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Che ore sono, sig. Lupo? : un progetto educativo per aiutare un gruppo di bambini con problemi psichici a stare insieme serenamente, mediante lo strumento del gioco

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(1)

 

Che Ore sono, Sig. Lupo?

- Un progetto educativo per aiutare un gruppo di bambini con problemi

psichici a stare insieme serenamente, mediante lo strumento del gioco.

Studente/essa

- Elisa Ruda

Corso di laurea Opzione

- Lavoro Sociale

- Educatrice

Progetto

- Tesi di Bachelor

(2)

Immagine di copertina: Sono raffigurate le mani dei bambini protagonisti del mio progetto educativo.

Completata la mia tesi, desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno supportata e aiutata. In particolare, i docenti della Commissione, tutta l’équipe del Centro-Psico-Educativo di Stabio e la bibliotecaria della Supsi.

Ringrazio anche tutte le persone incontrate durante il percorso formativo, iniziando dalle Educatrici conosciute durante il Servizio Civile, proseguendo con gli operatori che mi hanno seguita nel primo stage di formazione della Supsi e terminando con gli psicologi che, con la loro professionalità mi hanno aiutata ad affrontare l’ostacolo della dislessia.

Dedico questo lavoro di tesi alla mia famiglia che mi è sempre stata vicina e mi ha continuamente sostenuto.

L’autrice è l’unica responsabile di quanto contenuto nel testo

“Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco

che in un anno di conversazione”

(3)

ABSTRACT

Che ore sono Sig. Lupo.

Il tema, affrontato in questo lavoro di tesi, è maturato dopo alcuni mesi di osservazione e avvicinamento al Centro Psico-Educativo di Stabio. L’attenzione si è soffermata sulla grande difficoltà, da parte dei bambini residenti, di riuscire a iniziare e a portare a termine delle attività ludiche durante il Momento Interno Ricreativo. Un momento caratterizzato da attività meno strutturate.

Dopo aver svolto un’attenta riflessione sull’importanza di provare ad organizzare quello spazio, è nato il Progetto educativo intitolato “Che ore sono Sig. Lupo”.

Un progetto che è stato sviluppato per circa tre mesi, l’obiettivo era di riuscire a far giocare

insieme i bambini residenti in modo più armonioso e meno conflittuale. Le loro capacità limitate e immature rendevano questo spazio difficile da gestire.

L’intervento educativo è nato con un iniziale approfondimento teorico per capire e conoscere meglio il tema scelto, cioè il gioco. Sono iniziate le ricerche di giochi ed attività idonee alle capacità e all’età dei bambini; attività che potessero interessare e incuriosire i bambini per poi avvicinarsi al piacere del gioco. Analizzate e selezionate le attività sia competitive sia collaborative, il Progetto si è avviato gradualmente. Nel corso dei mesi i bambini hanno sperimentato diverse attività ludiche, sono stati accompagnati nel mettersi in gioco, nel riuscire a sopportare le frustrazioni, ma soprattutto sono stati sostenuti e stimolati ad ampliare le loro capacità. Con un graduale accompagnamento i bambini sono diventati più autonomi, fino ad arrivare a giocare in modo più strutturato e piacevole.

I momenti di eccitazione, confusione e ansia sono diminuiti, lasciando il posto a momenti gioiosi e divertenti. Hanno imparato dei nuovi giochi da poter presentare ad altri bambini, il loro bagaglio era aumentato e possedevano più strumenti utili per relazionarsi con gli altri. È stato possibile svolgere il Progetto educativo pianificato e progettato perché i bambini in quel momento erano in grado di investire nell’attività ludica. Erano in grado di rispondere alle diverse richieste fatte, come ad esempio essere attenti, portare pazienza, riuscire ad aspettare oppure avere agilità e forza fisica. Questo intervento ha permesso di evidenziare l’importanza di un continuo accompagnamento di un educatore anche nei momenti meno strutturati.

Questo è un Progetto che si può adattare alle esigenze e alle capacità dell’utenza, per cui i giochi possono essere modificati con regole e tempi diversi. È importante considerare sempre lo stato d’animo dei bambini nel momento in cui si propone un’attività ludica.

(4)

ABSTRACT

Indice:

1. Introduzione: ... 5

2. Descrizione del contesto lavorativo: ... 7

3. Presentazione del gruppo: ... 9

3.1 Presentazione della problematica: ... 10

3.2 Metodologia e strumenti utilizzati: ... 12

4. La teoria utilizzata: ... 13

4.1 La parola “gioco” origini e significato: ... 13

4.2 La psiche dell’essere umano e le linee evolutive: ... 17

5. Dissertazione: ... 20

5.1 Preparazione delle attività: ... 20

5.4 La ricerca e la pianificazione: ... 21

5.5 La modalità di presentazione dei giochi: ... 23

5.6 L’attivazione del progetto. Dalla teoria alla pratica: ... 23

5.7 L’evoluzione del gruppo ... 28

6. Conclusione ... 29

6.1 Che cosa ho imparato come educatrice: ... 31

(5)

     

1. Introduzione:

 

L’ultimo stage per la mia formazione in Lavoro sociale è stato svolto presso il Centro Psico-Educativo (CPE) di Stabio, una struttura semiresidenziale clinica e terapeutica per bambini dai tre ai dodici-quattordici anni, facente parte dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC).

Dopo aver trascorso il primo mese d’inserimento e di osservazione all’interno della struttura, ho imparato a muovermi, a conoscere i bambini con le loro singolarità e particolarità, accentuando la mia attenzione per un momento educativo chiamato

Momento Interno Ricreativo, che da questo momento in avanti, per comodità del lettore,

citerò semplicemente MIR1.

Il MIR è un doposcuola meno strutturato, nel senso che non ci sono delle attività programmate, serve a creare un momento per far giocare i bambini tra di loro, perché possano svagarsi e rilassarsi prima di salire nell’appartamento per la serata.

La scelta del tema che ho voluto affrontare in questo lavoro di tesi, è riconducibile alle difficoltà riscontrate nei bambini: essi, infatti, non riuscivano a giocare insieme in autonomia e spesso era necessario intervenire per dividerli e contenerli nei loro atteggiamenti. Ho potuto rilevare queste difficoltà grazie ad un periodo in cui ho praticato un’attiva osservazione.

“L’osservazione è una metodologia che permette di vedere come attraverso un ascolto attento e consapevole possiamo essere in grado di conoscere i bisogni e di accogliere le preoccupazioni, le ansie, le aspirazioni, di chi abbiamo di fronte.” (Bisogni. 1999, p126)

Dopo un’attenta osservazione, nel mio ruolo di futura educatrice, è stato utile cercare di trovare una soluzione che fosse “pensata su misura”, al fine di poter

unire il gruppo di bambini residenti in internato, in un gioco che li coinvolgesse tutti insieme.

Durante il MIR i bambini cercano di giocare insieme, ma a causa delle loro fragilità e difficoltà non sono capaci ed in grado di interagire adeguatamente, riuscendo solo a litigare e arrivando inevitabilmente alla separazione, trasformando così un momento di gioia in uno di tensione. I bambini, infatti, sono alla ricerca costante di una relazione privilegiata di uno a uno con                                                                                                                

(6)

l’adulto, perché ciò risulta loro essere più semplice ed accomodante. Ovviamente questo per limiti istituzionali non sempre è possibile, di conseguenza da qui anche la necessità di trovare in un momento ludico come quello del gioco, un modo sereno di stare insieme seppur aiutati e guidati dall’adulto presente.

Durante il primo periodo di stage per poter lavorare in modo corretto con quei bambini così particolari, ho fatto delle ricerche al fine di conoscere e approfondire il tema del gioco nei suoi profondi significati, nella prospettiva di scegliere in modo mirato quali giochi poter fare.

Nella vita di ognuno è importante imparare a giocare ed è fondamentale fare tesoro delle esperienze.

“Il gioco permette al bambino di estendere il proprio campo di esperienza…, così i bambini arricchendo se stessi, sviluppano a poco a poco la loro capacità di scorgere la ricchezza del mondo reale esterno.” (Bisogni. 1999, p.102.)

