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L'attenzione totale

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Academic year: 2021

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Mensile di intervento culturale

luglio-agosto 2013 numero 31 - anno III euro 5,00

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Comitato storico

Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Pier Aldo Rovatti

Redazione

Nanni Balestrini, Ilaria Bussoni, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Davide Di Maggio, Manuela Gandini, Andrea Inglese, Lucia Tozzi

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Edizione digitale a cura di

Jan Reister Progetto e realizzazione Quintadicopertina http://www.quintadicopertina.com ebook: ISSN:2038-663X In c o p e rt in a : T h e D ry S a lv a g e s , 2 0 1 3 . In s ta lla zi o n e s it e s p e c if ic , 1 0 .0 0 0 m a tt o n i c ir c a i m p re s s i a m a n o , s a b b ia e u n l ib ro . C o u rt e s y l ’a rt is ta e M a g a zz in o , R o m a .

Sommario

3. Lelio Demichelis

La liquefazione del conflitto sociale

3. Franco La Cecla

Manifesto del governo italiano in esilio

3. Augusto Illuminati Don’t panic! 4. Maurizio Ferraris L’eroe di sinistra 4. Paolo Fabbri Il Traghettatore 4. Lucia Tozzi

Vogliamo anche le case

5. Étienne Balibar

Il governo dell’Europa

Intervista a cura di Claudia Bernardi e Luca Cafagna

■ RI-JOYCE

6. Franco Buffoni

Il soggetto della rivolta

A chi parla Joyce oggi? 7. Sara Sullam

La tastiera rammemorativa

L’Ulisse di Gianni Celati 7. Giancarlo Alfano

Il gioco gioioso dell’artificiere

Joyce con Lacan 8. Perversione e artificio

L’Ulisse come palestra psichica

Conversazione di Gabriele Frasca con Federico Francucci

9. La vita di tutti i giorni

L’Ulisse come manuale di self-help

Conversazione di Declan Kiberd con Enrico Terrinoni

UNGHERIA INFELIX

10. Zero demo

Né comunismo né democrazia a Budapest

Conversazione con Endre Szkárosi di Valentina Parisi

11. Sándor Radnóti

La guerra civile fredda

La criminalizzazione delle minoranze 12. Gáspár Miklós Tamás

Sul postfascismo

L’attentato alla cittadinanza 13. Beatrice Töttössy

L’attenzione totale

Voci dalla postmodernità ungherese ■ POESIA 14. Marco Giovenale Dieci decimiELISABETTA BENASSI 15. Andrea Cortellessa La pescatrice di stelle

18. I maestri vanno mangiati

in salsa piccante

In viaggio con Maurizio Cattelan

BIENNALE

19. Achille Bonito Oliva

La critica progetta il passato

19. Manuela Gandini

I gamberi di Venezia

20. Marco Scotini

Outsider sì, ma del welfare state

20. Tiziana Migliore

In che mondo crediamo

21. Christian Caliandro

Il Palazzo delle larghe intese

22. Stella Succi Questioni di genere 22. Antonello Tolve Quando le attitudini riprendono formaMETROPOLI 23. G.B. Zorzoli La città emergente 23. Giairo Daghini La città deterritorializzata 24. Vittorio Gregotti

Una nuova città?

24. Gianni Silvestrini

Le città intelligenti

25. Lucia Tozzi

L’urbanistica del neo-apartheid

FILOSOFIA E SCIENZE SOCIALI

26. Emmanuel Renault

La centralità del lavoro

Una sfida per la filosofia sociale 27. Frédéric Lordon

Verso una nuova alleanza?

28. Bruno Karsenti

Ciò che la sociologia fa alla filosofia

29. Stéphane Haber

La pluralità del capitalismo

Per rileggere il neoliberismo

TRADIZIONI DEL CIBO

30. Alberto Capatti

Per un piatto di lenticchie

30. Emanuela Scarpellini

L’arte del supermercato

31. Monica Palla

Non tutto il marketing viene per vendere

SEMAFORO

32. Maria Teresa Carbone

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Zero demo

Né comunismo né democrazia a Budapest

Conversazione con Endre Szkárosi di Valentina Parisi

i gesti simbolici. Per esempio, la tendenza a ribattezzare strade, piazze, palazzi, istituzioni. Quando il governo ha deciso di intitolare a Franz Liszt l’aeroporto di Ferihegy, il comitato ufficiale di esperti ha dato un parere leggermente diverso, nel senso che accoglieva il nuovo nome ma voleva lasciare anche Ferihegy. Dopodiché il governo ha sciolto bruscamente il comitato. Recentemente hanno approvato una nuova legge che attribuisce all’Accademia ungherese delle scienze la facoltà di stabilire se un certo nome possa essere attribuito a un luogo pubblico, nel caso in cui le autonomie locali non si sentano in grado di decidere. Tale legge prevede che non si possa usare il nome di chi abbia «contribuito alla formazione di una dittatura o di un regime totalitario». Dato che moltissime persone, per un breve periodo della loro vita, hanno collaborato in buona fede con quello che di lì a breve sarebbe diventato un regime, in questo modo diventa possibile compromettere anche personaggi illustri: come, per esempio, György Lukács, l’unico filosofo ungherese di fama internazionale, oppure il sociologo e studioso della classe contadina Ferenc Erdei, o Maksim Gor’kij solo perché era presidente dell’Unione degli scrittori sovietici. È chiaro che il comitato designato dall’Accademia delle scienze si è sentito sotto pressione, perché hanno vietato persino il nome di Vladimir Majakovskij, che pure si è suicidato a causa della stessa dittatura e che peraltro aveva cominciato a scrivere ben prima della rivoluzione. Al tempo stesso vi è un’evidente mala fede perché all’ideatore della prima legge antisemita in Europa, Pál Teleki, o al «poeta» e predicatore antisemita Ottokár Prohászka, possono essere intitolate strade e piazze. Un fatto non recente, ma significativo dell’antipatia del Fidesz per la democrazia, è la decisione di ribattezzare sia la piazza che dopo la seconda guerra mondiale era stata intitolata a Roosevelt, sia Moszkva (Mosca) tér, piazza molto popolare tra i giovani. Insomma, né comunismo, né democrazia. E allora che regime rimane?

In che misura il ripiegamento nazionalistico ungherese, e non solo ungherese, può essere visto come una reazione alla globalizzazione, a modelli occidentali sempre più massificati e impersonali?

«postfascismo», di carattere fascistoide, è sempre pericoloso, anche per ragioni teoriche.

Il problema storico, a mio avviso, è che i poteri fascisti o quasi-fascisti (fascismo storico italiano, nazismo, khmerismo rosso, miloscevismo ecc.) risultano tali quando ormai sono in una fase progredita, quando anche le ultime difese appaiono paralizzate, quando l’«opera» è già compiuta. E la società si ritrova in gabbia. L’esperienza storica ci ha insegnato che dobbiamo riconoscere questo processo in statu

nascendi e cominciare a resistere quando il potere

– forse – non si è ancora reso interamente conto di cosa stia facendo. È importante far sapere alla gente che il despota e coloro che lo appoggiano in genere non mirano all’eliminazione fisica – è la logica del potere assoluto a guidarli su questa strada. Basta vedere Salò di Pasolini. Quindi direi che quel che sta succedendo da noi comincia a ricordare spaventosamente ciò che è accaduto nei primi anni dell’operazione mussoliniana, per ora senza brigate d’assalto, a dire la verità.

Vorrei che tu parlassi di un caso che ti sembra particolarmente sintomatico della politica culturale del governo Orbán.

Innanzitutto bisogna dire che il governo ungherese non ha una politica culturale. La cultura per loro non ha senso, o si identifica tutt’al più con quella di consumo. Negli anni Novanta uno studioso di vaglia, simpatizzante di Viktor Orbán e del Fidesz, parlando con il primo ministro di allora aveva cominciato a spiegargli come sarebbero dovuti intervenire nel campo delle scienze. A quanto si racconta, Orbán lo avrebbe bloccato dicendo: «Professore, guardi che a noi questa roba non interessa». Lo studioso si stupì e si vergognò.

