima, e dei Bizantini poi; fu conquistata dai Longobardi e in seguito dai Franchi che la cedettero alla Chiesa, la quale, a sua volta, la mise nelle mani degli Estensi.

Periodo malatestiano (1285-1445)

Finalmente nel 1285, con l’elezione di Giovanni Malatesta, Pesaro uscì dall’instabilità che aveva caratterizzato i secoli precedenti.

La struttura della città si presenta ai Malatesta ancora fortemente seg-nata dall’originario impianto romano, a testimoniare lo stallo evolutivo

2 cit. La città nella storia, in COMUNE DI PESARO, Il piano particolareggiato del centro sto-rico di Pesaro, Pesaro 1974

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LA CITTA’ DI PESARO

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verifi catosi in epoca medioevale. I tracciati permangono infatti nella loro ortogonalità cardo-decumanica, ma si assiste alla sistematica comparsa di chiese localizzate al centro dei quadranti.

All’esterno del perimetro murario, verso nord e verso est soprattutto, si sono creati borghi e nuclei aggregativi prevalentemente abitati da lavora-tori di basso ceto.

Può ritenersi signifi cativo ed evolutivo, in questa fase, il tentativo di una prima regolamentazione edilizia e urbana, imponendo rigidi vincoli riguardanti le volumetrie e i caratteri del decoro delle abitazioni poste lungo le quattro vie principali, indicazioni di massima erano prescritte per le restanti parti. Nelle zone principali “le case dovevano farsi colle facciate in muratura per l’altezza di almeno 15 piedi “ex utraque parte stratae publicae domos… ex parte anteriori debeante habere muratas muro de lapidibus et calce alto saltem XV pedibus”, e per quanto riguarda portici, transenne e balconi era prescritto un minimo di 10 piedi di altezza per le stesse vie, di 12 in piazza, ed i balconi dovevano essere in muratura e non in legno, e non avere oltre 5 piedi di sporgenza”3.

Venne operato un raff orzamento delle mura difensive soprattutto in cor-rispondenza dei vertici del rettangolo, costruendo fortezze e punti di con-trollo. Lo sforzo compiuto dai primi signori Malatesta introduce un fervore artistico e una fi oritura culturale fi no ad allora sconosciuti nella città marchigiana. Le trasformazioni avvenute sotto i Malatesta hanno portato a un abbandono dell’impostazione razionale di stampo romano presente nei quattro quadranti, defi niti da cardo e decumano, e fi no ad allora sopravvis-suti alle barbarie medioevali. Ha quindi perseguito modifi che contingentate nei quadranti, volte alla compattazione e perdita dei principi di modular-ità e allineamento a favore dello sviluppo di percorsi che mettessero in collegamento tra loro i fatti urbani salienti.

Questo impegno, promulgatosi così intensamente, conduce ben presto, all’esaurimento delle risorse dei signori riminesi a Pesaro e alla vendita notarile della signoria a favore di Alessandro Sforza.

Periodo sforzesco (1445-1512)

Le principali opere realizzate dagli Sforza nel breve periodo di dominio riguardano l’ampliamento del Palazzo della Corte sito sull’antico foro ro-mano e un’ulteriore fortifi cazione della linea difensiva.

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LA CITTA’ DI PESARO

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Con l’ampliamento del palazzo attraverso l’inclusione degli edifi cati esistenti, Alessandro Sforza conferma la presenza del potere politico all’interno della città. Le mura vengono fortifi cate su tre lati ed estese a nord fi no a comprendere il porto sul Foglia, includendo quei borghi che fi no ad allora erano relegati fuori le mura.

Viene poi eretta la rocca Costanza sulla preesistente rocca del Tentamento di epoca malatestiana.

Periodo roveresco(1513-1530)

Il primo passo dei Della Rovere a livello politico amministrativo è l’unifi cazione del Ducato di Urbino con la signoria di Pesaro. Ciò comporta la modifi ca del ruolo urbano della città rendendo necessari caratteri rap-presentativi più signifi cativi di quelli fi no ad allora presenti.

Gli sforzi destinati al raggiungimento di questo obiettivo si incentrano sulla costruzione di un nuovo sistema difensivo che discerna dal mero funzionalismo richiestogli. “Il disegno delle mura diviene allora stru-mento e fi ltro tra città e non-città e la concreta realizzazione del sis-tema difensivo un’esperienza urbana”4. Il team scelto per la progettazione

si indirizza verso la fi gura pentagonale. Si sceglie una base parallela all’andamento costiero e si includono nel nuovo centro cittadino, oltre che i borghi abitati, anche zone vuote, di fi ltro in previsione di future espansioni. Ulteriori opere che incisero profondamente sul futuro sviluppo della città furono la prosciugazione delle paludi attorno alla città, il completamento del palazzo ducale con un corpo inserito tra il recente in-tervento sforzesco e l’originaria fabbrica malatestiana, l’introduzione in città di fi lande da seta e lo sviluppo dell’arte manifatturiera soprattutto in campo ceramico. Durante poi le ultime generazioni Della Rovere si attua il piano di ristrutturazione della piazza centrale e la modifi ca del corso del fi ume Foglia, che comporta la necessità di un nuovo porto. “Le moti-vazioni di fondo di tanto fervore edilizio e di tanta iniziativa riforma-trice sono state lucidamente colte: si tratta in sostanza della volontà di allineare il ducato roveresco alla politica culturale delle grandi potenze della penisola, Roma, Venezia, Firenze, quasi per supplire con questo stru-mento (…) alla sempre più insignifi cante presenza economico-politica del piccolo stato marchigiano, a partire dalla crisi del 1513.”5

4 cit. La città nella storia, in COMUNE DI PESARO, Il piano particolareggiato del centro sto-rico di Pesaro, Pesaro 1974, pp. 30-31

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LA CITTA’ DI PESARO

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Dominazione Pontifi cia (1630-1860)

Con il passaggio del ducato sotto il dominio del governo papale, la città di Pesaro inizia un lento ma consistente periodo involutivo.

Perde il suo ruolo di autonomia divenendo parte di una dominazione ben più ampia, il volume degli scambi commerciali diminuisce drasticamente infl uen-zando anche l’operosità portuale e la vitalità artistica.

Si verifi ca un forte decentramento di attività produttive e attrezzature sociali accompagnato da una ghettizzazione delle fasce sociali meno abbi-enti per non interferire con la borghesia pesarese.

A seguito di queste scelte iniziano a sorgere all’interno del tessuto urbano diversi complessi conventuali tra cui la chiesa dedicata a S. Ma-ria della Concezione realizzata a opera dei padri Cappuccini all’interno dell’odierno omonimo bastione, situato a fi anco di porta Collina o Cu-rina aperta direttamente verso l’entroterra marchigiano. Le scuderie di Guidubaldo II vengono invece trasformate in teatro civico col nome di Tea-tro del Sole oggi TeaTea-tro Rossini. Nell’Ottocento si assiste al rifacimento interno del teatro, alla trasformazione del bastione di Porta Rimini nel bastione degli Orti Giuli e alla costruzione del nuovo ospedale psichi-atrico.

Nel 1860 Pesaro esce dalla dominazione Pontifi cia ed entra a far parte del nuovo quadro nazionale.

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LA CITTA’ DI PESARO

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Dal 1860 ai primi anni del Novecento

Assumendo come un dato di fatto la composizione urbana del centro storico, verso fi ne ‘800, la volontà diviene quella di cercare un’espansione a mare. Per fare ciò si interviene sulle mura difensive che non permettevano un semplice dialogo tra la città antica e le nuove lottizzazioni. In una prima fase vengono quindi distrutti i vecchi cavalieri, pareggiati i terrapieni e aperti viali di collegamento. A seguito poi del primo confl itto mondiale l’antico sistema difensivo viene quasi completamente raso al suolo fatta eccezione dei bastioni di porta Collina e porta Rimini.

La nuova città giardino viene impostata su una semplice maglia ortogonale disposta secondo l’andamento costiero.