Nella mia breve esperienza lavorativa e frequentando bambini anche al di fuori dell’ambito professionale, ho potuto constatare, che i bambini, generalmente, con il trascorrere del tempo, non praticano più attività ludiche. Passano molto tempo davanti al televisore e vengono sempre meno stimolati a relazionarsi con l’Altro: giungono così a chiudersi e isolarsi.

Come ho potuto costatare leggendo diversi libri, il gioco è sempre più sottovalutato sia nella pratica sia nella teoria.

“…Il tema del gioco, infatti, come un fiume carsico, appare e scompare dagli ambiti di studio della psicologia dello sviluppo… A partire dagli anni novanta il gioco non è stato più considerato un fenomeno degno di attenzione in sé ma è stato trattato soprattutto come un contesto all’interno del quale collocare lo studio dello sviluppo infantile.”

(Baumgarther. 2002, p 7)

È perciò importante stimolare, insegnare e portare il bambino, fin da piccolo, al piacere del gioco. I bambini del CPE hanno difficoltà e diverse problematicità a vivere il momento ludico del MIR, perché stare insieme in gruppo richiede loro un impegno di energie personali non indifferenti.

Mi sono allora chiesta come avrei potuto strutturare al meglio il momento del MIR al fine di semplificare loro lo stare insieme e godersi il piacere del gioco.

Questo obiettivo e una continua messa in discussione del mio ruolo mediante un’auto-osservazione critica, hanno sostenuto la mia domanda di ricerca:

(7)

In che modo un educatore, utilizzando come intermediaria l’attività ludica, può sostenere dei bambini con un disturbo psichico nell’apprendimento delle regole per riuscire a giocare insieme?

Il gioco è un argomento molto vasto e che tocca diversi aspetti. Ho cercato, quindi, di restringere il campo. Ho deciso di focalizzarmi sul gruppo dei quattro bambini in internato al CPE, con l’obiettivo, come già descritto in precedenza, di fungere per loro da collante e da facilitatrice per quanto riguarda la comprensione di semplici regole.

Per eseguire un intervento adeguato al tempo che avevo a mia disposizione, mi sono confrontata con alcuni membri dell’équipe e con la Commissione di tesi ed ho consultato diversi libri per costruire una base teorica per una corretta conoscenza di attività ludiche adeguate al mio obiettivo: “GIOCARE INSIEME”.

Vorrei ora introdurre e far comprendere il Progetto che ho sviluppato per la mia tesi.

Inizierò con lo spiegare il contesto in cui ho svolto la pratica professionale, per poi descrivere il gruppo di bambini, la metodologia, gli interrogativi, la teoria utilizzata e la pratica svolta. Dopo la dissertazione ci saranno le conclusioni rispetto al Progetto svolto e delle riflessioni sulla figura educativa in generale.

   

2. Descrizione del contesto lavorativo:

Prima di entrare nel dettaglio del mio Progetto è importante fare una breve descrizione del contesto dove ho svolto lo stage, per poter comprendere al meglio l’ambiente lavorativo e l’utenza.

Le informazioni che ho in mio possesso sono tratte dai documenti che la mia Responsabile Pratica mi ha consegnato durante le visite di avvicinamento che ho svolto al CPE, provengono dall’Appendice dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale2 e da fotocopie di presentazioni in PowerPoint3.

All’inizio degli anni cinquanta/sessanta vengono organizzati i primi Servizi ambulatoriali psichiatrici per i minori e per gli adulti.

Il 1° gennaio del 1985, avviene un cambiamento molto importante nella psichiatria pubblica, tutti i Servizi che fino ad allora si erano gestiti in modo autonomo vengono riuniti in un unico organismo: l’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC) che ingloba tutte le strutture ospedaliere e ambulatoriali pubbliche, predisposte alla presa a carico dell’utente psichiatrico. I centri psico-educativi (CPE) fanno parte dell’Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale (OSC).

                                                                                                               

2 Organizzazione Sociopsichiatrica Cantonale. 2004. Appendice. Mendrisio: Direzione dell’OSC.

3 Magnolfi, G. 2009. Presentazione dei CPE: Centri Psico-Educativi in Ticino, Un modello di Hôpital de Jour per bambini

con disagio psichico. Sopraceneri: SMP.

(8)

terapeutico-Il CPE nasce come un ospedale di giorno, un luogo di cura per bambini con gravi difficoltà psichiche, ma con potenzialità evolutive; in questa struttura il bambino può trovarsi a proprio agio e fare dei progressi.

Solo in Ticino ci sono istituti che possono offrire contemporaneamente un trattamento psichiatrico, psicoterapeutico (individuale o famigliare) e pedagogico.

L’Ammissione al CPE avviene dopo una valutazione fatta al SMP (Servizio Medico Psicologico).

I CPE sono delle strutture di cura semi-residenziali, aperti dodici mesi all’anno, cinque giorni su sette, dalle 8.30 alle 16.30.

Alcuni bambini frequentano il CPE a tempo parziale, altri a tempo pieno.

Gli orari per il CPE di Stabio sono differenti perché è l’unica struttura che ha un internato di sei posti, accoglie alcuni ospiti 24 h dal lunedì al venerdì.

Oltre a Stabio sul territorio ci sono altri due CPE, uno a Lugano e l’altro a Gerra Piano. All’interno di queste strutture c’è del personale specializzato, in grado di creare un ambiente terapeutico privilegiato e stimolante per dei bambini che hanno difficoltà a sostenere l’ambiente scolastico normale e le regole della società.

Il modello d’intervento del CPE di Stabio è quello Bio-psico-sociale4 che si fonda sulla consapevolezza dell’interdipendenza fra tutti i fenomeni fisici, biologici, psicologici, sociali e culturali. È quindi un ambiente terapeutico in cui il bambino può trovare un setting costituito da diversi spazi, inoltre viene a contatto con gli adulti, ognuno dei quali ha una propria funzione e soprattutto ha una propria personalità.

L’obiettivo del Centro-psico-educativo è consentire a questi bambini, attraverso le attività terapeutiche, di essere reinseriti nel circuito scolastico normale.

I bambini sono divisi per età, il gruppo dei piccoli va dai tre ai sei anni, mentre il gruppo dei grandi va dai sei ai dodici anni.

I bambini in internato durante il periodo del mio stage erano quattro. Ho potuto conoscerli piuttosto bene grazie ad una presenza nella quotidianità e nella continuità. Per loro, infatti, le attività non terminavano alle 16.30, ma proseguivano fino alle 18.00 circa, includendo anche un dopo-scuola, il MIR, momento più ludico in cui le attività erano meno organizzate, con tempi più cedevoli e flessibili.

Verso le 18.00 i bambini salivano in appartamento e si preparavano per la serata, dopo la cena vi era il “rito della lettura”. Esso serviva per chiudere la giornata e accompagnarli alla messa a letto prevista per le 20.30 circa.

La giornata per i bambini era ricca di impegni e stimoli che servivano per accompagnare e aiutarli nella loro crescita e nel loro sviluppo con l’obiettivo che fosse il più armonioso possibile, nel pieno rispetto dei propri tempi di apprendimento e della propria individualità.                                                                                                                

4 Il modello bio-psico-sociale “..il modello pone l’individuo ammalato al centro di un ampio sistema influenzato da

molteplici variabili. Per comprendere e risolvere la malattia, il medico deve occuparsi non solo dei problemi di funzioni e organi, ma deve rivolgere l’attenzione agli aspetti psicologici, sociali, familiari dell’individuo, fra loro interagenti e in grado di influenzare l’evoluzione della malattia. Il modello bio-psico- sociale si contrappone al modello bio-medico, secondo il quale la malattia è riconducibile a variabili biologiche che il medico deve identificare e correggere con interventi terapeutici mirati.” Medicina italiana. Numero 3 settembre. Internal and Emercency Medicine. Pag. 1

(9)

3. Presentazione del gruppo:

 

I bambini che hanno partecipato al mio Progetto sono quattro, il più grande si chiama Luca5, poi ci sono Edo, Lillo e la bambina di nome Lisa.