Il primo ministro sta ora procedendo a un turnover programmatico delle élite, inserendo in posizioni di rilievo uomini nuovi, completamente estranei al mondo della cultura e dell’educazione. Quindi, se parliamo di politica culturale, bisogna dire che in realtà si tratta di una politica totalmente anticulturale, dal momento che gli orizzonti di queste persone in genere sono misteriosi, oscuri e alquanto primitivi. A essere indicativi in genere sono Il 2 maggio – all’indomani di una giornata

pressoché estiva, non contrassegnata da particolari celebrazioni per la Festa internazionale dei lavoratori – un corteo alquanto singolare si è snodato a parziale compensazione per le vie di Budapest. Un gruppo di «dimostranti» hanno sfilato sui viali del centro inalberando cartelli con scritte paradossali e striscioni con slogan composti dal solo simbolo zero ripetuto più volte. La Zero demo ideata negli anni Settanta

dall’artista concettuale ungherese Endre Tót non sembra aver suscitato tra i passanti reazioni molto diverse rispetto a qualche decennio fa, quando il suo autore, ormai emigrato nella Germania Federale, aveva messo in atto la propria idea: «Se qualcuno mi avesse chiesto perché non avevo realizzato questa performance nel mio paese, quando mi era venuta in mente, avrei risposto che avevo paura. La paura mi ha preservato dal diventare un eroe. Più tardi, quando non c’era più nulla da temere, cominciai a tenere Zero

demo per dire qualcosa agli altri, ma la gente se

ne andava senza una parola. La loro impassibilità mi ha preservato dal diventare un eroe». Tra i partecipanti aZero demo c’era anche Endre

Szkárosi, artista intermediale attivo soprattutto nell’ambito della poesia sonora e studioso di letteratura italiana (si occupa principalmente delle avanguardie letterarie del secondo Novecento ed è docente all’Università Elte di Budapest). La sua lunga militanza negli ambienti della cultura underground ungherese lo rende l’interlocutore ideale per discutere dei recenti sviluppi.

Vorrei partire dalla Zero demo di Endre Tót cui hai partecipato tempo fa. Pensi che nell’attuale situazione politica questa performance ormai «classica» si sia caricata di sfumature semantiche ulteriori rispetto al passato?

Prima di tutto, lo zero è un segno quasi perfettamente vuoto e, al tempo stesso, plurifunzionale: segno numerico, segno

alfabetico, grafico ecc. Quindi assume facilmente i significati dello spazio storico e culturale in cui si manifesta. Personalmente vi ho preso parte perché apprezzo da tempo l’opera di Endre Tót, e poi perché ho pensato che, dopo parecchie manifestazioni che, purtroppo, raramente si sono rivelate dinamiche ed efficaci, finalmente avevamo la possibilità di inscenare una «demonstration» sorprendente, insieme chiara ed enigmatica. Sarebbe banale tradurre in parole quotidiane i significati apportati dal contesto presente, ma probabilmente è stata una dimostrazione del nulla, nel senso che non sta succedendo nulla, che quello che succede è nulla, e poi forse anche che (in modo un po’ buddhista) vogliamo il nulla, perché tutto sommato è meglio che azioni sbagliate o un attivismo distruttivo. E poi c’è molta ironia nelle varie combinazioni degli zero, piccoli, grandi, molti, pochi, disegnati, stampati, ritagliati. In concreto, il significato culturale (la «trama») della manifestazione consisteva nell’itinerario: dalla Piazza degli Eroi e da Mücsarnok fino alla Piazza Vörösmarty, dove ha sede la Magyar Müvészeti Akadémia che di questi tempi è diventata l’emblema della «visione culturale» del governo.

Sei d’accordo con la definizione di postfascismo elaborata da G.M. Tamás nel 2000 per

descrivere la situazione ungherese?

Bisogna riflettere sempre sul carattere del potere, soprattutto quando la sua concentrazione oltrepassa limiti accettabili. Noi siamo ben oltre questo limite. Le fasi di distruzione del controllo esercitato dalla società civile sono già abbastanza note. Parlare di «fascismo», «protofascismo»,

In nessuna, a mio avviso. L’aspirazione a un tenore di vita occidentale è forte, ma il problema è che la maggior parte della popolazione è tuttora povera. Una parte consistente della società è cosciente di questo, ma un’altra, non meno rilevante, vorrebbe poter godere dei beni di consumo senza pagarne i costi. E i costi non sono pochi. Bisogna saper convivere con la libertà e con l’incertezza, con la democrazia e con la possibilità di perdere qualche cosa. Ma il problema socio-psicologico più grave è dato dalla diseguaglianza del successo. Molti non riescono a tollerare che altri abbiano più successo di loro.

Al centro Müszi in Blaha Lujza ter (che mi sembra uno spazio molto interessante) ho visto a marzo la mostra Aesthetic Disobedience organizzata per i sessant’anni di Gábor Hunya (noto collezionista di arte rumena e ungherese). Secondo te, in che misura gli eventi politici odierni in Ungheria influenzano la pratica artistica? Come ti poni, in quanto artista, rispetto all’arte di protesta? Cos’è per te la disobbedienza estetica?

Cominciamo dalla fine. Nella prima fase della mia attività letterario-artistica (dal 1967 fino al 1990 circa) insieme ad altri sono passato gradualmente da forme di creatività istintiva a una posizione sempre più cosciente nel senso della disobbedienza estetica. Ho avuto, ovviamente, scontri di carattere politico, o politico-culturale, ma ciò che contava per me era sempre andare contro nella prassi estetica, nella lingua, nel costume. Non ero solo: all’epoca si era formata un’avanguardia underground che negli anni Ottanta ha saputo creare spazi alternativi, relativamente autonomi, al di fuori dalle istituzioni culturali «vigenti». Non è un caso se adesso sento ritornare la mia giovinezza. In mancanza di una libertà integrale nella vita quotidiana, gli intellettuali, e sopratutto gli artisti, devono rimpadronirsi della lingua in tutte le sue dimensioni e coinvolgere in questo processo anche il linguaggio dell’espressione pubblica, politica e performativa.

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a forma statale dell’Ungheria è la

re-pubblica, il nome del paese tuttavia non è più Repubblica ungherese: se-condo la nuova Costituzione – che ha attribuito un altro nome anche a se stessa: seguendo pedissequamente la norma giuridica tedesca, ora la si chiama Legge

fonda-mentale – la denominazione ufficiale

dell’Un-gheria non è più Repubblica ungherese, ma pura-mente e semplicepura-mente Ungheria. Ambedue questi cambiamenti di nome hanno sul piano simbolico un loro significato. Il governo Orbán vuole tagliare tutti i fili che collegherebbero il paese alla tradizione repubblicana iniziata con la svolta del 1989 e, quanto alla regola linguistica sia dell’ufficialità che della retorica politica corrente, intende sostituire l’oldspeak con un newspeak.

Fra le più impagabili perle stilistiche di tale abuso nell’uso linguistico non ufficiale si possono citare fenomeni come i seguenti: il termine

libera-le è divenuto un insulto corrente, diffusissimo; la

politica economica odierna viene definita non

or-todossa e il processo per intero ha assunto il nome

di rivoluzione nelle cabine elettorali. Con quest’ul-timo ossimoro il regime di Orbán vuole presenta-re la propria vittoria elettorale del 2010 come una slavina e separarla dalla continuità della vita poli-tica repubblicana. Preso il potere, si cerca di rap-presentare tale evento come un salto d’epoca, ana-logo a quelli che effettivamente si sono verificati nella storia tedesca, per esempio l’epoca della Re-staurazione di Metternich nella prima metà

del-l’Ottocento, o nel 1871 la costituzione dell’ Impe-ro da parte di Bismarck, o appunto la Riunifica-zione della Germania nel 1989, oppure anche

(pensando solo a noi) l’Ausgleich, il

«compromes-so» austro-ungarico del 1867. È un’aspirazione che in effetti ha già avuto successo qua e là: in un ambizioso testo tecnico di poco tempo fa venia-mo allietati da capitoli così intitolati: «Disciplina delle acque dal cambio di sistema alla rivoluzione nelle cabine elettorali», oppure: «La disciplina delle acque dopo la rivoluzione nelle cabine elet-torali».

