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La commedia degli inganni. Processo cognitivo e registro dottrinale nel canto XXIII dell’Inferno

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Academic year: 2021

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Processo cognitivo e registro dottrinaLe

neL canto xxiii deLL’

I n ferno

Superata la difficile e pericolosa convivenza con i diavoli a guardia dei barattieri, nel canto xxiii dell’Inferno Dante e Virgilio sono costretti a

scen-dere in via eccezionale fin dentro la bolgia degli ipocriti, a causa del crollo dei ponti che in origine la collegavano alla bolgia precedente. Esattamente al centro di Malebolge, ci troviamo di fronte a una frattura che è dovuta a una delle principali manifestazioni della natura divina di Cristo, il terremo-to successivo alla sua morte, ed è per questerremo-to interpretabile come segno del-la potenza e deldel-la giustizia di Dio. Questa frattura, che il diavolo Madel-lacoda nasconde a Virgilio ingannandolo, è stata messa in relazione con la presenza tra gli ipocriti di Caifa, il sommo sacerdote responsabile della condanna di Cristo. Ma che gli effetti della rivelazione di Dio in Cristo costringano Dan-te a confrontarsi faccia a faccia con i dannati proprio nella bolgia degli ipo-criti, ha probabilmente una spiegazione di piú ampia portata. È possibile che il diverso punto di osservazione sia condizione necessaria perché Dante consegua un importante progresso nel suo viaggio di conoscenza. Dopo aver messo alla prova la sua capacità di analisi razionale, che gli permette di riconoscere per tempo il rischio di diventare preda dei diavoli, Dante pren-de piena coscienza pren-della sua distanza morale e acquisisce una maggiore pa-dronanza di sé, misurandosi da vicino con un peccato che non è solo deva-stante per la società civile, ma mina le fondamenta della cristianità.

1. Ingannatori e ingannati

Alla frattura tra le due bolge corrisponde l’inarcatura strutturale che vede l’episodio dei barattieri prolungarsi nella prima sezione del canto dedicato agli ipocriti, quasi un terzo dei versi complessivi. L’episodio dei barattieri, che occupa interamente i canti xxi e xxii ed è uno dei piú estesi dell’intera

Commedia, esige un epilogo a parte, un epilogo di riflessione che fa da ponte

ideale, a fronte dei ponti crollati, tra i due peccati e le due tappe del viaggio. L’attacco del canto xxiii stabilisce un cambiamento di passo rispetto alla rappresentazione della convivenza fraudolenta e rissosa tra i diavoli armati di uncini e i dannati immersi nella pece bollente, al contrasto tra la credulità e il parlare ornato di Virgilio e la malizia e il gergo triviale dei diavoli, al « nuovo ludo » e alla « rissa » che ne è parte, generata dalla condotta subdola

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del Navarrese che inganna il diavolo Alichino.1 Dante e Virgilio si stanno dirigendo verso il ponte che secondo le indicazioni fuorvianti di Malacoda dovrebbe loro permettere il passaggio alla sesta bolgia, ma che in realtà è crollato come gli altri. Hanno appena assistito a una scena che li ha profon-damente colpiti. La similitudine iniziale li paragona a due frati minori che camminano uno dietro l’altro in silenzio, ognuno intento nei propri pensie-ri. Dallo spettacolo della rocambolesca scena della rissa si passa alla

valuta-zione intellettiva individuale (vv. 1-3):2 Taciti, soli, sanza compagnia n’ andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via.

Il canto ha un incipit lento, che secondo Gianfranco Contini contiene il

ri-cordo di alcuni versi di una canzone di Cavalcanti, Io non pensava che lo cor giamai.3 La canzone si apre con l’immagine dello stupore dell’amante che si trova a sopportare l’inaspettata estrema sofferenza generata dall’innamora-mento e responsabile del suo annientadall’innamora-mento. Gli effetti dell’innamora-mento, dovuto alle « bellezze » dell’amata, hanno paralizzato il suo intellet-to, nonostante gli avvertimenti di Amore. Il coinvolgimento dei sensi l’ha svuotato di ogni energia vitale. L’ultima strofe descrive gli « spiriti » in fuga dal cuore mentre « vanno soli, senza compagnia e son pien’ di paura »:

Io non pensava che lo cor giammai avesse di sospir’ tormento tanto, che dell’anima mia nascesse pianto mostrando per lo viso agli occhi morte. Non sentío pace né riposo alquanto poscia ch’ Amore e madonna trovai,

1. Cfr. L. Battaglia Ricci, Canto xxiii. ‘Imagini di fuor / imagini d’entro’: nel mondo della men-zogna, in Cento canti per cento anni. ‘Inferno’, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno

Editrice, 2013, 2 tomi, to. ii pp. 740-69, a p. 753: « In realtà, se è indubbia la continuità sul piano narrativo fra il canto xxii e la prima parte di xxiii […] il “tono”, fin dalla prima terzina del canto, cambia radicalmente ».

2. Ivi, pp. 746-47, si citano in proposito i commenti trecenteschi, tra i quali quello del Buti: « consuetudine è de’ frati minori, quando vanno per cammino d’andare taciti, soli e senza compagnia, e l’uno innanzi e l’altro dietro: imperò che vanno contemplando o nelle cose di-vine o nelle scienzie, e però non sono taciti quanto alla mente, ma sí al parlare corporalmente » (Commento di Francesco da Buti sopra la ‘Divina Commedia’ di Dante Allighieri, a cura di C.

Gianni-ni, Pisa, Nistri, 1858-1862, 3 voll., vol. i p. 589).

3. G. Contini, Cavalcanti in Dante (1968), in Id., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp.

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lo qual mi disse: « Tu non camperai, ché troppo è lo valor di costei forte ». La mia virtú si partío sconsolata poi che lassò lo core

a la battaglia ove madonna è stata: la qual degli occhi suoi venne a ferire in tal guisa, ch’ Amore

ruppe tutti miei spiriti a fuggire.

Di questa donna non si può contare: ché di tante bellezze adorna vène, che mente di qua giú no la sostene sí che la veggia lo ’ntelletto nostro.

Quando ’l pensier mi vèn ch’ i’ voglia dire a gentil core de la sua vertute,

i’ trovo me di sí poca salute,

ch’ i’ non ardisco di star nel pensero.

Canzon, tu sai che de’ libri d’Amore io t’ asemplai quando madonna vidi: ora ti piaccia ch’ io di te mi fidi e vadi ’n guis’ a lei, ch’ ella t’ ascolti; e prego umilemente a lei tu guidi

li spiriti fuggiti del mio core,

che per soverchio de lo su’ valore eran distrutti, se non fosser vòlti,

e vanno soli, senza compagnia, e son pien’ di paura.

Però li mena per fidata via

e poi le di’, quando le se’ presente: « Questi sono in figura

d’ un che si more sbigottitamente ».4

Nell’attacco del canto, i versi di Cavalcanti sono rifunzionalizzati e cambiati di segno. A differenza dell’amante, che all’indomani della « battaglia » interio-re vissuta alla pinterio-resenza dell’amata non è in grado di sostenerne il pensiero, di « star nel pensero », Dante e Virgilio, dopo aver assistito allo spettacolo della « rissa », sono assorti nella meditazione e pronti a proseguire il loro viaggio.

Questo ricordo di Cavalcanti in incipit non è isolato nella Commedia. Si

pensi all’attacco di Purg., xxix (« Cantando come donna innamorata »), che

4. Si cita da Guido Cavalcanti, Rime, con le rime di Iacopo Cavalcanti, a cura di D. De

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riscrive il v. 7 della ballata-pastorella di Cavalcanti « cantava come fosse ’nna-morata ».5 Il verso assume ancora un valore opposto, perché al « boschetto » della ballata di Cavalcanti corrisponde la « divina foresta » edenica e alla « pa-sturella » che alla fine si concede, permettendo il compimento carnale dell’amore, corrisponde Matelda, il cui amore non può che identificarsi con la caritas.6

La citazione della canzone di Cavalcanti introduce il tema principale dell’epilogo e dell’intero canto, un tema filosofico complesso, il rapporto tra apparenza e realtà, l’apparenza come manto esteriore che traveste la realtà e inganna l’intelletto di chi non è sufficientemente accorto. Il tema è dispie-gato anche attraverso un pervasivo e complesso sistema di rispondenze e opposizioni, anticipazioni e riprese, reminiscenze e attualizzazioni, vero e proprio tessuto connettivo, che tiene insieme i diversi episodi – l’epilogo iniziale, la corsa precipitosa fin sul fondo della bolgia, l’incontro con gli ipo-criti, lo svelamento dell’inganno di Malacoda e la reazione di Virgilio – e garantisce la continuità con il canto precedente e quello successivo.