Descrivo ora brevemente chi sono, la loro età e le loro difficoltà.

Per cercare di fornire al lettore un quadro più completo delle dinamiche e delle caratteristiche di questo grupporiporterò in modo generale le informazioni che ho raccolto al CPE di Stabio leggendo le loro cartelle e gli appunti degli operatori. Trattandosi di bambini in età evolutiva, nel corso degli anni le loro diagnosi si sono sensibilmente modificate.

Prima di tutto è importante fare una premessa: i bambini sono solamente quattro, ma formano un gruppo.

“Un gruppo è un insieme di almeno tre persone, con caratteristiche di sistema, che interagiscono riferendosi a valori e norme, assegnandosi dei ruoli per il raggiungimento di obiettivi comuni.”6

Il primo bambino si chiama Luca, ha otto anni e non è scolarizzato. È stato ammesso al CPE con una diagnosi di “Disturbo oppositivo provocatorio”7.

Come ricercato nel DSM8 :

“L’anomalia del comportamento causa una compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.”9

Ha un disturbo oppositivo con diverse angosce persecutorie. Tende a comunicare il suo malessere con l’agito per cercare di bloccare i suoi pensieri. Cerca di controllare la relazione con l’adulto e gioca solo se le regole sono decise da lui.

                                                                                                                5 Tutti i nomi dei bambini sono fittizi.

6 Documentazione del modulo Processi nelle équipe, I GRUPPI aspetti strutturali, a cura di A. Nuzzo, F. Pirozzi, corso di

Laurea in Lavoro Sociale, Manno 2014.

7 Le diverse diagnosi sono state prese dalla loro documentazione.

8 Il DSM è il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o

psicopatologici più utilizzato sia nella pratica clinica sia nell’abito della ricerca.

9 Tratta dal DSM-IV, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disordres American Psychiatric Association,

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Poi c’è Edo, ha sei anni ed è stato segnalato per difficoltà educative e atteggiamenti ossessivi. La sua diagnosi è di “Disturbo da ansia di separazione”; da un punto di vista evolutivo, ciò porta ad avere paure e ansie inadeguate e a volte eccessive. Questo suo disturbo è stato provocato probabilmente dall’irregolarità della presenza della figura paterna che ha sortito di conseguenza un eccessivo attaccamento alla madre. Presenta dei tratti ossessivi e alcune fobie, come ad esempio non mangia alcun tipo di verdura. Il suo gioco simbolico è abbastanza sviluppato, però egli è rallentato, sia a livello motorio sia di pensiero.

Dopodiché arriva Lillo, che ha sei anni. È arrivato al CPE di Stabio con una diagnosi di

“Disturbo a livello della comunicazione.”

Non riesce a sviluppare delle relazioni importanti con i suoi coetanei. Preferisce eseguire giochi ripetitivi e solamente se spronato ricerca altri bambini.

Non riesce a stare in gruppo e vive ciò con angoscia; poiché non riesce a interagire e a relazionarsi con i compagni, cerca di controllare la relazione. La sua carenza di risorse e di fantasia emerge ..., come se non fosse stato stimolato abbastanza. Il suo gioco simbolico sembra acquisito ma molto povero. Per lui “far finta” è difficile, egli non ascolta e non segue le regole.

Infine Lisa. Ha sei anni è arrivata al CPE con una diagnosi di “Disadattamento con

disturbo misto del comportamento e delle emozioni”. È una bambina fragile a livello

emotivo: è incapace di tollerare le frustrazioni, spesso fa inutili capricci. Fatica a relazionarsi con il gruppo e preferisce instaurare delle relazioni esclusive con i suoi coetanei. Tende a estraniare gli altri e ha voler decidere tutto lei.

 

3.1

Presentazione della problematica:

 

Lo stage svolto al CPE di Stabio per la prima volta mi ha portato ad un confronto con la psichiatria infantile, una casistica completamente nuova.

Prima di identificare il tema di tesi, ho cercato di informarmi e conoscere le premesse istituzionali10, il metodo lavorativo e quello che io avrei potuto fare per aiutare i bambini. Tra tutti i bambini che ho osservato sono stata fin da subito colpita dai quattro facenti parte dell’internato.

Per circa un mese ho osservavo il loro modo di giocare, “il gioco è immensamente

eccitante…la cosa importante del gioco è sempre la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali.” (Winnicott. 1971, p.

84) è sempre stato molto eccitato, sul filo del rasoio e pieno di ansie ma svolto anche con                                                                                                                

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poco interesse e serenità. Tutti e quattro i bambini avevano una scarsa tolleranza alle frustrazioni.

Spesso hanno rinunciato a giocare con gli altri restando seduti vicino all’adulto, in questo modo hanno cercato di tutelarsi evitando di giocare, di entrare in conflitto, di cercare di socializzare, di mettersi a confronto con i pari; tale comportamento può essere visto come

“… un segno di gravi angosce arcaiche che impediscono alle pulsioni di esprimersi...”

(Castellazzi .V.L, Salvioni G. 1990, 29).

Vedere Lillo, il più piccolo del gruppo, che ripeteva spesso la stessa attività ludica (un gioco in scatola con raffigurati degli animali), oppure componeva dei puzzle sempre molto isolato dagli altri del gruppo, potrebbe significare “…che il bambino sta lottando con

problemi interni che non riesce a risolvere.” (Castellazzi .V.L, Salvioni G. 1990, 29).

Luca invece, il più grande, spesso svolgeva giochi pericolosi e aggressivi, controllava e decideva sempre tutto: per lui interrompere un gioco era difficile.

Edo invece cercava spesso di stare con bambini più piccoli di lui. Si pensava che fosse dovuto ad una forma di immaturità affettiva.

L’IO di ciascuno di loro era tremendamente fragile, necessitava di un rinforzo e di un sostegno.

Dopo tali osservazioni ho pensato che avrebbero avuto bisogno di un IO-ausiliario in grado di sostenerli, aiutandoli a giocare insieme e a sopportare le loro frustrazioni. Io, Elisa, avrei svolto per loro la funzione di IO-ausiliario, permettendogli così di interiorizzare al meglio l’esperienza di gioco e di gruppo.

Ecco perché ho cercato di trasmettere loro delle regole e delle competenze che ho appreso a mia volta confrontandomi con gli Altri durante la mia vita. Infatti…

“…è la propria esperienza ludica che l’adulto condivide col bambino contribuendo ad arricchirlo quanto più essa è profonda, estesa, radicata… a una condivisone partecipata della realtà emozionale che nel gioco si manifesta, cui l’adulto contribuisce a dar voce fornendo esempi e modalità di espressione.” (Bondioli. 2007, p.15).

Grazie ai testi di Winnicott11 (1971) ho compreso maggiormente dove nascono le difficoltà di questi bambini specifici. Egli afferma che “la madre sufficientemente buona”, è una mamma sensibile e attenta alle esigenze del proprio figlio, lei è capace di soddisfare i bisogni sia emotivi, cioè di essere protetto e gratificato, sia di cura personale, cioè essere allattato e cambiato.

Queste corrette attenzioni infondono al figlio sentimenti di fiducia e di capacità verso il mondo circostante; una volta diventato indipendente lo aiuteranno a non sentirsi eccessivamente impaurito, spaventato, incapace e schiacciato. Il bambino inizia a giocare perché qualcuno gli ha mostrato come fare.

I bambini presenti al CPE sono stati privati della presenza di una madre sufficientemente buona e il loro stare insieme è caratterizzato principalmente da litigi, insicurezza, fragilità e                                                                                                                

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paura. Prima di iniziare il Progetto in me si sono susseguiti alcuni interrogativi come ad esempio: Come mai non riuscivano a giocare insieme? Che cosa è successo all’inizio

della loro vita? Come avrebbero accolto le mie proposte?

Questi interrogativi mi hanno accompagnato durante tutto il progetto educativo.