Queste transustanziazioni linguistiche unghe-resi sembrano richiamare fantasie orwelliane, ma forse meriterebbero di essere studiate da un altro Victor Klemperer. Infatti procedono di pari passo con le mosse del regime. Tanto per citare un esempio tra molti, ecco qualcosa accaduto di re-cente e che ha a che fare con tale contesto: Györ-gy Konrád, due decenni fa presidente del Pen Club internazionale, avrebbe festeggiato dopo qualche giorno il suo compleanno. Per l’occasione riceve auguri e messaggi da tutto il mondo, fra l’altro dal capo dello Stato tedesco, dal presidente del Parlamento tedesco, dalla ministra tedesca della Cultura e della Ricerca, dal borgomastro di Berlino. Dall’ufficialità ungherese, invece, nulla! Va da sé: György Konrád è un avversario politico. A me è venuta in mente una lettera, a suo tempo, di Charles de Gaulle a Jean-Paul Sartre e il fatto che un capo di Stato dovrebbe guardare all’unità della nazione e quindi non dovrebbe né potrebbe tener conto degli orientamenti politici. Ma l’at-tuale capo dello Stato ungherese è sempre stato un militante, e resta tale anche oggi.

Il presidente del Parlamento ha detto in un’in-tervista che in Ungheria è in corso «una guerra ci-vile fredda». Senza dubbio ha ragione, conside-rando i tre grandi campi tematici oggi cruciali: la giustizia, l’economia, la politica sociale. Ormai dovrebbe risultare evidente a tutti che il sistema legislativo è stata deformato in termini costituzio-nali, di diritto pubblico e persino di diritto priva-to. Infatti, quando vengono promulgate leggi con valore retroattivo, salta il principio secondo cui «nulla poena sine lege» (non si può punire in as-senza di una legge); quando si prepensionano i giudici o diventa possibile sottrarre una causa al magistrato competente, è l’indipendenza della

magistratura che viene intaccata; negli ultimi tempi, poi, le procure vanno costruendo processi con motivazioni palesemente politiche.

Stando al parere di quasi tutti gli esperti, il fatto che l’economia venga governata in termini irrazionali discende da evidenti finalità politiche: la funzione della cosiddetta «battaglia per la liber-tà economica» (altro concetto da newspeak) è ga-rantire l’indipendenza giuridica e pratica del-l’azione politica, vale a dire, a chiare lettere, garan-tire la sua incontrollabilità letteralmente e in ogni caso. A ciò andrebbe aggiunto che purtroppo, stando ad alcuni segnali, il senso di tale modo di procedere è di favorire una cerchia di persone re-lativamente ristretta (il che di nuovo significhe-rebbe che il nostro paese a quel punto versignifiche-rebbe governato da una banda di criminali). Infine, la questione sociale in Ungheria ha assunto forme drammatiche estreme, la «politica per i poveri» tuttavia si traduce semplicemente nel forzare talu-ni lavori pubblici e nel proclamare l’obbligo di la-vorare, mentre in realtà il lavoro non c’è. L’idea del regime è stata espressa e resa chiara da uno dei nostri governanti: «Chi non può contare su nulla, non vale nulla».

Nei medesimi termini si svolge, in Ungheria, anche la politica culturale. Per la prima volta nella storia di questo Stato non esiste un autonomo mi-nistero per l’istruzione e per l’arte. Queste mate-rie mate-rientrano nelle competenze di sottosegretari al-l’interno di un unico Ministero per le risorse umane, accanto ad altri settori come lo sport, la

politica sociale e la sanità.

Negli ultimi tre anni si possono distinguere con chiarezza due periodi. Nel primo lo Stato ha mostrato un interesse sorprendentemente scarso per la cultura e si è fatto vivo soltanto per chiude-re o inaridichiude-re le fonti delle risorse materiali. Il mo-tivo di tale atteggiamento dev’essere fatto risalire alla circostanza che i grandi progetti culturali del primo governo Orbán (1998-2002) non avevano dato risultati pratico-politici in qualche modo ap-prezzabili (il Teatro Nazionale, l’industria cinema-tografica nazionale ecc.). C’era da aspettarsi dun-que che la cosa non sarebbe rimasta senza conse-guenze, e infatti il passo successivo è stato il

Kul-turkampf, la battaglia culturale. Con forte

eviden-za tale proposito lo si riscontra nel fatto che la nuova «Legge fondamentale» ha creato all’im-provviso un’Accademia ungherese dell’arte di ispira-zione nazionalistica, politicamente schieratissima e, quanto all’assetto, a base privata. Le condizioni di ammissione alla stessa risultano indecifrabili, giacché i singoli membri presentano doti diversis-sime tra loro. In ogni caso a tale istituzione è at-tribuito il medesimo status di cui dispone la pre-stigiosissima Accademia ungherese delle scienze, fondata però circa centottanta o centonovanta anni orsono. Con ogni probabilità la nuova Acca-demia dell’arte è intesa come organo di punta per

la promozione dell’arte di Stato. Non a caso il suo presidente – un attempato architetto, insignifi-cante sul piano artistico ma fermo nelle sue idee politiche di estrema destra – è arrivato ad afferma-re che purtroppo potafferma-rebbe accadeafferma-re che all’estero György Konrád sia considerato ungherese. Tra-dotto: il presidente ha contestato l’ungheresità di Konrád, bollandolo come ebreo.

La distinzione fra ungherese e

non-ungherese d’un tratto ha assunto un peso decisivo.

Il processo potrebbe essere descritto nei termini di Carl Schmitt: lo spazio politico, il mondo di chi chiede la parola in pubblico (la

Wortmeldun-gswelt), è diven tato un sistema che distingue

tra ami co e ne mico. La società ungherese ha per giunta nemici interni. Infatti il loro subdolo lavo-rio sovversivo porterebbe la responsabilità di un fenomeno: che il governo Orbán è oggetto di giu-dizi sfavorevoli in campo internazionale. Ecco dunque che tra gli «ungheresi» e i «non-unghe-resi» che vivono in Ungheria, che parlano un-gherese, che simulano un’identità unun-gherese, ha luogo appunto una guerra civile fredda. Le locu-zioni più importanti di tale modulazione lingui-stica sono: «noi ungheresi», «gli ungheresi», e ciò in apparenza potrebbe essere interpretato come oldspeak, in quanto ci si gioca la carta della

nazionalità. Questo nazionalismo è però moder-no, e lo si potrebbe forse definire meglio come et-nicismo. Anzi, per dirla con maggiore precisione, lo si potrebbe intendere come criterio di partitici-tà o simpatia politica (in quanto il partito qui sembra assumere il ruolo della patria). Per esem-pio, un paio di settimane fa il quotidiano gover-nativo ha ricordato alla intellighenzia di orienta-mento conservatore che la scelta è esclusivamente tra fedeltà alla patria e alto tradimento. Il trasbor-do fuori dalla ungheresità investe non solo i rom e gli ebrei, ma anche quei concittadini che «impo-veriscono» e «si trasformano» in rom, nonché quei critici che si asservono a «interessi stranieri».

Non vi sono dubbi, il governo Orbán è tutto-ra popolare in Ungheria, e se si dovessero tenere le elezioni in questo momento, con tutta probabili-tà verrebbe rivotato. La motivazione di maggior peso in tale fenomeno è il malcontento della so-cietà ungherese verso la politica e l’efficacia della propaganda governativa.

Un ulteriore motivo è da ricercarsi nella circo-stanza che il regime di Orbán ha richiamato in vita con successo quella pessima tradizione nella storia moderna ungherese che alla fine degli anni Trenta del secolo scorso venne eternata nel titolo di una rivista di estrema destra: Noi siamo soli. La creazione di nemici esterni e interni, su ricetta di Carl Schmitt, appaga al momento le attese, fa spe-rare, ma per altro verso è anche palese lo smantel-lamento della democrazia avvenuto in Ungheria negli ultimi tre anni, per cui l’opposizione vive sotto la minaccia di veder sempre più screditati e

diminuiti i suoi diritti come minoranza, anche se minoranza sempre più numerosa. L’avvio di tale regolamento di conti si è avuto due anni orsono con la campagna – che ha colpito anche me per-sonalmente – contro i filosofi, nel corso della quale i giornali di regime e un commissario gover-nativo anticorruzione hanno cercato di crimina-lizzare gli intellettuali critici. Il tentativo è fallito, certamente, ma non si può dire che non sia stato efficace nel produrre molti timori.