Nella seconda terzina, alla memoria del personaggio Dante affiora un testo letterario. Mentre cammina con Virgilio, il ricordo ancora vivo della

rissa originata dall’inganno del Navarrese gli fa venire in mente la favola

esopica del topo e della rana, che diventa oggetto di analisi (vv. 4-6). Vòlt’era in su la favola d’Isopo

lo mio pensier per la presente rissa, dov’ el parlò de la rana e del topo;

La favola narra l’inganno subito da un topo, che chiede a una rana di aiutar-lo ad attraversare il lago o fiume che interrompe il suo cammino. La rana convince il topo a legare una zampa alla sua, apparentemente per tenerlo ben saldo mentre lo trasporta sulla groppa, in realtà per poterlo affogare

5. Ivi, p. 179.

6. Un analogo riuso di luoghi cavalcantiani nell’Inferno è stato da tempo individuato in xiv,

30 « come di neve in alpe sanza vento », dove la « bianca neve » del v. 6 di Biltà di donna (« e

bianca neve scender senza venti »), funzionale alla lode dell’amata, diventa figura delle « falde di foco » che cadono sui dannati colpevoli di violenza contro Dio, tra i quali è anche « chi fa-vella spregiando Dio col cor », secondo la definizione del canto xi (si stabilisce cosí un’equiva-lenza tra la lode dell’amata e lo spregio rivolto a Dio). Di recente L. Marcozzi, Canto xvi. Dante vince la guerra della pietà, in Cento canti per cento anni, cit., to. i pp. 484-525, alle pp. 489-90,

ha individuato un’altra allusione a Cavalcanti all’inizio del canto xvi, « sotto la pioggia de l’a-spro martiro » (v. 6), che richiama i vv. 13-14 della ballata Gli occhi di quella gentil forosetta: « e

veggio piover per l’aere martiri / che struggon di dolor la mia persona » (i martiri causati

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spingendolo sott’acqua. La rana non riesce però a mettere in pratica il suo maligno proposito perché un nibbio vede dall’alto il topo affiorare sull’ac-qua e scende a ghermirlo, trascinando con sé anche la rana.

Non sappiamo quali delle versioni moraleggianti delle favole esopiche che circolavano nel Medioevo Dante conoscesse. Le raccolte piú diffuse, che dal Trecento in poi danno origine a volgarizzamenti e liberi rifacimenti, sono il Romulus di età carolingia e la sua rielaborazione in distici elegiaci

at-tribuita a Gualtiero Anglico (Liber Aesopi o Esopo latino), cui forse Dante si

riferisce nel Convivio, quando cita un « Esopo poeta » (iv 30 4-5).7 Se i tratti essenziali della storia sono gli stessi nelle due versioni, non va dimenticato che Dante richiama la favola pensando all’episodio della rissa tra Alichino e

Calcabrina,8 chiuso dall’intervento dei diavoli che li traggono fuori dal « bo-gliente stagno » con i loro uncini, e che nell’Esopo latino il nibbio rapisce la

rana e il topo mentre lottano nell’acqua di un lago (« miserumque truci rapit ungue duellum »), dettaglio che manca nella versione del Romulus, dove

l’acqua è oltretutto quella di un fiume.9

Muris iter rumpente lacu venit obvia muri

rana loquax et opem pacta nocere cupit.

7. Sul problema è tornato L. Marcozzi, Dante ed Esopo, in Dante e il mondo animale, a cura di

L.M. e G. Crimi, Roma, Carocci, 2013, pp. 131-49, alle pp. 131-37, mettendo in discussione l’i-potesi che il testo di riferimento di Dante sia la versione attribuita a Gualtiero Anglico: « Ef-fettivamente, in una situazione molto fluida e in un canone ben poco autoriale come quello della zoepica latina medievale, Gualtiero Anglico non è certo l’unico Esopo in versi o in prosa purchessia, da cui Dante possa aver tratto ispirazione, né è certo, come visto, che con “Esopo poeta” Dante faccia riferimento all’Esopo a lui attribuito » (p. 137). Cfr. anche M. Tavoni, ‘Infer-no’ xxiii. Il canto degli ipocriti, Bologna nell’aldilà, la visione come meccanismo narrativo, in Lectura Dantis Bononiensis, Bologna, Bononia University Press, vol. iv 2014, pp. 47-78, a p. 66.

8. Tra i commentatori piú antichi, Guido da Pisa stabilisce con chiarezza un’equivalenza tra il duellum della rana e del topo e la rissa tra Alichino e Calcabrina: « adhuc super illa rixa

autor aliam comparationem inducit, dicens quod ista duo vocabula, scilicet mo et issa, non plus

conveniunt in significatione, nec plus paria iudicantur, quam conveniant illa duo, scilicet rixa demonum et muris et rane duellum, si a principio usque ad finem bene et complete utraque fabula mentis oculo videatur » (Guido da Pisa, Expositiones et glose. Declaratio super ‘Comediam’ Dantis, a cura di M. Rinaldi, Appendice a cura di P. Locatin, Roma, Salerno Editrice, 2013, 2

voll., vol. ii p. 684).

9. Tavoni, ‘Inferno’ xxiii, cit., p. 72: « il “bogliente stagno” di Dante è piú vicino al “lacus”

dell’Esopo latino che al “flumen” del Romulus ». Cfr. anche la chiosa di Benvenuto da Imola:

« secundo, quia rixa inter ranam et murem fuit in lacu, et ista similiter in stagno picis » (Bene-venuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherij ‘Comoediam’, nunc primum

integre in lucem editum sumptibus G.W. Vernon, curante J.Ph. Lacaita, Florentiae, Barbèra, 1887, 5 voll., vol. ii pp. 157-58).

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Rana studet mergi, sed mus emergit et obstat naufragio: vires suggerit ipse timor.

Milvus adest miserumque truci rapit ungue duellum:

hic iacet, ambo iacent, viscera trita fluunt.10

Nella successiva terzina, Dante stabilisce un rapporto di similarità tra i sino-nimi mo e issa, cui fa corrispondere la similarità tra la favola e l’episodio della rissa (vv. 7-9):

ché piú non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa.

Il dato si scontra però con la difficoltà di individuare analogie convincenti tra i personaggi e le situazioni della favola e i personaggi e le situazioni della rissa e del suo antefatto, l’inganno del Navarrese. Non richiamo qui le

nu-merose diverse scelte combinatorie proposte sinora.11 Mi limito a notare, con Lucia Battaglia Ricci, che la difficoltà può essere superata riducendo legittimamente il confronto all’essenziale. I termini principio e fine assumono

cosí un significato filosofico, il primo indica l’origine o causa, il secondo indica la perfezione o effetto, che nella struttura della favola sono chiariti dalla premessa e dalla riflessione finale.12 Dante fa appello alla consuetudine dei lettori con la favolistica e nobilita con il ricorso al lessico filosofico i no-tabilia che normalmente aprono e chiudono il racconto.13 Al di là di questi punti fermi, Dante procede per associazioni di immagini che non fanno si-stema, non entrano in una coerente griglia di corrispondenze,14 tanto che,

10. L’ ‘Esopus’ attribuito a Gualtiero Anglico, a cura di P. Busdraghi, Genova, D.Ar.Fi.Cl.Et.,

2005, p. 50 (corsivi aggiunti).

11. Su cui si veda Tavoni, ‘Inferno’ xxiii, cit., pp. 67-68 (a p. 67 n. 31, la bibliografia specifica).

12. Battaglia Ricci, Canto xxiii, cit., pp. 747-49, anche sulla scorta di G. Padoan, Il ‘Liber Esopi’ e due episodi dell’ ‘Inferno’, in SD, vol. xli 1964, pp. 75-102, ora in Id. Il pio Enea, l’empio Ulis-se. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna, Longo, 1977, pp. 151-69, alle pp.

161-69.

13. Cfr. V. Russo, Il canto xxiii dell’ ‘Inferno’ dantesco, in Id., Esperienze e/di letture dantesche tra il 1966 e il 1970, Napoli, Liguori, 1971, pp. 9-50, alle pp. 31-32; Marcozzi, Dante ed Esopo, cit., p.

138, che usa i termini tecnici promitio ed epimitio. I termini principio e fine si trovano correlati in Conv., ii 13 26: « La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sí come tra ’l punto e lo

cerchio – e dico “cerchio” largamente ogni ritondo, o corpo o superficie –; ché, sí come dice Euclide, lo punto è principio di quella; e secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine ».

14. Cosí anche per Tavoni, ‘Inferno’ xxiii, cit., pp. 72-74, che tende a escludere la valenza

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per esempio, l’immagine del nibbio che ghermisce la rana e il topo potrebbe richiamare il momento successivo alla rissa, quando Alichino e Calcabrina

« ’mpaniati » nella pece stanno per essere soccorsi dagli altri diavoli (i diavoli volano e sono muniti di artigli;15 in modo incoerente rispetto alla situazione finale, lo stesso Alichino è paragonato a un falcone e a uno sparviero), e nello

stesso tempo anticipare l’arrivo dei diavoli « con l’ali tese per volerne pren-dere », dai quali Dante e Virgilio riusciranno a fuggire.