Vengono potenziati alcuni viali di collegamento di particolare rilevanza, quale la prosecuzione del decumano fi nalizzato con il Kursaal sul mare. Si introduce un primo sistema ferroviario con conseguente messa in opera di sovrappassi per continuare a permettere il collegamento con l’entroterra. Si interviene sul centro storico, ma non a livello urbano, sostituendo edifi ci antichi con nuove costruzioni moderne.

La chiesa Cappuccina dedicata a S. Maria della Concezione viene spostata extra moenia e al suo posto, nel 1905, edifi cato l’ospedale comunale di Pesaro, tutt’ora in funzione.

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LA CITTA’ DI PESARO

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1.2 Gioachino Rossini

Dover delineare la personalità di una fi gura tanto emblematica presenta sempre numerose e varie diff icoltà: frequentemente l’immagine proposta è il risultato di una stratifi cazione di elementi, che, anche se prodotti da fattori oggettivi, risultano spesso amplifi cati, contraff atti o contaminati. L’uomo e l’artista, nel caso di Gioachino Rossini, si scontrano con questa realtà, producendo spesso una serie di luoghi comuni ormai storicizzati che con diff icoltà la nuova sensibilità storiografi ca cerca di scalfi re, al fi ne di restituire un profi lo del compositore più attendibile possibile.

L’umile nascita, l’infanzia burrascosa, i lavori modesti connotano il periodo della giovinezza del compositore, che nasce a Pesaro il 29 feb-braio 1792. La condizione familiare si collocava in una fascia sociale non abbiente: il padre era “trombetta” o banditore della comunità e cornista nei teatri o in accademie private. Nel 1798, dopo il matrimonio, la madre intraprende la carriera di cantante, prima come “seconda donna” e poi come “prima donna” nel genere comico nei teatri dell’area marchigiana ed emiliano-romagnola. L’impegno politico del padre in favore dei Francesi lo porta a subire la carcerazione ad opera del governo pontifi cio: viene ar-restato a Bologna nel 1799 e rimane in prigione a Pesaro sino all’estate del 1800, dopo la battaglia di Marengo. L’itinerario rossiniano dei primi anni è piuttosto complesso e, a seguito delle vicende familiari, il pic-colo Gioachino è costretto a subire vari trasferimenti.

Al seguito dei genitori, che girano per i teatri, trascorre la sua infan-zia a Pesaro, Bologna e Lugo, luoghi in cui si realizza la sua formazione. L’educazione scolastica di Gioachino avviene in istituti pubblici, dove acquisisce probabilmente i primi rudimenti della musica. In seguito, i suoi studi musicali proseguono a Bologna (1799). Qui egli apprende le tecniche del canto e della composizione, ma, soprattutto, conosce la musica di Hän-del, Bach, Gluck, Haydn, Mozart. Aveva già acquistato, comunque, famili-arità con le composizioni del tempo, grazie al repertorio eseguito dalla madre: non gli erano ignote, ad esempio, le musiche di Guglielmi. Mayr, Cimarosa, Gazzaniga, Portugal, Fioravanti, Weigl. Di questi anni sono le sue prime sporadiche apparizioni nei teatri e nelle accademie come vio-linista (forse nel 1801), maestro al cembalo (1804) e cantante (1804). Nel 1804, a soli dodici anni, si cimenta uff icialmente come compositore, scriv-endo le Sei Sonate a quattro per l’amico Agostino Triossi. L’esecuzione delle Sonate avviene in forma privata, a cura dell’amico e dei suoi cugini, dilettanti di musica. La formazione musicale di Rossini prosegue a Bologna

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LA CITTA’ DI PESARO

Sopra: Teatro San Carlo Napoli.

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nel 1804. In questo periodo egli studia violoncello, contrappunto, piano-forte. A Ravenna (1804), Senigallia (1805), Forlì (1806), Faenza (1807), Bologna (1808-1811) si esibisce come maestro al cembalo ed anche come can-tante. Il 1810 segna la conclusione degli studi al Liceo Musicale di Bolo-gna ed il debutto pubblico di Rossini come operista.

Dopo la burrascosa stagione bolognese, che lo vede anche in prigione per un giorno, Rossini approda nuovamente a Venezia. Il 1812 rappresenta un anno denso di eventi e con l’impegno veneziano si consuma la sua esperienza con il genere della farsa. All’interno delle quattro farse che compone, egli si allontana sempre più dalle convenzioni teatrali e la sua scrittura si protende ormai verso un genere sempre più personale.

Più tardi Tancredi e L’italiana in Algeri consacrano il successo del ven-tunenne musicista. Successivamente con l’avvenuto trasferimento di Rossini sulle scene Partenopee e con a disposizione una delle migliori orchestre a livello europeo, il pesarese si aff erma sul panorama internazionale, com-ponendo Il barbiere di Siviglia, opera nata dalla consequenzialità delle sue esperienze precedenti che ripropone alcune ritmiche analizzate nel periodo degli studi bolognesi.

Durante la permanenza a Napoli Rossini ha l’opportunità di cimentarsi anche sulle scene di altri teatri italiani. Roma e Milano sono le piazze privilegiate di queste sue escursioni. I generi aff rontati sono di diversa natura; l’opera comica e semiseria sono i campi nei quali il compositore si cimenta. Il 1822 segna la fi ne dell’impegno napoletano di Gioachino Rossini. Il compositore intraprende il suo viaggio europeo, mietendo il dovuto e meritato successo, conquistato prevalentemente sulle scene partenopee. La prima tappa dell’artista è Vienna dove la sua attività mondana è frenet-ica. In questa capitale culturale ha l’opportunità di incontrare Beethoven e Metternich, che gli commissiona una cantata eseguita a Verona in occa-sione del Congresso della Santa Alleanza.

Tornato in patria, nella sua casa di Bologna si accinge a comporre l’ultima opera per le scene italiane, Semiramide, che va in scena a La Fenice il 3 febbraio del 1823. Successivamente si trasferisce a Londra e durante il viaggio fa sosta a Parigi, riscuotendo enorme successo anche in terra francese. Dopo un breve soggiorno di due anni nella capitale inglese, res-idenza uff iciale diventa Parigi, dove accetta l’incarico di direttore del Teatro Italiano. Nel 1828 si rappresenta la prima opera di Rossini composta ex novo in lingua francese, Le Comte Ory, tratto da una ballata medioevale. L’ultima impresa lo vede impegnato con la storia dell’eroe svizzero Gug-lielmo Tell. Alla prima rappresentazione del 3 agosto 1829 l’Operà segna

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LA CITTA’ DI PESARO

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il tutto esaurito. L’esito strepitoso gli vale la Légion d’honneur, con-feritagli dal re Carlo X.

Il Guillaume Tell non segna di fatto il ritiro defi nitivo del Pesarese dalle scene il quale continua ad avere rapporti con l’Acadèmie Royale de Musique. La morte di Carlo X nel 1830 segna una data nevralgica della carriera di Rossini; il successivo governo di Luigi Filippo non riconosce le mansioni accordate precedentemente al musicista, che solo dopo una lunga causa ot-terrà un vitalizio. In un turbinio di viaggi tra Bologna e Firenze, il suo stato di salute cagionevole infl uisce notevolmente sulla sua vita pubblica ed artistica. E’ allora che non si sposterà più da Parigi trasformando la sua casa nel centro della vita musicale e culturale parigina: fi no al 1868 il salotto del musicista ospiterà le personalità più in vista del tempo. Il venerdi 13 novembre dello stesso anno Gioachino Rossini muore.6

1.3 Note sull’eredità di Rossini

Nonostante l’alto tenore di vita condotto dall’artista, gli eccessi, e i lussi dei quali non si privava, Rossini accumulò un patrimonio diff icil-mente stimabile. Non avendo eredi al momento della morte, lasciò scritto nel suo testamento che tutti i suoi averi fossero destinati alla città che gli diede i natali, Pesaro. Con questo fondo il comune avrebbe però dovuto dotare la città marchigiana di una scuola di musica. Da quel momento nacque il liceo musicale pesarese, poi trasformato in conservatorio di Stato in-titolato a Gioachino Rossini.

