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Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza

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PARTE II

I SEGNI DISTINTIVI DI IMPRESA.

MARCHIO DITTA INSEGNA

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CAPITOLO I

I MARCHI. NOZIONE. FONTI. FUNZIONE

SOMMARIO: 1. Segni, segni di identificazione personale e segni distintivi di impresa (ditta, marchio, insegna). – 2. Il marchio d’impresa. L’evoluzione storica. – 3. Le fonti. Diritto interno, internazionale, europeo. – 4. Tipologie di marchi. Marchi di fabbrica e di commercio; di prodotti e di servizi; generali e speciali. – 5. Le funzioni giuridicamente tutelate del marchio. – Nota bibliografica.

1. Segni, segni di identifcazione personale e segni

distintivi di impresa (ditta, marchio, insegna)

Nell’architettura della nostra legge sono disciplinate tre categorie di segni distintivi “tipici”, destinati ad operare sul mercato: la ditta, il marchio e l’insegna. Accanto ad essi trovano collocazione anche un certo numero di altri segni distintivi d’impresa che non sono oggetto di una disciplina espressa e vengono quindi considerati segni distintivi “atipici”.

La ditta e l’insegna, almeno nelle intenzioni del legislatore storico, concernono rispettivamente una determinata impresa ed un determinato esercizio considerati nella loro individualità. Invece il marchio si riferisce ad una sottoclasse di beni. Prendiamo il caso delle pipe Dunhill. La funzione della denominazione generica (“pipa”) è quella di individuare la classe di prodotti dotati di certe caratteristiche merceologiche. La presenza del marchio Dunhill, costituito da un puntino bianco avorio apposto sullo stelo della pipa, individua all’interno della classe designata dal linguaggio comune un gruppo più ristretto. In questo senso, il marchio costituisce il criterio di selezione della sottoclasse “pipe Dunhill” all’interno della classe “pipe”.

I segni distintivi di impresa

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2. Il marchio d’impresa. L’evoluzione storica

Il marchio ha potuto assumere la sua forma odierna solo con l’espansione del capitalismo industriale ed, in particolare, a partire dalla Rivoluzione francese, che ha condotto in tutta l’Europa alla abolizione delle corporazioni ed alla proclamazione della libertà dei commercianti – di tutti i commercianti – di adottare i segni distintivi da essi medesimi liberamente prescelti.

Lungo tutto il corso dell’Ottocento il marchio si è affermato come strumento fondamentale della concorrenza di mercato, in tutto e per tutto conforme con i postulati del liberismo economico. Infatti il marchio svolge la funzione di agevolare il funzionamento allocativamente ottimale dei meccanismi di mercato: nella prospettiva micro dell’acquirente, agevolandolo nel reperimento dei prodotti preferiti; in quella macro del sistema economico, premiando i produttori efficienti ed emarginando quelli inefficienti.

Per questo motivo le coordinate fondamentali della protezione dei marchi non hanno tardato ad affermarsi con una certa uniformità nei paesi occidentali: prima a livello nazionale (nella seconda metà dell’Ottocento: la legge italiana è del 1868); successivamente a livello internazionale (la Convenzione di Unione di Parigi è del 1883). In Italia, nel 1942 si è provveduto a rinnovare la disciplina di settore sia con alcune disposizioni del codice civile sia con l’emanazione la legge marchi 1942. Negli ultimi tre decenni si è assistito ad una vera e propria trasformazione della architettura del sistema.

È infatti in questo periodo che è giunta al suo culmine, nelle economie di mercato di matrice occidentale, quella che viene indicata come società della comunicazione globale. Gli studiosi di marketing ritengono che ogni individuo sia esposto ogni giorno – consciamente od inconsapevolmente – a qualche migliaio di messaggi. E, dove vi è tanto “rumore”, i segni che si stagliano – siano essi marchi celebri od altri simboli portati alla ribalta dal mondo dello spettacolo, dello sport e dai social media – si sono imposti come una risorsa assolutamente cruciale nella sempre più accesa competizione per catturare l’attenzione dei consumatori ed hanno reclamato forme di protezione che, come si vedrà, hanno pochi punti in comune con la protezione classica dei segni distintivi di impresa.

