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Sartre: coscienza, autenticita' e malafede

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Dipartimento

Corso di laurea in Filosofia e Forme del Sapere

Sartre: coscienza, autenticità e malafede

CANDIDATA Micol Pennesi

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere Corso di laurea in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA

Sartre: coscienza, autenticità e malafede

Prof. Giovanni

Anno Accademico 2013/2014

Sartre: coscienza, autenticità e malafede

RELATORE Prof. Giovanni Paoletti

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1 INDICE

Introduzione .... p.2

Capitolo I

L’io sincero e l’io autentico: passaggio dal concetto di sincerità a quello di autenticità .... p.4

Capitolo II

La coscienza inautentica e l’intersoggettività in Jean-Paul Sartre .... p.18

Capitolo III

L’ambiguo, l’assurdo, senso e non senso .... p.84

Capitolo IV

Il rapporto tra autenticità ed inautenticità nell’ultimo Sartre: la serialità ed il gruppo .... p.109

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INTRODUZIONE

La mia analisi prende in considerazione alcuni dei principali scritti di Jean-Paul Sartre e si concentra sull’esame della coscienza e dei rapporti intersoggettivi, considerati alla luce del rapporto tra l’autenticità e l’inautenticità. Nel primo capitolo ho fatto riferimento alla tesi di Bernard Williams sull’origine della concezione di autenticità, per mostrare molto brevemente come il concetto novecentesco di autenticità si costituisca in contrapposizione ad un’idea di sincerità come quella settecentesca di Rousseau e di Kant. Nel secondo capitolo ho analizzato in particolar modo L’essere e il nulla, seguendo il percorso della coscienza e dei rapporti intersoggettivi dal punto di vista dell’inautenticità, in quanto l’intera opera costituisce per definizione dell’autore stesso un’ontologia dell’inautenticità. Nel terzo e nel quarto capitolo sono passata dunque ad analizzare la concezione di autenticità, che è da ricercarsi invece nei due scritti postumi, precisamente in Verità ed esistenza nei Quaderni per una morale ed infine nella prima parte della Critica della ragione dialettica, corrispondente alla teoria degli insiemi pratici. Nel terzo capitolo la riflessione sull’autenticità si colloca sul terreno della morale, e poiché il progetto di Sartre di scrivere un’opera morale non è mai stata portato a termine, ho fatto riferimento al saggio Per una morale dell’ambiguità di Simone de Beauvoir, per delineare in modo più completo le problematiche etiche poste dalla concezione di autenticità sartriana. Con il medesimo proposito ho inoltre analizzato brevemente l’idea di assurdo, esposta da Albert Camus ne Il mito di Sisifo, in quanto questo breve saggio permette di mettere in luce la differenza tra la nozione di assurdità e quella di ambiguità proposta da Sartre e de Beauvoir. Il quarto ed ultimo capitolo è dedicato ad un’analisi del passaggio dalla struttura seriale a quella di gruppo, esposta da Sartre nella Critica della ragione dialettica. In questa opera della maturità, l’autore si propone di analizzare le strutture formali e

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storicamente intelligibili della prassi umana. In questo scritto Sartre non utilizza più la terminologia autenticità/inautenticità, tuttavia nella descrizione del passaggio apocalittico che porta la struttura seriale alla formazione del gruppo è possibile rintracciare le caratterizzazioni di un nuovo aspetto assunto dalla relazione tra autenticità ed inautenticità. L’intento ultimo del mio lavoro è dunque quello di mostrare come la dialettica tra autenticità e inautenticità costituisca un elemento di continuità rintracciabile nel complesso del pensiero sartriano, e come questa diade concettuale si applichi ad aspetti sempre più differenti della realtà umana.

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CAPITOLO I

L’io sincero e l’io autentico: passaggio dal concetto di sincerità a quello di autenticità.

In modo molto generale, possiamo intendere la sincerità come una virtù morale che regola il rapporto tra l’uomo e la verità, nell’ambito del discorso e delle azioni. Perché si manifesti la sincerità, come virtù o come espressione di un modo di vita, è necessario che si dia un qualche tipo di relazione. La sincerità infatti coinvolge sia le relazioni sociali, sia l’intimo rapporto che un individuo intrattiene con se stesso. Nel pensiero filosofico del diciottesimo secolo la sincerità è apparsa come una virtù dai molti volti: essa poteva essere la chiave per accedere ad una pretesa natura originaria, una virtù capace di rendere manifesto il proprio io agli altri e a se stessi o un dovere morale fondamentale per il bene del genere umano.

La mia intenzione è quella di analizzare in modo introduttivo come il concetto di sincerità sia andato dapprima ad accostarsi alla nascente idea settecentesca di autenticità, per poi figurare come sua antitesi nella concezione di autenticità propria del novecento.

Bernard Williams1 nella sua ricostruzione storico-filosofica di una genealogia della verità, ritiene che proprio il diciottesimo secolo abbia partecipato alla genesi di un’invenzione che coinvolge l’ambito della sincerità, e che consiste nell’idea di associare la sincerità all’autenticità personale. Alla base di questa nuova idea di autenticità Williams individua, nelle figure di Rousseau e Diderot, due concezioni differenti dell’io e della comprensione di se stessi, che di conseguenza implicano a loro volta idee differenti di sincerità, e della relazione tra sincerità e società. La perfetta sincerità, come ideale a cui tendere in ambito sia individuale che sociale, aveva contribuito ad originare il mito della perfetta trasparenza, l’idea

1 Bernard Williams, Truth and Thruthfulness. An Essay in Genealogy, 2002 (trad. It. G. Pellegrino. Genealogia

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che si potesse avere una conoscenza panottica del reale, uno sguardo a tutto campo2; possiamo infatti notare che nel pensiero di Rousseau, proprio la sincerità era stata privilegiata come la virtù per eccellenza. Nei suoi due Discorsi3, sulle scienze e le arti e sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini, la sincerità viene descritta come una virtù originaria costitutiva degli uomini, che si sarebbe pervertita dopo l’uscita dallo stato di natura per entrare a far parte della vita associata. Rousseau riprende il tema, non nuovo nel panorama letterario del suo tempo, dell’opposizione tra essere ciò che si è ed apparire altro da sé, per rappresentare la malattia da cui era affetta la società settecentesca. Nel Discorso sulle scienze e le arti4 la sincerità viene collegata all’idea di una natura immediata ed autentica, che si contrappone all’uniformità dei costumi imposta dalle mode sociali. La sincerità ricopre qui la funzione di opposizione all’artificiale uniformità delle maschere sociali, riportando l’uomo sul piano del reale cioè quello della natura originaria. L’operazione interessante compiuta da Rousseau è quella di instaurare una relazione a tre termini tra sincerità, natura e autenticità. Per comprendere questa relazione dobbiamo tenere in considerazione il fatto che questi tre termini compaiono nell’ottica di Rousseau come strettamente interdipendenti.