I beni del compositore vengono invece amministrati dalla Fondazione Ross-ini della stessa Pesaro. Sfruttando la notorietà e il nome di RossRoss-ini al fi ne di propagandare e stimolare la sopravvivenza dell’opera musicale in Italia, dal 1981 venne istituito il Rossini Opera Festival, più conosciuto con l’acronimo di ROF. La manifestazione si svolge durante due settimane, generalmente la seconda e la terza del mese di agosto. Sede delle rappre-sentazioni sono il Teatro Civico Rossini e, da quando il festival ha rag-giunto la fama internazionale e raddoppiato il numero di messe in scena, anche all’Auditorium Pedrotti e al più capiente, ma lontano dal centro, Adriatic Arena. Risulta quindi evidente come l’eredità e il compito lasci-ato da Rossini sia ancora tangibile a quasi 150 anni dalla sua morte e che comporti, di conseguenza, la necessità di nuovi spazi per lo spettacolo.

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IL MUSEO

CASI STUDIO

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IL MUSEO

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L’analisi museale eff ettuata si basa principalmente sullo studio delle ar-chitetture, costruite e non, che hanno infl uito e fornito un apporto all’e-difi cio oggetto di studio in questa tesi. Partendo da questo approccio si sono studiati gli aspetti caratteristici che riassumono alcuni dei musei in questione, attraverso una serie di rifl essioni sull’architettura ipogea, l’architettura nel verde e l’architettura sul limite.

2.2.1 Tadao

Ando

Chichu Art Museum, Isola di Naoshima, Giappone

Sono diversi i progetti fi rmati da Tadao Ando che hanno richiesto l’ese-cuzione di scavi. Come aff ermò l’architetto nel 2003: «Ho un’incIinazione quasi inconsapevole agli spazi sotterranei. A prescindere dalla natura del sito, cerco di creare un’architettura che non sovrasti mai l’ambiente circostante... Intervenire su uno spazio sotterraneo signifi ca ricollegarsi alla ricerca delle origini dell’architettura»1.

Accessibile solo via mare, l’isola di Naoshima, in Giappone, deve essere certamente sembrata a Tadao Ando il sito ideale per realizzare un’architet-tura silenziosa e concisa, caratterizzata da quella particolare sacralità laica che informa molta parte della sua produzione.

Qui, in un contesto atipico, antiurbano, posto al di fuori del tempo e del-lo spazio, è stato commissionato all’architetto di Osaka un piccodel-lo museo

1 cit. Tadao Ando, Refl ections on Underground Space, in “L’architecture d’Aujourd d’hui, maggio-giugno 2003.

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IL MUSEO

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che si può leggere come un compendio di alcuni suoi temi compositivi ri-correnti: lo scavo, la parete cieca, l’uso della luce che piove dall’alto in funzione espressiva e, soprattutto, la chiarezza geometrica dell’impo-stazione planimetrica d’insieme.

Il programma museografi co prevede la convivenza di tre esposizioni permanenti(Claude Monet, james Turrel e Walter De Maria) e a fronte di ciò Tadao Ando predispone una planimetria articolata in modo paratattico, disponendo in sequenza una serie di stanze autonome, ciascuna dedicata a una delle esposizioni monografi che e caratterizzata da una forma geometrica conclusa e riconoscibile in sé2.

Le tre stanze, completamente ipogee, sono accorpate attorno a una corte triangolare a cielo aperto e sono connesse tra loro e riportate a unità da una serie di percorsi dallo svolgimento volutamente labirintico, scavati in trincea. Solo una sottile linea di contorno in calcestruzzo ricalca il perimetro delle sale espositive e dei percorsi sottostanti e segnala una presenza in un paesaggio che rimane altresì incorrotto, doverosamente ri-spettato. L’architettura di Ando, così, viene ricondotta al piano bidimen-sionale del foglio da disegno e l’introversione degli spazi appena sugge-risce l’idea di un museo, richiamando piuttosto l’immagine di un bunker o di una vestigia archeologica.

L’accesso al complesso museale avviene tramite una lunga rampa che scen-de al livello scen-della vera e propria facciata di ingresso, attraversata la quale si passa bruscamente dall’intensa luce solare diurna alla semioscu-rità dell’interno. Di qui, uno stretto tunnel conduce a un primo patio di forma quadrata che è un vero e proprio giardino di tradizione giapponese, elegantemente disegnato alternando fasce di verde e bambù. Questo giardino si off re alla vista ma resta inaccessibile al visitatore che, a una quota più alta, raggiungerà il foyer, ma non prima di avere sperimentato nuo-vamente il contrasto tra luce ed ombra generato da un secondo tunnel cui segue ancora un patio, questa volta di forma triangolare. “In tal modo Ando sottopone l’utente di questa piccola, sacrale architettura a un continuo travaso tra spazi di diversa luminosità ed espressività allo scopo di ar-ricchire, attraverso questo enigmatico preludio, l’esperienza del contatto con l’arte”3.

Il chiostro triangolare rappresenta il cuore del progetto ed è il fulcro su cui si incardina l’intera composizione planimetrica. Questo spazio

2 Philip Jodidio, Ando. Complete works.

3 M. Raitano, Museo d’Arte nell’isola di Naoshima, Giappone, in “Industria delle costruzioni” n. 388, marzo-aprile 2006

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IL MUSEO

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aperto ma costretto tra nude pareti di calcestruzzo che si incontrano in angoli acuti, rappresenta una pausa sapientemente calibrata nel contesto del sistema espositivo e introduce alle gallerie tematiche vere e proprie. Alla quota del foyer sono impostate le due sale che ospitano le sezioni dedicate a Monet e a James Turrel, mentre il circuito espositivo prosegue attraverso una scala esterna appoggiata lungo una delle pareti della corte triangolare, che permette di raggiungere, al livello più basso, la sala dedicata a Walter De Maria.

Di tutti gli ambienti progettati da Ando, l’unico che non prende la luce dall’alto ma che si apre direttamente verso il paesaggio off rendo la vista sul mare è la caff etteria, posta sulla testata del sistema. Per il resto, a tutti gli altri spazi del Chichu Art Museum è destinata una espressività introversa che non ammette deroghe.

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IL MUSEO

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Rifl essioni sull’ipogeo

Di città ipogee abbondano la storia della letteratura e la mitologia. La cosa dovrebbe far rifl ettere; perché a fronte di relativamente poche re-alizzazioni concrete esistono innumerevoli costruzioni ideali per abitare i luoghi sotterranei. Come se la dimensione ipogea, non meno di quella ce-leste, fosse stata nel tempo una condizione irrinunciabile dell’immaginario delle civiltà.

Il pensiero mitologico arcaico sancisce la nascita di due mondi antitetici, diversamente abitati: nel cielo, erano gli dei olimpici; nel sottosuolo, gli dei sotterranei; tra loro i mortali, coloro che conoscevano, attraverso l’alternarsi della notte e del giorno, la dimensione del tempo. Cosicché, all’impulso a staccarsi dall’aderenza alla superfi cie bidimensionale della terra fa riscontro, simmetrica, la necessità di abitarne le cavità, di viverne lo spessore. Anche perché abitare un “sotto” permette di defi nire un “sopra”. Proprio come accade nell’ineff abile Isaura, città calviniana, dove i mille pozzi scavati nel suo sottosuolo divengono la ragione stessa perché la città intera, grazie all’eterno lavorio delle sue carrucole, si possa muovere tutta verso l’alto. E come accade, soprattutto, nella Divina Commedia, dove i gironi infernali costituiscono la materia da cui, per ri-porto di terra, è ricavata la montagna a spirale del Purgatorio.

Ciò che rende l’architettura ipogea una costruzione incontestabilmente simbolica è dunque scritto nella storia delle civiltà e della cultura. Oggi si arricchisce di numerosi altri livelli di signifi cato che spaziano dai contenuti arcaici delle caverne primitive, all’immaginario eff icientista delle reti metropolitane urbane, fi no all’ecologismo di un rinnovato rap-porto con la natura mutuato dai nuovi modelli biosostenibili della cultura globale.