Nella prospettiva europea è consentito di cogliere

Marchio e liberismo economico La società della comunicazio ne globale L’integrazio ne economica

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un’altra dimensione di questo processo. La prima tappa dei lavori di armonizzazione europea del diritto dei marchi si è conclusa alla fine degli anni ’80: la direttiva n. 89/104 è della fine del 1988 ed il reg. sul marchio (allora) “comunitario” (oggi UE) è della fine del 1993; in quegli stessi anni poteva considerarsi pressoché concluso anche il processo di integrazione del mercato europeo. L’accentuarsi dell’integrazione economica ha indotto le imprese maggiori a reclamare per i propri marchi la protezione più estesa fra quelle praticate nei diversi ordinamenti dell’Unione europea, per evitare – esse hanno argomentato – di essere sottoposte ad uno svantaggio competitivo rispetto ai propri concorrenti di altri Stati membri. Con un esito ben noto agli studiosi della concorrenza regolatoria fra ordinamenti economicamente integrati, si è assistito così ad una corsa al rialzo (race to

the top) ed il livello della protezione europea dei segni più

affermati sul mercato si è attestato sui livelli raggiunti dalla legge più protezionista dell’Unione europea: quella del Benelux.

L’Italia ha dato attuazione sia alla direttiva n. 89/104 sia agli accordi conclusivi del negoziato multilaterale noto come Uruguay Round, che hanno portato all’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Queste norme, sono poi confluite nel d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 20, con cui è stato adottato il Codice della proprietà industriale. Questo è stato aggiornato – da ultimo nel 2019 – per adeguarlo alle ultime novità europee.

3. Le fonti. Diritto interno, internazionale, europeo

La disciplina vigente del diritto dei marchi è data da tre tipi di fonti: interne, internazionali e europee.

A) Diritto interno

I testi di legge vigenti sono gli artt. 2569-2574 c.c. e il Codice del 2005, modificato dal d.lgs. n. 15 del 20 febbraio 2019).Il regolamento di attuazione del Cod.. è stato adottato con decreto del Ministero dello sviluppo economico del 13 gennaio 2010, n. 33.

L’ambito di applicazione ratione loci della nostra disciplina in tema di marchi registrati è determinata dalla regola della territorialità (e v. l’art. 58 della legge di riforma del diritto internazionale privato 31 maggio 1995, n. 218).

Fonti interne Il principio di territorialit à

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B) Le convenzioni internazionali

Peraltro le nostre imprese hanno interesse ad ottenere tutela per i propri marchi non soltanto in Italia ma su tutti i mercati nei quali possano esportare i propri beni, esattamente come le imprese straniere desiderano potersi valere dei marchi impiegati nel paese di origine per estendere il proprio raggio d’azione anche al nostro paese.

La soluzione è stata quindi reperita a livello internazionale, con una serie di strumenti normativi progressivamente ritoccati e perfezionati nel corso dell’ultimo secolo.

1. La convenzione di Unione di Parigi del 1883. La prima in ordine di tempo fra le grandi convenzioni in tema di proprietà intellettuale è stata, come si è visto (v. Parte I, § 4), la Convenzione di Unione di Parigi, che ha delineato le coordinate fondamentali della protezione internazionale dei marchi.