Prendendo in esame il Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini5 notiamo emergere un’idea positiva dell’uomo, esso infatti possiede per natura inclinazioni moralmente buone intese come uno stato di trasparenza nei confronti degli altri e di se stessi. Solo se si è sinceri è possibile mantenere un rapporto di trasparenza con noi stessi e con gli altri che si accorda con la nostra natura, e solo in questo modo potrà emergere l’io autentico di ogni individuo: possiamo dunque affermare che per Rousseau solo essendo sinceri si può essere

2 Jean Starobinski, Jacques Rousseau. La transparence et l’obstacle, 1971 (trad. It. di R. Albertini.

Jean-Jacques Rousseau: la trasparenza e l’ostacolo, il Mulino, Bologna, 1982).

3 Jean- Jacques Rousseau, Discours sur les sciences et les arts,1750, Discours sur l’inégalité parmi les

hommes,1755 (trad. It. D. Giordano. Il contratto sociale e i discorsi, Bompiani, Milano, 2012).

4 J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, Cit. 5

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autentici. Tuttavia i Discorsi affrontano il tema della sorte della sincerità a partire dall’uscita dell’uomo dallo stato di natura con la conseguenza che, se pur la sincerità caratterizza l’uomo nella sua essenza o natura originaria, è possibile che essa si smarrisca all’interno della vita sociale, che è infatti descritta in termini di opacità e degradazione.

Dobbiamo dedurre che la sincerità sia una virtù anti sociale? Per rispondere a questo interrogativo Jean Starobinski6 propone un’interessante interpretazione del paragone, presente nel Discorso sull’origine della disuguaglianza, tra l’anima umana e la statua di Glauco. Proprio come la statua di Glauco viene sfigurata dall’azione erosiva del tempo, del mare e delle tempeste, fino a rendere irriconoscibile l’immagine del dio, così l’anima umana immersa nella società cambia d’aspetto fino a divenire quasi irriconoscibile. Come osserva Starobinski, Rousseau sembra sostenere simultaneamente due prospettive: l’animo umano ha subito un processo degenerativo che lo ha sfigurato, e non sarà più possibile tornare allo splendore originario. D’altra parte, anche se i mutamenti che l’anima ha subito la hanno resa “quasi irriconoscibile”, nella sua essenza essa è rimasta identica a se stessa. Starobinski ritiene che l’immagine della statua in Rousseau mantenga un’ambiguità:

‹‹Possiamo pensare che il volto della statua sia in realtà rimasto intatto, coperto solo dalle incrostazioni del tempo; oppure è il volto stesso ad essere un’invenzione, perché fornisca una

norma ideale per interpretare l’umanità?›› 7.

Il Discorso sulla disuguaglianza pone un problema filosofico inerente al tema dell’identità nella storia: la difficoltà si trova nel conciliare la proprietà dell’uomo, di rimanere identico, come individuo, mentre l’umanità come collettività è soggetta al cambiamento8.

6

J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau: la trasparenza e l’ostacolo, Cit., p.40.

7 Ivi, p.43. 8

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7

Il problema dell’autenticità è posto dunque da Rousseau sul piano dell’identità personale, possiamo allora intendere la sincerità come una virtù che deve essere mantenuta in tensione viva affinché sul piano dell’autenticità possiamo rimanere sempre fedeli a noi stessi.

Come possiamo notare nelle Confessioni9 e nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario10, Rousseau cambia approccio rivolgendo la sua analisi verso la sfera intima del singolo individuo, ed attua questo passaggio a partire da se stesso.

Questa divergenza di impostazione rispetto ai Discorsi è comprensibile, da una parte, se teniamo conto che Rousseau fu ossessionato dall’idea che il suo io reale non riuscisse ad essere visibile agli altri; egli si era infatti sentito incompreso al punto da convincersi dell’esistenza di un complotto contro di lui volto a screditarlo .

D’altra parte, possiamo leggere in queste due opere la convinzione di Rousseau che a partire da una dichiarazione sincera rivolta ad altri, o dall’interrogazione interiore sia possibile ottenere una rivelazione dell’io autentico. Egli riteneva infatti che la sincerità, portata all’interno di sé sotto forma di esame di coscienza costante e meticoloso, potesse far luce sulla natura dei moventi interiori. Questa convinzione profonda lo spinse a scrivere le Confessioni, nelle quali a partire dall’incipit, era manifestato l’intento di volersi mostrare agli altri spogliandosi di tutto: ‹‹interiormente, e sotto la pelle››11.

In realtà le convinzioni di Rousseau non riscontrarono successo, l’opinione pubblica non fu persuasa della sua sincerità radicale, così che Rousseau si ritirò dalla vita sociale isolandosi quasi completamente. Tuttavia continuò il dialogo con se stesso sotto forma di fantasticheria, manifestando la speranza che almeno i posteri, riesaminando la sua opera, avrebbero potuto constatare quale fosse la natura del suo vero io.

9 J.-J. Rousseau, Les Confessions, 1782-1789 (trad. It. di F. Filippini. Confessioni, Bur, Milano, 2006, p.384). 10

J.-J. Rousseau, Rêveries du promeneur solitaire, 1782 (trad. It. di N. Truci. Le fantasticherie del passeggiatore

solitario, Bur, Milano, 2009, p.204).