Il principale tratto comune alla favola e alla rissa è in effetti costituito dai

loro veri protagonisti, il topo e Alichino da un lato, le figure che subiscono l’inganno, la rana e il Navarrese dall’altro, le figure responsabili dell’ingan-no. In quest’ottica, il senso delle due vicende è lo stesso. Lo scacco subito dal topo come dal diavolo, l’uno e l’altro incapaci di cogliere la vera intenzione dei loro antagonisti, dimostra che chi non è abbastanza accorto finisce per farsi ingannare dall’apparenza. Dimostra anche che la sua sorte non è diver-sa dalla sorte di chi l’ha ingannato. Il topo è rapito dal nibbio come la rana, il diavolo Alichino finisce nella pece bollente, dove si trova il Navarrese. La realtà dell’inferno è comune a dannati e diavoli, ingannatori e ingannati, che possono considerarsi, in termini semiologici, versioni differenti di uno stes-so perstes-sonaggio, intestes-so come « combinazione di realizzazioni ».16

2. Rima aspra e sottile

L’inizio del canto xxiii è il solo luogo della Commedia in cui Dante

perso-naggio si attribuisca in modo esplicito il ricordo di un testo letterario.17 Que-sto ricordo è il punto di partenza di un complesso ragionamento,18 che

ri-comune tra la rissa e la favola, e non c’è nessuna corrispondenza completa, in tutti i dettagli (Dante non dice che ci sia), tra la rissa e la favola ».

15. Padoan, Il ‘Liber Esopi’, cit., p. 97, evidenzia l’analogia tra i diavoli e gli uccelli predatori.

16. Sulle figure dell’ingannatore/ingannato (trickster) nell’immaginario folclorico e nella

letteratura romanza medievale, si può vedere il saggio di d’A.S. Avalle, Le maschere di Gugliel-mino, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, partic. pp. 24-26, 56-60 e 85-86, dove si analizzano i

processi di sdoppiamento e digradamento, come nel caso di Herlequin « divenuto poi Helle-quin per influenza di Helle, ‘inferno’ » (p. 25), da cui Arlecchino e Alichino; a p. 136, la

defini-zione saussuriana del personaggio, da cui la citadefini-zione: « il ‘personaggio’ andrà inteso, sulle tracce di Saussure, come combinazione di realizzazioni, insomma di aspetti, funzioni, carat-teri e cosí via, concreti, comunque inquadrabili in un numero x di ‘elementi’ ».

17. Lo rileva Battaglia Ricci, Canto xxiii, cit., p. 744.

18. Ivi, p. 746: « Come perfettamente colgono i lettori trecenteschi, Dante sta qui mimando esperienze intellettuali e procedure di interpretazione di testi proprie della cultura che fu sua, che consentono di dare spessore e rilevanza gnoseologica a cose, storie, testi, utilizzandoli come specchi per il proprio vivere ».

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chiede un adeguato registro stilistico.19 Il passaggio tra la seconda e la terza terzina è brusco, il linguaggio diventa difficile, tanto che possiamo conside-rarlo un buon esempio di « rima aspra e sottile », per usare la celebre defini-zione della poesia dottrinale che Dante offre nel Convivio (iv 2 12), dove aspra

ha un significato non lontano da sottile, indica per sineddoche una poesia

impervia, che non procura piacere immediato all’ascolto, ma richiede uno sforzo di comprensione.20 Lo sforzo di comprensione richiesto al lettore è qui parallelo allo sforzo di comprensione che il personaggio Dante sta com-piendo, e che continua nelle successive terzine, dove Dante arriva alla con-clusione che i diavoli vogliano vendicarsi del danno e della beffa subiti a causa

dei due insoliti viaggiatori, cercando di acciuffarli con la stessa crudeltà con la quale il cane cerca di addentare la lepre (vv. 10-18).

E come l’un pensier de l’altro scoppia, cosí nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia. Io pensava cosí: « Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sí fatta, ch’assai credo che lor nòi. Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro piú crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa ».

La seconda e la terza terzina sono interamente costruite con rime uniche nella cantica (rima in -opo) o nel poema (rime in -issa e -oppia). È unica nel

poema anche la rima in -effa nelle terzine quinta e sesta.21 La serie s’accoppia :

scoppia : doppia richiama l’idea del parallelismo implicato dal paragone, che

continua la catena di immagini per associazione d’idee avviata dal ricordo della favola.22 Dalla prima comparazione, quella tra la favola e la rissa,

scatu-19. Su cui si sofferma Russo, Il canto xxiii dell’ ‘Inferno’, cit., pp. 29-31.

20. Cfr. Dante Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di D. De Robertis, Firenze,

Edizioni del Galluzzo, 2005, pp. 56-57; Dante Alighieri, Opere, ed. dir. da M. Santagata, vol.

ii, Convivio, Monarchia, Epistole, Ecloghe, a cura di G. Fioravanti, C. Giunta, D. Quaglioni, C.

Villa, G. Albanese, Milano, Mondadori, 2014, p. 528.

21. J.A. Scott, Canto xxiii, in Lectura Dantis Turicensis. ‘Inferno’, a cura di G. Güntert e M.

Picone, Firenze, Cesati, 2000, pp. 321-34, alle pp. 323-24.

22. Tavoni, ‘Inferno’ xxiii, cit., p. 73: « È essenziale cogliere il carattere visivo di ciò che

av-viene nel teatro della mente di Dante. Il pensare di Dante è un pensare per immagini. Dante dice pensiero, ma potrebbe dire immaginazione, quando dice pensiero nel senso di “attività del pensare” […]; e potrebbe dire immagine, quando dice pensiero nel senso di “cosa pensata” […] ».

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risce una seconda comparazione, tra la coppia costituita dai diavoli da un lato e Dante e Virgilio dall’altro, e la coppia costituita dal cane e dalla lepre. Dante e Virgilio corrono il rischio di essere raggiunti dai diavoli come una lepre rincorsa dal cane, un rischio che può essere scongiurato solo compren-dendo tempestivamente la pericolosità della situazione, superando la paura e agendo con prontezza.

Credo che nella costruzione di questi versi abbia potuto agire un’altra interferenza memoriale, che fa da controcanto alla menzione esplicita della

favola d’Isopo, a sua volta preceduta dalla citazione della canzone di

Cavalcan-ti nell’incipit. Per quanto ho potuto vedere, la rarissima rima in -oppia è

con-divisa dalla sola canzone dottrinale Ai misero tapino! di Monte Andrea,

con-servata dal canzoniere Vaticano, codice affine alle fonti dalle quali Dante leggeva la lirica italiana del Duecento.23 Nella canzone ci si prefigge di sve-lare e definire « la fine e ’l mezzo e ’l capo » (‘gli effetti, l’evoluzione e l’origi-ne’) dei « viziosi mali » che derivano dall’amore. Rispetto ai versi danteschi (« se ben s’accoppia / principio e fine »), capo sta per principio e l’ordine dei

due estremi è inverso:24

Ai misero tapino! Ora scoperchio e vòi’ cernir la fine e ’l mezzo e ’l capo

de’ vizïosi mali, ov’io li sapo,

che no stea piú ’n error la gente manca.25

Il binomio radoppia : coppia, variato e invertito in due dei tre rimanti

dante-schi (radoppia : coppia → accoppia : doppia), delimita la sirma della seconda

strofe, dove in luogo di capo è il dantesco prencipio: « Or odi, lo prencipio,

23. Torna sul problema della fisionomia delle fonti di lirica italiana che Dante aveva a di-sposizione A. Manzi, Dante e le fonti manoscritte della lirica delle Origini. Ricognizioni bibliografiche e bilancio, in « Critica letteraria », a. xli 2013, pp. 3-29; alle pp. 27-28 n. 91, ci si interroga ancora

sul silenzio di Dante rispetto ai suoi « piú illustri e immediati predecessori fiorentini », Chiaro Davanzati e Monte Andrea, che pure Dante doveva conoscere (come sostenuto da R. Anto-nelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano, in I Canzonieri della lirica italiana delle origini, vol. iv. Studi critici, a cura di L. Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo,

2001, pp. 3-23, a p. 7).

24. La condanna dell’amore è tema di altri testi prestilnovistici, a cominciare dalla canzone di Guittone O tu, de nome Amor, guerra de fatto. Cfr. R. Leporatti, Il ‘libro’ di Guittone e la ‘Vita Nova’, in « Nuova Rivista di Letteratura Italiana », a. iv 2001, pp. 41-150, alle pp. 81-83, dove si

rilevano analogie tra la canzone di Guittone e quella di Monte, anche per la condivisione dei termini principio, mezzo e fine.

25. Si cita da Monte Andrea da Fiorenza, Le rime, ed. critica a cura di F.F. Minetti,

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com’e’ frauda » (‘Ora ascolta come l’origine (dell’amore) inganna’). Vi è insita l’idea topica che l’amore è ingannevole (si ricordi lo stupore dell’a-mante nella canzone di Cavalcanti): generato dal piacere, inizialmente ap-pare benefico, ma in seguito si rivela causa di sofferenza estrema, equiva-lente di una Morte dello spirito che « tarpa » l’amante, lo immobilizza,

an-nientandolo e rendendolo « mendico di rasgional virtú » (analogamente, l’amante della canzone di Cavalcanti non è in grado di usare l’intelletto e « si more sbigottitamente »). L’amore seduce l’uomo, che diventa incapace di valutare razionalmente la realtà, come nella favola la rana seduce il topo e come nell’inferno il Navarrese seduce Alichino. Se si vuole evitare il peggio, bisogna invece fare uso del proprio intelletto per andare oltre ogni ingannevole aspetto esteriore e guardarsi da ciò che è potenzialmente no-civo.