La democrazia viene smantellata mentre si co-struisce l’autocrazia. Il fine visibilissimo di tale modo di procedere è cambiare l’élite: lo si perse-gue accentrando l’insegnamento, vessando le uni-versità e diffondendo il disprezzo verso la nostra élite, in modo che nei confronti di quella nuova non potranno essere avanzati criteri di giudizio qualitativi. Sarà sufficiente la fedeltà politica, l’acritico e ossequioso servilismo.

Nel descrivere questa guerra civile fredda si cade talora in due equivoci. Il primo di questi tinge di sé l’interpretazione che di tale stato di cose si dà in Occidente, dove qualcuno estremiz-za e vede nell’assetto pubblico oggi vigente in Un-gheria una sorta di fascismo, o almeno di fascistiz-zazione sistematica, come da ultimo è accaduto in Austria con la petizione Stiftet Aufruhr! (Suscitate

sommosse!), sottoscritta anche da Elfriede Jelinek. Il secondo equivoco si riscontra invece tra quegli interpreti ungheresi che – poiché lì ogni giorno scorre simile al precedente e non scoppia nessuna rivoluzione né sommossa, e nessuno ha mai di-chiarato lo stato d’emergenza – sono dispostissimi a vedere nel loro paese, al massimo, qua e là, qual-che errore, qualqual-che passo falso, ma assolutamente nessun cambiamento che abbia intaccato il ma. Cosicché gli intellettuali che criticano il siste-ma finiscono per essere bollati come «allarmisti professionali», e questo soprattutto in quei gior-nali governativi che hanno comprato la buona fede di quegli interpreti ungheresi criticando talu-ne «disfunzioni».

Bisogna considerare tuttavia che una «rivolu-zione» avvenuta nelle cabine elettorali, che si è conquistata il proprio straordinario mandato nelle urne, adempie bensì tale mandato – che consiste soprattutto nel compiere abusi giuridici, atti di potere incontrollato, accentramenti di potere e accumuli patrimoniali a vantaggio di un ristretto ceto medio – ma non può parlare, agire e pensare con schiettezza rivoluzionaria. E proprio per que-sto motivo è fortissima l’indolenza del regime. Il governo potrebbe compiere rivolgimenti e ristrut-turazioni radicali come, dove e quando vuole, ma incontra dappertutto la resistenza dell’ethos buro-cratico, delle strutture consolidate, dell’amore per la libertà che i cittadini nutrono, e incontra inol-tre la resistenza delle radici occidentali della cultu-ra ungherese e delle aspettative della Ue. Il gover-no gover-non può usare apertamente i metodi del «ter-rore rivoluzionario», deve invece contare sulla possibilità di «mettere paura» con le azioni o ma-gari su quell’istinto politico, più volte fossilizzato-si nella storia ungherese del XX secolo, che porta a reagire con cupa, passiva disperazione quando sembra che le cose siano immutabili. Vedremo nei prossimi dieci anni se il piano di Orbán avrà avuto successo e se l’Ungheria si rivelerà ancora un lagnoso sistema di provincia, infelice, riprove-vole e autocratico analogamente a quanto le è ac-caduto di essere, perlopiù, nei lunghi decenni del XX secolo.

Testo letto da Sándor Radnótiil 25 aprile 2013 a Vienna a

una riunione del Pen Club internazionale per descrivere la

si-tuazione ungherese. Traduzione di Alberto Scarponi.

La guerra civile fredda

La criminalizzazione delle minoranze

Sándor Radnóti

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UNGHERIA INFELIX

Osservatore tra i più lucidi della situazione del proprio paese, il filosofo ungherese Gáspár Miklós Tamás scrisse questo saggio nel 2000, al tempo del primo governo Orbán – con notevole anticipo dunque rispetto alla cosiddetta «rivoluzione nelle cabine elettorali». Pubblicato nell’estate di quello stesso anno sulla «Boston Review», a distanza di tempo l’articolo non sembra aver perso validità, anzi, retrospettivamente si direbbe quasi che nella sua vis polemica fosse contenuta una vaga sfumatura profetica. Lo riproponiamo qui in forma abbreviata, come (in)attuale spunto di riflessione su temi certamente non limitati alla sola Ungheria. (V.P.)

Lo ammetto: non sono un osservatore disinteres-sato. Il governo del mio paese – l’Ungheria – in-sieme al Consiglio provinciale della Baviera (pro-vinciale in più di un senso) è il più fervido soste-nitore dell’Austria di Jörg Haider. A Budapest l’esecutivo di destra, tra le molte altre nefandezze, sta tentando di limitare i poteri del Parlamento, penalizzando le amministrazioni locali che non siano del suo stesso colore, creando e imponendo una nuova ideologia di Stato con l’aiuto di un manipolo di lumpen-intellettuali, alcuni dei quali dichiaratamente neonazisti. Inoltre è in combutta con un partito fascista apertamente antisemita che – ahimè! – siede in Parlamento. Collaborato-ri del pCollaborato-rimo ministro, in maniera più o meno cauta, avanzano posizioni revisioniste sulla Shoah. La televisione di Stato controllata dal governo dà la stura a rigurgiti antirom. I tifosi della squadra di calcio più amata del paese, con un presidente che è insieme ministro e leader di partito, canta-no in coro che i treni per Auschwitz socanta-no sempre pronti a partire. [...]

Il fenomeno che chiamo «postfascismo» non è circoscritto alla sola Europa centrale. Tutt’altro. Germania, Austria e Ungheria hanno certamente un peso importante, per ragioni storiche più che evidenti. Frasi comuni, se ripetute qui, assumono un’altra eco. Di recente ho visto demolire la vec-chia fabbrica di mattoni nel terzo distretto di Bu-dapest. Mi hanno detto che al suo posto sorgerà un quartiere residenziale «chiuso» di ville. La fab-brica di mattoni è il luogo in cui gli ebrei di Bu-dapest attendevano di essere deportati nei campi di concentramento. È come se si costruisse un vil-laggio vacanze a Treblinka. In questa parte del mondo la nostra vigilanza è più necessaria che al-trove, dal momento che storicamente non possia-mo considerarci innocenti.

Il postfascismo è un insieme di politiche, pra-tiche, consuetudini e ideologie riscontrabile ovunque nel mondo contemporaneo; ma, tranne che nell’Europa centrale, ha poco a che vedere con l’eredità nazifascista; non è totalitario, non è affatto rivoluzionario, non si basa su movimenti di massa violenti o su filosofie volontariste e irra-zionaliste, non si trastulla nemmeno per un istan-te con posizioni anticapitalisistan-te.

Ma allora perché chiamare postfascismo un fenomeno simile? Il postfascismo ha trovato con facilità una nicchia nel mondo nuovo del capita-lismo globale senza stravolgere le forme politiche dominanti, ossia la democrazia elettorale e il go-verno rappresentativo. E sta realizzando ciò che considero centrale in tutte le forme di fascismo, compresa la sua variante postotalitaria. Sans Fü-hrer, sans monopartitismo, sans SA o SS, il postfa-scismo inverte la tendenza illuminista ad

assimila-re il diritto di cittadinanza alla condizione umana.

In epoca preilluminista la cittadinanza era un privilegio, uno status circoscritto da stirpe, classe, razza, fede, appartenenza di genere, morale, pro-fessione, appoggi, volontà amministrativa, per non parlare dell’istruzione o dell’età. [...] Ma da quando il diritto di cittadinanza fu identificato con la dignità umana, la sua estensione a tutte le classi, razze, professioni, fedi, posizioni, nonché a entrambi i sessi, parve solo una questione di tempo, insieme a ciò che ne conseguiva (suffragio universale, servizio di leva, istruzione statale per tutti). Inoltre, poiché ogni essere umano era rite-nuto in grado di assurgere al rango di cittadino, la

solidarietà nazionale all’interno della nuova co-munità egualitaria cominciò a richiedere un soste-gno attivo alla condizione umana, un’esistenza di-gnitosa per tutti e lo sradicamento di ogni residuo di schiavitù personale. [...]