Durante uno dei primi MIR, sono intervenuta involontariamente un paio di volte con dei semplici giochi, come ad esempio una filastrocca o una conta e sono riuscita per breve tempo a coinvolgere i bambini e a farli stare insieme. Questi piccoli giochi mi sono serviti per riuscire a costruire una relazione e a imparare a rapportarmi con loro catturandone l’attenzione. Costruite delle basi sufficientemente solide ho potuto iniziare il Progetto. Piaget afferma che: “…l’atteggiamento ludico è del tutto spontaneo e naturale essendo

una funzione della propensione del bambino all’attività verso il mondo circostante.”

(Bondioli. 2007, p 104) Anche per me il gioco è sempre stata un’attività spontanea e naturale e grazie a questo lavoro ho potuto approfondirla.

3.2

Metodologia e strumenti utilizzati:

 

In questo capitolo spiegherò la metodologia e gli strumenti utilizzati per costruire il lavoro di tesi. Per la stesura del Progetto scelto mi sono creata una cultura del gioco, ho consultato: “La mia Tesi in servizio Sociale”12,i moduli di Indagine per ricercare gli strumenti più adeguati per raccogliere i dati e la “Guida alle citazioni bibliografiche per le

scienze sociali”13. Ho utilizzato un approccio di tipo induttivo, cioè un’osservazione partecipante: ho cercato quali potessero essere gli interessi dell’Altro, mi sono data il tempo per conoscere la storia del gruppo e ho osservato il contesto, cosciente che la mia presenza potesse influire sull’Altro.

L’osservazione mi ha permesso di raccogliere i dati necessari per ideare un Progetto educativo, la metodologia utilizzata è una progettazione partecipata.

Il progetto si suddivide in:

- Conoscenza del contesto socio- educativo; - Ideazione, nascita dell’idea di Progetto; - Attivazione del Progetto;

- Stesura scritta della programmazione.

In questo lavoro svolto sono stata coinvolta in prima persona.

Ogni attività da me proposta e realizzata è sempre iniziata con un’ipotesi, seguita poi da un’osservazione e infine conclusa con il risultato e l’analisi di quello che era successo.                                                                                                                

12 Malcom Carey.2013. “la mia tesi in servizio sociale”. Trento. Erickson.

13 Biblioteca universitaria di Lugano. 2009. “Guida alle citazioni bibliografiche per le scienze sociali”. Lugano: Biblioteca

(13)

Mi formulavo sistematicamente una nuova ipotesi per la volta successiva, pensando di essere così agevolata nella programmazione.

Ho realizzato poi un Diario di bordo, dove ho potuto verificare l’andamento dei bambini, miglioramenti, peggioramenti e la durata dell’attività.

Nel Diario di bordo ho riportato anche le mie riflessioni, i suggerimenti ottenuti dall’osservazione e cosa è stato importante migliorare o variare.

Al CPE mi hanno permesso di svolgere le attività ludiche mirate due volte alla settimana: il Martedì e il Giovedì. Insieme ai bambini abbiamo deciso di chiamare questo momento:

“I giochi di Elisa”.

Le attività che ho selezionato dovevano essere di movimento e non da tavolo, quindi di diverso genere14, perché il MIR è un momento di svago dove i bambini possono muoversi, agitarsi e sfogarsi.

 

4. La teoria utilizzata:

 

4.1

La parola “gioco” origini e significato:

 

Prima di entrare nel cuore del Progetto svolto vorrei introdurre il lettore nel tema che ho scelto.

“Gioco:

Esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche.”15

Il gioco in passato fu considerato solamente come un semplice passatempo, un’attività alquanto molesta per gli adulti e superflua per i bambini.

All’esperienza ludica però si sono interessate diverse scienze tra cui la filosofia, l’antropologia culturale, la pedagogia, la sociologia e la psicologia. Molte sono le teorie emerse, ma nessuna è completamente esaustiva nel cogliere il gioco nella sua globalità; ogni teoria enfatizza e studia un aspetto del gioco perciò non esiste un’unica definizione. È un’attività compiuta fin da piccoli. All’inizio si svolge interagendo con la mamma, in seguito il bambino gioca con le parti del proprio corpo, poi con gli oggetti che trova vicino infine con gli oggetti e le persone che lo circondano.

Il neonato svolge giochi di movimento ed esercizio, l’attività si evolve in giochi simbolici e di finzione, infine si giunge a giochi di regole o di squadra che aiutano a costruire relazioni interpersonali, ruoli e gerarchie.

Si può affermare che esistono diverse attività che hanno scopi e obiettivi diversi:

- i giochi di movimento come saltare la corda, correre…, aiutano le funzioni motorie; - i giochi ripetitivi, come ad esempio passarsi la palla, permettono di migliorare la

coordinazione;                                                                                                                 14

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- la manipolazione, come giocare con la creta oppure costruire, aiutano lo sviluppo di schemi mentali e dell’immaginazione.

- il gioco di finzione, dove gli oggetti prendono forma e parte del gioco, ad esempio un bastone diventa una spada, una panchina una macchina da guidare, aiuta a sviluppare le funzioni simboliche com’è stato indicato dagli autori Piaget16, Vygotskij17 o Bruner18.

Molti studiosi hanno analizzato il tema del gioco.

Platone (427-347 a.C.), come affermato nel libro “Giocare per crescere”, ha sostenuto che l’anima del bambino ha bisogno di divertirsi, il gioco è un modo educativo per far apprendere al bambino un futuro mestiere.

Aristotele (384-322 a.C.) riprende lo stesso concetto e sottolinea l’importanza di incoraggiare i bambini a imitare le attività che poi potrebbero svolgere da adulti come il panettiere, il meccanico…

Alla fine dell’ottocento iniziano a comparire le prime teorie sul gioco.

Una teoria19 importante da spiegare è sicuramente quella di Caillois20 (1913- 1878) del 1958 che suddivise i giochi in determinati assi. Nel primo asse distingue tra paidia (gioco libero, improvvisato, senza regole) e ludus (gioco composto da regole).

Il secondo asse comprende quattro parametri: l’agon, dove risiedono la competizione, la lotta e si stabilisce un vincitore; l’alea, dove prevalgono la sorte e la fortuna, come nei giochi dei dadi e della lotteria, si va a sfidare il destino; la mimicry che consiste nel gioco di finzione, simulazione o illusione e infine l’ilinx, il gioco che si basa sulla paura, sul turbamento, sull’angoscia e sulla vertigine.

Gli autori che mi hanno aiutato, a sviluppare e a continuare il Progetto sono diversi, come: Jean Piaget, S. Freud, D. Winnicott, Anna Freud, Klein, Vygotskij.

Jean Piaget ha utilizzato il gioco per studiare i diversi stadi cognitivi.

Freud21 ha compiuto diverse osservazioni per comprendere il comportamento dei bambini e il loro sviluppo affettivo. Ad esempio attraverso l’analisi del gioco del Rocchetto22, di un

                                                                                                               

16 Jean Piaget. 1896- 1980. Psicologo Svizzero. Ha spiegato lo sviluppo mentale del bambino elaborato una teoria che

permette di comprendere l’evolversi del pensiero di un bambino in base al su organismo e adattandosi all’ambiente circostante.

17 Lev Semenovic Vygostskij. Psicologo, egli creò le basi della scuola sovietica di psicologia.

18 Jerome Seymour Bruner. È uno psicologo e pedagogista statunitense. Professore ad Harvard. Direttore del Center of

cognitive studies e professore alla New York University.

19  Le  diverse  teorie  si  possono  trovare  nell’allegato  n°3.    

20  Scrittore Francese. Attirato dall’irrazionalità studio il mito, il sacro e anche il gioco nell’opera intitolata “Les jeux les

hommes.”