Gente d’errore, com’è alcuno, lauda lo vizïoso Amor, cosí no·l chiamo: Morte l’apello, ch’è ’l diritto ramo, ed ancor peggio, se peggio si truova. Or odi lo prencipio com’e’ frauda:

brami e disiri con vita sí agra! Quando aver credi, alora piú magra trovi tu’ opra: quest’è prima prova! Poï, nel mezzo, tutto ’l mal radoppia.

Quando la detta Morte qui ti tarpa: prendi un disïo; poï sí ti tarpa,

di rasgional vertú fa-tti mendico;

che Dio ti spare, ëd ogne altro amico: tutti rei vizi porti teco in coppia.26

La citazione all’inizio del canto di un exemplum latino può essere letta come

l’avvio di una nobilitazione del registro retorico, linguistico e stilistico pro-prio dell’episodio dei barattieri. I personaggi della favola – la rana, il topo e il nibbio – possono essere visti come trasposizione in chiave morale delle numerose similitudini animalesche che ritraggono indifferentemente dan-nati e diavoli, prede e predatori, ingandan-nati e ingannatori della quinta bolgia, accomunati dall’indole bestiale.27 Le voci ranocchio e sorco, la prima riferita

26. Ivi, pp. 62-63 (corsivi aggiunti).

27. Approfondisce di recente il rapporto tra gli animali dell’episodio dei barattieri e la cita-zione della favola esopica Marcozzi, Dante ed Esopo, cit., pp. 143-45, a partire dalle

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genericamente ai barattieri, la seconda al Navarrese, sono varianti popolari o regionali rispetto a rana e topo (Inf., xxii 25-30, 58-60):28

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori,

sí che celano i piedi e l’altro grosso, sí stavan d’ogne parte i peccatori; ma come s’appressava Barbariccia, cosí si ritraén sotto i bollori. Tra male gatte era venuto ’l sorco;

ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: « State in là, mentr’ io lo ’nforco ».

Nella descrizione del « nuovo ludo », Alichino è paragonato a uccelli rapaci come il nibbio, un « falcone, crucciato e rotto » per aver mancato la preda, e uno « sparvier grifagno », che « artiglia » di rimando il « compagno » Calcabri-na. Le rime rare e il lessico specifico e quotidiano, che contribuiscono al realismo della scena, diventano funzionali a un contenuto e a un clima di tutt’altro tenore.29 Dante attua una tecnica di riconversione che evidenzia la distanza tra l’irrazionalità rissosa dei diavoli e la prudenza solidale di Dante e Virgilio. La rara rima in -uffa, nelle terzine che descrivono il momento in

cui il Navarrese mette a segno il suo inganno sfuggendo al diavolo Alichino, può dirsi variata nella rima unica in -effa situata nel monologo mentale che

porta Dante a rendersi conto della pericolosità dei diavoli. Alichino è sprov-veduto, Dante è invece accorto. Si noti che i rimanti « beffa« , « s’aggueffa » e « acceffa » incentivano la nutrita serie di hapax dell’episodio dei barattieri,30 e che « buffa » sta a « beffa » come « s’attuffa » sta a « s’aggueffa » (s’attuffa : buffa → beffa : s’aggueffa, di nuovo con variazione e inversione). La contigua rima in

-agno ritorna nella Commedia, con il rimante « compagno », solo nella

descri-zione della corsa precipitosa di Dante e Virgilio lungo la parete scoscesa che divide le bolge quinta e sesta. Nell’episodio del « nuovo ludo », « compagno » (in rima con « grifagno » e « stagno »), è riferito ad Alichino poco prima che si

28. Si avverte che d’ora in avanti tutti i corsivi presenti nel testo dantesco sono aggiunti. 29. Sulla scorta di D. Conrieri, Il secondo e il terzo tempo dell’episodio dei barattieri (‘Inferno’, xxii e xxiii, 1-57), in GSLI, vol. clxiii 1986, pp. 1-26, alle pp. 24-26, Saverio Bellomo rileva, come

segnale di continuità della prima parte del canto rispetto ai canti precedenti, che « 14 delle prime 57 [rime] sono identiche a quelle del canto precedente, laddove nella parte centrale ve ne sono solo tre »: Dante Alighieri, Inferno, a cura di S. Bellomo, Torino, Einaudi, 2013, p. 375

(avanti cit. Bellomo).

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azzuffi con Calcabrina (poco prima, cioè, che i due diavoli si afferrino a vi-cenda); nell’episodio della corsa (in rima con « terragno » e « vivagno ») è epiteto negato di Virgilio (« non come compagno »), che ha afferrato Dante tra le braccia non per aggredirlo ma per metterlo in salvo (Inf., xxii 127-41;

xxiii 13-18, 46-51):

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto: non altrimenti l’anitra di botto, quando ’l falcon s’appressa, giú s’attuffa,

ed ei ritorna sú crucciato e rotto.

Irato Calcabrina de la buffa,

volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa;

e come ’l barattier fu disparito, cosí volse li artigli al suo compagno,

e fu con lui sopra ’l fosso ghermito. Ma l’altro fu bene sparvier grifagno

ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Io pensava cosí: ‘Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa

sí fatta, ch’assai credo che lor nòi. Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,

ei ne verranno dietro piú crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.

Non corse mai sí tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno,

quand’ ella piú verso le pale approccia, come ’l maestro mio per quel vivagno,

portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno.

Si noti anche che la rima in -agno sarà variata in -ogna verso la fine del canto,

nelle due terzine che presentano il momento in cui Virgilio si rende conto di essere stato ingannato da Malacoda e il conseguente commento dell’ipo-crita Catalano, forse a sottolineare la differente reazione dei due personaggi: Alichino, che ha subito la buffa del Navarrese, si azzufferà imperterrito con

Calcabrina, già irato, fino a cadere nel « bogliente stagno »; Virgilio, già

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motivo di lieve e intimo turbamento, che traspare nel « sembiante » (Inf.,

xxiii 139-44):31

Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: « Mal contava la bisogna

colui che i peccator di qua uncina ». E ’l frate: « Io udi’ già dire a Bologna

del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ ch’elli è bugiardo e padre di menzogna ». 3. L’intelletto individuale

Il volgersi del pensiero di Dante alla « favola d’Isopo », con la comparazione

che ne consegue, profila la concezione aristotelica e poi tomistica del pro-cesso cognitivo, secondo cui l’uomo conosce attraverso l’intenzione, astrae

dalle realtà sensibili un’immagine che arriva alla mente e stimola l’elabora-zione delle idee. Virgilio descriverà questa concel’elabora-zione nel canto xviii del

Purgatorio, dove si precisa che l’amore volto al bene, il vero amore, ha come

presupposto la conoscenza di ciò che si ama, mentre chi è dominato dalla passione non è in grado di comprendere la natura dell’oggetto del proprio amore (Purg., xviii 22-24):

Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sí che l’animo ad essa volger face.

Il processo cognitivo presuppone un patrimonio d’immagini che l’intelletto elabora. Non può darsi pensiero in assenza d’immagini, che non sono sem-pre riconducibili a un’esperienza sensibile, come accade nei sogni (e nei sogni di Dante nel purgatorio) e come accadrà a Dante assorto nell’ imagina-tiva di tre esempi d’ira punita – uno mitologico (il mito di Progne), uno

bi-blico (Esth., 3-9) e uno storico (il suicidio di Amata, madre di Lavinia) –

all’i-nizio di Purg. xvii, 13-18, dove ci viene offerta anche una spiegazione del

fe-nomeno, cioè che le immagini indipendenti dai sensi provengono da una luce che si forma in cielo in virtú degli astri o per volere divino (oggi si po-trebbe forse parlare di inconscio o immaginario collettivo):32

31. Sul significato da attribuire alla rima Bologna : menzogna sul piano personale e politico,

cfr. Tavoni, ‘Inferno’ xxiii, cit., p. 63.

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O imaginativa che ne rube talvolta sí di fuor, ch’om non s’accorge perché dintorno suonin mille tube, chi move te, se ’l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s’informa, per sé o per voler che giú lo scorge.