Sono gli Stati Uniti i primi a scoprire e a valorizzare i loro monumenti geologici: Yosemite Park, il Grand Canyon, i deserti texani, Niagara Falls. I paesaggi americani lasciano intendere il potenziale monumentale delle grandi costruzioni naturali e ripropongono in chiave aggiornata quel sen-timento del sublime che, attraverso l’opera di Blake, Fussli e Friedrich, fu proprio di tanta arte Nord Europea allo scadere dell’avvento dell’età della macchina.

Da lì, attraverso lo sviluppo della Land Art, prima, e della Land Architec-ture, poi, la fascinazione per le grandi opere della natura si estenderà a tutto il mondo occidentalizzato. L’architetto si confronta piuttosto con le grandi creazioni che sono il segno dell’evoluzione del nostro

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pian-IL MUSEO

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eta vivente: crateri, rilievi, spaccature, faglie, placche continentali. L’architettura della metafora geologica le riassume, esorcizzandone il portato spaventoso. Lo spazio abitato, di conseguenza, non potrà che col-locarsi sotto la crosta terrestre, schiacciato, impotente.

Attraverso la metafora geologica, dunque, il lavoro sullo spazio ipogeo diviene l’ovvia conseguenza di un’architettura che si fa topologia, che si de-forma per mettere in scena un fenomeno fi sico.

L’intuizione, poi, che solo a una quota ipogea sia concesso il ritorno a una percezione primigenia delle cose, è uno spunto vitale anche per l’architettura europea. Alle fi gure morfologiche quali caverne, crateri, movimenti tellurici, caduta dei meteoriti, rilievi collinari, faglie conti-nentali corrispondono precise azioni progettuali quali: crivellare, caro-tare, solcare, imprimere una traccia, compattare il terreno di riporto. In questo modo, l’architettura della metafora geologica (un’architettura di musei, conference center, grandi complessi pubblici, monumenti) può re-citare diff erenti copioni che si distinguono per un impatto emotivo più o meno intenso sullo spettatore: può carotare il terreno, come propose Hans Hollein a Salisburgo modellando per scavo la spazialità propria del Gugghe-neim wrightiano; può implodere sotto il peso della caduta di un meteorite, come accade al Museo dell’Acropoli di Atene di Manfredi Nicoletti e Lucio Passarelli. Può anche, però, scegliere una via più gentile e mimetizzarsi nel paesaggio assumendo sembianze di collina, di rilievo, di emergenza geologica. In questo caso, l’impressione dell’ipogeo non è ottenuta per scavo, ma riportando il terreno sopra l’edifi cio e sancendo la dissoluzione dell’idea tradizionale di facciata a favore di una completa naturalizzazi-one del sito.

E’ il caso del progetto risalente al 1973 per il nuovo cimitero di Urbino di Arnaldo Pomodoro, nel quale l’artista solca la cima di una collina per creare una serie di percorsi che ospitano i loculi. Attraverso queste in-cisioni nel terreno, e la mimetizzazione del progetto nel contesto si ri-chiama un’atmosfera carica di tensioni e di rimandi.

Con l’intento, forse, di ricreare attraverso la tecnologia l’innocenza di un paradiso perduto in cui le opere dell’uomo, pur megalomani, non con-trastino con l’intelligenza propria della natura.

In particolare, questa linea caratterizza il lavoro recente di jean Nouvel a partire dal progetto di concorso per il Museo dell’Evoluzione Umana di Burgos fi no alla proposta per Les Halles parigine; nel Learning Resource Center dell’Università di Cipro, progettato nel 2003, un’enorme cupola sferica è aff ondata in una collina artifi ciale che ricopre gli ambienti di

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studio e di lavoro. In questo progetto, che è stato defi nito un earth-work, lo spazio a tutta altezza defi nito dalla cupola provvede alla gran parte della diff usione luminosa, permettendo così di ridurre al minimo le altre aperture e conservando il più possibile intatta la superfi cie del rilievo artifi ciale. All’estremo opposto, gli spazi ipogei possono emergere alla luce senza mediazioni, con la violenza di una scossa tellurica che frattura il terreno con un’immensa cicatrice. È la via che scelgono Peter Eisenman e il paesaggista Laurie Olin quando disegnano la Città della Cultura di Santiago de Compostela.

Se nei progetti ipogei la motivazione geologica evolve verso una nuova e potente fi gurazione, quella ecologica, viceversa, nasce come tensione mi-metica ed evolve in un gesto di conservazione delle risorse ai fi ni di uno sviluppo sostenibile.

Questa linea genealogica risponde al mutato atteggiamento dell’uomo con-temporaneo, sensibilizzato di fronte al rischio dell’inquinamento ambien-tale e alla riduzione delle energie disponibili; in tal senso, l’atto di rendere ipogea l’architettura permette di recuperare suolo per altri usi, di “fare spazio”. Ciò nonostante, è tuttavia molto diff icile fare degli op-portuni “distinguo” tra le modalità geologica ed ecologica nel progetto contemporaneo, giacché l’esito fi gurativo è sovente coincidente.

Tuttavia, è attraverso la lettura di alcune opere di Dominique Perrault che meglio si possono cogliere i caratteri salienti di questa particolare declinazione della dimensione ipogea. Il processo, il metodo e gli intenti che sottostanno alle sue architetture rendono opportuno un raggruppamento di queste opere in una famiglia a sé.

Nel centro congressi per I’IRSID, la rinuncia al volume architettonico è totale. È in questo non esserci, quindi, che si condensa il vero signifi cato ecologista del suo lavoro: non esserci per liberare spazio, insomma, per massimizzare le risorse di un territorio sempre più aff ollato. Eco-logia, appunto, in senso etimologico: discorso sull’ambiente, non altro.

La ricerca di Dominique Perrault non costituisce, al momento attuale, una strategia isolata. Si fa strada sempre più chiaramente l’idea che in contesti sensibili per valore artistico, per valore tipologico e per problematiche di degrado (centri storici, città consolidate e periferie) un’opportunità per il progetto contemporaneo sia quella di occupare il mi-nor spazio possibile. Ritirando la maggior parte delle cubature nel sotto-suolo l’architettura conforma, in ultima analisi, dei plateau disponibili a diventare nuove piazze abitate, veri e propri sagrati laici per le nostre

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comunità urbane. L’ipogeo, in questo caso, diviene un’opportunità di vita per il suolo alla quota zero.

Spazi verdi “vuoti” fruibili

L’attenzione di quanti oggi si occupano del progetto urbano è sempre più centrata sul ruolo assunto nelle trasformazioni urbane dagli spazi aperti. Ciò coinvolge, in una più ampia rifl essione intorno all’immagine della cit-tà, i paesaggi urbani, il rapporto che ciò che è edifi cato intrattiene con le aree non urbanizzate che lo circondano e che dall’esterno si insinuano nell’ambito dello spazio urbano.

Tra gli spazi aperti occupano un posto rilevante quelli che, con un appel-lativo tanto riduttivo e ambiguo quanto all’apparenza oggi non più sosti-tuibile, vengono chiamati “verdi”.

La progettazione del verde urbano si è faticosamente e raramente confi gu-rata con una specifi cità d’intervento di rilevanza almeno pari a quella tradizionalmente assunta dalla progettazione dello spazio edifi cato.

L’immagine degli spazi aperti come “vuoti” ha portato spesso verso una loro considerazione in termini di aree “deboli” per le quali la trasformazione in uno stato diverso, e opposto, è sempre possibile.

I temi riguardanti il “paesaggio” e il “verde” si trovano oggi al centro del dibattito politico e culturale innescando rifl essioni e azioni atte a invertire quelle forme di degrado che purtroppo caratterizzano gran parte dei nostri spazi aperti urbani ed extra-urbani.

Se la questione del “verde” urbano è indubbiamente legata all’espandersi della città industriale ottocentesca, certamente la “progettazione degli spazi aperti”, nel senso più ampio che può richiamare questa espressione, ha origini ben più lontane sia nella cultura italiana, sia in quella di altre aree geografi che.