Tale avventura ha termine con la tragedia del 1914. Il fascismo ha offerto la risposta più decisa alla crisi dell’illuminismo e, soprattutto, al collas-so del collas-socialismo democratico e del riformismo progressivo. Benché controrivoluzionario, il fasci-smo nel suo complesso non era un fenomeno conservatore; malgrado una certa verbosità ro-mantico-reazionaria, non mirava al ripristino del-l’aristocrazia ereditaria o della monarchia. Tutta-via riuscì a minare la nozione chiave che regolava la società moderna, ossia l’universalità del diritto di cittadinanza. Fino ad allora si credeva che i go-verni dovessero rappresentare e proteggere tutti i cittadini. I confini statali o nazionali stabilivano la differenza tra amici e nemici; gli stranieri poteva-no essere nemici, i compatrioti poteva-no. Con buona pace di Carl Schmitt (teorico legale del fascismo, nonché ideologo del Terzo Reich), il sovrano non poteva decidere con un atto di arbitrio chi fosse amico o nemico. Tuttavia Schmitt aveva ragione su un punto fondamentale: nel diritto di cittadi-nanza universale è implicita una contraddizione interna, nel senso che l’istituzione dominante della società moderna, lo Stato-nazione, è una struttura al tempo stesso universalistica e parroc-chiale, in quanto definita dal territorio. A diffe-renza dell’etnicismo o del fascismo, il nazionali-smo liberale è una forma limitata o, se si preferi-sce, temperata di universalismo. Il fascismo ha messo fine a questo tergiversare: il sovrano diven-ta giudice dell’appartenenza o non-appartenenza alla comunità civica e il diritto di cittadinanza una funzione dei suoi decreti imperscrutabili.

Tale ostilità al diritto universale di cittadinan-za costituisce, secondo me, la caratteristica fonda-mentale del fascismo. E il rigetto di un universa-lismo pur moderato è ciò che vediamo ripetersi ora in un contesto democratico (non direi nemmeno travestito da democrazia). Il fascismo post -totalitario si trova perfettamente a proprio agio nel confortevole carapace del capitalismo globale. C’è una logica nella mentalità nazista secondo cui i comunisti, gli ebrei, gli omosessuali e i mala-ti di mente non erano cittadini e, pertanto, nem-meno uomini. […] Per come li vedeva il nazismo,

questi individui rappresentavano categorie crucia-li nel progetto di inclusione perseguito dall’illu-minismo: i comunisti in quanto incarnazione del «tipo basso», del ribelle sradicato che l’universali-smo trascinava con sé, affinché si rivoltasse contro la gerarchia naturale; gli ebrei come comunità so-pravvissuta al medioevo cristiano senza un pro-prio Stato, tenuta insieme da un’autorità essen-zialmente non coercitiva, il popolo del Libro, dunque per definizione non un popolo della guerra; gli omosessuali, con la loro incapacità o indisponibilità a procreare e perpetuare la stirpe, negazione vivente dell’ipotetico legame tra natura e storia; i malati di mente in grado di percepire voci ignote al resto dell’umanità – in altre parole, persone il cui riconoscimento implica uno sforzo morale e non è immediato («naturale»); persone che possono essere accettate solo qualora venga promulgata l’eguaglianza del non-eguale.

Ovviamente, la pericolosa differenza tra citta-dini e non-cittacitta-dini non è un’invenzione fascista. Come ha affermato Michael Mann in uno studio pionieristico, l’espressione classica «We the Peo-ple» non includeva gli schiavi neri o i «pellerossa» (i nativi); inoltre definire il «popolo» sulla base di considerazioni etniche, regionali, di classe o di de-nominazione ha condotto a genocidi sia «altrove» (nelle colonie), sia all’interno degli Stati-nazione (si pensi allo sterminio degli armeni condotto dai nazionalisti turchi fautori della modernizzazione). Se il popolo è investito della sovranità, la defini-zione territoriale o demografica di che cosa e di chi sia il popolo diventa decisiva. Inoltre la dele-gittimazione degli Stati socialisti (comunisti) e dei regimi rivoluzionari nazionalisti del cosiddetto terzo mondo, insieme alle loro definizioni pseu-doilluministe di nazione, ha fatto sì che la forma-zione di Stati potesse essere rivendicata solo su basi etniche, razziali, confessionali o di denomi-nazione (vedi ex Jugoslavia, Cecoslovacchia, ex Urss, Etiopia-Eritrea, Sudan ecc.). […]

Il tentativo più profondo di analizzare il feno-meno dell’esclusione politica è quello intrapreso da Georges Bataille in La struttura psicologica del

fascismo, opera fondata sulla distinzione proposta

dall’autore tra omogeneo ed eterogeneo. Sempli-ficando, le società omogenee sono basate sul lavo-ro, lo scambio, l’utile, la repressione sessuale, la correttezza, la tranquillità, la procreazione; ciò che è eterogeneo invece racchiude l’insieme dei

risul-tati della dépense improduttiva (le cose sacre sono una parte di questo insieme), vale a dire tutto ciò che la società omogenea respinge da sé, vuoi come scarto, come residuo, vuoi come superiore valore trascendente. Include i prodotti di scarto del corpo umano e altre materie analoghe; […] parti del corpo, persone, parole o atti dotati di un valo-re erotico suggestivo; processi inconsci quali il sogno e la nevrosi; i numerosi elementi o forme sociali che la parte omogenea è impossibilitata ad assimilare: i folli, le classi guerriere aristocratiche o miserabili, i differenti tipi di individui violenti o che quanto meno rifiutano le regole (folli, sobilla-tori, poeti ecc.). [...] Gli elementi eterogenei sono caratterizzati in vario grado da violenza,

dismisu-ra, delirio, follia. [...] Rispetto alla vita quotidiana

l’esistenza eterogenea può essere definita come

altra, incommensurabile, attribuendo a queste

pa-role il valore positivo che hanno nell’esperienza

af-fettiva.

Essere cittadino di uno Stato-nazione efficien-te è l’unico buono pasto sicuro nel mondo con-temporaneo. Ma al giorno d’oggi si tratta di un privilegio riservato a pochissimi. L’assimilazione illuminista della cittadinanza alla condizione poli-tica necessaria e «naturale» di tutti gli esseri umani ha subito un ribaltamento. Un tempo la cittadi-nanza era un privilegio all’interno delle nazioni. Oggi è un privilegio per la maggior parte delle per-sone in alcuni paesi. La cittadinanza è diventata privilegio esclusivo degli abitanti dei fiorenti Stati-nazione capitalisti, mentre gran parte della popolazione mondiale non può nemmeno aspira-re alla condizione di cittadino, avendo perso – come se non bastasse – anche la sicurezza relativa offerta da strutture prestatali (tribù, legami di pa-rentela).

La scissione tra cittadinanza e umanità subpo-litica è attualmente irreversibile, così come il pro-getto illuminista è stato infranto per sempre. Per mettere a morte i non-cittadini il postfascismo non ha bisogno di caricarli su un carro bestiame; basta impedire loro di salire su un qualsiasi treno diretto verso i paesi felici in cui vorrebbero cerca-re la felicità, quelli dove i bidoni dell’immondizia traboccano.

Traduzione dall’inglese di Valentina Parisi

Sul postfascismo

L’attentato alla cittadinanza

Gáspár Miklós Tamás

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UNGHERIA INFELIX

alfabeta

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«Ameremo anche le storie inventate, dal momento che le cose accadranno realmente.» (László Hekerle, 1985)

Nel 2008 László Krasznahorkai pubblica Seiobo

járt odalent (Seiobo è passato di lì), romanzo che

circola in Germania dal 2010 e che negli Stati Uniti è oggetto di interesse di molte testate lette-rarie online. Da poco entrato nel contesto italia-no con il terzo volume della sua «trilogia unghe-rese» pubblicata nel 1985-1989, Melancolia della

resistenza (1989; trad. it. Zandonai, 2013),

Krasz-nahorkai propone in Seiobo la prosecuzione dei tre romanzi «asiatici» del periodo 1992-2004 che, a partire dal 1990, lo coinvolgono sempre più in-timamente nella realtà cinese, giapponese e asiati-ca in generale. Qui si tratta di una sintesi, di una presa d’atto della situazione dell’arte nel mondo che lo scrittore riesce a percepire nei termini, in-trodotti qui per ipotesi, di un peculiare realismo

sensista, di carattere radicale anzitutto per le sue

implicazioni etico-linguistiche. Sedici dei dicias-sette racconti attraversano l’intero spazio artistico del mondo fermando lo sguardo su «nodi» che percepiamo «naturalmente» come tali – dalle ma-schere noh giapponesi alle antiche icone russe, al Rinascimento italiano, alla musica barocca, ai musei e all’arte che i musei non accolgono – e si costituiscono in una struttura che ci induce a una riflessione sempre più complessa sul piano tema-tico (in effetti i racconti sono numerati secondo la progressione di Fibonacci) e, sul piano linguistico, sempre particolarmente impegnativa per via so-prattutto della lunghezza delle frasi.