Ma nel nostro caso, è il ricordo cosciente dell’esperienza sensibile (visiva) della « rissa » che ne genera un altro, di carattere letterario, dal quale parte il ragionamento di Dante. Lo coglie con chiarezza Cristoforo Landino, che evidenzia il valore dimostrativo di questo passaggio, riconducendolo al si-stema delle facoltà cognitive di matrice aristotelica (o sensi interni), elabo-rato dai filosofi arabi e accolto criticamente da Tommaso d’Aquino:

È universale parlare che la imaginatione fa venire el caso. Il che è sententia di tucti e maggiori philosophi et maxime d’Aristotele; maxime quando l’anima ha fixa

imagina-tione. […] Non è sanza cagione che Danthe dimostri esser lui quello che vada

con-getturando che e demoni, et per essere di loro natura nocivi, et per l’ira particulare, s’habbino a ingegnare di nuocergli. […] Ripetendo adunque quanto s’appartiene al presente luogo, vide Danthe la decina de’ demonii. Il che fu officio dell’occhio et del senso comune; et non solamente gli vide presenti, ma le imagini di quegli rimasono infixe nella imaginativa el cui officio è serballe etiam in absentia della cosa. Il perchè

la cogitativa sua voltandosi alla imaginativa vi trovò queste imagini non altrimenti che se le vedessi nello spechio, et dalle imagini traxe le ’ntentioni.33

Nella premessa teorica, Landino distingue secondo Avicenna tra imagina-tiva e fantasia (« Ha l’huomo in sé cinque sensi interiori. Senso comune,

ima-ginativa, estimativa, phantasia, et memoria »), tra la facoltà che « non sola-mente riceve la imagine della chosa presente, ma la ritiene et serba dopo la partita della chosa » e la facoltà di « dividere et comporre tutte le imagini che truova nella imaginativa et le intentioni che truova nella chogitativa ». Si discosta cosí dal pensiero tomistico (Summa theol., i-i, a. 4 co.), recepito da

Dante, per il quale l’imaginativa include la capacità di unire o scomporre le

immagini fantastiche:

Ex parte autem memorativae, [homo] non solum habet memoriam, sicut cetera animalia, in subita recordatione praeteritorum; sed etiam reminiscentiam, quasi

syllogi-12, e Purg., xvii 31-36, si legge: « Come si vede, pensiero equivale a immagine, e il processo

men-tale per cui un pensiero-immagine sgorga dall’altro è rappresentato metaforicamente ». 33. C. Landino, Comento sopra la ‘Comedia’, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno

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stice inquirendo praeteritorum memoriam, secundum individuales intentiones.

Avi-cenna vero ponit quintam potentiam, mediam inter aestimativam et imaginativam, quae componit et dividit formas imaginatas; ut patet cum ex forma imaginata auri et forma imaginata montis componimus unam formam montis aurei, quem nun-quam vidimus. Sed ista operatio non apparet in aliis animalibus ab homine, in quo

ad hoc sufficit virtus imaginativa. Cui etiam hanc actionem attribuit Averroes, in libro

quodam quem fecit de sensu et sensibilibus. Et sic non est necesse ponere nisi qua-tuor vires interiores sensitivae partis, scilicet sensum communem et imaginatio-nem, aestimativam et memorativam.

Nel Convivio (iv 15 15), l’imaginativa o fantasia è tecnicamente la facoltà di

argomentare partendo da una premessa certa (principio) allo scopo di

cono-scere la verità. Nel cogliere e analizzare il rapporto di somiglianza tra la fa-vola e la rissa « quasi syllogistice inquirendo », Dante dimostra l’esercizio dei

sensi interni della memoria intesa come reminiscentia e dell’imaginativa o fanta-sia, dando l’avvio alla rete di sdoppiamenti, opposizioni, assimilazioni,

varia-zioni, combinazioni interne ed esterne su cui è costruito l’intero canto: La terza [infermitade nella mente] è da levitade di natura causata: ché sono molti di sí lieve fantasia, che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno

conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando nell’altra, e pare loro sottilis-simamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla cosa

vera-mente veggiono vera nel loro imagin[ar]e.

Dal primo pensiero, il paragone tra la favola e la rissa, scoppia un secondo pensiero, che raddoppia la prima paura, provata alla presenza dei diavoli della

quinta bolgia. Anche questa circostanza può essere interpretata alla luce del processo cognitivo di matrice aristotelico-tomistica. Per Tommaso d’Aqui-no, l’elaborazione delle idee, necessaria alla comprensione della realtà, è accompagnata da due specie di riflessione (reflectio, conversio, reditio), quella

simultanea all’operazione intellettiva (coscienza), e quella che consiste nell’analisi a posteriori dei propri atti cognitivi (autocoscienza). L’intelletto

torna su sé stesso, e il soggetto, cosciente di aver compreso, mette in relazio-ne con se stesso ciò che ha compreso. La conoscenza di sé passa per la cono-scenza dell’altro da sé attraverso l’esperienza sensoriale e l’immaginazione, dimostrando l’unità di anima e corpo.34 Il paragone tra la favola e la rissa ha rivelato a Dante che gli ingannatori e gli ingannati non hanno scampo. A

34. Notevole, com’è naturale, la bibliografia sul complesso problema della riflessione nel pensiero tomistico. Di particolare rilievo gli studi di F.X. Putallaz, soprattutto il volume Le sens de la refléxion chez Thomas d’Aquin, Paris, Vrin, 1991.

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questa acquisizione segue la riflessione che porta Dante a valutare la situa-zione che sta vivendo e a cogliere il pericolo che sta correndo, fare la stessa fine dei diavoli e dei dannati o del topo e della rana, al punto da esternare il suo stato d’animo e i suoi pensieri sia nell’aspetto e nell’atteggiamento (« Già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura e stava in dietro intento ») sia con la parola (« quand’io dissi »), che rivolge a Virgilio (Inf., xxiii 13-24):

Io pensava cosí: ‘Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sí fatta, ch’assai credo che lor nòi. Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro piú crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand’ io dissi: « Maestro, se non celi te e me tostamente, i’ ho pavento d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li ’magino sí, che già li sento ».

La risposta di Virgilio riprende e anzi accentua la « rima aspra e sottile » intro-dotta dalla seconda terzina, come dimostra anche l’analoga proposizione comparativa (« ché piú non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’ / che l’un con l’altro fa […] »;

« l’imagine di fuor tua non trarrei / piú tosto a me, che quella dentro ’mpetro »).

C’è da dire, però, che nel primo caso la « rima aspra e sottile » esprime il con-tenuto di una riflessione silenziosa, avviata da un paragone di respiro filoso-fico, nel secondo è propria invece di un discorso diretto, che la sorvegliata retorica, il tono calmo e affettato, il ricorso alla definizione tecnica dello specchio, mettono in contrasto con la schiettezza di Dante e delle sue parole, facendolo apparire quasi fuori luogo.35 Virgilio dice a Dante di aver intuito da

l’imagine di fuor, dal suo atteggiamento e dal suo aspetto, l’imagine dentro, i suoi

sentimenti e i suoi pensieri, non meno prontamente di quanto uno specchio sia in grado di riflettere ciò che si trova davanti. È possibile che la compara-zione intenda evocare l’attività speculativa, tenendo conto dell’etimologia di Agostino ripresa da Tommaso (Summa theol., ii-ii, q. 180, a. 3 ad 2):

35. Dante Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano,

Mondadori, 1991-1997, 3 voll., vol. i p. 684 (avanti cit. Chiavacci Leonardi): « La risposta di Virgilio, calma e lenta, fa singolare contrasto con la precipitazione delle parole di Dante. Quasi fa “perdere la pazienza”, com’è stato detto, con la sua ben studiata retorica (si veda la similitudine con cui comincia) ».

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Ad secundum dicendum quod, sicut dicit Glossa Augustini ibidem, speculantes dicit a speculo, non a specula. Videre autem aliquid per speculum est videre causam per

effectum, in quo eius similitudo relucet. Unde speculatio ad meditationem reduci videtur.

Virgilio dice anche che i pensieri di Dante sono giunti tra i suoi proprio in quel momento e l’hanno spinto a prendere immediatamente un’univoca decisione, non quella di nascondersi, come propone Dante (vv. 21-22: « Ma-estro, se non celi / te e me tostamente »), ma di scendere nella bolgia succes-siva, dove i diavoli non hanno accesso (Inf., xxiii 25-33):

E quei: « S’ i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei

piú tosto a me, che quella dentro ’mpetro. Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, con simile atto e con simile faccia,

sí che d’intrambi un sol consiglio fei. S’ elli è che sí la destra costa giaccia, che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia ».

Il lessico e la sintassi diventano nuovamente difficili, e richiedono uno sfor-zo interpretativo.36 Un primo problema è rappresentato dalla voce ’mpetro, che è in bilico tra il latinismo nel significato di ‘ottenere’ e il denominale romanzo nel significato di ‘incidere nella pietra’.37 In favore della seconda accezione si può citare una serie di testi di carattere dottrinale, appartenenti al filone ermetico (aspro) prestilnovistico, dove il verbo impetrare assume con

ogni probabilità proprio il significato di ‘incidere nella pietra’ e quindi di ‘fissare nella scrittura’. Tra questi testi spicca un sonetto di Chiaro Davanza-ti, Ch’intende, intenda ciò che ’n carta impetro (‘chi capisce, capisca ciò che fisso

sulla carta come fosse pietra’), anch’esso conservato nel canzoniere Vatica-no, che appartiene al tipo dei quesiti dottrinari e spesso oziosi, nello specifi-co quale sia « la specifi-coretta d’amore gioia ».38 Anche Dante arricchisce l’insieme

36. Cfr. il commento di Ernesto Trucchi: « Quanta differenza dallo stile concitato di Dante! Dove egli parlò la lettera è piana; ma quando parla Virgilio bisogna pure che gli interpreti spieghino che cosa ha voluto dire fra tanti incisi, metafore e perifrasi! » (E. Trucchi, Esposizio-ne della ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri, Milano, Toffaloni, 1936, 3 voll., vol. i p. 383).

