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La disciplina amministrativa dei trattamenti sanitari obbligatori

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CAPITOLO IV

LA RESPONSABILITA’ DEGLI OPERATORI

DEI SERVIZI TERRITORIALI

4.1 TSO in ambito ospedaliero

E’ stato più volte sottolineato che nessun trattamento può essere messo in atto senza che il malato abbia espresso la propria volontà, ovvero che il consenso al trattamento diviene momento focale del rapporto medico-paziente. Questa regola, di carattere assoluto generale, ha naturalmente valore anche in ambito psichiatrico, ove di norma ogni trattamento, sia esso psicofarmacologico o psicoterapico,

deve essere consapevolmente accettato dal paziente. La norma costituzionale consentono tuttavia delle eccezioni che

devono però essere espressamente previste e regolate da altre leggi. La legge 833/78 prevede infatti, all’art. 34, una di queste eccezioni per la malattia mentale. Essa si concretizza quando “esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni o le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure

sanitarie extraospedaliere”. Si tratta, come appare evidente da un’attenta lettura della norma, di

misure che devono essere adottate solo per eventi eccezionali, laddove i comuni interventi terapeutici non appaiano più sufficienti a far fronte alle necessità cliniche, o il paziente rifiuti di proseguire le cure che

appaiano necessarie. C’è da chiedersi quando “alterazioni psichiche” siano tali da

richiedere “urgenti interventi terapeutici”. Alcuni autori hanno intravisto, tra le righe di queste norme, il recupero del concetto di pericolosità a sè ed agli altri, e ritengono che, di fatto, il trattamento sanitario obbligatorio venga ad essere adottato solo ed esclusivamente

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quando il malato manifesti aggressività auto o etero-diretta. Non si può che dissentire totalmente da questa impostazione. Si può dire che, nel rispetto dei principi che ispirarono la legge 180/78

e che per intero furono recepiti dalla 833/78, il filo conduttore che unisce i trattamenti volontari a quelli obbligatori non può che essere la tutela e la promozione della salute del malato mentale. Solo questo obiettivo difatti può giustifica un intervento che travalichi la volontà contraria del paziente, solo una necessità non derogabile di un intervento sanitario autorizza lo Stato a delegare ad un medico la

potestà di proporre un trattamento coattivo. Come si può intuire, e come si è già avuto modo di affermare

precedentemente, non vi è qui l’intenzione di negare che in talune condizioni un malato mentale possa obiettivamente costituire un pericolo, possa divenire aggressivo; ciò che si vuole qui sottolineare è che la possibilità che quest’ultimo manifesti comportamenti aggressivi rappresenta un’eventualità, una possibilità espressiva della sua malattia e non la condizione necessaria per un trattamento sanitario obbligatorio. E’ bene ribadire quindi che il TSO non rappresenta in alcun modo una misura di difesa sociale (anche se talvolta può rappresentare uno strumento preventivo), ma l’estremo tentativo di prendersi cura di un soggetto le cui condizioni di salute necessitano di un intervento urgente ed idoneo, e che non abbia la coscienza di tale necessità. Solo in quest’ottica ed a tali condizioni il medico può proporre un trattamento sanitario obbligatorio che altrimenti si spoglierebbe di qualsiasi competenza sanitaria trasformandosi in un intervento di polizia. Alla luce di quanto appena ribadito, si può tornare ad analizzare quando un quadro psichico richieda urgenti interventi sanitari, ovvero quando sia di tale portata da indurre a orientarsi per un trattamento sanitario obbligatorio. Ad avviso del parere preponderante, ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad un soggetto che manifesti un chiaro ed indiscutibile disturbo dell’ideazione delle senso-percezioni (e quindi, ad esempio, tutte le diverse forme psicotiche, ivi compresi anche i deliri lucidi), che nonostante i ripetuti inviti ed i reiterati tentativi da

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parte dell’equipe sanitaria conservi un immotivato rifiuto (ovvero esprima un dissenso non valido) al trattamento, si configura una condizione che richiede con urgenza (ovvero che non consente o non

ammette dilazioni o ritardi) interventi terapeutici. Dilazionare tale intervento non trova apprezzabili giustificazioni

cliniche (appare infatti improbabile che il dissenso possa improvvisamente trasformarsi in un valido consenso), lascia di fatto un soggetto “malato” sprovvisto degli interventi sanitari opportuni e potrebbe di fatto configurare gli estremi della omissioni di atti

d’ufficio e di abbandono di persona incapace. Oltetutto riteniamo anche che, dal punto di vista terapeutico, ricorrere

ad un intervento sanitario obbligatorio in tali condizioni (senza cioè attendere che la situazione precipiti e si renda insostenibile anche per i famigliari) agevoli un possibile “aggancio” del soggetto con le strutture territoriali e rappresenti, quindi, un utile strumento per il

successivo rapporto tra utente e servizio. Fatta questa premessa di ordine generale si procede a vedere quando

possono essere evocati profili di responsabilità in ordine al trattamento

sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera. Com’è noto lo psichiatra, dopo aver operato una valutazione delle

condizioni psichiche del soggetto, redige il primo certificato attestante l’esistenza delle condizioni richieste dalla legge e provvede, eventualmente con l’ausilio degli agenti di Pubblica Sicurezza o dei Vigili Urbani, a farlo accompagnare, dopo aver prestato il primo intervento sanitario d’urgenza, o ad accompagnarlo personalmente

presso il più vicino servizio psichiatrico di diagnosi e cura. A proposito del primo intervento sanitario d’urgenza, è stato sollevato

da alcuni psichiatri il problema della liceità, in questa fase preliminare del TSO, quando ancora cioè non vi è stata la convalida da parte del secondo sanitario, di operare un qualsiasi intervento (anche la semplice somministrazione di un sedativo nel caso di paziente agitato)

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senza incorrere nel reato di violenza privata44. A tale proposito, la tesi maggioritaria ritiene che l’intervento del

sanitario, non in maniera indiscriminata ma in taluni casi specifici, appare legittimato dalla necessità di preservare il paziente dal “pericolo attuale di danno grave alla persona”, cosi come richiesto dall’art. 54 cel CP45. Riprendendo l’esempio appena citato non sembra che possono sussistere dubbi sul fatto che un paziente affetto da malattia mentale, ed in preda, per esempio, a crisi di agitazione psicomotoria, concretizzi una condizione di imminente pericolo (requisito dell’urgenza), che da tale condizione possa derivarne un serio pregiudizio all’incolumità personale (requisito della gravità) e che il medico non possa diversamente operare (situazione di inevitabilità). Com’è ovvio non tutte le condizioni cliniche che consentono un trattamento sanitario obbligatorio configurano tali fattispecie e di conseguenza lo psichiatra dovrà operare scelte opportune, in relazione

al singolo caso. Un ulteriore problema che si può porre, in rapporto non solo con

l’esiguo numero di posti letto presso ciascun SPDC ma anche con la mancata integrazione operativa, è quello appunto della ricerca del posto letto nel caso in cui non vi sia la disponibilità presso il servizio

di diagnosi e cura territorialmente competente. E’ questo un problema che deve essere inquadrato nell’ottica

44 Art. 610 CP (Violenza Privata): “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe

altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni... Omissis”.

45 Art. 54 CP (Stato di Necessità): “Non è punibile chi ha commesso il fatto per

esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, nè altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionalmente al pericolo... Omissis”.