Il primo dei diciassette racconti, con la figura di un tipico volatile rapace della regione di Kyoto, propone la metafora dell’opera d’arte e dell’arte in generale nel pensiero di Krasznahor-kai: «Lì, immobile, il corpo proteso, attende la preda della giornata per lunghi, interminabili mi-nuti che a un certo punto si tramutano in bloc-chi temporali di dieci, poi di trenta minuti, tempi terribilmente lunghi se, come è, sono de-dicati all’attesa, all’attenzione, all’immobilità, mentre per l’appunto sta sempre fermo, sta lì esattamente come prima, nella stessa identica po-sizione, senza che si muova una sola piuma, sta lì, curvo in avanti, con il becco fortemente angola-to sopra lo specchio dell’acqua che scorre lascian-dosi dietro un po’ di eco, nessuno lo guarda, nes-suno lo vede, e se ora è così, sarà, diciamo, sem-pre così, resterà occultata per semsem-pre l’indicibile bellezza del suo portamento e non verrà mai av-vertito il fascino straordinario della sua immobi-lità regale, così come infine svanirà qui, in mezzo al Kamo, nell’immobilità e nella tensione irradia-ta da questo grande colore bianco come la neve, e prima ancora di divenire oggetto di percezione, o di testimonianza che è lui ad attribuire senso a tutto quanto lo circonda, al convulso turbinio del mondo, alla secca e vibrante calura, al frene-tico agitarsi di suoni, odori e immagini, perché è in lui che questo paesaggio si manifesta come un caso straordinariamente peculiare, e perché è in lui che la veduta di quel paesaggio trova il pro-prio, irrevocabile autore, il quale, sul terreno di un’estetica dell’immobilità perfetta, porta a com-pimento artistico l’attenzione totale, andando quindi oltre tutto ciò che per suo tramite ha ac-quisito senso, oltre lo scatenato insieme delle cose che gli sono attorno, arriva a porre il suo essere bello al di sopra della ragione del luogo, pur così pervasiva, e anche della ragione ambientale della propria attività, introducendo quindi un mo-mento di distacco dalle finalità: in effetti, a che serve la sua bellezza? è un volatile bianco, è lì, teso a seguire la corrente del fiume, il Kamo, aspetta che sotto la superficie dell’acqua final-mente appaia quel che lui, con il suo becco pre-ciso ed efferato, risoluto trafiggerà» (traduzione mia).

L’attenzione totale è la categoria che fa da ponte per Krasznahorkai, per un verso, per colle-gare l’esperienza esistenziale del socialismo reale con quella della «globalizzazione» o, in altre paro-le, con quella di una particolare accezione del concetto di «fine della storia» (dei sistemi chiusi, in tutti i campi delle attività umane) e, per l’altro verso, per riconnettere il lavoro artistico-lettera-rio con la storia, per così dire appena iniziata, in termini di cultura del presente («l’arte non parla mai del passato, al massimo lo prende come tema», ricordava Péter Esterházy nella laudatio per il Premio Nobel 2002 a Imre Kertész) e di

at-tenzione totale alle condizioni della possibilità di

intimità e immanenza, di familiarità e memoria, di discorso e vuoto, di senso e silenzio (ecc.). Il punto è dunque duplice e, in effetti, come tale viene accolto da quasi tutta la letteratura unghe-rese attuale, dai classici viventi, negli anni Settan-ta e OtSettan-tanSettan-ta diffusamente insofferenti per la mancanza di padri, e dagli attuali figli i quali, come fenomeno degli ultimi anni, con i loro padri intrattengono un intenso colloquio (anche) sulla scena letteraria pubblica, compresi sia i ver-santi istituzionali che quelli social.

Elaborare oggi, con i mezzi della cultura e della letteratura, la «fine della storia» in relazione all’esperienza del socialismo reale implica una sorta di «bonifica» dello spazio linguistico, lette-rario e genericamente culturale, dalla «melma la-sciata dalla dittatura». Il termine è di Péter Ester-házy che nel 1993, con il racconto-saggio Vita e

letteratura, volle entrare in dialogo con un

rac-conto di Imre Kertész intitolato Verbale. La su-perficie mostra un viaggio all’estero, vicissitudini con la dogana, disagio di un intellettuale distrat-to. Il narratore ci propone un itinerario che con-clude con la formalizzazione letteraria, nei ter-mini di una estrema densità simbolica, del feno-meno culturale della paura, della sua rigenera-zione incontrollata, del suo superamento nello spazio della lingua laddove essa, nel lavoro di creazione del testo letterario e nella lettura

lette-raria, si presenta come processo di produzione di

uno specifico senso letterario: la percezione della paura nella sua complessità individuale e inter-personale, nella sua genesi ideologica, nella sua infondatezza oggettiva e contemporanea fonda-tezza sul piano delle consuetudini storico-sociali e culturali.

Kertész aveva piena consapevolezza della que-stione, e infatti annotava nel 1992: «Il mio pen-siero si è deteriorato per influenza dei maestri del pensiero e delle ideologie. Voltare le spalle alla storia per muoversi verso le condizioni di possi-bilità di una formalizzazione letteraria risolutiva». Risale al 1990 anche un’altra presa di posizione emblematica che riguarda la melma. Endre

Ku-korelly, poeta postmoderno, propose la «bonifi-ca» di alcune categorie centrali della politica cul-turale del socialismo reale (tra cui «servire», «mis-sione», «mestiere Essere») e puntualizzò che, «in grazia di certi metodi, da certi materiali (per esempio la lingua) vengono creati adeguati mec-canismi in cui l’essere per così dire si riconosce. Gli esistenti si riconoscono in essi. È un servizio, anche se nient’affatto su commissione» (Napos te-rület, Pesti Szalon; traduzione mia).

Le prospettive delineate da Kukorelly non si sono consolidate, e anzi si è progressivamente confermata la presenza di una questione lingui-stica. È János Kis, un filosofo di Budapest che si definisce liberale, a fare chiarezza sulla vicenda (2013): nel 1989 la società politica ungherese non ha saputo «bonificare» il proprio patrimonio politico-linguistico, mantenendo in uso (i partiti di sinistra) in maniera completamente acritica l’eredità del socialismo reale del 1945-1990 e re-stituendo all’uso l’eredità del sistema politico del periodo del nazionalismo conservatore del 1920-1945 (i partiti di destra). Nessuna nuova sintassi, nessuna condivisione linguistica tra le parti del-l’agorà politica, nessuna lingua deldel-l’agorà ca. Al di là delle implicazioni prettamente politi-che, qui ci interessa la posizione emblematica espressa da un sociologo della cultura e della co-municazione, Tibor Bárány: «La politica è trop-po imtrop-portante per essere discussa soltanto nella lingua dei politici». La realtà dei fatti informa di un ecosistema culturale ungherese che tutt’oggi risente dell’assenza di dialogo condotto a partire dalla pienezza linguistica.