Tre sono i suoi cardini nella materia che qui interessa: il principio di assimilazione (artt. 2 e 3 CUP, sul quale v. Parte I, § 12); la c.d. priorità unionista (art. 4 CUP ed art. 4 Cod.) (sulla quale già Parte I, § 12) e la c.d. protezione telle

quelle (art. 6-quinquies). In linea di principio, la

Convenzione non impone ai nazionali di uno Stato di effettuare il primo deposito nel proprio paese (art. 6.2 CUP). Ove ciò avvenga, tuttavia, la Convenzione prevede alla lett. A) dell’art. 6-quinquies che il marchio regolarmente registrato nel paese d’origine “sarà ammesso al deposito e registrato tale e quale negli altri Paesi dell’Unione, con le riserve del presente articolo” (ma v. l’art. 171 Cod.).

Inoltre, la Convenzione impegna i Paesi dell’Unione a seguire alcuni standards comuni per quanto riguarda alcuni profili essenziali della disciplina dei marchi (v. §§ 16, 37, 40-42).

2. L’Arrangement di Madrid del 1891 ed il relativo

Protocollo del 1989. Attraverso l’istituto della priorità

unionista, la CUP agevola le domande plurime in più Stati aderenti all’Unione; ma non esenta il soggetto che voglia ottenere la protezione in più Stati dall’onere di presentare – tempestivamente – una pluralità di domande in tanti Stati quanti sono quelli in cui desideri ottenere tutela. Questo assetto porta ad una moltiplicazione di costi, monetari ma anche organizzativi.

Alcuni fra gli Stati aderenti all’Unione, peri eliminare questi inconvenienti, hanno sottoscritto nel 1891

Fonti internazion ali

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l’Arrangement di Madrid per la registrazione internazionale dei marchi.

Il vantaggio dell’Arrangement rispetto alla CUP sta in ciò, che esso sostituisce al deposito plurimo una procedura di registrazione centralizzata. A tal fine è istituito un registro internazionale dei marchi presso l’Ufficio dell’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (abbreviata con l’acronimo OMPI in italiano; WIPO in inglese), in Ginevra. Chi abbia già registrato un marchio presso l’Ufficio di uno Stato contraente può chiedere a quest’ultimo di inoltrare all’Ufficio di Ginevra la richiesta di protezione per gli altri Stati contraenti. Questo provvederà direttamente alla registrazione con effetti negli ordinamenti degli altri Stati contraenti.

Alcuni fra gli inconvenienti dell’Arrangement possono essere superati ora che, a partire dal 1° aprile 1996, è divenuto operante il Protocollo aggiuntivo di Madrid del 1989. Esso infatti prevede che la registrazione internazionale possa avere luogo già al momento del deposito della domanda nel paese di origine; e che, nel caso in cui la registrazione sia rifiutata o dichiarata invalida già nel corso del quinquennio iniziale, essa possa essere convertita in domanda nazionale dotata della priorità originaria (art. 9-quinquies).

Con il d.lgs. 8 ottobre 1999, n. 447 l’Italia ha adeguato la propria legislazione interna al Protocollo.

3. L’accordo di Nizza del 1957, a sua volta, ha introdotto una classificazione merceologica internazionale dei prodotti e dei servizi.

4. L’accordo TRIPs. I negoziati dell’Uruguay Round sono sfociati in una serie di accordi fra i quali di rilievo per la materia dei marchi risulta quello sui “Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (TRIPs), firmato a Marrakech il 15 aprile 1994.

L’accordo TRIPs rappresenta una rottura rispetto al passato. Esso è stato accettato anche dagli Stati più riluttanti (specie i Paesi del terzo mondo), poco entusiasti di un rafforzamento generalizzato delle esclusive ma per altro verso desiderosi di accedere ai vantaggi della partecipazione all’OMC, che è condizionata all’adesione all’accordo TRIPs. Le disposizioni di diritto sostanziale concernenti i marchi sono contenute nella Sezione seconda della Parte II dell’accordo (artt. 15-20) e conferiscono al titolare del segno una tutela particolarmente intensa, anche – ma non solo – con riferimento ai marchi

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“notoriamente conosciuti” ai sensi dell’art. 6-bis della CUP. Poiché l’accordo TRIPs è stato attuato nel nostro paese, si farà specifico riferimento alle singole disposizioni da esso introdotte trattando della disciplina interna.