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dipartimentale che richiederebbe, nell’esclusivo interesse del paziente, continua collaborazione ed integrazione tra le diverse strutture operative; nel caso specifico è chiaro che non si possono dosare con il bilancino le varie responsabilità, nel senso che lo psichiatria deve essere sempre dalla parte dell’utente, anche se questo può comportare il fastidio di una telefonata in più, e forse non strettamente dovuta. Sul piano rigorosamente formale, sembra però che le competenze del servizio extraospedaliero si esauriscano nel momento in cui l’utente bisognoso di un ricovero viene affidato al servizio ospedaliero. La sistemazione dal punto di vista logistico (e quindi anche la ricerca del posto in altro presidio) diviene dunque di stretta pertinenza dello psichiatra ospedaliero che in ogni caso, dopo aver prestato le cure eventualmente necessarie, dovrà attivarsi per garantire al malato una

sistemazione adeguata. Questa impostazione pare, per la maggior parte, la più corretta per una

semplice osservazione: ciascun medico della struttura pubblica, tanto ospedaliero quanto del servizio territoriale, ha certamente il dovere (non solamente deontologico ma contrattuale) di fornire, ad un soggetto che manifesta la necessità di “urgenti interventi teraputici” l’assistenza necessaria. Orbene, appare evidente che in carenza di posto letto ospedaliero l’utente bisognoso di ricovero non può certo essere adeguatamente assistito in ambito extraospedaliero (se questa possibilità ci fosse stata non sarebbe stato necessario ipotizzare e promuovere un TSO in regime di degenza). In quest’ottica il medico ospedaliero potrà in ogni caso fornire un’assistenza più efficace ed opportuna del collega del servizio extraospedaliero, nelle more di una

sistemazione ancora più adeguata. Sin qui l’ipotesi che lo psichiatra del servizio territoriale operi il primo

intervento sanitario; può, e questa eventualità è per nulla infrequente, talvolta essere officiato in funzione di secondo certificante, a convalida ad esempio di una certificazione redatta dal medico di famiglia. Nella prassi quotidiana può accadere che lo psichiatra, spesso unico medico in organico e quindi costretto ad operare su più fronti contemporaneamente, veda giungere sul suo tavolo una richiesta di

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ricovero, formulata da altro sanitario, da parte di famigliari di un

malato che ne richiedano la convalida. L’errore in cui si può cadere è quello di assecondare tale richiesta,

confermando il primo certificato sulla scorta delle indicazioni fornite

dai parenti o, al più, dal medico di famiglia. E’ invece fatto obbligo allo psichiatra di visitare in ogni caso il

soggetto, perchè solo attraverso l’esame clinico (più accurato e cogente perchè fatto da uno psichiatra a fronte del primo esame che potrebbe anche essere stato effettuato da un generico in veste di medico di famiglia) può riscontrare o meno quelle condizioni che

consentono la convalida. Quest’ultima, è bene sottolinearlo, non rappresenta un ennesimo

esempio di burocratizzazione ma un fondamentale strumento di tutela dei diritti individuali, la violazione dei più importanti dei quali, quello della libertà, può avvenire solamente se vi è certezza (da qui la convalida) che le condizioni di salute necessitano di un intervento

terapeutico urgente. Venir meno a questi principi non rappresenta solamente un tradimento

allo spirito della legge (e dunque anche un venir meno agli obblighi di tutela della salute del paziente) ma anche un reato penale (falsità ideologica in certificati, art. 481 CP46) perchè anche se le condizioni di salute psichica corrispondessero a quelle descritte nel certificato la loro attestazione non deriverebbe, come richiesto, da un personale

convincimento fondato sull’esame diretto del soggetto. Inoltre, sempre secondo le tesi riconosciute dai più, qualora non vi

46 Art. 481 CP (Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un

servizio di pubblica necessità): “Chiunque, nell’esercizio di una professione, sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino ad un anno... Omissis”.

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fossero stati realmente gli estremi per un trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza, lo psichiatra potrebbe essere chiamato a risponderne non solo in ambito penale per la falsità in certificati, e conseguentemente per sequestro di persona (art. 605 CP47), ma anche civilmente per il danno subito a seguito di

immotivato ricovero. Per analoghe ragioni è da considerare del tutto irregolare un

trattamento sanitario obbligatorio qualora sia lo stesso sanitario a redigere entrambi i certificati, evenienza spesso giustificata con la cronica penuria degli organici dei servizi psichiatrici territoriali. A tale proposito va ricordato che la legge non richiede, per nessuno dei due certificati, che a redigerli sia uno specialista in psichiatria; pertanto qualsiasi medico è abilitato ad emettere certificato di “proposta”, cosi come lo è qualsiasi sanitario di struttura pubblica relativamente a quello di “convalida”, primo fra tutti il medico di pronto soccorso che per primo accoglie il paziente. Operare diversamente costituisce palese violazione dello spirito della legge, che nel doppio certificato identifica uno dei principali strumenti di tutela dei diritti del paziente (primo fra i quali quello della libertà individuale) e di garanzia (fornita dal parere conforme di due medici sulla necessità di tale

provvedimento) che nessun abuso è statto commesso. Egualmente grave è l’evenutalità che lo psichiatra non ricorra,

nonostante sussistano le condizioni, ad un trattamento sanitario

47 Art 605 CP (Sequestro di persona): “Chiunque priva taluno della libertà personale

è punito con la reclusione da sei a otto anni. La pena è della reclusione da uno a dieci anni se il fatto è commesso: 1) in danno di

un ascendente, di un discendente o del coniuge; 2) da un pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti le sue funzioni”.

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obbligatorio, per un errore diagnostico o ancor peggio, per una convizione pregiudiziale. In questa evenutalità, oltre a incorrere nel reato di omissione o rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 CP), il medico psichiatra potrebbe essere chiamato a rispondere, qualora ad esempio non vi siano famigliari disponibili, anche del reato di abbandono di persona incapace (art. 591 CP48).

48 Art. 591 CP (Abbandono di persone minori o incapaci): “Chiunque abbandona una

persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sè stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere la cura, è punito con la reclusione da sei mesi

a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’Estero un cittadino italiano minore degli

anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei mesi se dal fatto deriva una lesione

personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o

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4.2 TSO in ambito extraospedaliero

Quali che siano le condizioni di lavoro ipotizzate (ambulatorio o domicilio) il medico può trovarsi di fronte alla necessità, imposta dalle condizioni cliniche del paziente, di effettuare un trattamento sanitario

obbligatorio extraospedaliero. Com’è noto la legge 833/78 prevede una tale possibilità, pur non

facendona esplicita e diretta menzione e pur non avendone previste le formalità. Nell’art. 33 si afferma infatti: “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del Sindaco su proposta motivata di un medico” ribadendo inoltre che gli stessi sono “attuati da presidi e servizi sanitari pubblici territoriali e,

ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o

convenzionate”, precisando poi nel successivo art. 34 le formalità

relative a quest’ultima modalità. Tale formulazione lascia intendere, secondo la tesi preponderante, che

l’ultima condizione richiesta dall’art. 33 (la necessità di degenza) ricorre esclusivamente quando si ritenga indispensabile non solo un trattamento inderogabile, bensi un trattamento in regime di ricovero ospedaliero. Se non fosse cosi non si vede per quale motivo sarebbe stata inserita la locuzione “ove necessiti”, risultando sufficiente affermare che tutti i trattamenti sanitari obbligatori per malattia

mentali sono attuati dai presidi ospedalieri. In realtà anche la pratica clinica giustifica il ricorso ad un simile

intervento; in molte eventualità un sufficiente grado di integrazione sociale ed un controllo della sintomatologia viene ottenuto grazie al ricorso ai farmaci long-acting, che assicurano una continuità farmacologica e che rappresentano spesso lo strumento per realizzare