11

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8

L’analisi di Williams parte dal motivo di fondo delle tensioni presenti nella concezione dell’io di Rousseau, e pone una questione fondamentale : ‹‹che cosa garantisce che una dichiarazione sincera di sé rivelerà l’io reale?››12, come è possibile che la nostra interiorità si rispecchi fedelmente all’esterno?

La risposta che Rousseau credeva di aver trovato risiede proprio nel modo in cui era da lui concepita la sincerità. Infatti per mezzo della sincerità, Rousseau cercava di appropriarsi di un’identità: stabiliva le sue convinzioni e con questa consapevolezza diveniva se stesso. Rousseau si era posto il problema dell’identità, nei termini di ‹‹fissare le opinioni ed i principi […], cercare di essere quello che avrò trovato di dover essere per il resto della vita››13.

L’identità si legava cioè ad un’idea di perfetta coerenza, l’io autentico è quello che nel tempo rimane sempre stabile ed identico a se stesso. In altri termini potremmo dire che l’autenticità concepita da Rousseau trova la sua corrispondenza nel rigoroso principio di identità.

Williams contrappone alla concezione dell’io di Rousseau, quella espressa da Diderot nell’opera Il nipote di Rameau14. Il romanzo è strutturato in forma di dialogo tra Moi, la voce narrante che possiamo associare allo stesso Diderot, e Lui cioè Jean-François Rameau.

Il nostro personaggio di interesse, Rameau, è presentato da Diderot come un individuo in possesso di un grado di sincerità che lo porta a rivelare una gran quantità di verità su se stesso. Queste rivelazioni provengono in realtà da uno stato di disinibizione più che da un’opera di autoesame, così che egli appare brutalmente franco, e non perché voglia essere tale ma perché è semplicemente fatto in questo modo. Egli non è tuttavia vittima di autoinganno infatti non nasconde di essere un adulatore né di mentire15. Rameau non si rispecchia in un’unità ma piuttosto in una coscienza disintegrata che Williams paragona all’immagine di uno sciame

12 B. Williams, Genealogia della verità, Cit., p.170. 13

J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Cit., p.233.

14 Denis Diderot, Le neveu de Rameau, 1805 (trad. It. di L. Croce. Il nipote di Rameau, Bur, Milano, 1998). 15

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d’api; tuttavia l’instabilità del suo io non lo rende incoerente, egli è sempre fedele a se stesso perché esprime liberamente contenuti differenti in tempi diversi. Se le passioni, i bisogni e le identificazioni di realtà sono in continuo movimento, significa che le differenti affermazioni dell’io saranno relative ad un dato momento16.

Williams, nell’analizzare i contenuti della mente di Rameau, invita a distinguere tra ciò che può essere definito un desiderio, ed una mera voglia.

‹‹Un desiderio sarà lo stato di un agente, il cui contenuto, a vari stadi della deliberazione, egli può considerare come potenzialmente soddisfatto tramite le azioni che scaturiranno dalla deliberazione. Una mera voglia avrà un contenuto che non potrà essere soddisfatto all’interno di un contesto del genere››17.

La distinzione evidenzia quindi una differenza di stabilità tra due tipi di contenuti. Williams infatti ritiene che Diderot abbia concepito una verità universale: gli esseri umani possiedono una costituzione mentale incostante che necessita di essere stabilizzata dalla società e dall’interazione con gli altri18. Esiste infatti una pratica sociale che formalizza l’espressione dell’immediato stato interno nella forma di qualcosa che ha un futuro; infatti la necessità di poter fare affidamento sulle reciproche disposizioni ci induce pertanto a presentarci come persone che hanno prospettive o credenze moderatamente stabili19.

Rameau nonostante sia presentato con caratteristiche al limite del verosimile, costituisce un modello teorico in grado di mettere in crisi l’idea rousseauiana secondo cui sarebbe possibile raggiungere immediatamente una comprensione trasparente di noi stessi e successivamente essere in grado di fornire una rivelazione sincera delle nostre credenze. Williams ritiene che 16 Ivi, p.177. 17 Ivi, p.181. 18 Ivi, p.177. 19 Ivi, p.179.

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Diderot avesse compreso pienamente che l’errore di Rousseau consiste nel fatto di aver presentato un’immagine del mondo che non lascia abbastanza spazio alle debolezze e contraddizioni individuali, e di non aver capito che, come è chiaramente dimostrato nel Nipote di Rameau, la sincerità non basta a garantire le altre virtù20.

Spostandoci su un piano strettamente etico la sincerità ha occupato un ruolo fondamentale anche per Kant, il quale ha equiparato la sincerità ad un dovere morale imprescindibile nei confronti sia degli altri che di noi stessi.

Dal 1775 al 1781, Kant tenne dei corsi di etica all’università di Königsberg. Dalla rielaborazione dei manoscritti di alcuni studenti, fu pubblicato nel 1924 il testo Lezioni di etica. Queste lezioni sono interessanti perché contengono delle anticipazioni di quanto Kant dirà più tardi in risposta a Constant, in Sul presunto diritto di mentire in nome dell’umanità. Nelle Lezioni di etica, la veridicità è considerata un dovere etico fondamentale verso gli altri. Infatti, la veridicità riguardo ai propri pensieri è la premessa fondamentale per la formazione di qualsiasi tipo di società21. Soffermandosi sul piano del discorso, Kant pone un interrogativo: Se un uomo dichiara di voler svelare le proprie intenzioni, deve poi svelarle interamente o può essere reticente? Nel rispondere al quesito, Kant fa distinzione tra una falsità ed una menzogna. La falsità si configura come un atteggiamento di dissimulazione, che tuttavia non è ancora una menzogna vera e propria. Kant porta l’esempio di un nemico, che afferrandoci per la gola, ci chieda dove teniamo il denaro. In questo caso, possiamo nascondere i nostri pensieri, perché sappiamo che l’altro ha intenzione di fare un cattivo uso della verità. L’altro sa che noi tenteremo di nascondere i nostri pensieri, perché è consapevole di essere un impostore, e di non avere il diritto di pretendere da noi la verità.

20

Ivi, p.185.