C) Il diritto europeo

Negli ultimi tre decenni il diritto europeo ha apportato ai diritti dei marchi degli Stati membri – e quindi anche a quello italiano – modifiche di portata sotto certi profili più intensa di quelle originanti dalle convenzioni internazionali. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ridefinito le prerogative che spettano al titolare del marchio alla luce del diritto europeo. Gli organi legislativi dell’Unione europea, dal canto loro, hanno armonizzato le discipline dei diversi Stati membri allo specifico fine di renderle compatibili con il fine dell’integrazione economica europea ed hanno inoltre creato un diritto di marchio unitario per l’intero territorio europeo.

1. La giurisprudenza della Corte di Giustizia. Rinvio. Al fine di garantire l’integrazione delle economie europee, le pronunce della Corte hanno affermato il principio secondo cui, se il diritto esclusivo del titolare del marchio può essere fatto valere contro l’importazione di beni contraddistinti da segni identici o confondibili messi in commercio in altro Stato membro da un terzo, ancorché l’originaria immissione sul mercato fosse legittima, l’esclusiva si esaurisce però ogni qualvolta i beni così contrassegnati siano stati messi in commercio nell’altro Stato membro o dal titolare stesso o con il suo consenso. Torneremo sul tema al § 32.

2. Le direttive di ravvicinamento. La Commissione europea ha ravvisato l’opportunità di procedere ad un ravvicinamento del diritto dei marchi degli Stati membri mediante direttive.. A questa finalità si è poi sovrapposta una tendenza ulteriore, non del tutto coerente con la precedente, rivolta al rafforzamento delle prerogative del titolare del marchio.

Il risultato della confluenza di queste due distinte prospettive è costituito dalla già citata direttiva 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE, da ultimo “rifusa” nella direttiva n. 2015/2436.

La disamina analitica delle previsioni europee sarà condotta in occasione dell’illustrazione della disciplina interna. Questa è stata modificata con il d.lgs. n. 15 del 20 febbraio 2019, per adeguarsi all’ultima direttiva europea.

3. Il regolamento sul marchio UE. Il marchio UE è stato

L’Ufficio dei marchi europei

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istituito (come marchio ancora “comunitario”) con il reg. 20 dicembre 1993, n. 40/94/CE. Perché il marchio comunitario diventasse una realtà operativa si è dovuto attendere fino a quando è entrato in funzione l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO, in passato UAMI) collocato nella città spagnola di Alicante: ciò che è avvenuto il 1° di aprile del 1996. Il regolamento originario è stato sostituito dal reg. (UE). 2017/1001 (d’ora in poi: il r.m.UE). Questo è integrato dal reg. delegato (UE) 2018/625 della Commissione del 5 marzo 2018; della stessa data è il regolamento di esecuzione (UE) 2018/626..

Il Regolamento si allontana dal principio di territorialità in modo più deciso di quanto non abbiano fatto la giurisprudenza europea prima e le direttive dopo. Queste infatti, presuppongono il permanere del carattere nazionale della disciplina dei marchi: dalle diverse registrazioni nei diversi paesi nasce un fascio di diritti retti dai diversi ordinamenti nazionali. Il Regolamento, invece, tiene a battesimo un istituto nuovo, il marchio UE, che si ottiene mediante un’unica registrazione ed il cui carattere unitario è scolpito dal § 2 dell’art. 1 r.m.UE. Secondo questa disposizione, infatti, in linea di principio il marchio UE “produce gli stessi effetti in tutta l’Unione: esso può essere registrato, trasferito, formare oggetto di una rinuncia, di una decisione di decadenza dei diritti del titolare o di nullità e il suo uso può essere vietato solo per la totalità dell’Unione”.