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e consolidare una valida alleanza terapeutica. Non è infrequente che però il paziente interrompa bruscamente, per svariate eventualità, l’assunzione della terapia provocando in tal modo spesso un rapido peggioramento della sintomatologia psicotica. In tali condizioni il ricorso ad un trattamento obbligatorio in regime di degenza ospedaliera può apparire misura sproporzionata alle reali necessità terapeutiche potendosi, nella maggior parte dei casi, affrontare e risolvere almeno la fase di acuzie con la semplice somministrazione di

un neurolettico ad azione prolungata. Non essendo espressamente indicate dalla legge c’è da chiedersi

quando si realizzano le condizioni per un trattamento sanitario

obbligatorio extraospedaliero. I più ritengono che questa si concretizzano quando sono presenti le

condizioni per un trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza e sia possibile attuare le necessarie terapie al di fuori del ricovero, cioè vi sia la possibilità di fare altrimenti (l’impossibilità di fare altrimenti è infatti una delle condizioni per il trattamento sanitario

obbligatorio in regime di degenza ospedaliera). Una situazione di tal genere può ad esempio verificarsi nei riguardi di

un malato che, dimessosi dal servizio psichiatrico di diagnosi e cura debba, per il naturale proseguimento della cura intrapresa, eseguire un

trattamento ambulatoriale. Ricevuta la segnalazione da parte dell’unità ospedaliera il servizio

dovrà attivarsi per contattare l’utente e, pur mettendo in atto ogni iniziativa rivolta ad assicurare il consenso e la partecipazione, qualora queste manchino (e siano presenti altri requisiti richiesti) sarà egualmente tenuto ad intervenire a mezzo di un trattamento sanitario

obbligatorio extraospedaliero. Allo stesso modo potrebbe operarsi, ad esempio, nei confronti dei

soggetti prosciolti per vizio totale di mente e riconosciuto non socialmente pericolosi che debbano, in ragione della loro malattia,

proseguire un trattamento. Si tratta, in entrambe le evenutalità, di soggetti nei confronti dei quali

il servizio non avrebbe apparentemente obblighi di intervento; ciò nonstante, se è vero (come è vero) che il servizio territoriali svolge

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funzioni preventive e terapeutiche laddove si manifesti un bisogno di salute mentale, appare evidente che tali situazioni siano palesente espressive di un bisogno di salute. Intervenire, anche eventualmente a mezzo di trattamenti sanitari obbligatori ambulatoriali, diviene dunque

obbligo almeno sul piano deontologico. Non vi sono dubbi che un’interpretazione di questo genere possa

anche apparire inquietante, lasciando teoricamente, in tal modo, allo psichiatra la facoltà di operare trattamenti sanitari obbligatori con grande facilità. In realtà per cosi non è, perchè, per la maggior parte degli esperti del settore, le stesse garanzie richieste dalla legge per un trattamento sanitario in regime di degenza dovranno essere mantenute

anche in casi di un TSO extraospedaliero o domiciliare. Lo psichiatra, in altri termini, non potrà limitarsi a somministrare il

farmaco a sua discrezione ma dovrà egualmente inoltrare al Sindaco una regolare e motivata richiesta. A questo punto, sempre secondo l’opinione maggioritaria, la prima richiesta (che, si rammenta, potrebbe anche non essere proposta da un sanitario di una struttura pubblica) dovrà essere convalidata da un secondo medico della struttura pubblica, a garanzia della legittimità dell’intervento. Solo a questa condizioni, l’operato dello psichiatra potrà apparire giustificato. Si tratta, in definitiva, di una possibilità che, pur soffrendo attualmente di indeterminatezza legislativa, rappresenta un importante strumento operativo al quale lo psichiatra non può fare a meno di ricorrere, ogni qualvolta vi siano le condizioni richieste.

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4.3 Modalità del ricovero

Non è rara l’evenutalità che il paziente, per le peculiari condizioni cliniche, manifesti viva opposizione alla proposta del ricovero, sino alla messa in atto di comportamenti francamente aggressivi o, al contrario, di fuga. Sorge, a questo punto, frequentemente incertezza in merito a chi (tra operatori sanitari o forze di Pubblica Sicurezza) debba intervenire provvedendo alla “cattura” materiale dell’infermo e del suo successivo trasporto presso il servizio psichiatrico di diagnosi

e cura di competenza. In questi casi, e in tutte le eventualità nelle quali l’intervento del solo

psichiatra possa risultare infruttuoso, l’operatore potrà, come già detto in precedenza, richiedere l’intervento delle forze di Pubblica Sicurezza o, evenutalmente, dei Vigili Urbani allo scopo di garantire il necessario trattamento sanitario e preservare l’incolumità dello stesso

infermo o di evenutali terze persone. Merita, a questo punto, ricordare l’opinione espressa dal Pretore di

Monfalcone nella sentenza n. 207 del 20 Maggio del 1985 nella quale considerando la cattura e il trasporto dell’infermo quale “mera operazione sanitaria” ne affida l’esclusivo compito a medici e infermieri specializzati. Contro questa interpretazione, seppur autorevole, si scaglia la tesi maggioritaria secondo cui le fasi di cattura e trasporto forzato in ospedale non rappresentano nè prevenzione, nè cura, nè riabilitazione; non fanno parte cioè del trattamento sanitario e, pertanto, la loro attuazione compete a chi istituzionalmente è autorizzato a compiere atti, anche violenti, limitanti della libertà individuale nell’interesse di tutti i cittadini (autorità di Pubblica Sicurezza)49.

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Se cosi non fosse, se ogni atto per il solo motivo di attenere ad un malato di mente fosse di competenza sanitaria, qualsiasi operazione riguardante un infermo di mente, anche la più banale (allacciarsi le scarpe, vestirsi, ecc.) dovrebbe essere svolta da personale sanitario. E’ stato obiettato che comunque, trattandosi di un “soggetto infermo di mente”, anche un operazione non specialistica come la sua cattura, dovrebbe essere svolta da personale competente (medici e infermieri psichiatrici), capace cioè di utilizzare anche in questo frangente le

proprie conoscenze in materia. Provocatoriamente, risponde la tesi che, allora, nel caso in cui un

cardiopatico manifesti comportamenti aggressivi la competenza della sua “cattura” sarebbe dei cardiologi, avendo solo questi ultimi, in qualità di specialisti della materia, le cognizioni necessarie per poter intervenire tenendo conto della peculiare condizione di salute del paziente. La conclusione è che di fronte ad un soggetto che manifesti aggressività, ed eserciti della violenza, indipendentemente dalla causa che l’ha provocata, deve essere previsto un intervento delle forze di polizia, uniche ad avere facoltà e dovere di intervenire in tali frangenti. Il fatto che un soggetto sia un malato mentale impone il successivo intervento sanitario, dopo cioè che la condizione di

immediato pericolo sia stata affrontata e risolta. Come fare inoltre a distinguere, nelle più diverse situazioni, se in una

manifestazione violenta siano preponderanti motivazioni psicopatologiche? Può essere sufficiente essere a conoscenza che quel soggetto sia stato o sia tutt’oggi un paziente psichiatrico? E se cosi non fosse, sarebbe conseguentemente esclusa ogni competenza