21 Immanuel Kant, Eine Vorlesung Kants über Ethik, 1924 (trad. It. di A. Guerra. Lezioni di etica, Laterza, Bari,

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L’esempio rimane sul piano della falsità, perché il dissimulatore non aveva palesato all’altro l’intenzione di rendere noti i suoi pensieri, ed il nemico è a conoscenza dell’intento di dissimulazione dell’altro. Ma se mento ad un impostore, ho commesso un’ingiustizia?

La risposta di Kant è sì.

‹‹ Io non uso affatto ingiustizia a chi mi abbia ingannato, se a mia volta lo inganno, tuttavia io agisco contro i diritti dell’umanità, avendo contravvenuto ai mezzi e alle condizioni che rendono possibile una società››22.

Per Kant, la virtù della sincerità, corrisponde al dovere della veridicità. Tuttavia è un dato di fatto che gli uomini non sono sempre ben intenzionati, e seguire incondizionatamente la verità, comporta correre un rischio. Trovarsi in uno stato di necessità, porta a considerare come soluzione possibile, il concetto di menzogna necessaria; il caso della necessità consentirebbe la violazione di ogni istanza morale. Il problema, per Kant, è che la valutazione di quale sia un caso di necessità, spetterebbe al giudizio individuale, ma non esistendo un criterio universale per stabilirlo, le regole morali non sarebbero più sicure23.

La menzogna è in ogni caso malvagia dal punto di vista formale, perché infrange il patto che rende affidabile la dimensione del discorso, violando così i diritti dell’umanità. Kant ritiene che l’amore per la verità, caratteristica dell’uomo coraggioso, lo porti a non ammettere alcun caso di necessità; il vile invece mente, non riuscendo ad ottenere qualcosa in altro modo24. Anche in Kant la veridicità si collega al tema della trasparenza.

Nel paragrafo dedicato alla menzogna, ne La metafisica dei costumi, Kant definisce la menzogna come qualcosa che annienta la dignità stessa di un uomo. Un uomo che mente ad 22 Ivi, p.259. 23 Ivi, p.260. 24 Ibidem.

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un altro, ed è cosciente della falsità del suo discorso, ha un valore inferiore a quello di una cosa. Infatti l’intenzione di mentire va contro la finalità naturale della comunicazione dei propri pensieri; e di conseguenza per Kant, il mentitore rinuncia alla propria personalità e appare non come un vero uomo, ma come ‹‹l’apparenza ingannatrice di un uomo››25.

Se, nella sfera del diritto, una menzogna è condannabile se reca danno ad un altro; nell’ambito etico, l’uomo, ha il dovere di essere veridico anche nei confronti di se stesso.

La forma di cattiva coscienza, che impedisce al soggetto di essere sincero con se stesso, che Kant chiama menzogna interna, deve essere condannata severamente. La natura umana infatti è debole, ed in essa si annida il germe della falsità; Kant paragona la dissimulazione ad un flagello che, una volta violato il principio della veridicità, avrebbe il potere di estendersi anche alle relazioni con gli altri26.

Nessuna motivazione può giustificare la menzogna perché è la sua forma stessa ad essere disprezzabile:

‹‹L’uomo, in quanto essere morale, non può servirsi di se stesso quale essere fisico, come fosse un puro mezzo (di una macchina parlante) non condizionato (dalla facoltà dei propri pensieri); egli è sottomesso al contrario alla condizione di restar d’accordo con se stesso nella dichiarazione dei

suoi pensieri, è obbligato alla veracità verso se stesso››27.

Il 30 marzo del 1797, fu pubblicato da Benjamin Constant Sulle reazioni politiche. Lo scritto affronta il problema dell’alterazione della verità, nel contesto della Francia post-rivoluzionaria. Constant cerca di capire come sia possibile, partendo da principi giusti,

25 Immanuel Kant, Metaphysik der sitten,1797-1798 (trad. It. di G. Vidari. La metafisica dei costumi, Laterza,

Bari, 1991, p.288).

26 Ivi, p.289. 27

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arrivare a un risultato che contraddica le premesse di partenza. Nell’ottavo capitolo del testo, Constant richiama l’importanza dei principi, come strettamente connessi alla realtà.

Se consideriamo un principio solo nel suo aspetto generale ed astratto, non riusciremo ad applicarlo alla realtà e saremo portati ad abbandonarlo. Secondo Constant, quando si ritiene che i principi generali siano inapplicabili alla realtà, significa semplicemente che non si è scoperto il principio intermedio, che ne individua la modalità di applicazione, necessaria per quella situazione particolare28. Partendo da un principio astratto, deve esserci un processo di ricerca del principio intermedio. Constant ritiene infatti, che la caratteristica fondamentale di un principio non sia la sua generalità, ma piuttosto il suo essere stabile, e che in essa risieda proprio tutta la sua utilità29.

Per scoprire un principio intermedio, dobbiamo definire il principio generale, e considerarlo sotto tutti i suoi rapporti, per trovare il legame che lo unisce ad un altro principio. Il modo di applicazione del principio si trova in questo legame; ma se così non fosse, dovremo definire ulteriormente anche il principio a cui siamo giunti, proprio come in una catena, per individuare l’anello mancante che collega al terzo principio così arriveremo sicuramente al modo di applicazione30. Constant prende ad esempio il principio secondo cui dire la verità è un dovere. Egli ritiene che, preso in modo assoluto ed isolato, come era stato fatto da “un filosofo tedesco”, esso renderebbe impossibile ogni forma di società.

Secondo Constant, questo filosofo sarebbe arrivato a concludere che mentire è un crimine, persino di fronte a degli assassini, che ci chiedono se in casa nostra è rifugiato un nostro amico, che essi stanno cercando31. Constant, nel definire il principio generale, “dire la verità è un dovere”, collega il dovere al concetto di diritto; pertanto asserisce che dove non ci sono

28

Benjamin Constant, Des réactions politiques, 1797 (trad. It. di S. Manzoni, E. Tetamo. Sulle reazioni

politiche, in Kant e Constant, La verità e la menzogna, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p.211).

29

Ivi, p.205.

30 Ivi, p.211. 31

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diritti, non ci sono nemmeno doveri. Nel concetto di diritto si trova la modalità di applicazione del principio: ‹‹Dire la verità è un dunque un dovere solo in rapporto a coloro che hanno diritto alla verità. Ora nessun uomo ha diritto ad una verità che nuoccia agli altri››32.