Eppure la prima presenza della postmoderni-tà nella politica (1953-1956) dell’Europa dell’Est nel secondo dopoguerra si sviluppò in Ungheria. Sono anni fondamentali per la riconquista del rapporto con la realtà «oggettiva», su tutti i piani. Qui interessa l’anno 1975, quando, alcuni mesi dopo aver pubblicato a Budapest Essere senza

de-stino (che gli varrà il Nobel per la letteratura),

Imre Kertész fa il punto della situazione della scrittura letteraria: «La prosa nuova ha fatto una grande scoperta. Estromettendo l’uomo dal cen-tro delle cose, ha cambiato la qualità del roman-zo, e anche della poesia: ora ambedue si sono tra-sformati in puro testo, privo di soggettività, in piena analogia con quanto è accaduto all’indivi-duo che, ad opera del mondo oggettivo e delle sue strutture di potere, si è disgregato e ridotto a puri impulsi» (Diario dalla galera, trad. it. di A. Melazzini, Bompiani, 2009). L’esperienza del-l’Olocausto, che Kertész ha vissuto a quindici anni, viene da lui trasposta, con vent’anni di la-voro «radicale», in un «puro testo» in cui storia e individuo, per l’appunto, appaiono nelle sem-bianze del noir e della traccia o dell’indizio di una

soggettività spogliata da ogni essenza, identità o radice.

Kertész – come Sándor Márai, Ágota Kristóf, Miklós Mészöly, Ágnes Nemes Nagy o Magda Szabó, per citare alcuni degli scrittori dentro e fuori dell’Ungheria – ha stimolato la formazione della postmodernità letteraria ungherese (la poe-tessa Nemes Nagy, nel tentativo di ricollegarsi alla grande generazione dell’inizio del Novecen-to, ha dedicato molta attenzione alla «tenuta mo-rale del letterato»). Lo specifico carattere lingui-stico-etico della scrittura postmoderna ungherese viene rintracciato nelle opere di Péter Nádas, Péter Esterházy e György Spiró, recentemente diffuse in traduzione italiana e ampiamente pre-sentate da Alberto Scarponi sulle pagine della ri-vista «Le Reti di Dedalus».

Sátántangó (Il tango di Satana, 1985) è

inve-ce la prima delle tre maggiori opere «ungheresi» di Krasznahorkai, non ancora tradotta in italia-no. Il mondo qui è abitato da «prigionieri ammu-toliti e senza tracce», sottomessi a un terrificante «ordine di Satana che si decompone e si rigenera continuamente». Un Profeta che annuncia l’as-senza di Dio, un Dottore che sceglie di annotare i dati della percezione per evitare l’oblio, assenza di significato, vuoto esistenziale, immaginazione falsa e falsificante, sensazioni prive di appiglio, una realtà che si rivela come pura e semplice trap-pola. Anche la seconda opera di Krasznahorkai informa su apocalissi e disagio umano: «Sospettò di un dio indifferente e nemico che dà solamen-te forma all’inaccessibilità e inesorabilità di un mondo che ordina se stesso; così non aveva paura di essere soffocato poi dal rimorso, dal senso di colpa o dal dolore corrosivo dello sbigottimento, dal mugolio pietoso che colpisce duramente, per-ché era incapace di rimettere a posto quello che aveva fatto: ogni ribellione sarebbe stata vana, dal momento che si può debellare solo ciò che è comprensibile» (trad. it. di Fumagalli).

Péter Nádas, osservando il lavoro letterario di Kertész, rileva un dato molto interessante: l’ana-lisi filosofica, che per Kertész costituisce un mo-mento centrale e che, in teoria, non sarebbe lega-ta alla lingua ungherese – una lingua di fatto sprovvista di una propria filosofia e non abituata e poco disponibile a ragionamenti filosofici –, non subisce affatto freni o danni a causa della ge-nerale assenza nell’ungherese di contenuti con-cettuali «stabili» ovvero, per l’appunto, di conte-nuti derivanti da analisi filosofiche e a esse anco-rati. Al contrario, l’apparente difetto si rovescia in vantaggio. Secondo Nádas, è la struttura della frase ungherese, priva di determinazioni e quindi totalmente malleabile, che «abilita» la lingua di Kertész a una intuizione/visione «spassionata», distaccata, quindi oggettiva. Sostiene Nádas: «La frase di Kertész, nell’interruzione che separa due sensazioni cariche di luoghi comuni con un bat-ter di ciglia quasi impercettibile, prende atto di ciò che è ed è sconfortante. Il senso della realtà proprio della lingua ungherese con Kertész riceve una nuova qualità» («Kertész munkája és a témá-ja», in Hátországi napló, Jelenkor, Pécs, 2006; tra-duzione mia).

Questa breve analisi di Nádas è una sorta di indizio per immaginare che la via di Krasznahor-kai al radicalismo nell’osservazione, all’attenzione totale e al realismo sensista va di pari passo con la via parallela dei giovani scrittori e critici venti-quarantenni (Virág Erdös, Krisztina Tóth, Dá-niel Varró, Péter Závada, per ricordarne solo alcuni) i quali sono impegnati nel sociale, nella pie -nezza della lingua, nell’attenzione a tutte le forme ed espressioni letterarie che fanno emergere nuove realtà e individualità. Ridiscutono limiti e confini.