Alla base del Regolamento sta l’intento di apprestare un istituto giuridico strutturato in modo tale da incoraggiare le imprese ad operare su scala europea anziché nazionale. Ciononostante, il regolamento prevede che il marchio UE coesista con i marchi nazionali, in modo da potere offrire alle imprese la possibilità di optare per la struttura più idonea rispetto alle loro finalità: a seconda dei casi, un singolo marchio nazionale, un marchio UE od un fascio di marchi nazionali.

I lineamenti di diritto materiale del marchio UE presentano una stretta somiglianza con le regole dettate dalle direttive con riferimento all’armonizzazione dei marchi nazionali. La nostra legislazione interna, a sua volta, è stata emanata in attuazione della medesime direttive. Questa circostanza è di per sé ragione sufficiente per trattare parallelamente delle discipline del marchio nazionale e di quello EU, come, in effetti, avverrà nel

Carattere unitario del diritto

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prosieguo dell’esposizione. Il marchio UE è amministrato in parte da istituzioni specificamente europee, in parte da istituzioni che fanno capo agli Stati membri.

Fra le prime già si è ricordato l’Ufficio europeo (EUIPO). Ad esso è affidato il procedimento di registrazione. La contraffazione del marchio UE può, invece, essere fatta valere solo di fronte ai Tribunali dei marchi UE. Tale funzione è svolta dalle autorità giudiziarie designate dagli Stati membri nei rispettivi territori.

4. Tipologie di marchi. Marchi di fabbrica e di

commercio; di prodotti e di servizi; generali e

speciali

Sin qui si è inteso come marchio di impresa il segno distintivo dei beni o servizi prodotti o venduti dall’imprenditore. In tale nozione sono implicite due distinzioni cui anche il Codice fa riferimento.

Così è per la distinzione fra marchi di fabbrica e di commercio (art. 20.3 Cod.). I primi contraddistinguono i prodotti fabbricati da un imprenditore; i secondi i prodotti distribuiti da un intermediario.

La seconda distinzione è da ricollegarsi alla l. 24 dicembre 1959, n. 1178, che ha introdotto nel nostro ordinamento la categoria dei marchi di servizio. L’art. 3 del provvedimento estende ad essi la disciplina della legge marchi, in quanto applicabile; e le singole disposizioni del Codice fanno ora di regola riferimento ai “prodotti e servizi” contrassegnati dal marchio.

Non è, invece, di origine legislativa la distinzione fra marchi generali e marchi speciali. Il marchio generale contraddistingue la generalità della produzione dell’impresa; quello speciale particolari tipologie di prodotti aventi determinate caratteristiche. Volkswagen è il marchio generale che contraddistingue tutte le vetture prodotte dall’omonima casa automobilistica; Tiguan, Golf, Polo e Passat sono i marchi speciali che contrassegnano i singoli modelli di vettura. I marchi generali ricollegano direttamente i prodotti all’impresa – ed infatti assai spesso coincidono con la ditta. I marchi speciali viceversa non evocano direttamente un’impresa determinata, che talvolta può restare anche ignota nella sua identità al consumatore; essi comunicano un messaggio di altro tipo, attinente alle

I Tribunali dei marchi europei Marchi di fabbrica e di commercio Marchi di prodotti e di servizi Marchi generali e speciali

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caratteristiche degli specifici prodotti contraddistinti dal medesimo segno.

5. Le funzioni giuridicamente tutelate del marchio

A) Il punto di vista dell’economista. Gli economisti non hanno mai avuto dubbi nell’indicare quale è la funzione che i marchi svolgono sul mercato. Per essi è ovvio che, accordando a ciascuna impresa la possibilità di contrassegnare i beni da essa messi in commercio, si fornisce un formidabile incentivo ad offrire beni di qualità costante.