Nel caso specifico dell’assassino, la menzogna sarebbe quindi giustificata, perché la verità in questione è in grado di nuocere all’altro.

Kant, ritenendo di essere il filosofo tedesco a cui fa riferimento Constant, scrisse in risposta Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità, che fu pubblicato il 6 dicembre del 1797. In realtà non è certo se Constant si riferisse realmente a Kant, o a Johann Daniel Michaelis, che aveva sostenuto questa opinione prima di Kant.

Kant ritiene inammissibile la possibilità di un diritto alla menzogna. Constant aveva messo in relazione il concetto di dovere a quello di diritto, non sul piano etico ma su quello giuridico. Kant afferma che, se non è possibile sottrarsi ad una dichiarazione, anche se essa viene estratta con la forza, la veridicità è un dovere formale dell’uomo nei confronti di tutti; anche nel caso che la verità in questione sia fonte di svantaggi per noi stessi, o per un altro.

Anche se, mentendo, non facessi un torto a nessun individuo, commetterei un torto gravissimo nei confronti del dovere in generale. Come anticipato nelle Lezioni di etica, la menzogna è ignobile nella sua stessa forma, perché toglie credibilità alle dichiarazioni, annientando così la fonte stessa del diritto33. Non esiste quindi una menzogna innocente: la menzogna danneggia sempre qualcuno, se non un individuo particolare, l’umanità in generale o la dignità della persona. La veridicità in qualsiasi dichiarazione è quindi un dovere che non è soggetto a limitazioni legate alle circostanze. Kant ritiene che Constant abbia confuso l’azione, con la

32 Ivi, p.212. 33

Immanuel Kant, Über ein vermeintes Recht aus Menschenliebe zu lügen, 1797 (trad. It. di S. Manzoni, E. Tetamo. Sul presunto diritto dim entire per amore dell’umanità, in Kant e Constant, La verità e la menzogna, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p.294).

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quale si commette un’ingiustizia verso un altro, con quell’azione di dire la verità, che non possiamo non dire, anche se nuoce ad un altro. Non è un’azione libera che nuoce all’altro, perché il dovere di essere veridici nelle dichiarazioni, a cui non possiamo sottrarci, è incondizionato. Chi dice la verità non nuoce personalmente all’altro, poiché in realtà non siamo liberi di scegliere di non essere veridici; è il caso che determina il danno34.

L’unica alternativa, che Kant contempla anche nelle Lezioni di etica35, è quella del silenzio; se mi è possibile posso tacere. Kant concede tuttavia delle zone d’ombra, la trasparenza dell’uomo non è totale. Kant infatti nota che la provvidenza non aveva voluto che l’uomo fosse del tutto trasparente, visti i suoi molti difetti. In realtà nessun uomo apre agli altri il cuore, in senso vero e proprio36. Nella lettera dell’8 aprile 1766, inviata a Moses Mendelssohn, Kant scrive:

‹‹In verità io penso, con la più chiara convinzione e per mia grande soddisfazione, molte cose che

non avrò mai il coraggio di dire; ma non dirò mai qualcosa che non pensi››37.

Dalle parole di Kant, comprendiamo che il dovere della veridicità non ci impone di mantenere una perfetta trasparenza nei rapporti sociali. Possiamo custodire uno spazio per la nostra interiorità, in cui non far entrare gli altri, senza per questo violare il dovere della veridicità. Essere veridici non significa dire tutto ciò che si pensa intimamente, al pari dell’ideale di franchezza assoluta di Rousseau. Essere veridici significa non dire mai qualcosa che sappiamo non essere vero. Gli esempi che ho affrontato, nei loro caratteri essenziali, rappresentano dei modelli teorici che mostrano come i concetti di sincerità ed autenticità, nella tradizione

34

Ivi, p.297.

35 I. Kant, Lezioni di etica, cit., p.260. 36

Ivi, p.256.

37 I. Kant, Lettera a Moses Mendelssohn, 8 aprile 1766 (trad. It. di O. Meo. in Epistolario filosofico 1761-1800,

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filosofica settecentesca, rimanessero legati soprattutto all’ambito del discorso come mezzo di comprensione e stabilizzazione dei rapporti sociali e morali.

Il concetto di autenticità, nel corso del Novecento, si slega radicalmente da quell’idea di sincerità rousseauiana che promuoveva la formazione di un io stabile, la cui coerenza consisteva nell’essere sempre uguale a se stesso. In realtà la sincerità così concepita, diviene proprio il modello a cui l’autenticità deve contrapporsi. Mentre l’idea di Diderot di una costituzione mentale incostante, di una coscienza disintegrata, espressa all’eccesso nella figura di Rameau, rappresenta un carattere focale che sarà rielaborato nella nuova concezione di autenticità. Il cambiamento più significativo consiste nello spostamento del campo di interesse dell’autenticità dall’ambito del discorso a quello dell’azione. Questo nuovo orientamento della riflessione filosofica porterà nuovamente con sé un’idea dell’io e dell’identità totalmente differente: sarà infatti abbandonata l’idea di una virtù positiva, che intende la sincerità come un divenire ciò che si è, per privilegiare una verità negativa, che rifiuta l’identità biografica come personificazione di un ruolo, a discapito della potenzialità creativa individuale38. Infatti il tratto comune tra Rousseau, Diderot, Kant e Constant, che si trova radicalmente escluso dall’idea novecentesca di autenticità, è l’idea che l’uomo possieda una natura umana, ciò significa che:

‹‹questa natura, cioè il concetto di uomo, si trova presso tutti gli uomini, il che significa che ogni uomo è un esempio particolare di un concetto universale: l’uomo. […] Così l’essenza di un uomo

precede l’esistenza storica che incontriamo nella natura››39.

38

Andrea Tagliapietra, La virtù crudele, Einaudi, Torino, 2003, p.45.