Pur se in termini diversi, la progettazione degli spazi aperti è stata in-fatti comun denominatore di tutte le civiltà.

Dai giardini pensili di Babilonia del VII sec. a.c. a quelli arabi, da-gli ‘’hortus conclusus’’ medievali ai “giardini all’italiana” e alla pi-azza rinascimentale, dai giardini di Versailles al “giardino paesistico” o all’inglese, il fi lo conduttore comune, pur nella enorme diversità delle situazioni, è rappresentato dall’intrecciarsi di soluzioni funzionali, per lo svolgimento e le necessità della vita quotidiana, e spaziali quali es-pressione dello spirito umano e della cultura dominante.

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gi-ardini pensili quale soluzione alle avversità climatiche e quale modello culturale di sviluppo urbano, così oggi le esigenze della società indus-triale e i problemi di degrado ambientale dei grandi agglomerati urbani impongono nuove istanze igienicofunzionali (ricreazione all’aria aperta, sport, spettacolo, ecc.) e interventi per la riqualifi cazione dell’ambiente e del paesaggio urbano.

Già dall’inizio della rivoluzione industriale emerge la necessità di creare spazi aperti per le nuove istanze ricreative delle multitudini inurbate e il parco, il verde, da bene di privato godimento diviene luogo di pubblica fruizione.

Gli interventi più signifi cativi e emblematici, quale il sistema dei parchi a Londra (1830-40) o a Parigi (1850-60), il Centrai Park a New York (1860-70), il Bosco di Amsterdam (1934) o il Green Pian di Copenhagen (1932), danno successivamente indicazioni “culturali” pur conservando ancora molti caratteri di tipo “scenografi co-decorativo”, per un disegno degli spazi ap-erti di più ampio respiro, nel quale il parco, il verde, non è più elemento isolato, bensì è parte integrante della città stessa.

A partire dalla fi ne del XIX secolo, mentre nel Nord Europa e negli Stati Uniti i nuovi architetti ed urbanisti si pongono il problema del verde non più in termini generici, bensì come “quantifi cazione” delle esigenze vi-tali di servizi e di verde per ogni abitante della città (gli standards) cercando di far emergere l’intervento pubblico e colletivo, in Italia non fa riscontro alcunché, se non la perdita defi nitiva della nostra “memoria” storica e culturale di parco, di giardino.

E’ noto come in Italia gli aspetti riguardanti gli spazi verdi e in genere d’uso pubblico siano stati subordinati agli aspetti infrastrutturali ed edilizi della città. Il rapporto tra spazi pubblici e spazi privati, tra le aree destinate agli usi della collettività e quelle lasciate alle destina-zioni ed utilizzadestina-zioni private, non ha avuto un equilibrato sviluppo. Come conseguenza, agli spazi pubblici sono stati destinati brandelli di aree, residui, aree di risulta.

In questo contesto gli spazi verdi sono stati considerati come un “buco”, un “vuoto” da sistemare magari con attrezzature e alberature ma privo di qualunque gestione, in attesa di poterlo utilizzare o “riempire” domani in altro modo.

Per raggiungere i mq./ab. richiesti dalla legge del 1968 si sono con-teggiate e utilizzate aree di risulta, progettandole- quando ciò è avve-nuto - in maniera inadeguata alle esigenze degli utenti e alle necessità di miglioramento dell’ambiente urbano, con il risultato di avere spazi aperti

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come luoghi emarginati riservati a soggetti sociali emarginati.

In defi nitiva nelle nostre città è mancata una organica pianifi cazione ed una corretta gerarchizzazione dell’uso degli spazi aperti, infatti, come per il costruito esistono gerarchie funzionali con diversi livelli di utenza servita, così per il non-costruito vi sono funzioni diverse e bacini d’utenza più o meno ampi a seconda della localizzazione e delle necessità. La questione non è risolvibile infatti in un maggior o minor numero di parchi e giardini, o in una migliore o peggiore forma di maquillage veg-etale della città, bensì in un sistema di spazi aperti visto come parte vitale della città, come tessuto connettivo tra l’urbano e il rurale, che preveda, appunto, l’organizzazione del verde come un sistema di funzioni qualifi cate e qualifi canti.

Il parco, il giardino di quartiere, la piazza, il percorso alberato e altri spazi verdi sono l’ossatura del sistema urbano.

Come ci insegnava Valerio Giacomini, “ecologia” signifi ca non solo con-servazione delle risorse naturali, anche di quelle dentro la città, ma corretto uso di queste in un rapporto di equilibrio fra le esigenze umane e quelle ambientali.

Il fattore progettuale specifi co di ogni singolo spazio aperto può così assumere, inserito in tale maglia organizzativa, un signifi cato più ri-levante: infatti per quanto positivo possa essere l’intervento su una specifi ca area o parco, un singolo caso non può che costituire il surrogato di un sistema ben più articolato. Troppo spesso ci si limita ad off rire, quale panacea ambientale, soluzioni progettuali isolate e scoordinate dal contorno urbano che le delimita, senza porsi obiettivi per una eff ettiva inversione di tendenza.

Ovviamente anche il momento progettuale ha la sua importanza considerev-ole data la particolarità dei materiali da maneggiare (materiali viventi, materiali organici e/o arredo), le specifi che competenze tecniche e le ade-guate forme gestionali-manutentive.

Si tratta, infatti, non solo di organizzare una maglia quale quella so-praccennata, ma anche di progettare ogni singolo spazio aperto come es-pressione culturale stimolante e non come appiattimento, cercando, in un certo senso, di recuperare quella memoria storica che in molti casi sembra essere stata perduta.

Piano e progetto degli spazi aperti, integrandosi reciprocamente, si col-locano a pieno titolo come una delle questioni più urgenti da aff rontare nelle nostre città per dare fi nalmente concretezza a quella “qualità della vita” che spesso sembra essere solo una parola vuota.

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Così come è già avvenuto in altri paesi, anche in Italia sembrano comunque essere ormai maturi i tempi per pensare a forme di pianifi cazione urbanis-tica nelle quali la collaborazione interdisciplinare (urbanisti, architet-ti, architetti del paesaggio, naturalisti , forestali, ecc.) possa dare le risposte appropriate alla crescente domanda di qualità del vivere urbano, innescando una eff ettiva inversione di tendenza che fi nalmente consideri lo “spazio aperto” quale elemento urbano che necessita forme di piano e di progetto di pari dignità, anche se diverse, di quelle sino ad oggi ricer-cate per i “pieni”.

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Planimetria del Deutsches Historisches Museum di Aldo Rossi, in Architettura 44. Musei in mostra, F.S.Fera, A.Fantini, Cesena 2012.

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2.2.2 Aldo

Rossi

Deutsches Historisches Museum, Berlino, Germania

La situazione socio-politica di Berlino nella seconda metà degli anni ‘80 era complicata a causa dei quasi quarantanni di tensioni dovute alla pre-senza sul territorio berlinese delle forze statunitensi e russe.

Il muro aveva prosciugato le casse delle amministrazioni a causa dei costi di gestione del problema. La condizione economica delle due parti non era aff atto fl orida, soprattutto quella della berlino comunista.

Il senso di supremazia nei confronti del rivale spinse, durante l’epoca del muro, ad aff rontare sfi de, dal punto di vista economico, diff icilmente aff rontabili. Ultima di queste fu proprio il DHM.

Berlino, che a fronte del confl itto bellico avuto vedeva distrutto il 50% delle sue architetture, stava aff rontando il problema della ricostruzione. Si voleva adottare il principio della ricostruzione critica come linea guida nello sviluppo e nella gestione.

Valorizzando le permanenze storiche sopravvissute alla guerra e ricreando l’unità tra le parti nei punti di sventramento si immagina una città che possa rispondere alle esigenze della società moderna.