21  Sigmund Freud fu il fondatore della psicoanalisi che ha come oggetto di studio i disturbi di tipo psicologico. 1856-

1939. Le sue teorie hanno influenzato i settori della cultura, le ricerche antropologiche e la medicina psicosomatica.  

22 È un gioco che si fa in due, il bambino e la mamma. Freud ha osservato suo nipote che teneva in mano un rocchetto

legato a una cordicella. Il bambino si divertiva a lanciarlo al di fuori del lettino e farlo scomparire, dopodiché ha tirato la cordicella e lo ha fatto apparire, quando lo ha rivisto ha emesso esclamazioni di gioia e sorpresa.

Attraverso questo gioco il bambino può provocare la comparsa e la scomparsa in modo simbolico della mamma. Con questo gioco simbolico egli può reagire alle frustrazioni e alle privazioni.

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bambini di 18 mesi, cerca di far capire come l’esperienza ludica possa essere utile al bambino per cercare di padroneggiare il mondo interno.

Donald Winnicott pone l’accento tra la differenza di un bambino “normale” e uno che ha subito delle mancanze. Il primo è in grado di giocare, di eccitarsi e sentirsi appagato dal gioco; il secondo invece non riesce a percepire il piacere del gioco perché il suo corpo è completamente bloccato dal malessere. Anche per quest’autore il gioco ha un valore simbolico ed esprime sentimenti e fantasie inconsce.

Nella lingua Inglese è stata fatta una distinzione della parola “gioco” usando due termini:

Play definisce i giochi fini a se stessi, senza obiettivi, generalmente individuali e non

socializzabili, senza regole imposte dall’esterno, ad esempio quando il bambino gioca a simulare di fare la nanna, di essere una regina o di essere un guerriero; Game è caratterizzato da competizione con degli avversari, da regole, dal raggiungimento di obiettivi e dichiarazione di un vincitore, giochi che possono essere ripetibili come ad esempio una staffetta, un gioco di gruppo.

Il passaggio da Play a Game avviene nell’età della latenza23, il bambino scopre l’esistenza delle regole e ne comprende l’utilità, avverte il piacere dello stare in gruppo.

In questa fase di latenza i giochi strutturati sono per la maggior parte caratterizzati da competizione che permettono al bambino di imparare a gestire e a esprimere la propria aggressività. Perché quindi l’uomo ha bisogno di giocare?

Nel libro “Giocare per crescere” si può trovare un elenco che in parte fornisce una spiegazione:

“…per il piacere; per sfogare la propria aggressività in un ambiente noto, senza che quest’ultimo reagisca con odio e violenza; per padroneggiare l’ansia; per favorire il processo d’integrazione della personalità; per comunicare la propria realtà interiore; per definire i confini del proprio corpo e per raggiungere il controllo di esso; per sviluppare le funzioni dell’Io; per sviluppare l’attività creativa; per assumere una presa di distanza dalla realtà e dalla pressione del Super-Io.” (Castellazzi .V.L, Salvioni G. 1990, p.25)

Concludendo il gioco aiuta a stimolare l’attenzione, la memoria, la concentrazione, in più aiuta a sviluppare gli schemi percettivi, le relazioni e le capacità di confronto.

Un bambino che cresce senza saper giocare diventa un adulto incapace di pensare e ragionare.

“Giocando il bambino espande gradualmente la sua capacità di cogliere la ricchezza del mondo esterno, esprimendo la sua creatività e vitalità.” (Winnicott. 1964, p.142)

     

                                                                                                               

23Avviene verso i 5/6 anni, quando il super Io inizia a concretizzarsi. In questa nuova fase il bambino ripudia i sentimenti

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(17)

 

4.2

La psiche dell’essere umano e le linee evolutive:

 

Fino ad ora ho svolto una premessa per far comprendere al lettore cosa sia l’attività ludica.

Per riuscire a comprendere meglio la difficoltà del giocare e dello stare insieme, è necessario approfondire e comprendere, in parte, la psiche umana.

Che cosa avviene nella psiche umana? Che cosa possono provocare alcune deprivazioni?

I bambini che sono al CPE non hanno sviluppato un corretto funzionamento dell’IO e del Super-Io. Hanno quindi un IO fragile e incapace, la loro patologia di base è intimamente legata alle alterazioni delle funzioni stesse dell’IO.

L’IO è l’istanza dell’equilibrio, esso deve cercare di mantenere una stabilità tra i diversi impulsi e le svariate richieste in essa risiede la capacità di riconoscere la realtà esterna, l’IO è un complesso di funzioni che riguardano la relazione tra individuo e ambiente.

“Perciò l’Io è responsabile di diversi compiti come l’orientamento spazio-temporale, il giudizio, la canalizzazione delle pulsioni, la tolleranza delle frustrazioni, la percezione della gravità del sintomo e la percezione in generale.” (Falabella. 2001, p. 23)

Il Super-Io è la coscienza morale che dovrebbe sviluppare una funzione di divieto. All’interno di questa istanza ritroviamo le norme, i valori che il bambino ha introiettato nei primi anni di vita in modo inconscio. La formazione completa del Super-Io avviene verso i 10 anni quando compare il senso di colpa e il rimorso.

L’Io e il Super-Io tentano di tenere sotto controllo le pulsioni provenienti dall’Es.

L’Es è la parte dell’inconscio dove risiedono i ricordi e le esperienze rimosse. Inoltre è un luogo di pulsioni legate al nostro passato, a volte queste pulsioni ci governano poiché hanno necessità di essere soddisfatte, in questa istanza domina il principio del piacere e la libido.

Quando osserviamo i comportamenti delle persone, in realtà, osserviamo il loro IO e indirettamente anche il loro Super –io.

Ad esempio con i bambini del CPE l’educatore svolge il compito di IO-ausiliario cioè intervenire come appoggio perché il Super-Io non è in grado di aiutare e sostenere l’IO del bambino.

L’IO è perciò da educare, nel senso di proteggerlo, sostenerlo, evitando che si possa destrutturare e scompensare. Per fare questo è importante evitare situazioni che il bambino non è in grado di affrontare.

I bambini del CPE non sono in grado di sostenere le sconfitte, le perdite e il confronto con le frustrazioni, punto dolente per un IO vulnerabile; quindi per riuscire ad accettare un momento ludico come il MIR essi hanno bisogno di strumenti, ad esempio imparare ad organizzarsi o conoscere giochi con le regole. La loro fragilità e incapacità li porta a reagire alle difficoltà in modo aggressivo e distruttivo.

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I bambini in internato hanno tutti un’età in cui dovrebbero iniziare a fare giochi che implicano regole e competizioni, non sono però in grado di assolvere tali compiti, infatti, se consideriamo la linea evolutiva possiamo costatare che la loro crescita in tal senso non è adeguata.

La linea evolutiva è una sequenza di tappe24 che porta il bambino dalla totale dipendenza delle cure materne all’autonomia affettiva e materiale.

Anna Freud afferma che è importante per lo sviluppo della personalità imparare a immaginare, giocare con la fantasia per poi poter riuscire a giocare in gruppo.

I giochi “… governati da regole inflessibili alle quali ogni partecipante deve sottostare, tali

giuochi non possono venire intrapresi con successo da un bambino che non abbia ancora acquisito una certa capacità di adattamento alla realtà e di tolleranza alla frustrazione…”

(Freud. A 1965,p.72).

I bambini del CPE non hanno ancora acquisito questa importante capacità e hanno bisogno di essere accompagnati per imparare a giocare e a sopportare le frustrazioni. Anna Freud ha studiato la linea evolutiva che va dal Gioco al Lavoro e l’ha suddivisa in sei fasi. Afferma, inoltre, che la patologia in un bambino può nascere a causa di uno squilibrio a livello maturativo.

All’inizio il gioco produce piacere erotico, il bambino gioca con la bocca, le dita, con il suo corpo e con quello della madre. In questa fase il bambino e la madre sono un tutt’uno, non esiste distinzione.