49 A. Realdon, Il nuovo custodialismo territoriale ovvero dalla decriminalizzazione

alla psichiatrizzazione totale. Atti del XXVIII Congresso Nazionale SIMLA,

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psichiatrica in soggetti non in trattamento? Ed ancora, in un paziente che minacci concretamente il suicidio (classico “uomo sul cornicione”) di chi la competenza per un intervento immediato, dei

pompieri o degli psichiatri? Appare evidente, al di là di queste semplificazioni volutamente

esasperate, che lo psichiatra possa e tavolta debba offrire il suo contributo di esperienza anche in determinate eventualità, quali la “cattura” del malato mentale; ma altra cosa è attribuire allo psichiatra la competenza di tale intervento che non può che essere delle forze di polizia. E’ doveroso, al contrario, sottolineare, per quanto detto sopra a proposito della peculiarità del rapporto con il paziente, l’inopportunità della partecipazione diretta dello psichiatra a tali operazioni. L’efficacia di qualsiasi intervento psicoterapeutico è, com’è noto, strettamente dipendente dalla qualità del rapporto che si realizza tra paziente e psichiatra; rapporto che deve essere fondato sulla fiducia e

sul rispetto reciproco. Mescolare dunque le due figure (quella del medico e quella del

poliziotto) significa offrire al paziente un’immagine distorta del ruolo e della finalità dell’intervento psichiatrico, minare all’origine la possibilità di instaurare un proficuo rapporto, compromettendo quella necessaria relazione fiduciaria che rappresenta la condizione

indispensabile per un positivo riscontro terapeutico. Altra questione direttamente legata alle modalità del ricovero riguarda

l’accompagnamento materiale del paziente al servizio di diagnosi e cura. Il problema riguarda, in altri termini, l’opportunità e/o l’obbligatorietà, da parte del sanitario del servizio territoriale, di essere personalmente presente durante la fase di trasporto dell’ammalato in ospedale per far fronte alle necessità di evenutali

interventi terapeutici urgenti. Tale situazione è tanto più sentita dagli operatori dei servizi territoriali

laddove un solo operatore medico presiede l’attività del centro e dunque, l’accompagnamento materiale del malato comporta, di fatto, l’abbandono del posto di lavoro molto spesso per un cospicuo periodo

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In analogia con quanto avviene in altri servizi territoriali (ad esempio, guardia medica estiva presso stazioni turistiche) i più pensano che la scelta se accompagnare o meno il paziente dipende da una valutazione del quadro clinico, della condizione generale del paziente. Nel caso, ad esempio, di un paziente che pur svogliatamente, dopo aver manifestato qualche resistenza, acconsenta ad essere ricoverato, ed al quale siano già state eventualmente praticate le prime misure terapeutiche, non si pone la necessità di accompagnamento, che può

essere delegata ad un infermiere della struttura territoriale. Diverso il caso di un soggetto che manifesti un quadro psichico

contrassegnato, ad esempio, da angoscia, minaccia incombente di morte, stato d’allarme ansioso per il quale è ipotizzabile, durante il trasferimento (spesso di parecchie decine di chilometri) la necessità di interventi urgenti; o ancora, qualora il paziente psichiatrico manifesti una patologia concomitante (ad esempio una cardiopatia) che necessiti

di controllo costante ed evenutale tempestivo intervento. Non appare possibile dunque ipotizzare un modello comportamentale

costante, adattabile a tutte le situazioni, da seguire rigidamente; solo una serena e coscienziosa valutazione di tutti gli elementi clinici potrà, di volta in volta, orientare il medico verso la migliore soluzione.

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4.4 Responsabilità nel lavoro dell’equipe

Quanto sinora detto si riferisce alla responsabilità del singolo medico, ma l’attuale organizzazione del lavoro in ambito territoriale prevede una continua assistenza e collaborazione nell’attività da parte di altro personale medico e para-medico, ovvero essa si articola sempre di più

come attività di equipe. In questa eventualità può divenire ardua la ricerca dell’attribuzione

individuale della responsabilità; al proposito, le più recenti posizioni dottrinarie ricercano nel principio dell’affidamento, ovvero in una precisa divisione dei compiti secondo specializzazioni e competenze, uno degli elementi dirimenti in modo che “ognuno debba rispondere per il proprio fatto, senza ritenerlo obbligato a studiare contestualmente l’operato del collega per poter correggere eventuali errori”50

. Inoltre in ambito ospedaliero si sovrappongono sempre precise responsabilità derivanti dai rapporti gerarchici; in tale ottica non vi è dubbio che il primario, “essendo tenuto a rispondere della salute di tutti i ricoverati, per quanto può accadere loro nel corso della degenza,... è fatalmente coinvolto nella responsabilità di ogni azione od omissione che sia stata dannosa ai malati affidatigli. Vi è una

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presunzione di colpa sino a che egli non riesca a provare la sua estraneità”51

. La responsabilità gerarchica, tuttavia, è temperata da limiti precisi che derivano sia dall’esistenza di specifiche aree di intervento attribuite ad altri componenti dell’equipe, sia ad obiettivi limiti di sorveglianza. Il primario ha, ad esempio, la facoltà di delegare ad un aiuto la sorveglianza di una sezione di un reparto (art. 7 del DPR del 27 Marzo 1969, n. 128); in tal caso, se l’aiuto è fornito di sufficiente esperienza e la prestazione in causa non richiedeva eccezionali difficoltà il primario non vedrà certo attribuita a sè la responsabilità derivante da

eventuali eventi dannosi. Diversamente, se la delega è rivolta a persona non sufficientemente

capace, per esperienze o specifica preparazione, a svolgere il compito affidatogli, o, ancora, se l’errore deriva da specifiche disposizioni impartite dal primario, sarà quest’ultimo a doverne rispondere. Quanto sopra detto può essere trasferito, nell’ambito dei diversi

compiti e responsabilità, anche ai rapporti tra aiuto e assistente. In un ambito lavorativo non strutturato secondo modalità gerarchiche,

dove operino specialisti diversi ed appartenenti a brache distinte (come in un servizio territoriale ove cooperano medici generici, psichiatri, psicologi) assume valore, come detto, il principio dell’affidamento. Tuttavia, dal momento che presso il servizio territoriale i diversi operatori, pur appartenendo a diversa estrazione ed in possesso di titoli di studio distinti, attuano trattamenti multidisciplinari, la

divisione delle responsabilità può apparire più complessa. A fare chiarezza in merito alle attribuzioni dei compiti al personale

non medico appartenente alle ASL, e segnatamente degli psicologi, è intervenuta la legge 18 Febbraio 1989, n. 56, relativa appunto

51 A. Guarnieri, La responsabilità del medico ospedaliero nel lavoro d’equipe. Atti

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all’ordinamento della professione di psicologo. Per la prima volta difatti viene con precisione delineato il profilo professionale di psicologo e, conseguentemente, tratteggiati requisiti e competenze. Per quanto attiene queste ultime viene affermato che: “la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità” (art. 1). Appare evidente, anche alla luce di questa definizione, come il ruolo e l’attività dello psicologo risulti fondamentale elemento di integrazione

e completamento dell’attività svolta da un servizio territoriale. Alla luce di queste considerazioni appare evidente come, nella

fattispecie del servizio psichiatrico territoriale, possano contemporaneamente coesistere tanto margini relativi al principio dell’affidamento quanto quelli inerenti alla responsabilità gerarchica. Le molteplicità delle possibilità di intervento e la loro diversa efficacia sul singolo caso fa ricadere infatti sul primario (o sul responsabile facente funzioni) del servizio psichiatrico territoriale la responsabilità di scegliere quali di queste modalità sia la più opportuna; una volta operata la scelta sarà suo compito quella di valutare se lo psicologo, o lo psicoterapeuta, in servizio presso il centro sia, per specifica preparazione ed orientamento professionale, in grado di prendere in

carico il paziente (responsabilità gerarchica). Qualora queste condizioni siano presenti, anche in considerazione

della sua specifica non preparazione in merito, il paziente dovrà ritenersi “affidato”, com’è ovvio per la sola competenza psicoterapica, allo psicologo; si tratterebbe, ad avviso della maggior parte delle opinioni, di un vero “affidamento” perchè lo psichiatra, pur essendo a conoscenza di limiti, pregi ed efficacia di ogni singola tecnica psicoterapeutica, non necessariamente ha capacità e preparazione specifica sufficienti per sorvegliare o correggere l’operato di chi è, invece, specificamente preparato, a mezzo di un training, all’uso di

quella singola tecnica. Il problema, a questo punto, è di stabilire quali margini di