Da queste motivazioni scaturisce, come ricorda Alberto Ferlenga, un con-corso il cui scopo “non è quello di sviluppare isolatamente il concreto compito di costruire un museo, bensì di concepirlo come parte di una fu-tura ristrutfu-turazione dell’intero settore compreso tra l’ansa della Sprea e Platz der Republik”1.

Come da regolamento edilizio della città di Berlino, l’altezza di gronda degli edifi cati cittadini non può superare i 22 m. Per questa ragione i lati est e sud, quelli posti in corrispondenza degli assi viari principali, do-vranno sottostare a tele regolamento.

Aldo Rossi risponde a tali richieste defi nendo un museo “per aggregazione” che permetta la distinguibilità funzionale delle parti.

L’astrattezza delle forme evita all’osservatore una contaminazione della forma museale sulla storia tedesca.

Trattandosi di un’esposizione storica, e quindi in continua evoluzione, l’architetto milanese considera di dover stilare un progetto che possa

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Pianta del Deutsches Historisches Museum di Aldo Rossi, in Architettura 44. Musei in mostra, F.S.Fera, A.Fantini, Cesena 2012.

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lupparsi con la storia. La galleria distributiva, spina dorsale del pro-getto, è quindi in se volutamente in-conclusa e le sale espositive ad essa accostate, sono numericamente ampliabili. L’esposizione interna al museo viene infatti organizzata secondo un logico principio temporale. Le opere vengono disposte nelle diverse sale in ordine cronologico.

Come spiega Aldo Rossi: “L’immagine diquesto progetto è legata al materia-le: il mattone della vecchia Berlino con le sue fascie di maiolica blu e gialla, la pietra bianca del colonnato di Schinkel che è di tutto il clas-sicismo della cultura tedesca, l’uso del vetro come elemento parete che nasce proprio dall’intuizione di Mies van der Rohe nella sua meditazione della tradizione classica tedesca. [..] il corpo dell’edifi cio si articola in tre parti; al centro, un cilindro posto sull’asse della Groben Queral-lee costituisce l’ingresso al museo. [..] Da qui si sale direttamente nel grande spazio delle esposizioni; percorsi diritti, illuminazione zenitale e illuminazione rifl essa da grandi vetrate sulla Sprea portano la luce di Berlino all’interno del museo [..] Dall’altro lato del cilindro/atrio par-te l’edifi cio forse più importanpar-te della nostra città-museo; se le sale di esposizione sono il luogo della conservazione e della rappresentazione, la raccolta del materiale della storia, l’edifi cio che si trova a sinistra è il luogo dell’ídea della storia e della dialettica che da essa si svilup-pa. Questo edifi cio contiene la biblioteca e, sul lato opposto, i luoghi di riunione e documentazione: l’auditorio, il cinema, il teatro. Infi ne, tutti gli edifi ci amministrativi si trovano sulla destra e, partendo dall’atrio, si sviluppano verso il Platz der Republik. Essi marcano il profi lo strada-le, segnano il bordo dell’isolato urbano e proteggono, come un fi ltro, il giardino posto tra la strada e il museo.”2

2 Il progetto di concorso, Aldo Rossi in Aldo Rossi. Deutsches Historisches Museum,

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Schema, in Principios de Ecologìa del Paisaje en Arquitectura del Paisaje y Planifi cacion Territorial,

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Limite e museo a confronto

Se è fatta risalire alla fi ne del ‘500, in pieno rinascimento, l’origine del museo, quella del concetto di limite che viene qui presa in esame, è alquanto antecedente e fatta coincidere con la nascita della civiltà umana.

Il museo nasce come pura opera di collezionismo. Non vi era alla base di questo nessuna scelta di tipo programmatico, l’esposizione era confusio-naria, di proprietà di privati, soprattutto signorie locali e destinata solamente a un pubblico elitario.

Solo due secoli più tardi, durante l’illuminismo, viene concepito il museo così come lo intendiamo ancora oggi, discostandosi da quello tradizionale quale “magazzino dell’arte” e aprendosi alla comunità a fi ni scientifi ci, culturali e di studio.

Nasce in questa fase di sviluppo la galleria che assume il ruolo di ele-mento tipologico per eccellenza nell’esposizione museale, che insieme ad altri tipi (“panopticon”, “gabinetto”, grandi atri, scale monumentali) creano nell’arco della storia una produzione smisurata di musei per ag-gregazione. Anche per questo motivo la lettura critica di questi trova davanti a sé una incontrollata libertà d’espressione non essendovi forme tipologiche canoniche da utilizzare desumibili dalla funzione. Se infat-ti “nell’architettura del teatro la infat-tipologia non sarà scindibile dalla funzione”3, nel caso del museo la produzione non può essere inquadrabile.

Il processo evolutivo della società conduce a uno sviluppo del sistema museo; il suo ruolo nella comunità diventa più preminente fi no a include-re funzioni (biblioteche, sale confeinclude-renze, punti di ristoro, laboratori, ecc., ecc.) che fi no a quel momento venivano demandate ad apposite sedi. Lo spazio pubblico diventa prioritario sull’area espositiva: attraverso questa mutazione si svincola dal suo ruolo tradizionale puramente funzio-nale di contenitore d’opere d’arte per diventare centro d’aggregazione e fulcro dello sviluppo urbano. E’ quindi compito dell’istituzione museale imporsi come nuova identità urbana e divenire secondo Berlage un medium tra cittadino e arte.

Cercando di inquadrare l’origine del limite attraverso un escursus di stam-po storicista, è probabile che sia da attribuirsi alla scoperta

dell’agri-3 Gino Malacarne, Il museo come parte di città, in Architettura 44. Musei in mostra, F.S.Fera, A.Fantini, Cesena 2012

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coltura, la quale permise all’essere umano di mutare la propria condizione da nomade a sedentaria. Potendosi creare il cibo da sé, l’uomo pose le prime basi per lo sviluppo di una collettività stabile e organizzata.

E’ quindi a questo fattore originante che si deve collegare il concetto del themenos, il primo limite di natura artifi ciale avutosi nella storia. Il themenos (termine di etimologia greca) defi niva il recinto sacro all’in-terno del quale nasceva il luogo di culto della comunità.

Lo stesso themenos, diversamente reinterpretato, divenne in epoca romana il limite sacro invalicabile, il confi ne della città di fondazione. Solo attraverso le porte era possibile venire a contatto con la civitas senza incorrere in pene esemplari quali ad esempio l’esilio.

E’ quindi da questa nuova concezione di limite che nascono le mura citta-dine che condurranno in epoca più recente alla dicotomia che ci accompagna tutt’ora. Questa sorge dal confl itto “programmatico” che instaura tra la manifesta volontà di perimetrare il tessuto urbano, soprattutto in epo-ca medioevale, con sistemi difensivi decisamente infl uenti sullo sviluppo della città e la diff icoltà di questi di entrare in relazione con il tessu-to edilizio esistente. Si puo spesso osservare come tra la città abitata e il limite si interponga una “fascia di rispetto”, dovuta si a esigenze agricole e militari ma anche probabilmente alla impossibilità di defi nire strategie progettuali capaci di mettere in diretto contatto i due sistemi. L’insistenza della problematica, che persiste in forma diversa fi no ai gior-ni nostri, monta quando il fenomeno dell’inurbamento si fa piu prospicente. Infatti a partire dal XIX secolo la città necessita di nuovi luoghi dell’a-bitare e quindi di nuove zone d’espansione dove far risiedere le persone provenienti dalle campagne. In prima istanza, generalmente, si tende a saturare, nel limite del possibile, la zona entro le mura, per poi espan-dersi extra-moenia. Nel tentativo di defi nire un assetto urbano di maggiore integrazione il limite diviene oggetto di studio.

L’architettura delle città italiane ci fornisce una vasta panoramica sulle soluzioni adottate in questa fase storica pressochè comune a tutte le re-altà. La varietà risolutiva mostra sicuramente casi riusciti come quello di Ferrara, piuttosto che Lucca o ancora Grosseto e Bergamo, le quali in-tuiscono la possibilità di sfruttare l’unità muraria per off rire alla cit-tadinanza un polmone verde sicuramente apprezzato, soprattutto dalla città moderna della speculazione post bellica. Il limite diviene, in questi casi, come l’accezione del termine stesso suggerisce, elemento di confi ne, segno tangibile di diff erenziazione tra due modelli.