39 Jean Paul Sartre, L’existentialisme est un humanisme, 1946 (trad. It. di G. Mursia Re. L’esistenzialismo è un

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La mia analisi sul concetto di autenticità prende in considerazione quella corrente di pensiero che è stato definito mediante la denominazione di esistenzialismo ateo: in una prospettiva laica esso intende considerare la condizione umana partendo dall’idea fondamentale che “l’esistenza preceda l’essenza”, la quale essenza è costituita dall’uomo senza che possa esistere nessuna morale o culto dell’uomo in generale come quello kantiano.

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CAPITOLO II

Il rapporto tra autenticità ed inautenticità in Jean-Paul Sartre.

La figura di Jean-Paul Sartre è quella di un intellettuale della prima metà del Novecento che ha portato avanti fino alla maturità un’intensa ricerca nel campo letterario-filosofico, non cessando mai di mettere in discussione tutti i principi e le verità acquisite. Il suo primo scritto filosofico risale al 1939, quando Sartre pubblicò su La Nouvelle Revue française un breve saggio intitolato Un’ idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità40. La filosofia francese del suo tempo, definita da Sartre una filosofia alimentare, non aveva elaborato un’immagine soddisfacente della coscienza: la corrente realista aveva sviluppato la tendenza a far mangiare il soggetto dall’oggetto; quella idealista, al contrario, faceva divorare l’oggetto dal soggetto41. Secondo la testimonianza di Simone di Beauvoir, compagna di vita di Sartre, nel 1930 l’amico Raymond Aron suggerì a Sartre di interessarsi alla fenomenologia perché essa poteva aiutarlo a superare l’opposizione tra idealismo e realismo, ‹‹affermare allo stesso tempo la sovranità della coscienza e la presenza del mondo quale si offre››42. Durante uno stage a Berlino, tra il 1933-34, Sartre si avvicinò alla fenomenologia di Husserl ed all’esistenzialismo di Heidegger. Nella fenomenologia di Husserl, ed in particolare nel concetto di intenzionalità, Sartre trovò la soluzione per i rapporti tra la coscienza ed il mondo. Sempre secondo la testimonianza di Simone de Beauvoir, il concetto di intenzionalità permetteva a Sartre di superare un altro problema:

40

Jean Paul Sartre, Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité, 1939 (trad. It. di F. Fergnani e P. Rovatti. Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in

Materialismo e rivoluzione, il Saggiatore, Milano, 1977, p.139).

41 Ibidem. 42

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‹‹Sartre aveva sempre avuto in orrore la vita interiore, ed essa si trovava radicalmente soppressa se la coscienza si faceva esistere mediante un perpetuo superamento di se stessa verso un oggetto; tutto si situava fuori, le cose, le verità, i sentimenti, i significati e lo stesso io; nessun fattore soggettivo alterava perciò la verità del mondo quale si dà a noi. La coscienza conservava la sua sovranità, e

l’universo la presenza reale che Sartre aveva sempre preteso di garantirgli››43.

La dottrina dell’intenzionalità concepisce la coscienza come coscienza di qualcosa, nel senso che ogni atto di coscienza, ogni sua manifestazione, sono riferiti a qualcosa di diverso da sé. Questo tipo di relazione tra il soggetto e l’oggetto, riusciva pertanto a mantenere viva l’indipendenza e l’irriducibilità della coscienza rispetto alla realtà del mondo.

‹‹La coscienza e il mondo sono dati nello stesso momento: per sua stessa essenza, il mondo è

insieme esterno alla coscienza e relativo ad esso››44.

Andando contro alla tendenza intimistica e coscienzialista propria della letteratura del secondo ottocento, Sartre arriva a sostenere che non esiste una vita interiore, una coscienza come in sé. Sartre riprende poi l’idea di Heidegger45, secondo cui esistere è essere-nel-mondo, ed afferma così che conoscere è ‹‹esplodere verso››. Heidegger aveva infatti concepito l’essere dell’uomo come rapporto a delle possibilità, e concretamente nell’esistere come abitante di un mondo di cose e di altri uomini. L’essere-nel-mondo costituisce il modo di essere quotidiano dell’uomo ed indica il fatto che l’uomo sia già fuori di sé, che si trovi sempre in relazione a qualcosa, sempre coinvolto in un rapporto con l’ente. La coscienza non ha nulla in sé tranne un movimento per fuggirsi; non ha un di dentro, ma è fuori di sé: proprio

43

Ivi, p.162.

44 J.- P. Sartre, Un’idea della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, Cit., p.139. 45

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questa fuga assoluta ed il rifiuto di essere sostanza la rendono coscienza46. Proprio il tema della mondanità della coscienza porterà Sartre ad allontanarsi da Husserl, per avvicinarsi maggiormente alla fenomenologia esistenziale di Heidegger. Nel 1936-37, viene pubblicato su “Recherches philosophiques” il saggio la Trascendenza dell’ego47, nel quale Sartre inizia a prendere le distanze da Husserl. Sartre critica il fatto che la prospettiva della filosofia moderna da Cartesio a Kant abbia ritenuto la coscienza incompleta, e per questo motivo sia stata sostenuta l’esistenza di un io separato che ne supportasse i fenomeni psichici48. L’errore commesso da Husserl consisteva nell’aver “appesantito” la coscienza introducendo nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica49, la distinzione tra un io trascendentale ed un io empirico. Husserl aveva esposto come fosse possibile attraverso il procedimento dell’epochè, cioè una sospensione del giudizio, mettere tra parentesi l’atteggiamento naturale che consiste nel considerare il mondo in generale come un insieme di fatti ovvi. Contrariamente all’atteggiamento naturale che ritiene ovvi questi dati, l’epochè permette di assumere un atteggiamento fenomenologico in grado di mostrarci il mondo come una serie di fenomeni rispetto ai quali la coscienza si intenziona nei propri atti.

Il residuo fenomenologico ovvero ciò che non è riducibile ad altro è proprio la coscienza, non la coscienza empirica che può essere suscettibile di riduzione per essere epurata dai suoi caratteri empirici, ma l’io puro o trascendentale. L’io trascendentale corrisponde a quella funzione originale ed universale della coscienza che costituisce il mondo. Sartre al contrario riteneva che l’ego non si trovasse né formalmente, né materialmente nella coscienza ma fuori nel mondo50.

46

J.-P. Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, Cit., p.141.