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dall’esito di un intervento psicoterapico, svolto da quest’ultimo nell’ambito delle attività del servizio psichiatrico territoriale, sia derivato, secondo un rapporto di causalità, un danno al paziente. Non vi possono essere dubbi, per la maggior parte delle tesi, che nella ricerca della responsabilità andrà applicato il principio dell’affidamento per cui lo psicologo deve ritenersi, per gli spazi operativi di competenza e relativamente ai pazienti presi in carico,

responsabile alla stregua di ogni altro operatore sanitario. In quest’ottica la responsabilità si origina ogni qualvolta non siano

stati pienamente assolti i doveri generici e specifici inerenti l’attività professionale e quando tale inadempimento costituisce altresi

violazione di norma di legge o di una disciplina. Sarà sempre necessario, com’è naturale, che vi sia stato un errore

tecnico e che da quest’ultimo sia derivato un danno ad esso

collegabile con nesso di causalità. E’ noto che in ogni trattamento sono presenti e codificate regole

tecniche circa lo stabilirsi e il mantenersi della relazione terapeutica; sicchè la diligenza e la prudenza vanno valutate in rapporto alla prevedibilità di situazioni rischio scatenate da determinati interventi. L’indicazione per un determinato intervento infatti non solo deve rispondere in generale a quel determinato quadro clinico, ma deve anche basarsi su una valutazione attuale che tenga conto anche del

bilancio costi-benefici. L’aspetto più complesso appare quello della dimostrabilità di un

danno alla persona quale conseguenza di un errore nell’ambito della

responsabilità professionale di uno psicoterapeuta. Ciò è tanto più complesso in quanto non ci sono spesso possibilità di

ricostruire la situazione psichica e psicopatologica del soggetto precedentemente all’intervento, nè ci sono dati sugli aspetti diagnostici, nè sul trattamento psicoterapico e sulle modalità tecniche effettuate. Non v’è dubbio che siamo di fronte alla figura (quella dello psicoterapeuta) di un professionista che ha maturato una specifica

competenza in un determinato e settoriale campo di conoscenze. Ne deriva che non appare plausibile che la responsabilità si concretizzi

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“solo quando si rilievi un comportamento incompatibile col minimo di cultura ed esperienza da pretendersi da parte di chi si sia abilitato all’esercizio della professione”52

, ma essa debba essere, con maggiore severità, correlazionata alle cognizioni proprie di uno specialista nel relativo campo.

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CAPITOLO V

LA RESPONSABILITA’ IN AMBITO

OSPEDALIERO

5.1 Ammissione

Nell’ambito ospedaliero, in regime di trattamento sanitario obbligatorio, i momenti che sollecitano l’intervento dello psichiatra, e quindi che possono proporre profili di responsabilità professionale, riguardano le fasi dell’ammissione, del trattamento e della dimissione. Per quanto attiene l’ammissione, bisogna partire, però, dall’eventualità che si prospetta nell’ipotesi di un malato di mente che si rechi spontaneamente presso il pronto soccorso di un ospedale dotato di servizio di diagnosi e cura e richieda volontariamente il ricovero; si tratta di un’eventualità già prevista dal legislatore del 1968, che difatti inseri nell’art. 4 della mini-riforma psichiatrica (legge del 14 Marzo del 1968, n. 431) la possibilità di ricovero volontario in ospedale psichiatrico “per accertamento diagnostico e cura, su autorizzazione del medico di guardia”. Tale condizione, prevista come possibile in questa legge, è diventata abituale con legge 180/78 che non a caso contiene, come primo principio enunciativo, al primo capoverso dell’art. 1, la seguente frase: “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”. Dunque, la normativa esistente prevede come norma la possibilità di sottoporsi volontariamente a trattamenti sia ambulatoriali che in regime di degenza ospedaliera. Il sanitario, una volta accertata la fondatezza della richiesta (e cioè l’indicazione al trattamento e/o agli accertamenti), ed appurata la validità del consenso, dovrà provvedere a redigere il verbale di ricovero secondo modalità del tutto sovrapponibili a quelle riguardanti le altre forme

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morbose. A puro scopo cautelativo viene da alcuni autori53 suggerita l’opportunità di far sottoscrivere la cartella clinica al malato, allo scopo di costituire prova contro evenutali ripensamenti ed evitare quindi potenziali accuse di sequestro di persona; si tratta, come detto, di indicazioni puramente cautelative non essendoci, a livello normativo, alcun riferimento specifico in ossequio alla già ricordata assimilazione del ricovero volontario del malato di mente a qualsiasi

altro ricovero per diversa patologia. Un’altra e certamente più frequente eventualità è quella di un malato

che giunga all’osservazione del sanitario accompagnato da parenti o dal personale dei servizi extraospedalieri senza la doppia certificazione richiesta dalla legge per l’attuazione di un trattamento sanitario obbligatorio; in tale caso, spesso la prima certificazione di proposta di ricovero può essere redatta dal sanitario del pronto soccorso e la successiva convalida operata dallo psichiatra ospedaliero, con immediato invio di entrambe le certificazioni al

Sindaco del Comune di provenienza. Un primo quesito che può porsi è se il medico abbia la facoltà di

operare con immediatezza le cure che ritiene necessarie al caso di specie o se debba attendere, per rendersi operativo, l’ordinanza del Sindaco. In questa fase l’operazione dello psichiatra ospedaliero si attua dentro confini delimitati da una parte dal dovere morale, dall’altra da doveri di tipo deontologico, e dall’altra ancora da una griglia relativamente

flessibile di doveri giuridici. Sul piano morale non possono naturalmente esservi dubbi che lo

psichiatra ospedaliero ha il dovere di assistere nel modo migliore una persona bisognosa di assistenza. Analogamente, dal punto di vista deontologico, lo psichiatra, al pari di qualsiasi altro medico, indipendentemente dalla sua funzione o specializzazione, ha il dovere

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di “prestare le cure d’urgenza a persona in pericolo immediato” (art.

11, del codice deontologico). Più complesso ed articolato il discorso per quanto riguarda i doveri

strettamente giuridici. Secondo le norme sull’assistenza psichiatrica il ricovero in regime di

trattamento sanitario obbligatorio, come abbiamo già avuto modo di vedere, deve avvenire sulla scorta di una regolare ordinanza del Sindaco e successiva convalida da parte del Giudice Tutelare. L’eventuale ricovero coatto attuato in carenza di tale ordinanza o di convalida da parte del giudice, esporrebbe il medico all’ipotesi di sequestro di persona (art. 605 CP), ed eventualmente anche di

violenza privata (art. 610 CP). Alla luce di queste indicazioni alcuni psichiatri sono stati colti dal

dubbio se risulti lecito, nelle more del provvedimento del Sindaco e del Giudice Tutelare, mettere in atto una terapia necessaria. La

maggioranza di questi ha dato risposta affermativa. Nell’ipotesi in discussione lo psichiatra, infatti, si trova di fronte ad un

paziente che necessita senza alcuna ombra di dubbio di interventi terapeutici urgenti, ovvero non dilazionabili nel tempo. Se cosi non fosse, ovvero se tali interventi potessero essere adottati successivamente, non vi sarebbero più gli estremi per un trattamento sanitario obbligatorio ed il paziente dovrebbe essere lasciato libero di

fare ritorno al proprio domicilio. Appare dunque improponibile, non solamente sul piano deontologico

ma anche normativo, che un paziente che manifesti un bisogno urgente di interventi terapeutici possa rimanere senza le indispensabili cure per un periodo che, è bene sottolineare, potrebbe prolungarsi sino a 48 ore. Si propone, in altri termini, la stessa sitazione già affrontata a proposito dei medici dei servizi territoriali laddove questi debbano decidere, in attesa del certificato di convalida, se mettere in atto

misure terapeutiche adeguate. Secondo la tesi maggioritaria, dunque, non solamente lecito bensi

doveroso risulta l’intervento del sanitario di modo che una condotta eccessivamente astensionista potrebbe far incorrere il medico ospedaliero (nella sua funzione di incaricato di pubblico servizio) nel