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si puo notare come queste assumano il ruolo di punto di fl essione tra la città di fondazione e la “città costruita a tavolino”.

Da uno studio condotto in forma catalogativa da W. E. Dramstad, J. D. Olson e R. T. T. Forman sulla natura del limite, sia esso naturale o artifi ciale, come elemento fondatore dei principi progettuali, emerge quale sia l’ap-proccio corretto nel trattare i confi ni.

E’ implicito che questi possano confi gurarsi come limiti retti e limiti curvilinei altrimenti rimandabili a defi niti e indefi niti.

L’esegesi dell’opera degli autori (Principi di Ecologia del Paesaggio in Architettura del Paesaggio e Pianifi cazione Territoriale) suggerisce anche a livello di composizione architettonica che «un bordo retto tende ad avere più movimento [..] lungo questo, mentre un bordo curvilineoè più probabile che abbia movimenti che lo attraversino» (fi gura inizio capitolo).

Questa serie di considerazioni viene presa in esame per defi nire delle scel-te compositive duranscel-te lo sviluppo del progetto di scel-tesi.

A seguito si presentano due musei, che contengono riferementi concettua-li e progettuaconcettua-li rivisitati e successivamente impiegati nella risoluzione pesarese.

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2.2.3 Rafael

Moneo

Moderna Museet, Stoccolma, Svezia

L’isola, che fi no al secolo scorso era centro logistico della marina mili-tare, presenta un’edifi cazione episodica, costituita da manufatti storici disposti su un terreno irregolare.

Partendo da una valutazione realistica di questo contesto, Rafael Moneo si pone come obiettivo primario quello dell’integrazione con il luogo: egli pensa, dunque, ad una soluzione che trovi la propria forza nel dialogo con gli edifi ci circostanti.

Opta per l’area centrale dell’isola, individuando esattamente il punto in cui il museo possa svilupparsi con andamento orizzontale. Il rispetto per la situazione locale è portato agli estremi sull’aff accio interno dell’i-sola. Nulla si rivela a chi arriva dal ponte di collegamento con la ter-ra ferma e percorre la salita del pendio fi no alla fi ne: solo qui appare, inaspettato, l’ingresso principale, anch’esso discreto incorniciato da una tettoia piana che invita ad entrare. Del tutto diversa la percezio-ne del complesso dal lato del mare. Qui la lettura si fa più immediata: da sud verso nord si individuano l’ala del Museo di Architettura, bianca, con fi nestrature a nastro e copertura piana; l’ex palestra mantenuta nella condizione originale, con tetto a doppia falda; il corpo centrale corri-spondente alla hall di accoglienza con il blocco aggettante e vetrato del ristorante; e infi ne i padiglioni del Museo d’Arte, chiusi, intonacati in rosso mattone, con copertura a lanterne.

Il disegno geometrico della pianta è ordinatore senza essere costrittivo, consente libertà nell’organizzazione degli ambienti, e di conseguenza, fl essibilità di fruizione.

Da una grande hall si sviluppa verso nord il Museo d’Arte, strutturato lungo un corridoio-galleria che aff accia lungo le corderie e sul giardino interposto. Al museo sono riservati un’ampia sala per esposizioni tempo-ranee e tre padiglioni per la collezione temporanea. I padiglioni sono organizzati a blocchi, con le sale quadrate e rettangolari di varie dimen-sioni e proporzioni incastrate le une nelle altre, secondo la logica della compattezza. Dall’unico ingresso, si raggiunge, a sinistra, attraverso la galleria, il Museo d’Arte, oppure a destra quello di Architettura; il piano interrato ospita la sala conferenze, il museo della fotografi a, gli spazi per la didattica. La varietà di sale rettangolari e quadrate, di

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zioni e misure diff erenti, soddisfa le esigenze del nuovo museo e della sua ricca collezione di opere d’arte. All’interno dell’edifi cio sono presen-ti, inoltre, gallerie destinate alla grafi ca ed alla fotografi a, auditori di varie capienze, laboratori per bambini nonché uff ici per gli archivi e servizi per l’immagazzinaggio, la spedizione ed il ricevimento delle ope-re d’arte. In tutto il complesso un’attenzione particolaope-re è rivolta alla relazione con la natura: gli uff ici del personale, i laboratori per bambini ed il ristorante hanno grandi vetrate verso il mare, mentre la biblioteca e la caff etteria della sezione di architettura si aprono verso il giardino interno, animato dalle sculture di Picasso

E’ immediato come Rafael Moneo voglia annullare ogni tipo di gerarchia, ma è preservato un ritmo grazie a dei piccoli intervalli spaziali che di-staccano un blocco dall’altro. La neutralità delle geometrie delle sale è raff orzata dall’illuminazione naturale zenitale ottenuta tramite lucernari aperti nella soff ittatura a tronco di piramide, soluzione che garantisce un rapporto ideale tra diff usione luminosa e altezza ambienti.

Essenziale è l’arredo: le poltrone e i tavoli della sala conferenze, le lampade e le maniglie, disegnati dallo stesso Moneo con Belén e Jeff Brock, sviluppano la fi gura del cerchio che rappresenta un segno geometrico total-mente assente nell’intero progetto architettonico.

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2.2.4 Max

Dudler

Ritter Museum, Waldenbuch, Germania

Il Ritter Museum,il museo della collezione Marli Hopper Ritter, progettato dall’architetto svizzero Max Dudler, costruito nella campagna della Val-le di Aich nella cittadina di Waldenbuch,a circa 20km da Stoccarda, cerca costantemente un collegamento con la natura ed il paesaggio circostante. La sua collocazione spaziale gli permette di diventare elemento di separa-zione tra il paesaggio naturale e l’architettura industriale posta nelle immediate vicinanze.

Il Ritter Museum è stato pensato come un quadrato (di dimensioni 44 x 44 x 14 mt), poi suddiviso in due ali trapezoidali nelle quali si svolge la vita quotidiana del museo (esposizioni, uff ici e bookshop) e dalla grande galle-ria centrale che assume una forma, rastremata in profondità, allargandosi verso lo spazio circostante formato da pascoli, prati e foreste. Questa grande galleria ha inoltre la singolarità di presentare al suo interno due ampie vetrate a tutt’altezza che collegano le ali laterali e consentono di utilizzare questo spazio per eventuali esposizioni temporanee. L’espo-sizione vera e propria del museo si svolge però nei due elementi laterali che includono tutti gli spazi del museo contemporaneo: sale espositive, sala conferenze auditorium, bookshop, caff etteria e ristorante oltre agli uff ici direzionali.

Molta importanza assume perciò lo spazio interno, in quanto l’intera co-struzione è progettata come un enorme sequenza di camminamenti all’interno di una scultura in pietra.

Il Ritter Museum presenta al suo interno una vasta gamma di apparati di illuminazione, sia essa artifi ciale o naturale. Partendo dalla grande gal-leria centrale, sfondata nei due prospetti principali, si incontrano tre grandi bucature vetrate che alterano l’illuminazione di questo spazio at-traverso delle lamelle metalliche motorizzate a inclinazione variabile per fornire un diverso fl usso luminoso in base alle esigenze ed alle condizioni meteorologiche.

Notevole importanza assumono le grandi vetrate a nastro che forniscono luce naturale all’interno dell’edifi cio, specialmente alle zone degli uff i-ci e dello spazio delle mostre al piano superiore. Proprio questo spazio rappresenta l’emblema di questo museo perché riunisce al suo interno gli

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elementi fondamentali per una perfetta esposizione museale, ovvero la luce naturale, la luce artifi ciale ed un percorso interno caratterizzato da una gerarchia ben defi nita.