47 J.-P. Sartre, La transcendance de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique, 1936-37 (trad. It. di R.

Ronchi. La trascendenza dell’ego, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011).

48 Ivi, p.66. 49

Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen phänomenologie und phänomenologischen philosophie, 1913 (trad. It. di E. Filippini. Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1982).

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‹‹Ci rifiuteremo di vedere nell’Ego una specie di polo X che sarebbe il supporto dei fenomeni psichici. Una tale X sarebbe per definizione indifferente alle qualità psichiche di cui sarebbe il supporto. L’Ego, non è però mai indifferente ai suoi stati, è “compromesso” da loro.

[…] L’Ego non è niente al di fuori della totalità concreta degli stati e delle azioni di cui è il supporto››51.

Sartre fa poi una distinzione tra una coscienza di primo grado o irriflessa, e coscienza di secondo grado o riflessa, che sarà centrale nel suo pensiero:

‹‹Quando corro dietro al tram, quando guardo l’ora, quando mi immergo nella contemplazione di un ritratto, non c’è Io. C’è coscienza del tram-che-deve-essere-raggiunto ecc., e coscienza non posizionale della coscienza. In realtà io sono allora sprofondato nel mondo degli oggetti, sono loro che costituiscono l’unità delle mie coscienze, che si presentano con dei valori, delle qualità attrattive e repulsive, ma quanto a me, io sono sparito, mi sono annientato. Non c’è posto per me a questo livello e questo non è il frutto del caso, di una momentanea mancanza di attenzione, ma

consegue dalla struttura stessa della coscienza››52.

Il piano della coscienza irriflessa o non posizionale di sé, è quindi un piano pre personale, senza io53. La riflessione di conseguenza, non rappresenta la manifestazione privilegiata della coscienza ma solamente una sua modalità particolare, e necessariamente seconda alla coscienza irriflessa, che la precede essendone la condizione.

a) La contingenza dell’esistenza umana

Nel pensiero di Sartre l’idea della contingenza ha ricoperto un ruolo fondamentale per la sua concezione dell’esistenza umana. Nella fase finale della sua vita, malato ed ormai cieco, 51 Ivi, p.66. 52 Ivi, p.41. 53 Ivi, p.90.

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partecipò ad un progetto di intervista portato avanti da Simone de Beauvoir, per fare luce retrospettivamente su alcuni temi che avevano caratterizzato il proprio percorso intellettuale e la propria esistenza. In una di queste interviste Sartre racconta come sia nato in lui pensiero sul contingente: l’idea del contingente è sorta partendo dalla realtà di un film, ‹‹Il contingente esisteva e si poteva riscontrarlo contrapponendo il cinema, dove il contingente manca del tutto, all’uscita per la strada dove non vi è altro che questo››54. La realtà necessaria del film, che scorre secondo un ordine teleologico, si oppone radicalmente alla totale contingenza che costituisce l’esistenza reale. La contingenza è proprio il concetto al centro del romanzo La nausea55, pubblicato da Sartre nel 1938, ma scritta nel periodo risalente agli studi a Berlino. In realtà La nausea si configura come un romanzo singolare, Sartre riteneva che il soggetto de La nausea sia prima di tutto il mondo, e che sia una dimensione metafisica del mondo a doversi svelare56. La tecnica descrittiva incarna quell’esigenza, che Sartre aveva trovato soddisfatta nella fenomenologia, di ‹‹parlare delle cose come le si toccano, e che questo fosse filosofia››57. Il romanzo è esposto sotto forma di diario dal protagonista: Antoine Roquentin è un intellettuale che vive in una piccola città di provincia, e conduce una vita banale e solitaria mentre cerca di scrivere la biografia di un personaggio storico minore del settecento.

I borghesi provinciali attorno lui, soprannominati gli Sporcaccioni, lo fanno sentire come se appartenesse ad un’altra specie. Gli Sporcaccioni sono coloro che ritengono di aver diritto all’esistenza, e che cercano di dimostrare che essa è giustificata e necessaria.

Roquentin al contrario, è colpito fortemente dalla contingenza dell’esistenza umana, che vive sotto forma di attacchi incontrollati di nausea. Inizialmente Roquentin crede di essere affetto

54

S. de Beauvoir, La cérémonie des adieux, 1981 (trad. It. di E. de Angeli. La cerimonia degli addii, Einaudi, Torino, 2013, p.147).

55

J.-P. Sartre, La nausée, 1938 (trad. It. di B. Fonzi. La nausea, Einaudi, Trento, 2013).

56 Ivi, p.235. 57

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da una sorta di malattia, finché un giorno, mentre se ne sta seduto su una panchina di un giardino pubblico, arriva ad un’illuminazione, e comprende che in realtà la nausea è lui stesso.

‹‹Comprendevo la Nausea, ora la possedevo. L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza; la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare. […]

Ecco la Nausea; ecco quello che i Porcaccioni tentano di nascondersi con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri

uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo››58.

Dopo aver fatto esperienza dell’assurdità e della gratuità dell’esistenza, Roquentin si rende conto che per tutta la sua vita aveva solo desiderato essere, cacciando fuori di sé l’esistenza59. Come se si fosse sbagliato di mondo, aveva cercato di purificarsi ed indurirsi, voleva essere al modo delle cose. Tuttavia dopo l’illuminazione, in Roquentin qualcosa cambia: ascoltando un’ultima volta una canzone jazz che amava particolarmente, inizia a commuoversi e provare simpatia per la sofferenza dell’uomo che l’ha composta. Non per umanitarismo, culto dell’amore per l’umanità in generale incarnato nella figura dell’autodidatta, ma solo perché un uomo aveva creato qualcosa in grado di commuoverlo60.

58 J.-P. Sartre, La nausea, p.177. 59 Ivi, p.234. 60 Ivi, p.236.

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Così Roquentin comincia a provare interesse per qualcosa, e pensare che nonostante non sia possibile impedire di esistere, né smettere di pensare e sentire la propria esistenza, forse è possibile giustificare almeno in parte la propria esistenza. Lavarsi del peccato di esistere, dalla colpa di esistere descritta da Heidegger, quel tanto che un uomo può fare61. L’idea di una salvezza possibile per mezzo dell’opera d’arte, che al contrario dell’esistenza ha una sua necessità, è un’idea che Sartre abbandonerà negli anni subito successivi alla Nausea.

b) Lo scacco e la condanna umana alla libertà

Sartre disse di essere arrivato a concepire e scrivere L’essere e il nulla62 durante la guerra perché in quel periodo o non si scriveva affatto, o si scrivevano cose essenziali63.