Sono gli stessi economisti a mettere in luce qual è la condizione alla quale le imprese sono propense ad “investire in reputazione” ovvero a fornire al mercato beni caratterizzati da un rapporto prezzo qualità soddisfacente per gli acquirenti. Questo desiderabile risultato si verifica solo nel caso in cui l’impresa disponga di un diritto esclusivo sul segno. Solo se quel marchio appartiene ad una ed ad una sola impresa ed ai concorrenti è vietato di usarlo per prodotti identici o affini, il segno può effettivamente venire impiegato dagli acquirenti per collegare la loro scelta di acquisto con le precedenti esperienze di consumo e per reperire agevolmente i prodotti desiderati (ed evitare quelli indesiderati).

Una volta che questa condizione di esclusività sia stata soddisfatta, il marchio incentiva l’impresa titolare ad offrire beni non solo di qualità migliore ma anche costante nel tempo. Infatti, l’impresa che abbia effettuato un qualche investimento nella reputazione associata al suo segno è per definizione riluttante a metterlo a repentaglio abbassando il livello qualitativo dei beni così contrassegnati.

B) La funzione giuridicamente tutelata del marchio:

l’approccio “classico”. L’analisi si presenta indubbiamente

diversa quando ci si collochi dal punto di vista dell’ordinamento giuridico. In questo secondo caso, infatti, non si tratta di descrivere quali funzioni vengano di fatto svolte dal marchio sui mercati; si tratta di determinare quali funzioni siano selezionate come meritevoli di tutela dal sistema giuridico e, quindi, stiano alla base della disciplina di diritto positivo.

Per circa un secolo e mezzo – in Italia fino alla riforma del 1992 – la scelta è stata lineare. È infatti parso sufficiente

La tutela della funzione distintiva

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conferire al marchio la struttura di diritto esclusivo, appartenente ad una ed ad una sola impresa, per assicurare l’assolvimento della funzione assegnatagli dalla legge: quella di distinguere la sottoclasse dei beni contrassegnati dal marchio nell’ambito della classe costituita da tutti i beni dello stesso genere. In questo modo è stata selezionata come meritevole di tutela una funzione diversa da quella – di garanzia qualitativa – individuata dall’analisi degli economisti: la funzione distintiva. Ed al contempo è stato accolto un criterio univoco di determinazione dell’estensione della sottoclasse caratterizzata dalla presenza del marchio: la provenienza dei beni da esso contrassegnati da un’impresa determinata, la quale, anche se non esattamente identificata dal pubblico, che può ignorarne la denominazione, la forma giuridica, la sede, ecc., è da esso riconosciuta come unica fonte legittima dei beni contraddistinti. Negando ad altre imprese concorrenti l’accesso a quel segno si mira ad evitare che gli acquirenti possano incorrere in confusione quanto all’origine imprenditoriale dei beni contraddistinti dal marchio.

Non è invece apparso né necessario né opportuno assegnare al marchio la funzione giuridica di garantire un livello qualitativo costante dei prodotti da esso contraddistinti.

Questa opzione di fondo, rivolta a salvaguardare la capacità del marchio di svolgere una specifica funzione, quella distintiva, si è riflessa in tante regole quanti sono i momenti cruciali della disciplina del marchio. Il diritto sul segno avrebbe potuto essere acquistato dall’impresa non per la generalità dei beni ma nei soli limiti dell’attività intrapresa o progettata da quella medesima impresa. Il titolare avrebbe potuto invocare la protezione non del marchio in sé ma solo nei limiti tracciati dal c.d. principio di specialità: pertanto esso sarebbe stato tutelato contro il suo impiego non autorizzato da parte di terzi solo nelle situazioni nelle quali si producesse un rischio di confusione per il pubblico quanto all’origine imprenditoriale dei beni. Il titolare quindi avrebbe potuto reagire contro l’impiego di un segno identico o simile successivamente adottato da terzi non autorizzati solo con riferimento a beni affini; mentre lo stesso segno sarebbe rimasto liberamente utilizzabile da altri imprenditori per beni non affini. Come il marchio non avrebbe potuto essere utilizzato in un determinato momento se non da una ed una sola impresa, così il suo trasferimento

I suoi corollari

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non sarebbe stato ammissibile se non quando l’acquirente risultasse l’unica impresa legittimata ad usare quel segno sul mercato interessato (c.d. requisito dell’esclusività) ed avesse altresì acquisito dall’impresa venditrice cespiti aziendali sufficienti a metterla in grado di proseguirne l’attività (c.d. vincolo aziendale).