L’importanza di questo spazio è accentuata dalla luce naturale che entra non più solamente dalle grandi fi nestre laterali, ma anche da una particola-re struttura montata a soff itto (cparticola-reando un’intercapedine fra la struttura ed il solaio superiore) che consente di far entrare luce diff usa, luce che potrà essere integrata da quella artifi ciale nel caso in cui le condizioni esterne non siano delle ottimali. Quindi, come detto, questo spazio per le mostre vede un percorso ben defi nito nel quale si possono ammirare le varie opere con diverse condizioni di luminosità, infatti una volta arrivati in cima alle scale si ha una luce diff usa dall’alto, poi si percorre il corri-doio latrale nel quale abbiamo la presenza di luce naturale per illuminare direttamente le opere, tornando in un punto illuminato dall’alto e comple-tando il percorso mussale con luce naturale.

Non presenti in questo spazio, ma comunque molto importanti in quanti uti-lizzati in altre sale, sono i faretti a soff itto che consentono di avere una luce puntuale su un determinato quadro o una determinata scultura per me-glio evidenziare quelle che sono le caratteristiche artistiche dell’opera.

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2.2.5 Peter

Zumthor

Kolumba Museum, Colonia, Germania

Nel 1997 l’ arcidiocesi di Colonia convocò un concorso per la costruzione di un nuovo museo che doveva ospitare una importante collezione di opere d’arte, in un sito di grande rilievo storico. Si trattava infatti del luogo in cui sorgeva l’antica chiesa di St. Kolumba tardogotica, scomparsa con la seconda guerra mondiale, di cui rimase intatta solo una statua della Vergi-ne, che motivò la costruzione di una cappella negli anni cinquanta, a cura dell’architetto Bohm. Inoltre nel corso di scavi archeologici condotti sul sito tra il 1973 e il 1976, sono emersi i resti di case tardo romane del II e III secolo, di un abside del VI secolo e di una basilica romanica a tre navate, oltre alle fondazioni della chiesa tardogotica a cinque nava-te. Il bando di concorso prevedeva oltre alla conservazione della cappella di Bohm con un ingresso indipendente, l’inserimento nel museo dell’area archeologica romana e medievale.

La collezione del museo è inusuale: accanto a preziosi reliquari, cibori, evangeliari, opere di pittura e scultura antica, tradizionalmente presenti in istituzioni di questo tipo, conta anche, grazie a lasciti di artisti e collezionisti, manufatti provenienti dall’arte devozionale popolare, dall’arte applicata, oggetti di design, appartenenti all’arte contempora-nea. Al piano terra del museo, il grande spazio espositivo è un percorso silenzioso e intenso tra i resti archeologici. Tredici sottili pilastri scandiscono lo spazio interno facendo attenzione alla posizione delle pie-tre antiche, e mantenendo un ordine spaziale preciso. Attraverso scale ri-cavate tra muri il percorso museale procede collegando i piani superiori, passando da spazi privi di luce naturale ad ambienti illuminati grazie ad ampie vetrate a tutta altezza.

Il museo è un momento architettonico di eccezione, che consacra la dignità del luogo, oltre che funzionare da scatola per le opere d’arte. Nel caos del quartiere, il Kolumba ha giuste proporzioni, un disegno, materiali e spazi ricercati. La continuità tra antico e nuovo è il tema chiave dell’e-difi cio nel suo complesso, che viene esplicitato attraverso l’utilizzo di materiali nuovi accostati alle preesistenze storiche e dal trattamento della luce naturale aff iancata a quella artifi ciale. Inoltre questo concet-to viene ripreso anche nel percorso museale, studiaconcet-to secondo una logica temporale. Si può riconoscere a Zumthor la capacità di creare un luogo mo-derno che dialoga con l’antico non solo tramite gli elementi del sito, ma

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IL MUSEO

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anche attraverso viste dirette sugli edifi ci storici di Colonia, che porta la memoria della città direttamente al visitatore.

L’apparato espositivo è stato studiato da Zumthor in base alle tipologie di opere esposte nel museo, scelta che lo porterà a studiare il luogo in maniera da mettere in risalto le opere d’arte modifi cando e trattando la luce, i materiali e le proporzioni degli ambienti.

La pietra utilizzata è stata oggetto di analisi durate anni, e spesso ve-rifi cata su modelli in scala 1:1. Fornita da un produttore danese ha avuto un processo talmente particolare da identifi carsi con il museo e assumere il nome di Kolumba-Stein. Il suo colore grigio caldo, e il suo formato agile (54x21,5x4 cm), rendono l’inclusione dei frammenti medievali cromatica-mente e strutturalcromatica-mente unitaria: un rammendo delicato, cui si aggiunge il traforo artigianale del muro pieno. Le grandi vetrate sono incastonate nelle facciate con il risalto discreto di un pezzo d’arte.

Nell’area delle rovine concepisce una grande hall delimitata nella parte bassa da muri di mattoni in prosecuzione delle antiche pareti della chiesa. In quella alta i muri pieni si trasformano in pareti forate, che lasciano penetrare l’aria e fi ltrano la luce naturale.

Al piano terra sono presenti sale espositive prive di illuminazione natura-le (i cosiddetti “Kabinet”), dove troviamo una luce artifi cianatura-le, creata da faretti, diretta sulle opere per risaltarne i colori e materiali. Situa-zione analoga la si trova nell’”armarium” dove preziosi pezzi da colleSitua-zione sono presentati in un ambiente rivestito di velluto nero.

Al secondo piano si trova un’abbondanza di luce naturale che entra attra-verso vetrate da pavimento a soff itto. Le pareti sono fi nite con un intonaco d’argilla che consente di nascondere facilmente le tracce del passaggio da un allestimento all’altro. I pavimenti sono in terrazzo con mosaico sottile di marmo di Carrara, in malta nei kabinet e nelle torri, in pietra calcarea nel foyer d’ingresso. Dallo spazio principale si accede ai kabinett e da questi alle torri. Spazi molto particolari e suggestivi nei quali la luce naturale penetra dall’alto attraverso vetrate opaline. Si nota la volon-tà dell’architetto di creare continuivolon-tà tra i vari ambienti attraverso lo stesso trattamento delle pareti, ma utilizzando proporzioni ed esposizio-ni diff erenti. Di questi spazi ne fa da padrona la luce naturale che viene assorbita o rifl essa in maniera diversa.

In questo modo si viene a creare una successione di episodi che partono dalla massa d’ombra della storia che arriva alla predominante luce della contemporaneità. Questi ultimi molto più a servizio dell’opera.

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PROGETTO

PER UN MUSEO ROSSINIANO

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PROGETTO

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L’idea per un progetto di riqualifi cazione dell’area del bastione Cappuc-cini a Pesaro, nasce dall’esplicita richiesta da parte dell’Assessorato all’urbanistica della città. Fa parte della richieste una risistemazione che includa un museo atto ad accogliere le memorie e l’intera produzione rossiniana, un auditorium per rendere più eff iciente lo svolgimento del Rossini Opera Festival ed ampliarne la ricettività, un piccolo complesso residenziale per ammortizzare i costi dell’intera opera a carico della città e la permanenza di un presidio ospedaliero di zona in previsione del trasferimento fuori città dell’azienda ospedaliera San Salvatore.

3.2 L’area

Come già si è argomentato nelle sezioni precedenti, la città di Pesaro si componeva di un sistema difensivo a cinque bastioni. Solo due di questi sono sopravvissuti agli sventramenti speculativi di inizio ‘900: il bas-tione di Porta Rimini e il basbas-tione Miralfi ore più comunemente conosciuto come bastione Cappuccini. Proprio quest’ultimo viene designato ad ospitare il progetto.

L’importanza di questo luogo per la città di Pesaro è pari solamente alla complessità che si incontra in fase progettuale. La sua nomea a livello comunale di “area cerniera” è infatti dovuta alla presenza di innumerevoli sistemi che proprio in quella zona entrano in contatto dando origine a una situazione mai risolta pienamente.

Il bastione è situato a sud-ovest del centro urbano e diretto verso l’entroterra marchigiano. Proprio in questa zona sorgeva una delle porte

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PROGETTO

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