37. Nei commenti prevale la prima accezione, ma si veda Bellomo, p. 366, che rispetto alla seconda accezione parla di « senso iperbolico e metaforico che non disdice alla conseguen-te venuta dei pensieri con atto e faccia ».

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di questi testi di maniera rispondendo « fino a non poterne piú »39 a un que-sito analogo, quale sia « il dol maggio d’amore », nel principale scambio con Dante da Maiano, di cinque sonetti, gli ultimi due, il primo di Dante, gioca-ti sull’impiego di un’idengioca-tica serie di lettere in fine di verso in numero supe-riore a quelle necessarie per la rima, che dà luogo a rime composte e identi-che o equivoidenti-che, secondo una tecnica artificiosa (inutilis equivocatio) che

Dante abbandonerà nella poesia della maturità.40 Ancora una volta, la serie

dietro : vetro : ’mpetro dei versi danteschi ripropone, sostituendo dietro a aretro e

variandone l’ordine, la serie impetro : aretro : vetro nelle quartine del sonetto,

dove vetro vale ‘specchio’.

Ch’intende, intenda ciò che ’n carta impetro:

che ’l ben d’amor mi piace, e no m’adagro; e lo sperar m’avanza, e non m’aretro,

ma pur d’atender mi corono e sagro. E tutor mi ramiro d’amor vetro

e cu’ ne cresce, ch’io pur ne dimagro; tal condizion no ·l soferia san Petro: s’amore larga altrui, me è pur agro. Ordunque, amico, qual è la coretta d’amore gioia, ubrïando le pene, che sia di lui donata piú concetta, lo tuo saver so che conosce bene: co lo vedere amore i suoi ralletta, e tal vede, ch’amor no li s’avene.41

contenuto in G. Capovilla, Dante e i « predanteschi ». Alcuni sondaggi, Padova, Unipress, 2009, pp.

69-90, soprattutto le pp. 77-90. L’analisi dei componimenti in cui si ravvisano elementi “petro-si” prima di Dante muove anche proprio dall’impetro di Inf., xxiii (p. 71), e arriva a privilegiare,

per le occorrenze prestilnovistiche, compresa quella in Ch’intende, intenda ciò che ’n carta impetro,

la possibilità di una derivazione del verbo impetrare da petra (p. 80), come già Avalle (Concordan-ze della lingua poetica italiana delle Origini (CLPIO), a cura di d’A.S. Avalle, Milano-Napoli,

Ricciardi, 1992, p. lxxxiii).

39. De Robertis, in Dante Alighieri, Rime, ed. cit., p. 436.

40. Cfr. il commento di C. Giunta in Dante Alighieri, Opere, Dir. M. Santagata, vol. i. Rime, Vita nova, De vulgari eloquentia, a cura di C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, Milano,

Mon-dadori, 2011, pp. 107-8, che cita D.v.e., ii 13 13 (« inutilis equivocatio, que semper sententie

quic-quam derogare videtur »).

41. Chiaro Davanzati, Rime, ed. critica con commento e glossario a cura di A.

Menichet-ti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1965, p. 274, poi in Id., Canzoni e sonetti, Torino,

Einaudi, 2004, pp. 134-35 (da cui si cita; corsivi aggiunti). Menichetti traduce impetro, con

rife-rimento alla petrosità del registro linguistico, ‘dico in rima petrosa’ (Chiaro Davanzati, Rime,

ed. cit., p. 274; Canzoni e sonetti, cit., p. 134). Il sonetto è riscrittura di uno dei sonetti d’amore di

(19)

Un secondo problema è posto dal pronome intrambi nella successiva terzina.

Stando all’interpretazione corrente, intrambi si riferisce ai pensieri di Dante e

ai pensieri di Virgilio. Nell’italiano antico, e anche in Dante, intrambi è però

sempre associato a due nomi singolari, mentre la parola pensieri è un plurale.42 Se non vogliamo ammettere un’eccezione al normale uso grammaticale, possiamo pensare che intrambi si riferisca in realtà ad atto e faccia,

all’atteggia-mento e all’aspetto di Dante, ovvero l’espressione del viso. Di conseguenza

simile starà a indicare la rispondenza dell’atteggiamento e dell’aspetto di

Dan-te con i suoi pensieri, la rispondenza tra l’imagine di fuor e l’imagine dentro, in

coerenza con i versi precedenti. L’atto è l’atteggiamento di Dante che « sta in

dietro intento », la faccia è l’espressione che Dante assume quando si rende

conto del pericolo, quando « si sente tutti arricciar li peli »: atto e faccia intrambi

rispecchiano i pensieri di Dante che raggiungono i pensieri di Virgilio; Virgilio

non legge nel pensiero di Dante, ma vede l’atto e la faccia di Dante e capisce

cosa Dante sta pensando. La traduzione della terzina potrebbe essere: ‘Pro-prio ora i tuoi pensieri (l’imagine dentro) sono venuti tra i miei, attraverso

l’at-teggiamento e l’aspetto che li rispecchiano (l’imagine di fuor), tanto che da

entrambi (dall’atteggiamento e dall’aspetto) ho tratto un’unica decisione’.43 Si può ritenere che qui Dante intenda rappresentare la duplice e indivi-duale azione intellettiva, sua e di Virgilio, nella valutazione della realtà, se-guendo l’interpretazione tomistica della concezione aristotelica dell’intel-letto, come parte saldamente individuale dell’anima. Come si desume dal terzo capitolo del primo libro della Monarchia, per Dante la piena attuazione

della virtus o potentia intellectiva, che distingue l’uomo dagli altri animali, può

essere ottenuta solo attraverso la molteplicità delle esperienze conoscitive sensibili e intellettuali. Questa molteplicità implica una reductio ad unum in

ragione del fine ultimo dell’umanità, una cooperazione solidale che rispon-de a principi morali e politici condivisi da tutti gli uomini, rispon-desirispon-derosi per loro natura di raggiungere la felicità su questa terra, che consiste nella cono-scenza. Lo scopo della virtus o potentia intellectiva, essendo speculativo e

pra-celebra il consenso dell’amata a concedersi (cfr. Guittone d’Arezzo, Canzoniere. I sonetti d’a-more del codice Laurenziano, a cura di L. Leonardi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 234-35).

42. Lo documenta Tavoni, ‘Inferno’ xxiii, cit., p. 71.

43. Tavoni, ivi, che riferisce intrambi a « l’un pensier e l’altro » di Dante, interpreta invece

cosí: « i tuoi due pensieri, il primo sulla rana e il topo e il secondo che ti è “scoppiato” dal pri-mo, cioè il terrore che i diavoli ci attacchino, sono trasmigrati nella mia mente, e io ho visto che avevano un aspetto simile (“con simile faccia”) e rappresentavano un’azione simile (“con simile atto”); quindi i tuoi due pensieri, insieme, mi hanno indotto alla stessa risoluzione, quella di fuggire immediatamente ».

(20)

tico, comprende anche l’agire secondo prudenza per il bene comune.44 Vir-gilio e Dante sono accomunati dall’esigenza di conoscere la verità, la loro analisi perviene alle stesse conclusioni (tutt’e due arrivano a immaginare la

caccia dei diavoli), ma attraverso percorsi indipendenti. Il risultato del

pro-cesso cognitivo è lo stesso, perché la verità è una sola, i pensieri di Dante e i pensieri di Virgilio sono però differenti, perché sono elaborati da due distinti

intelletti. Prima ancora che Dante parli, nel suo atto e nella sua faccia Virgilio

trova la conferma di ciò che ha autonomamente compreso, e ne trae l’im-pulso all’azione che li porterà in salvo.

Ho già menzionato il canto xviii del Purgatorio a proposito della

descrizio-ne del processo cognitivo secondo la conceziodescrizio-ne aristotelica. Ma il canto xviii è l’ultimo dei tre canti centrali nel Purgatorio e nell’intero poema

dedi-cati al rapporto reciproco tra amore e libero arbitrio, cardine dell’ideologia della Commedia. Dante fa suo e sviluppa il pensiero di Tommaso d’Aquino,

secondo cui la radice del libero arbitrio sta nell’intelletto individuale. Nel xviii canto del Purgatorio, Virgilio si fa portavoce dell’idea cristiana che anche

l’amore sia sottoposto al libero arbitrio, perché l’uomo ha facoltà di distin-guere tra l’amore irrazionale e l’amore dominato dall’intelletto, e di sceglie-re di conseguenza. Solo l’amosceglie-re dominato dall’intelletto è in armonia con la vera natura dell’uomo, originariamente incline al bene, mentre l’amore ir-razionale finisce per alterarla. È quanto accade nella canzone di Cavalcanti richiamata nell’incipit, come in larga parte della poesia d’amore (Purg., xviii

61-66):

Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia, innata v’è la virtú che consiglia,

e de l’assenso de’ tener la soglia. Quest’ è ’l principio là onde si piglia

44. Cfr. Mon., i 3 7-10: « Patet igitur quod ultimum de potentia ipsius humanitatis est

poten-tia sive virtus intellectiva. Et quia potenpoten-tia ista per unum hominem seu per aliquam particula-rium comunitatum superius distinctarum tota simul in actum reduci non potest, necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia hec actuetur. Et huic sententie concordat Averrois in comento super hiis que De anima. Potentia etiam intellectiva,

de qua loquor, non solum est ad formas universales aut speties, sed etiam per quandam exten-sionem ad particulares: unde solet dici quod intellectus speculativus extensione fit practicus, cuius finis est agere atque facere. Quod dico propter agibilia, que politica prudentia regulan-tur, et propter factibilia, que regulantur arte: que omnia speculationi ancillantur tanquam optimo ad quod humanum genus Prima Bonitas in esse produxit; ex quo iam innotescit illud

Politice: intellectu, scilicet, vigentes aliis naturaliter principari ». Cfr. inoltre il commento di D.