C) La tutela dell’investimento pubblicitario e le funzioni

giuridicamente tutelate del marchio dopo la riforma del 1992. Già si è visto come il livello della protezione dei

marchi sia stato innalzato dalle innovazioni legislative dell’ultimo decennio. Occorre ora aggiungere che la nuova disciplina ha anche spostato l’asse della protezione: ad essere tutelata oggi non è solo più la funzione distintiva tradizionalmente intesa.

Il dato più appariscente della nuova normativa, ora confermata dal Codice, è costituito dalla c.d. tutela rafforzata di una tipologia particolare di segni, i marchi “che godono di rinomanza” [art. 20.1, lett. c), Cod.] o “di notorietà” [art. 9, § 2, lett. c), r.m.UE.]. La protezione di questi segni non è più circoscritta dal principio di specialità e può ora prescindere dal rischio di confusione del pubblico quanto all’origine dei beni. Infatti, anche in assenza di tale eventualità, la tutela è accordata dal nuovo assetto legislativo sul solo presupposto che l’uso di un segno identico o simile da parte di un terzo non autorizzato “senza motivo consent(a) di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”.

Il fatto è che nella nuova disciplina del marchio ha finito per assumere diretto rilievo un fattore socio-economico in precedenza considerato irrilevante, il capitale pubblicitario incorporato nel segno. Come in passato la protezione era calibrata sull’avviamento, inteso come valutazione del pubblico dei consumatori conseguente ad una serie di esperienze di acquisto precedenti, così oggi essa è precipuamente commisurata a questo nuovo fattore e, più precisamente, alla quantità ed alla qualità dell’investimento pubblicitario e promozionale di cui il segno è fatto oggetto (talora indicato come selling power del marchio). Questo tipo di investimento reclama una protezione “despecializzata” e, quindi, assai più ampia che in passato in quanto estesa anche a segmenti di mercato nei quali il titolare del marchio non sia direttamente operante e neppur programmi una propria presenza imprenditoriale diretta.

Si è aperta così la via all’autonoma considerazione di

La tutela della funzione pubblicitari a

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una funzione del marchio diversa da quella, distintiva o di indicatore dell’origine, finora accordata al marchio: la funzione pubblicitaria.

Potrebbe apparire a prima vista che tale innovazione sia riservata ad una categoria particolare di marchi: quei segni che godono di rinomanza, i quali, come si è visto, sono tutelati anche in assenza del requisito tradizionale della confusione del pubblico quanto all’origine dei beni.

Ma a ben vedere non è così. Non va infatti trascurato che la scelta di tutelare il marchio anche al di là della sola funzione distintiva ed in ragione dell’investimento pubblicitario in esso incorporato non è rimasta circoscritta alle previsioni particolari dettate per la tutela dei marchi che godono di rinomanza ma si è riflessa su tutti i livelli più rilevanti della disciplina complessiva della materia.

Sotto il profilo dell’acquisto del diritto, ora la registrazione del marchio può essere conseguita da chiunque (art. 19.1 Cod.) e, quindi, anche da soggetto che non sia titolare di impresa e che quindi intenda appropriarsi del marchio in vista dell’esercizio delle sue prerogative non di uso ma di disposizione.