Nella seconda fase le parti del corpo della madre e del bambino sono trasferite su oggetti morbidi come coperte, orsacchiotti, cuscini, sono quindi utilizzate come oggetti transizionali. L’oggetto transizionale, come appreso attraverso il modulo “Cicli di vita”, è un oggetto della realtà esterna in stretto legame con il mondo interno del bambino. Tale oggetto assume un’importanza vitale per il piccolo, è usato come difesa contro l’ansia, si può affermare che quest’oggetto serve per creare al bambino l’illusione di non staccarsi completamente dalla mamma: egli riesce così a spostarsi da una realtà a un’altra senza essere traumatizzato.

Nella terza fase l’attaccamento a uno specifico oggetto si evolve verso una ricerca più generica, questi giocattoli sono investiti in modo ambivalente sia di libido sia di aggressività, possono essere sia maltrattati sia coccolati dal bambino stesso.

Nella quarta fase i giocattoli utilizzati fino ad ora iniziano a perdere lentamente importanza, solo alcuni sono utilizzati prima di andare a dormire. I giochi utili per aiutare il bambino in questo periodo evolutivo sono ad esempio il riempire, lo svuotare, il costruire o il distruggere e i giochi che permettono l’espressione di aspetti sia maschili sia femminili. Inizia così a nascere il gioco simbolico che è stato studiato particolarmente da Piaget. Egli, infatti, afferma che il gioco del “far finta” segna una parte importante per lo sviluppo del                                                                                                                

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bambino. Usando gli oggetti simbolicamente il bambino dimostra di essere in grado di distinguere l’oggetto che sta utilizzando da quello che semplicemente sta evocando, ad esempio sta suonando una chitarra, ma in realtà è semplicemente un bastone. Nel gioco simbolico si può utilizzare l’immaginazione per creare giocattoli e giocatori immaginari, si possono trasformare i personaggi e avviene la drammatizzazione dei racconti. Attraverso questo gioco simbolico il bambino cerca di gestire le proprie emozioni che provengono dalle situazioni che si trova a vivere.

Nella quinta fase il piacere non è più nel gioco, si sposta sulla riuscita di ultimare un compito, un esercizio o di risolvere un problema; in questa fase c’è l’investimento nell’istruzione scolastica.

Nell’ultima fase, la sesta, l’interesse per il gioco si trasforma nella capacità di lavorare. Questo passaggio avviene perché si passa dal piacere pulsionale primitivo al piacere sublimato.

Come letto nel libro “Giocare per crescere” ci sono stati distinti studiosi che hanno identificato altre linee di sviluppo riguardanti l’attività ludica, mi sembra importante quindi riportarle.

La prima è chiamata fase del gioco narcisistico: il bambino s’interessa alle diverse parti del corpo e alle relative funzioni, si prende i piedi, muove le mani…

La seconda è chiamata fase del gioco pre-edipico, il bambino elabora la separazione dalla madre.

La terza è chiamata fase del gioco edipico in cui il bambino ha timore di perdere l’oggetto d’amore, cioè il genitore dello stesso sesso è avvertito come un ostacolo che impedisce il possesso egocentrico del genitore del sesso opposto, dal quale si è attratti. Il bambino dunque entra in competizione con il genitore dello stesso sesso e proverà dei sentimenti ambivalenti: aggressività e rabbia, amore e ammirazione.

L’ultima è chiamata fase del gioco post-edipico, in questa fase si stabilisce il Super-Io. Il bambino inizia ad accettare le regole e s’interessa dei giochi di competizione che potrebbe svolgere con i pari.

Esiste un’altra linea evolutiva in cui sono state individuate tre fasi.

La prima consiste in giochi che permettono l’esplorazione del proprio corpo e viene chiamata autosfera.

Nella seconda, chiamata microsfera, i giochi servono per scoprire l’ambiente accanto al bambino.

Nella terza i giochi includono l’ambiente sociale vero e proprio e i compagni, è chiamata

macrosfera.

Infine vorrei riportare la mappa proposta e suddivisa in otto stadi “che comprende l’intero

arco di vita: scoperta del gioco (prima infanzia), differenziazione del gioco (seconda infanzia), gioco simbolico (età pre-scolare), gioco con ruoli (età scolare), giocosità con confini (adolescenza), gioco integrato (giovinezza), gioco generativo (età adulta), gioco creativo (età matura).” (Castellazzi .V.L, Salvioni G. 1990, p.29)

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Queste diverse linee evolutive, che ho appena descritto, permettono di comprendere ancora meglio che i bambini del CPE non hanno ancora raggiunto alcune tappe. Non hanno ancora acquisito la capacità di socializzare per riuscire a svolgere giochi insieme e con regole, ma hanno bisogno di un accompagnatore e un sostegno per poterlo fare. Il loro Super-Io è ancora fragile.

   

5. Dissertazione:

 

5.1 Preparazione delle attività:

 

Dopo aver svolto una ricerca approfondita sul tema del gioco, sulle line evolutive e cosa comporta l’aver subito delle mancanze, arrivo a spiegare il Progetto educativo svolto con i bambini del CPE.

Il Progetto è basato sull’aiutare il gruppo ad acquisire la capacità di giocare fra loro e nello stesso tempo riuscire a rispettare le regole per portare a termine l’attività.

Le attività selezionate fanno parte della categoria di giochi che risiedono nell’agon, ossia dove il gioco si basa sulla competizione e ha delle regole. Volevo riuscire a far entrare i bambini nella fase che in inglese è chiamata “Game”.

Piaget afferma che il gioco con le regole compare alla fine dell’età prescolare: sono sostituiti i giochi fatti in precedenza e si accentua la competizione. Il bambino quando gioca prova a sottomettere il mondo circostante, in questo modo cerca di affermare la propria presenza e di possedere se stesso.

Piaget inoltre suddivide lo sviluppo del bambino in tre tappe:

La prima è costituita dai giochi di esercizio, riguarda il primo anno di vita. Si può definire la fase senso-motoria: il bambino prende gli oggetti, li lancia, si dondola, gioca con mani e piedi, scopre se stesso attraverso i movimenti che svolge. In questa fase si sente vivo e prova piacere in quello che fa, nasce così la ripetizione dei movimenti e ripropone quello che impara.

Nella seconda tappa, che va dai due ai sei anni circa, troviamo i giochi simbolici. Il bambino rappresenta scene che non stanno realmente succedendo, le immagina o imita quelle viste dagli adulti, per cui finge di dormire, di cadere, di andare a lavorare o di accudire il bambolotto, quindi anche se la mamma è assente può essere rappresentata mentalmente.

Nella terza e ultima tappa ci sono i giochi con le regole, il bambino inizia a sperimentare lo stare in gruppo, entra nella fase sociale. Attraverso la competizione e poi la negoziazione tra pari si imparano le norme e si prende consapevolezza di quello che nella vita ordinaria si fa come routine.

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Per essere considerati giochi con regole, secondo “Piaget”, si devono osservare due criteri:

- è necessario che vi siano almeno due partecipanti in competizione tra loro.

- il comportamento dei giocatori è regolato da un codice solitamente prestabilito.”

(Baumgarther. 2002,p.81)

Il gruppo composto da Luca, Edo, Lillo e Lisa risponde correttamente a questi due criteri. Sono in quattro ed possibile creare della competizione, così io prima di iniziare ogni singola attività ho spiegato il gioco ed ho esposto le regole da rispettare.

Per Vygotskij partecipare a giochi con le regole richiede l’utilizzo di un “self-control” delle pulsioni, se si ottiene un controllo di questi impulsi ci si avvicina e si percepisce il piacere del gioco.

5.4 La ricerca e la pianificazione:

 

La ricerca dei giochi ha richiesto da parte mia particolare attenzione perché volevo riuscire a far sì che i bambini provassero piacere a giocare insieme. Desideravo incuriosirli e poi costruire una base di relazione, utilizzando attività capaci di attirare il loro interesse, la loro concentrazione.

Non è stato semplice trovare delle attività in cui i partecipanti avrebbero dovuto essere solo quattro, quindi l’indagine è stata piuttosto laboriosa.