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reato previsto dall’art. 328 CP (omissione o rifiuto di atti d’ufficio) in

riferimento all’art. 593 CP (omissione di soccorso). Le condizioni che concretizzano tale ipotesi sono: a) che la persone

sia “altrimenti in pericolo”; b) che si ometta “l’assistenza occorrente”. Per quanto riguarda la prima condizione c’è da chiedersi se un malato di mente, nel quale due medici hanno già individuato i presupposti per un trattamento sanitario obbligatorio, in regime di degenza

ospedaliera, sia sempre da considerare “altrimenti in pericolo”. Gli esperti pensano che a tale quesito non può darsi una risposta

affermativa; se per pericolo si intende la “probabilità di un evento temuto”54

non vi è dubbio che un malato di mente, che presenti alterazioni psichiche di entità e gravità tali da rendere necessarie urgenti misure terapeutiche che, rifiutate, non possono convenientemente essere predisposte ed attuate altimenti che in ospedale, si trova in una condizione che concretizza l’ipotesi del pericolo e cioè della probabilità che si verifichi un evento dannoso per

la sua salute. Per quanto riguarda la seconda condizione, cioè l’eventuale omissione

dell’assistenza occorrente, si ritiene che in presenza dei presupposti per il trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera (indipendentemente dall’essere stati o meno in precedenza evidenziati dai due medici, certificante e convalidante) non vi sia

possibilità di scelta. L’assistenza occorente in queste specifiche condizioni è

necessariamente da indentificarsi nel ricovero, essendo evidente che questa modalità di trattamento, ancorchè eccezionale, è l’unica ed esclusiva possibile per garantire la tutela della salute dell’individuo. Ipotizzando, ad esempio, l’eventualità, nella realtà piuttosto frequente, di un paziente che giunga all’osservazione in condizioni di agitazione psicomotoria e nel quale si accerti la presenza di costruzioni deliranti

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del pensiero, non può certamente dirsi esaurita la fase di urgenza e di “pericolo” (per come inteso all’art. 593 CP) con il primo intervento psicofarmacologico. Quand’anche il paziente risulti sedato appare evidente che permangono necessità assistenziali connesse, per esempio, con le condizioni psichiche indotte dallo psicofarmaco. Un paziente che si trovi in tale stato può inoltre essere sicuramente considerato “incapace di provvedere a sè stesso”; in tal caso un sanitario che consenta l’allontanamento dell’infermo, esponendolo quindi a potenziali situazioni di pericolo, potrebbe incorrere nel reato

di abbandono di persona incapace (art. 591 CP). In definitiva, lo psichiatra ospedaliero ha l’obbligo morale e la

possibilità giuridica di trattenere in reparto e di prestare le cure necessarie al malato di mente che necessiti di un trattamento sanitario obbligatorio in attesa della formale ordinanza del Sindaco; anche nell’eventualità che il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio non venga emesso dal Sindaco secondo la maggior parte delle opinioni il medico, al di fuori dell’ipotesi di dolo (ovvero nel caso che abbia volutamente trattenuto in ospedale un soggetto che non presentava i requisiti previsti dalla legge), non potrà comunque rispondere per le cure intraprese potendo invocare l’esimente dell’art. 54 CP (stato di necessità), ovvero per aver agito “costretto dalla necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave

alla persona”. Una situazione sovrapponibile può immaginarsi per un paziente che,

entrato in reparto come volontario, chieda di essere dimesso; in tal caso, se sono previsti i requisiti richiesti dalla legge per un trattamento sanitario obbligatorio, i sanitari del servizio di diagnosi e cura possono

trasformare il ricovero da volontario in coatto. Anche in questa eventualità si creerebbe però un vuoto temporale tra il

momento della richiesta e l’arrivo dell’ordinanza del Sindaco durante il quale il medico ha, secondo gli esperti, l’obbligo derivante oltre che dal codice deontologico dal comune senso morale di prestare assistenza a persona necessitante di cure urgenti e, inoltre, evidentemente incapace di provvedere a sè stessa. L’ipotesi secondo la quale lo psichiatra potrebbe incorrere nel reato di sequestro di persona

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(art. 605 CP) o eventualmente di violenza privata (art. 610 CP) verrebbe elusa, sempre secondo gli operatori del settore, dalla necessità di non incorrere, anche in questo caso, nel reato di cui

all’art. 591 CP (abbandono di persona incapace). Si ricorda brevemente che perchè si concretizzi il reato di abbandono

occorre la sussistenza dell’evento di pericolo per il bene protetto, pericolo che non deve essere certo ma anche solo potenziale. E’ inoltre necessario che l’autore violi un obbligo di garanzia nei confronti della persona o delle persone già affidate alle sue cure, ovvero nei confronti della quale si sia già stabilita una relazione terapeutica. In altri termini, perchè la condotta omissiva di un sanitario possa integrare l’ipotesi dell’abbandono “sarà necessario che l’obbligo generale di servizio si sia già concretizzato nell’effettiva assunzione in cura di un paziente ben determinato; ne discende allora che, finchè un trattamento curativo non sia stato di fatto iniziato, non potrà ancora parlarsi di abbandono, ma si configurerà il reato di omissione di atti d’ufficio”55

. Appare evidente, fatte queste premesse, che non possano esservi dubbi che consentire ad un soggetto infermo di mente, le cui condizioni psichiche richiedano provvedimento terapeutici urgenti e che non abbia coscienza di malattia, di allontanarsi lo esporrebbe ad una potenziale condizione di pericolo per la propria incolumità personale. Allo stesso tempo può essere certamente considerato “affidato alle cure” (e quindi soddisfare la seconda condizione necessaria) un paziente nel quale lo psichiatra riconosce (dopo aver effettuato la visita) gli estremi per un trattamento sanitario obbligatorio in regime

di degenza. Altre possibili situazioni nelle quali sono ipotizzabili margini di

responsabilità del medico psichiatra nella fase dell’ammissione

55 G. Fiandaca, Problemi e limiti della responsabilità professionale dello psichiatra,

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possono riguardare l’eventuale rifiuto di convalidare il primo certificato di TSO, e quindi il ricovero, cui faccia seguito un evento dannoso per la salute del paziente ricollegabile, secondo i criteri della causalità materiale, all’errore diagnostico, e quindi ad esso attribuibile. Questa eventualità può essere sostenuta da due distinte ipotesi: in un primo caso la mancata convalida può essere frutto di errore diagnostico, e quindi lo psichiatra può esserne chiamato a risponderne, non per errore scusabile, bensi per imperizia, negligenza e imprudenza. Avendo già precisato in precedenza che non è necessario, per poter effettuare un trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, operare una diagnosi ben precisa di malattia essendo insufficiente identificare una condizione sindromica, la possibilità che si concretizzi un errore valutativo riguarda abitualmente più che la diagnosi i riflessi di quest’ultima (ovvero il

grado di “urgenza” e l’impossibilità di fare altrimenti). Può verificarsi cioè una disparità di giudizio sull’opportunità di

ricorrere ad un TSO in condizioni di degenza non motivata da discordanze diagnostiche (ad esempio accertamento di un delirio mistico) ma sulla necessità che un paziente di tal genere, che si presenti cioè tranquillo e senza che vi siano grandi conflittualità o preoccupazioni famigliari, debba essere curato anche contro la sua volontà.

L’esperienza segnala infatti la tendenza a privilegiare il criterio della pericolosità (intesa come probabilità di messa in atto di comportamenti auto-etero aggressivi) al posto di quello della gravità (intesa come necessità di intervenire tempestivamente con idonee misure terapeutiche); tendenza che va naturalmente scoraggiata perchè da un lato contrasta con il diritto del paziente ad ottendere il trattamento di cui ha bisogno e dall’altro espone il medico a potenziali rischi professionale per il mancato ricovero.