L’attenzione totale

Voci dalla postmodernità ungherese

Beatrice Töttössy

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L e es p e-ri en ze e xt ra co rp o re e ch e av ve n go n o , p er e se m p io , d u ra n te g li a tt ac ch i ep il et ti ci o , p re ss o a lc u n i in d iv id u i, a n ch e sp o n ta n ea m en te , su gg er is co n o c h e as p et ti d i q u es ta a u to co sc ie n za c o rp o re a si p o ss o n o d i fa tt o s ca rd in ar e. A n il A n an th as w am y, H ea rt be at U se d to G en er at e O u t-of -B od y E xp er ie n ce , in « N ew S ci en ti st », 1 3 g iu gn o 2 0 1 3 ( a p ro p o si to d i u n e sp er im en to co n d o tt o d a Ja n e A sp el l e L u ka s H ey d ri ch d el S w is s F ed er al I n st it u te o f T ec h n o lo gy d i L o sa n n a) F il o so fi N o i fi lo so fi s ia m o s p ec ia li st i d el l’e rr o re . M en tr e le a lt re d is ci p li n e si s p ec ia li zz a-n o n el t ro va re l e ri sp o st e gi u st e a d o m an d e sp ec if ic h e, n o i fi lo so fi c i sp ec ia li z-zi am o i n t u tt i i m o d i p o ss ib il i p er m is ch ia re l e co se i n m o d o co sì s b ag li at o c h e al la f in e n es su n o è p iù s ic u ro d i q u al i si an o l e d o m an d e gi u st e, p er n o n p ar la re d el le r is p o st e. F ac en d o l e d o m an d e sb ag li at e si r is ch ia d i fa r p ar ti re q u al si as i in -d ag in e co n i l p ie d e sb ag li at o. E , q u an d o c iò a cc ad e, è p ro p ri o p an e p er i d en ti d ei f il o so fi ! D an ie l D en n et t, I n tu it io n P u m ps a n d O th er T oo ls f or T hi n ki n g, N o rt o n , 2 0 1 3 In ge gn er i V iv ev a u n s ig n o re a l m o n d o : / n é ra gi o n ie re , n é sp az zi n o , / co sì , u n n es su n o , u n p o’ o rb o , / u n i n ge gn er in o / i n u n a ci tt ad in a b ru tt a ch e / co m in ci av a co n l a le tt er a E . D a u n a p o es ia s en za t it o lo d i B o ri s R yž ij , ci ta ta n el la r ac co lt a L o sp et ta co lo d el la m em or ia . Sa gg i e ri co rd i d i A n n el is a A ll ev a, Q u o d li b et , 2 0 1 3 L et to ri L’ am b ig u it à è p er v o i fo n te d i d is tu rb o ? Si t ra tt a in e ff et ti d i u n a co n d iz io n e co -m u n e e tu tt av ia f o rt em en te p ro b le m at ic a: i l d es id er io d i el im in ar e q u es ta s en -sa zi o n e d i d is ag io p u ò i n fa tt i p o rt ar e a gi u d iz i av ve n ta ti , a u n p en si er o r ig id o e a d ec is io n i sb ag li at e. F o rt u n at am en te u n a n u ov a ri ce rc a su gg er is ce u n s em p li ce an ti d o to p er q u es to p ro b le m a: l eg ge re p iù n ar ra ti va . T re s tu d io si d el l’U n iv er si -tà d i T o ro n to , gu id at i d al la p si co lo ga M aj a D ji ki c, ri fe ri sc o n o c h e ch i h a ap p e-n a le tt o u n r ac co n to m o st ra u n m in o re b is o gn o d i q u el la c h e vi en e d ef in it a «c h iu su ra c o gn it iv a» . R is p et to a d a lt re p er so n e ch e h an n o a p p en a le tt o u n s ag -gi o , q u es ti l et to ri e sp ri m o n o u n a m ag gi o re c ap ac it à d i af fr o n ta re i l d is o rd in e e l’i n ce rt ez za , e h an n o a tt eg gi am en ti c h e co n se n to n o u n p en si er o p la st ic o e m ag -gi o re c re at iv it à. [ … ] C h i le gg e n ar ra ti va , n o ta n o g li a u to ri d el la r ic er ca , p u ò s i-m u la re i l m o d o d i p en sa re a n ch e d i p er so n e ch e n o n g li p ia cc io n o , p u ò r if le tt e-re e p er fi n o p ro va re l e em o zi o n i d el l’H u m b er t H u m b er t d i L ol it a, i n d ip en d en -te m en te d a q u an to t ro vi o ff en si vo i l p er so n ag gi o. Q u es to d o p p io m ov im en to , q u es to p en sa re g li a vv en im en ti s en za p re o cc u p az io n i d i n ec es si tà e d i p er m a-n en za e , al t em p o s te ss o , in m o d i d iv er si d al p ro p ri o , p u ò p ro d u rr e u n e ff et to d i gr an d e ap er tu ra m en ta le . T o m J ac o b s, W an t to L ea rn H ow t o T hi n k? R ea d F ic ti on , in « P ac if ic S ta n d ar d », 1 2 g iu gn o 2 0 1 3 N o n l et to ri E cc o u n c o n si gl io p er i b ib li o fi li a ll e p re se c o n t o rr eg gi an ti p il e d i li b ri e s en za il t em p o p er l eg ge rl i: n o n l eg ge te li . In fi la te li i n ve ce n el p ro gr am m a d i u n c o m -p u te r e fa te g ra fi ci , m ap p e e sc h em i: è i l m o d o m ig li o re p er d o m in ar e i te rr it o -ri s co n fi n at i d el la l et te ra tu ra . Q u es to , p er l o m en o , è il p u n to d i vi st a d i F ra n -co M o re tt i, s es sa n ta tr ee n n e d o ce n te d i in gl es e a St an fo rd e l ea d er u ff ic io so d i u n a b an d a d i ac ca d em ic i d ec is i a p o rt ar e il b ri vi d o d el la n ar ra ti va f an ta sc ie n ti -fi ca n el la s ci en za d el la n ar ra ti va . [… ] M at th ew J o ck er s h a tr as co rs o p iù d i u n d ec en n io [ co n M o re tt i] a S ta n fo rd , p ri m a d i tr as fe ri rs i l’a n n o s co rs o a L in co ln , al l’U n iv er si tà d el N eb ra sk a. J o ck er s p u ò v an ta rs i d i es se re s ta to i l p ri m o d o ce n -te d i in gl es e ad a ve re a ss eg n at o 1 2 0 0 t it o li a u n a cl as se d i st u d en ti . «F o rt u n at a-m en te p er l o ro , n o n h an n o d ov u to l eg ge rl i» , d ic e. Jo h n S u n ye r, B ig D at a M ee ts t he B ar d, in « F in an ci al T im es », 1 5 g iu gn o 2 0 1 3 O rd in e D is o rd in e ri m es so i n o rd in e, o rd in e ch e sv an is ce i n d is o rd in e; r az io n al it à ro ve -sc ia ta d al l’i rr az io n al e, r az io n al it à re st au ra ta a s eg u it o d i sc o n vo lg im en ti i rr az io -n al i: e cc o , in s in te si , l’i d eo lo gi a d el r o m an zo p o li zi es co . E rn es t M an d el , Il r om an zo p ol iz ie sc o. U n a st or ia s oc ia le , E d iz io n i A le gr e, 2 0 1 3 P ar o le c ro ci at e E p o i c’ er a lo s ci o gl il in gi a im p o ss ib il e d ei m al at i e d ei m ed ic i, c h e ri u n iv a p a-ro le c o m e b en zo d ia ze p in a, d ia ze p am , n eu ro le tt ic o , ip n o ti co , zo lp id em , an si o li -ti co , al p ra zo la m , n ar co ti co , an ti ep il et ti co , an ti st am in ic o , cl o n az ep am , b ar b it u -ri co , lo ra ze p am , tr ia zo lo b en zo d ia ze p in a, e sc it al o p ra m : tu tt e vo ci d el le p ar o le cr o ci at e d i u n a te st a ch e si r if iu ta d i fu n zi o n ar e. P at ri ci o P ro n , L o sp ir it o de i m ie i pa dr i si i n n al za n el la p io gg ia , G u an d a, 2 0 1 3 R ec o rd Il 1 ° gi u gn o 2 0 1 3 c ’e ra n o i n F ra n ci a 6 7 .9 7 7 d et en u ti c o n tr o 5 7 .3 2 5 p o st i ef fe t-ti vi n el le c ar ce ri : la c if ra , ac ce rt at a d a «L ib ér at io n », è s ta ta c o n fe rm at a d al l’a m -m in is tr az io n e p en it en zi ar ia . C o n q u es to d at o s i re gi st ra u n a u m en to d el l’1 ,6 p er c en to r is p et to a l 1 ° gi u gn o 2 0 1 2 e u n r ec o rd s to ri co : il s o lo p er io d o i n c u i le c o se s ia n o a n d at e p eg gi o è s ta to n el l’i m m ed ia to d o p o gu er ra , al t em p o d el le co n d an n e p er c o ll ab o ra zi o n is m o. Rec or d hi st or iq u e et n om br e de d ét en u s en F ra n ce , in « L ib ér at io n », 1 7 g iu gn o 2 0 1 3 S ch ia ve Se n o n c i fo ss e st at a la g u er ra c iv il e, f o rs e o ra f ar ei l a co n ta d in a n el m io p ae se . L e b am b in e n o n a ve va n o a cc es so a ll a sc u o la , q u in d i le o p p o rt u n it à d i la vo ro er an o s o lo q u el le d i b as si ss im o l iv el lo , se v en iv a p er m es so u n l av o ro f u o ri d al la fa m ig li a. E a n ch e d a n o i, c o m e in t an ti p ae si a fr ic an i, a l m as si m o a t re d ic i an n i le b am b in e ve n iv an o c o m u n q u e gi à d at e in s p o sa . Si d iv en ta va s ch ia ve d el m a-ri to . O m eg li o , si p as sa va d a sc h ia ve d el p ad re a s ch ia ve d el m ar it o. G u er ri gl ie -ra n el f ro n te a n ti -M en gh is tu , av ev o d ic ia n n ov e an n i e d u ra n te u n c o m b at ti -m en to s o n o r im as ta f er it a e so n o s ta ta i n vi at a al p u n to d i so cc o rs o d ei M ed ic i se n za f ro n ti er e, c h e si t ro va va i n S u d an . T es ti m o n ia n za d i A ze b, p ro p ri et ar ia d i u n n eg o zi o d i ar ti gi an at o a V as to , in Q u as i it al ia n i. S to ri e di i m m ig ra ti i m pr en di to ri d i R o m an o B en in i, D o n ze ll i, 2 0 1 3 S o ld at i L’ es er ci to v o le va c h e tu tt i fo ss er o u gu al i, i d en ti ci , in d is ti n gu ib il i: s te ss o a sp et to , st es so m o d o d i p en sa re . T u tt o d ov ev a ri m an er e u gu al e a se s te ss o g io rn o d o p o gi o rn o , se n za i l m in im o c am b ia m en to . O gn i co sa d ov ev a fo rm ar e an go li r et ti e sp ig o li v iv i. L e le n zu o la d el la b ra n d a er an o p ie ga te r ig id e co m e i b o rd i m et al li -ci d el l’a rm ad ie tt o. T i ra p av an o l a te st a co m e u n f al eg n am e av re b b e p ia ll at o u n p ez zo d i le gn o , ce rc an d o d i fa rn e u n c u b o p er fe tt o. G eo ff D ye r, N at u ra m or ta c on c u st od ia d i sa x, E in au d i, 2 0 1 3

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