Un’altra difficoltà che ho avuto è stata data dall’età dei bambini che come già detto è tra i sei e gli otto anni, età quindi scolare ma che non corrisponde alle reali capacità e competenze dei bambini stessi. Come posto l’accento in precedenza, i bambini del CPE sono a un livello inferiore rispetto alla linea evolutiva di Anna Freud, perciò non hanno ancora acquisito la capacità di giocare con le regole e di sopportare le frustrazioni.

Tenendo conto, infatti, delle loro difficoltà, dei loro disagi ho dovuto fare una selezione di giochi adatti a un’età inferiore ai sei anni. Ho scelto diversi giochi sia di cooperazione, cioè dove non ci sono ne vincitori ne vinti, sia di competizione. L’essere umano preferisce appartenere a un gruppo invece di essere separato da quest’ultimo, per cui nei giochi di competizione la difficoltà consiste nel fatto di non avere un vero rapporto tra gli stessi giocatori.

Ho anche cercato di valutare giochi da fare sia all’aperto sia al chiuso, con la musica o con oggetti (come palline, palle, cappelli, sedie). Tutto questo perché volevo poter sperimentare attività ludiche di diverso genere e osservare come i bambini si sarebbero comportati.

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Una volta selezionato i giochi25, li ho studiati e ho valutato delle possibili ipotesi e varianti per cercare di fare le giuste modifiche nel caso in cui l’attività potesse risultare difficile e complicata per il livello del gruppo. Ad esempio come ho scritto nel diario di bordo:

“…I bambini spesso non hanno accettato di essere presi e quindi ho dovuto inserire la

variante: se erano presi, non erano eliminati dal gioco, ma diventavano degli aiutanti,

cambiavano posizione, ma avevano comunque la possibilità di vincere.”26

Le varianti che ho inserito durante alcune tipologie di giochi sono state importanti per riuscire ad arrivare insieme alla fine dell’attività. Senza cambiamenti i bambini avrebbero abbandonato il gioco stesso; infatti, nelle prime partite, appena hanno percepito la sconfitta o l’eliminazione, sono scappati lontano da noi, se stavamo giocando all’esterno entravano nella sala giochi, se eravamo all’interno scappavano fuori sul piazzale. Sono diventati subito molto indisponenti e lamentosi.

All'avvio del Progetto le modifiche sono state molto utili per unire i bambini e creare un legame di coesione tra loro perché condividevano e decidevano insieme a me le nuove regole, questo “…è il vincolo che s’instaura, grazie all’interazione tra gli individui del

gruppo e che definisce i sentimenti di appartenenza che si sviluppano in un gruppo”27.

Creare tale legame è stato importante per far comprendere ai bambini che potevano avere fiducia negli educatori, in questo caso nella mia persona.

I bambini sono molto sensibili ai cambiamenti e alle variazioni, come ad esempio l’assenza di un educatore o il cambio di un’attività. Io non potevo sapere come avrebbero reagito, ciò mi ha trasmesso uno stato d’inquietudine: per questo ho iniziato ad impostare l’attività con una certa pianificazione sistematica.

È stato importante riuscire a dare una quotidianità e regolarità al gruppo, perciò ci siamo incontrati per circa due ore due volte alla settimana, il Martedì e il Giovedì.

Ho cercato anche di organizzare qualche giorno prima l’attività da svolgere, dopo le prime due unità28ho costatato che ogni giorno era molto imprevedibile. Avere un programma fisso e dettagliato era un limite, così mi sono creata una mappa di attività che potevo modificare e proporre in base allo stato d’animo del gruppo, ad esempio se i bambini erano troppo agitati, proponevo giochi più cooperativi e meno competitivi.

All’inizio di ogni gioco ho fatto la parte di chi doveva iniziare, in questo modo i bambini hanno visto quello che si sarebbe dovuto fare ed erano più disponibili, attenti e partecipi. “L’adulto non si limita a proporre attività ma, svolgendole in prima persona, si presenta

come modello positivo di identificazione: il vedere un adulto che si impegna, che fa

                                                                                                               

25 È possibile consultare e vedere la lista dei giochi nell’allegato n° 2. 26 Tratto dal mio diario di Bordo. Allegato n°1. Unità 1.

27 Documentazione del modulo Processi nelle équipe, I GRUPPI aspetti strutturali, a cura di A. Nuzzo, F. Pirozzi, corso

di Laurea in Lavoro Sociale, Manno 2014.

28 Le unità sono i giorni a settimana che avevo a diposizione, solitamente il martedì e il giovedì, per eseguire i giochi. In

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accanto ai bambini, motiva i bambini a fare altrettanto e legittima la loro attività.” (Bondioli. 2007, p.92).

Come ho scritto nel diario di bordo la presenza dell’adulto è davvero importante, infatti, in una delle prime unità “ho deciso di proporre un gioco di competizione a squadre con le

palline, un gioco di movimento nel quale le squadre sono composte anche dagli educatori, i bambini non saranno soli e l’operatore può aiutarli a superare le difficoltà.”29

Infine ho sempre cercato di trasmettere il divertimento e l’entusiasmo: “ Il fatto di divertirsi,

la gioia che si mette nel giocare, è una condizione- chiave, perché modifica il nostro modo di agire e ciò che può conseguire.” (Bisogni.1999, p.115)

5.5 La modalità di presentazione dei giochi:

 

Ci sono diversi modi per presentare e incuriosire i bambini nello svolgere delle attività. È importante non avere incertezze e insicurezze, qualora ci siano, è apprezzabile non farle capire a chi è davanti a noi, altrimenti potrebbero interferire con la presentazione di ogni attività. Dilungarsi troppo nella spiegazione dei giochi porta ai bambini a distrarsi e a non ascoltare bene il procedimento e le regole.

Per ogni gioco che ho presentato, ho sempre cercato di avere un tono abbastanza espressivo e sicuro, non avevo di fronte un gruppo di bambini “facili” e attirare il loro interesse non è stato per nulla scontato.

Mi sono intromessa nella loro quotidianità con delicatezza. La prima volta che abbiamo provato a stare insieme ho semplicemente aiutato a far continuare il gioco che avevano iniziato. La situazione che mi si è presentata è stata trovare Lillo escluso che giocava da solo seduto nell’erba, gli altri incapaci di trovare un compromesso si stavano dividendo. Ho voluto cercare di stabilire un primo contatto per costruire una base di relazione, così ho evitato di impormi eccessivamente e i bambini hanno dovuto fidarsi, accettarmi e ascoltarmi.

“Un elemento importante per l’animazione dei giochi è la propria voglia di giocare”.

(Bondioli. 2007, p.40)  

 

5.6 L’attivazione del progetto. Dalla teoria alla pratica:

 

Il Progetto è iniziato come una proposta che non portasse eccessivi cambiamenti alle loro modalità ricreative. Le novità portano a fuggire: “In un primo momento una cosa del tutto

estranea suscita semplicemente una reazione di fuga, poi c’è una fase di ispezione a distanza, spesso intensa e prolungata…” (Bisogni. 1999. P. 120)

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Le prime attività previste non sono state accettate da tutti per la diffidenza di fronte al nuovo. Infatti, alla proposta del primo gioco: “Luca ci ha osservato, girava intorno a noi ma

non accettava di giocare, ha impiegato circa venti minuti per decidere di unirsi a noi.”

Oppure in un altro momento: “Ho spiegato le regole ai due bambini che mi hanno seguito

e abbiamo iniziato la partita, subito dopo ci hanno raggiunto anche gli altri due abbastanza incuriositi.”30

I bambini prima di accettare di partecipare hanno voluto capire quali proposte avrei fatto e a che cosa sarebbero andati incontro.

Stare e giocare insieme è per tutti loro una sfida molto grande.

Giocare non comporta solo stare insieme e confrontarsi, ma raggiunge anche l’aspetto dell’affettività e delle diverse emozioni suscitate.