Quaglioni in Dante Alighieri, Opere, cit., vol. ii, pp. 935-38, che riassume le principali

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ragion di meritare in voi, secondo che buoni e rei amori accoglie e viglia.

Secondo Tommaso d’Aquino, il libero arbitrio deve essere guidato dalla virtú della prudenza, che è contraria all’astuzia, cui appartengono l’inganno e la frode.45 La prudenza è favorita dal timore, e Dante teme i diavoli. Ma il timore deve essere dominato dalla ragione perché non diventi timore disor-dinato, cioè viltà, che è una forma di disperazione.46 All’inizio del poema, Virgilio sorregge Dante, che ha perso la « speranza dell’altezza », e gli per-mette di superare la viltade (« L’anima tua è da viltade offesa » gli dice

Virgi-lio). Nell’incipit del ix canto, vv. 1-3, alle porte della Città di Dite, di nuovo la

« viltà pinge di fuor » il volto di Dante. Ed è ancora Virgilio che lo rassicura, ricacciando dentro il proprio turbamento dovuto alla tracotanza dei diavoli

(si noti la compresenza di « di fuor e dentro », come nel discorso di Virgilio):47 Quel color che viltà di fuor mi pinse

veggendo il duca mio tornare in volta, piú tosto dentro il suo novo ristrinse.

Alle soglie della bolgia degli ipocriti le cose sembrano stare diversamente.

45. Tommaso d’Aquino, Summa theol., ii-ii, q. 47 (sulla prudenza considerata in se stessa), a.

2 s. c. e co.: « Sed contra est quod philosophus dicit, in vi Ethic., quod prudentia est recta ratio agibilium. […] Respondeo dicendum quod, sicut philosophus dicit, in vi Ethic., prudentis est bene posse consiliari »; q. 55 (sui vizi contrari alla prudenza), a. 5 co.: « Respondeo dicendum quod sicut dolus consistit in executione astutiae, ita etiam et fraus, sed in hoc differre videntur quod dolus pertinet universaliter ad executionem astutiae, sive fiat per verba sive per facta; fraus autem magis proprie pertinet ad executionem astutiae secundum quod fit per facta ».

46. Tommaso d’Aquino, Summa theol., ii-ii, q. 125 (sulla viltà o paura), a. 1 co.: « Respondeo

dicendum quod aliquid dicitur esse peccatum in actibus humanis propter inordinationem, nam bonum humani actus in ordine quodam existit, ut ex supra dictis patet. Est autem hic debitus ordo, ut appetitus regimini rationis subdatur. Ratio autem dictat aliqua esse fugienda, et aliqua esse prosequenda […]. Quando ergo appetitus fugit ea quae ratio dictat esse sustinen-da ne desistat ab aliis quae magis prosequi debet, timor inordinatus est, et habet rationem peccati. Quando vero appetitus timendo refugit id quod est secundum rationem fugiendum, tunc appetitus non est inordinatus, nec peccatum »; i-ii, q. 45 (sull’audacia), a. 2 co.: « prosecutio boni pertinet ad spem, fuga mali ad timorem, insecutio mali terribilis pertinet ad audaciam, fuga vero boni pertinet ad desperationem. Unde sequitur quod audacia consequitur ad spem, ex hoc enim quod aliquis sperat superare terribile imminens, ex hoc audacter insequitur ip-sum. Ad timorem vero sequitur desperatio, ideo enim aliquis desperat, quia timet difficulta-tem quae est circa bonum sperandum ».

47. Di « intratestualità » tra l’episodio che vede Virgilio affrontare l’ostilità dei diavoli alle so-glie della città di Dite e l’episodio dei barattieri, parla ultimamente, rifacendosi all’esegesi pre-gressa, F. Saviotti, Dante, i diavoli e l’ira di Virgilio, in « Carte romanze », a. ii 2014, pp. 211-53, a p. 223.

(22)

Dante è diventato piú forte, è capace di analizzare e dominare il presente in modo autonomo, di comprenderne il significato e di trarne le conseguenze. Non si volge indietro mentre sta fuggendo, come nell’impatto con il diavol nero della quinta bolgia (Inf., xxi 25-26: « Allor mi volsi come l’uom cui tarda

/ di veder quel che li convien fuggire / e cui paura súbita sgagliarda »), ma sta « in dietro intento » dopo aver riflettuto (« Io pensava cosí… ») e prima di parlare (« quand’io dissi… »). La sua paura è in questa circostanza generata dall’autonoma comprensione intellettiva, che lo spinge a dare l’allarme. A differenza del topo della favola e del demonio Alichino, Dante capisce che non c’è da fidarsi e ne trae le conseguenze.

Siamo di fronte, credo, a un punto di svolta nel percorso di apprendimen-to del viator, messo in scena al centro dell’ottavo cerchio, dove si punisce chi

ha fatto uso dell’intelletto non a proprio vantaggio, ma ai danni del prossi-mo. All’inizio del canto successivo, quando si fermerà spossato dalla salita che li ha condotti sull’argine della settima bolgia, Dante potrà rispondere a Virgilio, che lo sprona a vincere la stanchezza del corpo con la forza dell’a-nimo: « Va’, ch’i’ son forte e ardito » (v. 60) ‘sono forte nell’animo e sicuro nell’azione’. In precedenza, nel canto xvii, poco prima di salire sulla groppa del drago Gerione, figura della frode, Virgilio aveva chiesto a Dante di esse-re forte e ardito, ma Dante aveva continuato a tremare di paura (v. 81: « e disse

a me: “Or sie forte e ardito »). Sarà invaso di nuovo dalla paura quando si troverà ad affrontare il momento di piú profondo coinvolgimento persona-le, davanti alla cortina di fiamme nell’ultima cornice del purgatorio, quella dei lussuriosi, che dovrà attraversare per raggiungere il paradiso terrestre, luogo di conversione e di rinascita, dove il legame con il passato, con l’ingan-no del « falso piacere » che l’ha lungamente oppresso, sarà dolorosamente spezzato. E Virgilio lo incoraggerà a deporre « omai ogne temenza » e a vol-gersi avanti verso il fuoco per affrontarlo con sicurezza (Purg., xxvii 31-32:

« Pon giú omai, pon giú ogne temenza; / volgiti in qua e vieni: entra sicu-ro! »), dopo aver evocato proprio la paura da lui provata sulla groppa di Ge-rione (Purg., xxvii 22-24: « Ricorditi, ricorditi! E se io / sovresso Gerïon ti

guidai salvo, / che farò ora presso piú a Dio? ») e prima di riconoscerne la piena padronanza di sé (Purg., xxvii 139-142: « Non aspettar mio dir piú né

mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / per ch’io te sovra te corono e mitrio »).

4. Gente dipinta

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corsa precipitosa di Virgilio, che prende Dante in braccio nel momento in cui l’imaginata caccia dei diavoli diventa realtà, e fugge a precipizio lungo la

scoscesa parete rocciosa che delimita uno dei due lati della sesta bolgia, inac-cessibile ai diavoli, che per volere divino non possono allontanarsi dal luogo loro assegnato. A differenza di quanto accade nella favola, a farsi carico del proseguimento del viaggio non è l’infida rana ma il premuroso Virgilio.48

La corsa di Virgilio è resa attraverso due similitudini che occupano ben cinque terzine. La prima, la piú rilevante, rende lo stato d’animo al momen-to della partenza, l’imagine dentro, simile allo stato d’animo di una madre che

cerca di mettere in salvo il figlio da un incendio, destata dalle grida d’allarme (anche Virgilio è indotto ad agire dalle parole inquiete di Dante), « avendo piú di lui che di sé cura » (Inf., xxiii 37-45):

Lo duca mio di súbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,

avendo piú di lui che di sé cura,

tanto che solo una camiscia vesta; e giú dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

La seconda rende la rapidità della corsa, l’imagine di fuor, assimilata alla

rapi-dità dell’acqua che muove le pale di un mulino di terra. Le due similitudini sono suggellate da un verso che insiste sulla sollecitudine materna di Virgi-lio: « come suo figlio, non come compagno » (Inf., xxiii 46-51):

Non corse mai sí tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno,

quand’ ella piú verso le pale approccia, come ’l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno.

La sollecitudine è un tratto caratteristico del rapporto di Virgilio con Dante, e qui si percepisce la volontà di darle particolare rilievo. Credo che la scelta della similitudine materna possa essere accostata al primo dei due esempi di

48. Cfr. Battaglia Ricci, Canto xxiii, cit., pp. 755-56, che nota l’analogia della situazione:

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sollecitudine proclamati nel già piú volte citato xviii canto del Purgatorio.