Inoltre, il valore dell’investimento pubblicitario insito nel marchio può oggi essere realizzato dal titolare del marchio attraverso atti dispositivi assai più agevolmente di quanto non fosse consentito in passato. Sono infatti venuti meno molti fra i limiti che si opponevano alla sua libera circolazione: il nuovo testo degli artt. 2573 c.c. e 23 Cod. ha abolito il c.d. vincolo aziendale e prevede ora espressamente la possibilità di stipulare contratti di licenza non esclusivi e di trasferire il marchio per una parte soltanto dei beni per cui è tutelato (v. anche gli artt. 20 e 25 r.m.UE).

Il permanere della protezione presuppone ancor oggi che il segno venga effettivamente usato in funzione distintiva di prodotti o servizi entro un certo lasso di tempo [cinque anni dalla sua registrazione: artt. 24 Cod. e 58, § 1, lett. a), r.m.UE]; ma è divenuto indifferente che tale utilizzazione avvenga direttamente ad opera del titolare o fin dall’inizio sia da questi lasciata a imprenditori terzi – cessionari, licenziatari – da lui autorizzati.

Nel suo complesso l’assetto legislativo così disegnato fornisce un crisma di legittimità ad uno spettro assai ampio di pratiche di sfruttamento indiretto e contrattuale del marchio, che in passato erano guardate con sospetto e talora considerate vietate.

I suoi corollari

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A questa rimarchevole apertura non ha potuto non corrispondere l’introduzione di un correttivo: il principio che vieta l’uso ingannevole del marchio è stato in più punti specificato (art. 23.2 e 4, Cod.).

Il divieto di uso ingannevole del marchio quanto alla qualità dei prodotti ha, tuttavia, nella legislazione attuale, una portata più ampia di quella che deriverebbe da considerazioni di carattere puramente giuseconomico; e consente quindi di concludere che le innovazioni introdotte nel 1992 hanno sovrapposto alla tradizionale tutela della funzione distintiva del marchio non solo un’autonoma protezione della funzione pubblicitaria ma anche una sorta di garanzia qualitativa. E, per ritornare al punto sollevato in precedenza, le innovazioni ora ricordate non si riferiscono ai soli marchi “che godono di rinomanza” ma a tutti i marchi disciplinati dalla legge.

D) Il fondamento razionale della protezione. In passato gli economisti avevano potuto argomentare che la tutela del marchio comporta benefici sia per le imprese, incentivate ad “investire in reputazione”, sia per il pubblico, che grazie al marchio reperisce più agevolmente i beni sul mercato e può contare su di una qualità costante dei prodotti da esso contraddistinti, sia in fine per la collettività, che si avvantaggia quando le imprese che offrono la combinazione prezzo-qualità più soddisfacente sono premiate e quelle che tradiscono le aspettative dei consumatori sono espulse dal mercato.

D’altro canto, anche se la tutela del marchio conferisce un diritto di monopolio, questo non era parso comportare costi economici eccessivi, in quanto si tratta di monopolio su segni e non su realtà produttive (e v. § 10).

Va però detto che quell’analisi costi-benefici della tutela del marchio era basata sul vecchio regime. E non pare che si possano mantenere le stesse conclusioni oggi, che il baricentro della disciplina si è spostato ed ha collocato la protezione dell’investimento pubblicitario al centro della disciplina. Anzi: pare attendibile che il nuovo assetto comporti costi imprevisti per la collettività, ad es. consentendo l’appropriazione ad opera di singole imprese di segni che dovrebbero restare a disposizione di tutti e riducendo così l’apertura concorrenziale del mercato (§§ 10-12); e la domanda se esista un interesse collettivo a tutelare l’investimento pubblicitario delle imprese anche in assenza di un rischio di confusione del pubblico deve ancor oggi trovare una risposta soddisfacente.

Il divieto di uso ingannevol e del marchio

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Nota bibliografca

Sugli argomenti trattati in questo capitolo si possono utilmente consultare:

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Riferimenti

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