Quando ho proposto per la prima volta “CHE ORE SONO SIG. LUPO” i bambini hanno giocato insieme per meno di dieci minuti, spesso il gioco si è fermato perché il gruppo doveva essere rassicurato su quello che stava succedendo realmente “la confusione tra i

due piani non viene ammessa: i bambini vengono richiamati o rassicurati se prendono troppo sul serio il loro gioco; si ricorda a loro che è <solo un gioco>”. (Bondioli. 2007,40)

Con il messaggio “è solo un gioco” i bambini potrebbero crearsi una cornice in cui riuscire a delimitare quello che sta all’interno del gioco stesso e quello che sta all’esterno, ad esempio Lillo, non avendo creato una cornice, ha avuto realmente paura di essere mangiato da un lupo, non distinguendo il gioco dalla realtà.

“…gioco non è il nome di un atto o di un’azione; è il nome di una cornice per l’azione.”

(Bateson, 1979, p.187)

La confusione dei piani, quello reale e quello immaginario, che si sono sovrapposti e lo hanno portato a provare paure e angosce non controllate, anche se… “Paura, rabbia,

desiderio, amore, ambizione, conflitto, rivalità sono, secondo la teoria psicoanalitica, gli elementi dinamici del gioco senza i quali esso non avrebbe ragione di essere.” (Bondioli.

2007, p.68)  

Nei primi incontri i bambini si sono eccitati eccessivamente, senza riuscire a controllare le proprie pulsioni, si sono frammentati ed è stato indispensabile intervenire per dividerli e poi ricompattarli. La durata di ogni gioco era di circa dieci minuti, ho comunque capito l’importanza di continuare a proporre attività ludiche per permettere al gruppo di sperimentare lo stare insieme nonostante le loro grandi difficoltà.

Il ripetere le attività ha permesso al gruppo di immagazzinare le modalità e le regole, così da superare la frustrazione del dover perdere e le angosce di non essere all’altezza del gioco.

Alla fine, l’attività “CHE ORE SONO SIG. LUPO” è stata assimilata alla perfezione dai bambini, l’hanno riproposta anche agli educatori e sono stati capaci di rispettare tutte le regole e i limiti.

                                                                                                               

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Quando “I Giochi di Elisa “ sono entrati a far parte della quotidianità i bambini hanno incominciato ad accogliermi con gioia e curiosità.

Ho insegnato loro a giocare a “PALLA CHIAMATA”, un gioco con difficoltà bassa, dopo aver spiegato le regole abbiamo iniziato una partita. I bambini hanno avuto difficoltà di movimento e coordinazione e all’inizio non sono riusciti a riprendere la palla. Abbiamo fatto un paio di giri, di ripetizioni di movimento e tutti sono diventati molto bravi, anche Lillo che era il più piccolo è riuscito a prenderla e a rilanciarla. Edo, in quell’occasione, mi ha abbracciato e ringraziato per i giochi dicendomi “non mi sono mai divertito cosi tanto”. Ogni giorno è sempre stato diverso dall’altro. Prima di ogni attività mi informavo di come fosse andata la giornata, cercavo di percepire il clima e di comprendere il loro stato personale.

Non era però possibile prevedere come i bambini avrebbero reagito a un gioco, a volte tutto andava bene e si giocava insieme anche per circa quaranta minuti con un clima positivo e piacevole, altre volte invece subentravano e influivano fattori esterni incontrollabili, da parte mia, che influivano causando agitazione, angosce e paure. Ad esempio: incontrare un genitore o il dover andare a casa per il fine settimana… hanno portato a dover interrompere o a far terminare anticipatamente ogni attività per evitare che i bambini arrivassero al limite delle proprie capacità ed esaurissero le risorse.

Nelle occasioni in cui li ho visti particolarmente agitati, mi sono sentita insicura su cosa proporre, ho avuto paura delle reazioni che avrei potuto scatenar loro: non volevo che soffrissero. Soprattutto le prime volte ho pensato che sarebbe stato molto difficoltoso gestirli, perché le loro reazioni potevano essere eccessive e problematiche, come il fatto di scagliarsi addosso a te con tutta la loro forza, urlarti in faccia delle cose sgradevoli.

Con la continuità e regolarità del Progetto ho invece capito che erano loro i primi ad avere paura di loro stessi: proporgli un’attività permetteva loro di essere contenuti maggiormente, si concentravano nello svolgere il gioco e, non annoiandosi, gestivano le loro angosce.

In ogni attività il mio ruolo era di “garante”. Ho controllato, ho rassicurato e ho fatto rispettare le regole. All’adulto “…si può sempre ricorrere, uscendo temporaneamente dal

gioco, per ritornare illesi alla realtà, per essere consolati nei momenti critici, per modulare adeguatamente l’eccitazione.” (Bondioli. 2007, p.101)

Nello stesso tempo però sono stata una parte attiva dei giochi, mi sono fatta prendere, ho preso e ho iniziato per prima per cercare di incoraggiare e far capire bene al gruppo il procedimento. Sono stata in grado di fare l’adulto, quando è stato necessario e di accedere alla mia parte infantile per giocare con loro. “…l’adulto che gioca col bambino

deve regredire se vuole mettersi in contatto con l’interiorità infantile e riattivare il piacere del gioco ma, al tempo stesso, deve governare la regressione per metterla al servizio del bambino.” (Bondioli. 2007, p.97)

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In questo modo la mia area matura e quella primitiva dei bambini sono state in grado di “incontrarsi” e arricchirsi reciprocamente.

Acconsentendo di farmi coinvolgere ho anche dato ai bambini la possibilità di vedere come controllare gli impulsi contrastanti; ad esempio volevo vincere, ho perso non mi sono arrabbiata e non ho lasciato il gioco. Passaggio questo, per nulla semplice, da dover insegnare al gruppo.

“…per la sua maturità affettiva l’adulto è in grado di reggere la maschera distruttiva senza distruggersi e senza vanificare il gioco stesso e il piacere che ne deriva…”(Bondioli. 2007,

p.101)

Le attività preferite dal gruppo sono state quelle dove non c’era competitività, in questi giochi non si vince e non si perde, non nascono così conflitti31. Penso però che non si possa sempre giocare a giochi cooperativi perché nella vita la competizione è presente in ogni settore. Le difficoltà e i conflitti fanno parte del nostro vivere. Quando si è piccoli ad esempio ci si confronta spesso con i pari, si vuole vincere un gioco, si vuole decidere cosa fare oppure trionfare in una gara, essere il più bravo o il più dispettoso. Quando cresciamo, entriamo nel mondo del lavoro, dove ci si rapporta con i colleghi, a volte si entra in competizione o in conflitto perché le lenti che possediamo ci fanno vedere la realtà in modo diverso. Ognuno di noi cresce con dei costrutti e delle idee che gli permettono di interpretare e comprendere la vita. Ognuno di noi è unico e diverso, non è facile confrontarsi, accettare e andare incontro all’Altro.

Se impariamo fin da piccoli a gestire la competizione, il conflitto e la delusione, comprendendo che non si può vincere sempre e che le sconfitte a volte servono per farci crescere e maturare, da grandi sarà più facile vivere insieme con gli altri nel mondo. Giocare porta inevitabilmente a confrontarsi, a fare esperienza, ad avere conflitti, ma non è semplice; infatti, per ogni bambino è difficile accettare di perdere e affrontare la delusione, per quelli del CPE ancora di più.

“…Il conflitto, aspetto inevitabile dell’attività ludica… funzione evolutiva importante in quanto situazione di inevitabile confronto, che spinge il bambino a tener conto e a intrepretare i gesti, le idee, le intenzioni dei compagni.” (Bondioli. 2007, p 169)

Il loro grande egocentrismo li ha portati sempre e solo a vedere se stessi, senza percepire gli Altri. Questa caratteristica mi ha motivato sempre di più nella ricerca, sperimentazione ed alternanza di giochi diversi. Una volta ho proposto un’attività da tavolo dove bisognava preparare il gioco colorando dei pesci. Infine bisognava soffiarli lungo una panca o un tavolo e farli cadere in una padella. Avrebbe vinto il più veloce. In quell’occasione i bambini dovevano dimostrare l’abilità con il fiato. Non si sono mai sperimentati in giochi del genere, hanno dovuto imparare a soffiare e trovare una tecnica efficace per riuscire a                                                                                                                

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