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Ben più grave, come sottolinea giustamente Fiori56, è viceversa l’ipotesi che il rifiuto derivi non da un errore diagnostico ma da presuzione ideologica e quindi sia sostenuta dal dolo. Non può sottacersi che ancora oggi è viva, in un certo numero di operatori psichiatrici, un ideologia che vede nel trattamento sanitario obbligatorio uno strumento repressivo e non di tutela del malato mentale. Non vi sono dubbi che ciascun sanitario operante nell’ambito della tutela della salute mentale abbia il dovere (oltre che deontologico anche sancito dalla norma, vedi comma 5, art. 33, legge 833/78) di adoperarsi affinchè venga ridotto il ricorso ai trattamenti obbligatori e privilegiata ogni iniziativa volta ad assicurare il consenso e la partecipazione. Ma laddove i presidi terapeutici extraospedalieri non siano riusciti (per la peculiarità dell’affezione, per la particolare condizione famigliare, per problemi organizzativi inerenti la struttura psichiatrica territoriale, ecc.) a fornire quel sostegno (medico e socio-assistenziale, ecc.) necessario a trattare adeguatamente un paziente, e questo presenti i requisiti richiesti dalla legge per un trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza, non adottare il provvedimento rappresenta non solamente una dolosa omissione di atti d’ufficio, ma soprattutto costituisce una grave mancanza professionale verso il proprio paziente, che palesa in maniera evidente un bisogno di salute che non può altrimenti essere soddisfatto. Un’ultima considerazione in tema di ammissione al ricovero riguarda il consenso del paziente al trattamento. Si è più volte ribadito come una delle condizioni per un TSO in condizione di degenza è la non accettazione, da parte del paziente, delle cure ritenute necessarie. Orbene non è infrequente l’eventualità che il paziente, dopo aver espresso un vivo disaccordo alle proposte di trattamento formulate dai

56 A. Fiori, La riforma (della riforma) psichiatrica e la responsabilità professionale

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sanitari, giunto presso il servizio di diagnosi e cura, per evitare un ricovero che viene naturalmente vissuto come ingiusto, immotivato o comunque non desiderato, dichiari di avere intenzione di accettare le

cure proposte, in maniera naturalmente strumentale. Mancherebbe in tale situazione le condizioni per il proseguimento del

TSO in condizioni di degenza e dunque il sanitario non può che acconsentire al suo rientro al domicilio. Vanno fatte, però, a questo

proposito, alcune doverose considerazioni. Come si è già detto il consenso (come cosciente accettazione delle

cure necessarie) rappresenta l’elemento cardine di ogni trattamento e la sua assenza quindi limite invalicabile per il sanitario. La legge prevede però la possibilità di prescindere dal consenso quando questo risulti invalido, ovvero quando esso non rappresenti il frutto di una scelta motivata, ma risulti inficiato da malattia mentale. Se dunque il dissenso al trattamento, perchè possa essere accettato, deve essere considerato valido, altrettanto può (e tanti ritengono deve) chiedersi al consenso. In altri termini sembra che il sanitario, cosi come non può limitarsi ad accettare passivamente il dissenso di un malato (essendo costretto ad indagare sulle reali motivazioni e dunque accertarne la validità), non può limitarsi ad accettare passivamente neanche il suo consenso, ove vi siano ragionevoli motivi (clinici, anamnestetici, ecc.) che inducano a ritenere che esso non sia valido, ovvero non fondi su una, pur parziale, presa di coscienza della necessità di curarsi ma sia

solo strumentale al suo desiderio di evitare ogni trattamento. In tale condizione, conclude la tesi maggioritaria, potrebbe a giusta

ragione essere confermato (e/o mantenuto) il TSO in condizione di degenza ospedaliera in attesa che realmente maturi, attraverso l’ausilio dei presidi terapeutici, una coscienza di malattia.

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5.2 Trattamento

Iniziata la degenza il primo problema che si pone è quello della diagnosi. La formulazione diagnostica infatti è premessa indispensabile non solo per la prosecuzione del ricovero in regime di TSO, ma anche per

la scelta del trattamento più adeguato. Per quanto riguarda la prosecuzione del ricovero i criteri sono

sostanzialmente sovrapponibili a quelli che riguardano la dimissione e pertanto se ne parlerà più avanti a proposito di quest’ultimo argomento.

Relativamente invece all’eventuale errore di diagnosi, come rilevato in precedenza, l’orientamento costante della giurisprudenza tende a ritenere colpevole esclusicamente l’errore grossolano, inescusabile, derivante dall’ignoranza di elementari nozioni. Perchè si configuri responsabilità professionale è necessario inoltre che da tale errore di

diagnosi derivi un errore nel trattamento che produca danno. In questa prospettiva la dottrina medico-legale ha schematizzato le

seguenti possibilità: a) diagnosi errata - terapia errata; b) diagnosi corretta – scelta errata della terapia; c) diagnosi corretta – esecuzione

errata della terapia. La prima ipotesi nel caso specifico potrebbe apparire alquanto

improbabile dal momento che il ricovero di un malato di mente avviene, solitamente, dai certificati dei due medici; tuttavia bisogna ricordare che i due medici che rilasciano il primo certificato e la convalida non sono tenuti a fare una precisa diagnosi nosografica, nè ad essere specialisti, avendo solo l’obbligo di accertare e quindi

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evidenziare “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”. Potrebbe quindi ad esempio verificarsi che uno stato inibitorio di probabile natura psicotica venga diagnosticato come un severo stato depressivo (ed entrambe le condizioni potrebbero giustificare la richiesta si trattamento sanitario obbligatorio) ad essere conseguentemente trattato invece che con neurolettici con antidepressivi, e che nel corso di tale trattamento si verifichi un danno. La seconda eventualità è che a fronte della diagnosi corretta venga attuato un trattamento che risulti inadeguato oppure inefficace per posologia e/o durata. Per fare un esempio, inadeguato può essere considerato un trattamento psicofarmacologico di lunga durata a base di neurolettici ad un paziente affetto da psicosi maniaco depressiva quando si considera la comprovata maggiore efficacia, nel prevenire le ricadute, dei sali di litio ed il riconoscimento costante e generale, a questo scopo, della priorità d’uso di questi ultimi rispetto ai neurolettici. Oppure, sempre in merito al trattamento delle depressioni, un trattamento, pur adeguato per quanto concerne la scelta del farmaco (ad esempio con farmaci triciclici) potrebbe risultare inefficace per posologia; ad esempio nel caso di un paziente con grave depressione, che abbia già manifestato idee suicide, per il quale venga prescelto un dosaggio inferiore al necessario, oppure per il quale non si sia tenuto conto della latenza necessaria perchè la

sostanza divenga terapeuticamente utile. La terza ipotesi (diagnosi corretta – esecuzione errata) potrebbe invece

configurarsi nell’eventualità di sospensione brusca del trattamento neurolettico e cioè in una scelta non conforme ai protocolli terapeutici largamente utilizzati e condivisi dalla scienza medica che prevedono l’utilizzo di alcuni necessari accorgimenti di natura tecnica (ad esempio, riduzione a scalare della posologia). In questo caso “si potrà ravvisare imperizia ed imprudenza... qualora una sospensione brusca ed improvvisa del farmaco neurotropo comporti la comparsa di una

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grave sindrome discinetica da astinenza”57