Sulla scorta del vangelo di Luca (1 39: « exsurgens autem Maria in diebus illis abiit in montana cum festinatione »), l’esempio ritrae Maria, che ha appreso dall’angelo della gravidanza di Elisabetta come della propria, mentre corre ad assistere Elisabetta nella regione montuosa di Ebron: « e due dinanzi gri-davan piangendo: ‘Maria corse con fretta a la montagna’ » (vv. 99-100). Per raggiungere Elisabetta, Maria affronta un difficile viaggio nonostante il suo stato, « avendo piú di lei che di sé cura », potremmo aggiungere.49 Come tra la favola d’Isopo e la rissa, non è possibile stabilire corrispondenze puntuali

(nell’episodio del Vangelo, Maria è avvertita dall’angelo, soccorre Elisabetta, porta il figlio in grembo), si tratta ancora di una libera associazione d’imma-gini. Contano l’origine (il principio) e l’effetto (il fine) del gesto di Maria e di

Virgilio, che sono opposti all’origine e all’effetto del gesto della rana nella favola: da un lato il soccorso e la salvezza, dall’altro il sabotaggio e la rovina.

Nel xviii canto del Purgatorio, al primo dei due esempi di sollecitudine

Dante contrappone il primo dei due esempi di accidia, la gente ebrea che per

stanchezza si attardò nel deserto e non riuscí a raggiungere la terra promes-sa (xviii 133-135 « ‘Prima fue / morta la gente a cui il mar s’aperse, / che ve-desse Iordan le rede sue’ »). E la stanchezza, con la lentezza, caratterizza la « gente dipinta » che Dante sta per incontrare.

Come la sollecita corsa di Virgilio contrasta con l’incedere lento degli ipocriti, cosí la rispondenza tra l’imagine di fuor (atto e faccia) e l’imagine dentro

(i pensieri) si oppone alla loro doppiezza. Dante ne ha preventivamente

pre-so le distanze. Non appena i due viaggiatori mettono piede nella sesta bol-gia, al sicuro dai diavoli, ecco un nuovo cambiamento di passo. Dante e Virgilio si trovano davanti agli occhi un gruppo di anime vestite con cappe di piombo dorate all’esterno tanto da essere abbaglianti, che procedono len-tamente lungo un percorso circolare obbligato. Alla distanza morale corri-sponde la prossimità fisica.

È già stato notato che la duplice materia delle cappe ha il suo presupposto nella metafora del piombato vetro con cui si apre il discorso di Virgilio a

Dan-te, lo specchio che riluce davanti e dietro è rivestito di piombo.50 Le cappe

49. Sull’interpretazione allegorica della prima similitudine si sofferma M. Scotti, Il canto degli ipocriti (‘If.’ xxii), in Contesti della ‘Commedia’. Lectura Dantis Fridericiana 2002-2003, a cura di

F. Tateo e D.M. Pegorari, Bari, Palomar, 2004, pp. 155-97, alle pp. 178-82, con riferimento al

Tractatus de iudicio Salomonis inter duas meretrices di Agostino, dove la vera e la falsa madre

dell’e-pisodio biblico (i Rg., 3 16-28) sono viste come figure della verità e dell’ipocrisia.

50. Cfr. F. Tateo, Quella tale ipocrisia. Lettura di ‘Inf.’, xxiii, in L’A, n.s., a. xlviii 2007, n. 29 pp.

(25)

hanno cappucci bassi sugli occhi, e sono del tipo di quelle che indossavano i monaci cluniacensi. Le anime sono stremate e sopraffatte dal peso, che le costringe a procedere tra i gemiti. Il metallo piú nobile all’esterno e il metal-lo piú vile all’interno rendono l’idea della dissimulazione, il significato dell’immagine è evidente. Com’è evidente il significato dei cappucci che nascondono gli occhi, dai quali pure cadono lacrime di dolore (Inf., xxiii

58-63):

Là giú trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugní per li monaci fassi.

Si tratta del primo gruppo d’ipocriti che Dante incontra, religiosi del suo tempo che hanno agito contro i valori del cristianesimo pur avendoli cono-sciuti, contribuendo in modo decisivo al deterioramento del vivere sociale. Piú impressionante sarà la pena del secondo gruppo d’ipocriti, i sacerdoti del tempo di Cristo, che pur credendo nel suo avvento, non l’hanno riconosciu-to e ne hanno sanciriconosciu-to la condanna, ponendo le premesse per la distruzione di Gerusalemme compiuta da Tito e per la dispersione del popolo ebreo.

Vittorio Russo ha per primo rilevato che la rappresentazione dantesca del peccato d’ipocrisia dipende dal pensiero tomistico, a sua volta ispirato alla Bibbia.51 Nella quaestio della Summa theologiae dedicata all’ipocrisia, si legge che possono dirsi ipocriti i religiosi e i chierici che indossano l’abito sacro con l’intenzione di ostentare una santità che non possiedono (ii-ii, q. 111, a. 2 ad 2). Si legge anche che l’incapacità per infirmitatem di conseguire la santità

da parte di chi indossa l’abito sacro non è di per sé peccato mortale, lo diven-ta quando è incompatibile con la carità (ii-ii, q. 111, a. 4 co.):52

Ad secundum dicendum quod habitus sanctitatis, puta religionis vel clericatus, si-gnificat statum quo quis obligatur ad opera perfectionis. Et ideo cum quis habitum sanctitatis assumit intendens se ad statum perfectionis transferre, si per infirmitatem deficiat, non est simulator vel hypocrita, quia non tenetur manifestare suum pecca-tum sanctitatis habipecca-tum deponendo. Si autem ad hoc sanctitatis habipecca-tum assumeret ut se iustum ostentaret, esset hypocrita et simulator.

51. Russo, Il canto xxiii dell’ ‘Inferno’, cit., pp. 16-27.

52. Battaglia Ricci, Canto xxiii, cit., p. 758: « il problema che qui si agita, piú che politico

(26)

Respondeo dicendum quod in hypocrisi duo sunt, scilicet defectus sanctitatis, et si-mulatio ipsius. […] Non tamen semper ipsa sisi-mulatio est ei in peccatum mortale, sed quandoque veniale. Quod discernendum est ex fine. Qui si repugnat caritati Dei vel proximi, erit peccatum mortale, puta cum simulat sanctitatem ut falsam doctrinam

disseminet, vel ut adipiscatur ecclesiasticam dignitatem indignus, vel quaecumque alia temporalia bona in quibus finem constituit. Si vero finis intentus non repugnet caritati, erit peccatum veniale.

Per Tommaso d’Aquino la carità è virtú unica. Non può essere distinta in specie, perché consiste in un’unica relazione di amicizia tra l’uomo e Dio, ha nella bontà divina, che è unica, il suo fine (ii-ii, q. 23, a. 5 co.) e si fonda sulla compartecipazione alla beatitudine eterna, che è anch’essa unica. In questa relazione di amicizia tra l’uomo e Dio rientra anche il prossimo, perché l’a-more tra gli uomini (dilectio proximi) è il riflesso dell’amore di Dio e verso

Dio (dilectio Dei) (Summa theol., ii-ii, q. 25, a. 1 co.):

Respondeo dicendum quod caritas, sicut dictum est, est quaedam amicitia hominis ad Deum. Diversae autem amicitiarum species accipiuntur quidem uno modo se-cundum diversitatem finis, et sese-cundum hoc dicuntur tres species amicitiae, scilicet amicitia utilis, delectabilis et honesti. Alio modo, secundum diversitatem commu-nicationum in quibus amicitiae fundantur, sicut alia species amicitiae est consangui-neorum, et alia concivium aut peregrinantium, quarum una fundatur super com-municatione naturali, aliae super comcom-municatione civili vel peregrinationis; ut pa-tet per philosophum, in viii Ethic. Neutro autem istorum modorum caritas potest dividi in plura. Nam caritatis finis est unus, scilicet divina bonitas. Est etiam et una communicatio beatitudinis aeternae, super quam haec amicitia fundatur. Unde re-linquitur quod caritas est simpliciter una virtus, non distincta in plures species.

Ratio autem diligendi proximum Deus est, hoc enim debemus in proximo diligere, ut in Deo sit. Unde manifestum est quod idem specie actus est quo diligitur Deus, et quo diligitur proximus. Et propter hoc habitus caritatis non solum se extendit ad dilec-tionem Dei, sed etiam ad dilecdilec-tionem proximi.

L’affermazione « si repugnat caritati Dei vel proximi, erit peccatum mor-tale » che si legge nella quaestio sull’ipocrisia ripresenta l’idea della

comparte-cipazione di divino e umano nell’esercizio della carità. La diversa condizio-ne dei due gruppi d’ipocriti dipenderà quindi dalla rilevanza del loro pecca-to per la specca-toria dell’umanità, piutpecca-tospecca-to che da due diverse forme d’ipocrisia, contro Dio e contro il prossimo.53 L’ipocrisia dei sacerdoti del tempo di

53. Russo, Il canto xxiii dell’ ‘Inferno’, cit., pp. 21-23 (ripreso da Bellomo, p. 364, e da

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