. In definitiva è bene sottolineare che un errore nel trattamento

farmacologico del paziente (come conseguenza di erronea prescrizione, di inadeguato protocollo, di insufficiente o eccessiva posologia, di mancati accorgimenti per la prevenzione di complicanze, ecc.) molto spesso è attribuibile non ad imperizia, ma a negligenza, incuria, imprudenza. Manca, nella maggior parte dei casi, la possibilità di invocare soluzioni di problemi tecnici di particolare difficoltà e pertanto può essere considerata sufficiente anche la colpa lieve. In tal senso si è espressa la Suprema Corte che ha più volte ribadito che “quando la responsabilità del professionista trova la sua origine nella carenza di diligenza o di prudenza, la valutazione deve essere effettuata con riguardo alla natura dell’attività svolta, con la conseguenza che è rilevante anche la colpa lieve in quanto la diligenza da impiegare è quella dell’accorto professionista, che eserciti, cioè, la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione. Pertanto, nel caso dell’esercente la professione sanitaria, qualora la prestazione sia di ordinaria difficoltà, egli è tenuto ad osservare le regole dell’arte medica, relative alla malattia ed alle sue cure, che ogni

medico deve conoscere e rispettare”58

. Come è stato più volte ribadito, quando si argomenta sul trattamento

della malattia mentale bisogna ricordare che siamo di fronte ad una patologia per certi versi particolare, nel senso che l’obiettivo della terapia, e cioè il superamento delle condizioni patologiche trattate, si consegue non per il solo effetto della terapia farmacologica, ma per il suo concorrere di una serie molto ampia di fattori, tra i quali un posto non secondiario spetta al rapporto medico-paziente (ed in genere

57 C. I. De Muri, N. Garzotto, R. Zanotelli, La responsabilità civile e penale dello

psichiatra nella somministrazione di farmaci neurolettici, Fogli di informazione,

106, 1984, p. 31.

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operatore psichiatrico-paziente), al clima del reparto, alle relazioni che

si stabiliscono tra i vari ricoverati. Pertanto la responsabilità morale e deontologica dello psichiatra non si

esaurisce nell’intervento farmacologico dovendosi egli adoperare perchè l’insieme delle relazioni del paziente, e quindi anche le sue condizioni di vita all’interno del reparto, siano tali da rendersi

funzionali al trattamento. Un problema particolarmente delicato, durante la fase del trattamento,

è se nelle competenze dello psichiatra debba rientrare anche la sorveglianza dell’infermo intesa come “gamma di interventi sanitari finalizzati ad impedire nel malato condotte produttrici di danno a sè ed

agli altri”59

. Com’è noto il rapporto professionale prevede obbligazione di mezzi e

non di risultati; compito quindi di ciascun sanitario non è quello di “guarire” un paziente ma di applicare con adeguatezza di mezzi la terapia consona ad una determinata patologia. E’ altresi indispensabile che il medico, allo scopo di ottenere per il singolo caso il più elevato livello di salute possibile, operi con tutti i mezzi eventualmente disponibili allo scopo di prevenire un ulteriore danno alla salute del paziente. Il problema, in questa prospettiva, è di stabilire cosa deve intendersi per “tutti i mezzi evenutalmente disponibili”: questi consistono esclusivamente nell’utilizzo di misure sanitarie in senso stretto (nel caso specifico, ad esempio, interventi psicofarmacologici e psicoterapeutici) oppure, come ritengono altri operatori, ogni mezzo indispensabile e/o utile al raggiungimento dello scopo prefisso? La questione, oltretutto, non è di specifica pertinenza psichiatrica, potendosi concretizzare condizioni analoghe anche in altri settori della medicina.

59 A. Fiori, La responsabilità professionale del medico e dello psichiatra nella tutela

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Partendo dalla premessa che la malattia mentale esprime spesso i suoi sintomi sotto forma di comportamenti, qualora dunque si possa ipotizzare, sulla scorta dell’osservazione clinica, una probabile evoluzione sfavorevole della malattia (ovvero, ad esempio, il possibile suicidio di un paziente affetto da una grave depressione endogena) sarà compito dello psichiatra mettere in atto tutti i mezzi a sua disposizione per impedirla, sino a giungere alla sorveglianza e alla custodia, intendendosi però quest’ultima non come elemento distaccato dalla cura, ma come condizione necessaria per l’attuazione

del trattamento. L’intenzione è quella di riferisi, come appare evidente, alla necessità

di dover applicare strumenti di contenzione (per esempio, le fasciette) a soggetti che manifestino comportamenti gravemente disturbati (ad esempio, per evitare il ripetersi di gesti autolesionistici in pazienti agitati), ovvero l’adozione di misure precauzionali (trasferimento di pazienti in ambienti locati al piano terreno, sequestro temporaneo di strumenti atti ad offendere, invito alla grande sorveglianza al personale infermieristico, ecc.) per pazienti nei quali può temersi il

compiersi di gesti suicidi. Appare opportuno ribadire che ogni misura intrapresa dovrà

necessariamente avvenire, cosi come richiesto dall’art. 33 della legge 833/78, “nel rispetto della dignità della persona”, e che tali misure possono trovare una giustificazione, non solamente normativa ma sopratutto deontologica, solo se le si considera parte integrante di un trattamento e non come misura autonoma, di esclusiva prevenzione comportamentale. In quest’ottica cioè la vigilanza e in taluni casi (fortunatamente rari) la custodia e/o eventualmente la contenzione devono essere considerate esclusivamente come un breve fase di passaggio, una dolorosa ma indispensabile condizione del trattamento. Esse non possono in alcun modo essere fini a sè stesse ma devono rappresentare solo il mezzo necessario per l’attuazione di un trattamento, cioè devono essere concretamente finalizzate alla terapia. Se tale finalizzazione non è evidente, cioè se non sono collegate a brevissimo termine con una organico programma terapeutico, esse rappresentano solo

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un’inammissibile limitazione dei diritti personali ed una gratuita applicazione di violenza che esporrebbe il medico al reato di violenza privata. Non utilizzarle d’altronde, non ricorrere all’adozione di tali misure quando il caso concreto lascia ipotizzare una sfavorevole evoluzione, potrebbe far attribuire con elevata probabilità allo psichiatra la responsabilità dell’eventuale accaduto. Con sempre maggior frequenza sono stati ad esempio sollevati dai Magistrati interrogativi sul comportamento di sanitari di servizi psichiatrici relativamente al suicidio di pazienti ricoverati nei loro reparti. Non si vuole, beninteso, attribuire allo psichiatra la responsabilità di ogni gesto compiuto da un suo paziente, ne può essere richiesto al medico il compito di trasformarsi in custode e/o poliziotto, con l’incarico di sorvegliare in ogni istante qualsiasi paziente allo scopo di poter prevenire, ad

esempio, un gesto suicida. Quest’ultimo, com’è noto, può verificarsi senza sufficienti prodromi

o, talvolta, proprio quando la terapia sembrava aver apportato significativi miglioramenti. Non vengono richieste allo psichiatra, in altri termini, capacità divinatorie; ma qualora il singolo caso manifesti in tutta evidenza la possibilità di gravi gesti autolesivi, qualora il medico abbia percepito, alla luce della sua esperienza clinica, che tale possibilità risulti concreta, egli ha certamente l’obbligo di provvedere non solamente in senso squisitamente sanitario (ovvero con interventi psicofarmacologici e psicoterapici adeguati), ma anche mettendo in atto iniziative volte alla tutela della salute del suo ricoverato. Com’è ovvio, tale forma di tutela deve interessare tutti i ricoverati e dunque prevedere non solamente la possibilità di prevenzione di gesti auto-lesivi ma anche di comportamenti aggressivi di pazienti verso altri pazienti. In tal senso quindi, la responsabilità del sanitario, e segnatamente del primario della divisione, riguarderà anche la sistemazione logistica dei ricoverati. Sempre in tal senso particolarmente importanti, anche ai fini dell’individuazione della responsabilità, sono le indicazione che lo psichiatra dovrà fornire al personale infermieristico in servizio presso il servizio di diagnosi e cura. Se, ad esempio, il medico è a conoscenza delle possibili

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