Nel ’39 Sartre venne chiamato sotto le armi ed inviato in Alsazia, nel giugno del ’40 fu prigioniero dei nazisti a Trèves, tuttavia non interruppe le sue letture ed i suoi studi.

Mentre si trovava nel campo di prigionia, un ufficiale tedesco chiese a Sartre cosa gli mancasse ed egli rispose: Heidegger. Inspiegabilmente (o forse non tanto, visto che Heidegger era ben visto dal regime) gli fu portato un grosso e costoso volume, Essere e tempo64.

Così Sartre lesse Heidegger, a cui si era già accostato nel ’36, anche se riteneva di averlo compreso più attraverso Husserl che direttamente.

Nel ’41 riuscì a liberarsi facendosi passare per un civile, tornò così a Parigi dove con l’amico Maurice Merleau-Ponty fondò il gruppo di resistenza intellettuale “Socialismo e libertà”, che fu però sciolto alla fine dell’anno. In quegli anni lavorò intensamente alla stesura de L’essere e il nulla che pubblicò nel ’43. Le idee portanti de L’essere e il nulla sono dunque il frutto degli studi berlinesi, che Sartre ha maturato poi durante la guerra e scritto per gran parte nei

61 Ivi, p.237. 62

J.-P. Sartre, L’être et le néant, 1943 (trad. It. di G. del Bo, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Bergamo, 2009).

63 S. de Beauvoir, La cerimonia degli addii, Cit., p.172. 64

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suoi quaderni i Carnets de la drôle de guerre65. Sulla traccia dei due maestri tedeschi, ne L’Essere e il nulla Sartre ha come obiettivo principale riesaminare il rapporto tra la coscienza ed il mondo. L’opera si suddivide in due parti: un’analisi delle condizioni generali dell’essere del fenomeno e della coscienza, ed un’analisi dei fenomeni stessi. Sartre inizia la sua analisi con la distinzione di due zone d’essere: l’in-sé ed il per-sé.

L’in-sé corrisponde all’essere del fenomeno, è presentato come massivo, opaco a se stesso perché ricolmo di sé; per questo motivo Sartre lo definisce come l’essere che ‹‹è ciò che è››. Essendo isolato nel suo essere, esso non ha rapporti con l’alterità ma è una piena positività, è increato ed atemporale66. Il per-sé corrisponde invece all’essere della coscienza. Il per sé è definito come ‹‹ciò che ha da essere ciò che è››, infatti il per-sé è ciò che temporalizzandosi si auto-crea, appunto non è ma ‹‹si fa››. Il per-sé si configura come una decompressione d’essere: poiché a differenza dell’in-sé, non è una pienezza positiva, una completa adeguazione a sé, si presenta come non essere. Sartre chiama Nulla l’esperienza del non essere, condizione fondamentale perché si dia la possibilità di dire di no. Il nulla viene al mondo per mezzo del soggetto: ‹‹l’essere per cui il nulla si produce nel mondo è un essere nel quale, nel suo essere, si fa questione del nulla del suo essere67››. La legge del per sé è infatti definita come presenza a sé, ovvero un modo di non essere la propria coincidenza, di sfuggire all’identità, pur ponendola come identità68; quel sentimento di eccedenza rispetto a sé descritta nell’esempio di Janet e ripresa da Sartre nella Trascendenza dell’ego69. Il nulla è quindi sempre un altrove, il per sé è obbligato ad esistere sotto forma di un altrove in rapporto a sé, come un essere che è affetto da inconsistenza d’essere70.

65 J.-P. Sartre, Les carnets de la drôle de guerre, 1930-40. 66

J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Cit., p.32.

67 Ivi, p.58. 68

Ivi, p.117.

69 J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego, Cit., p.92. 70

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Ovviamente la condizione fondamentale che può permettere all’uomo di nullificarsi è che esso sia libero. Per mezzo del sentimento di angoscia l’uomo prende coscienza della propria libertà, proviamo infatti angoscia di fronte a noi stessi perché percepiamo di essere liberi di assumere le nostre possibilità. L’angoscia è inoltre motivata del fatto che la realtà umana nel suo sorgere si percepisce come “mancanza”: quando la coscienza contempla la situazione attuale, riconosce una mancanza rispetto a ciò che pone come valore ideale, ed il desiderio di raggiungere il valore posto spinge l’uomo a nullificare la sua situazione presente per conferirle così il senso che non ha ancora. Di conseguenza è la mia libertà ad essere il fondamento dei valori, e niente mi giustifica a priori nell’adottare un valore piuttosto che un altro. L’angoscia di fronte al valore è data dal riconoscimento della sua idealità. In generale, secondo Sartre, il nostro atteggiamento nei confronti dei valori è estremamente rassicurante, perché ci troviamo impegnati in un mondo di valori, molti banali e quotidiani che viviamo nell’immediatezza, sul piano della coscienza irriflessa (scrivo, sto fumando, ho un appuntamento con qualcuno …); ma sul piano della riflessione emergo nella mia solitudine come unica origine del valore:

‹‹Quando l’azione si allontana da me, quando sono rimandato a me stesso, perché devo proiettarmi nel futuro, mi scopro a un tratto come colui che dà un significato alla sveglia, colui che presta la sua imperatività all’ordine di un capo, colui che decide dell’interesse del libro che scrive, colui che fa, infine, in modo che dei valori esistano per determinare la sua azione con le loro esigenze. Emergo solo,[…] non posso ricorrere ad alcun valore contro il fatto che sono io che conservo i valori dell’essere; niente mi può assicurare contro me stesso; separato dal mondo e dalla mia essenza da quel nulla che io sono, ho da realizzare il senso del mondo e della mia essenza: io ne

decido, solo, ingiustificabile e senza scuse››71.

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Nell’angoscia l’uomo si scopre dunque condannato ad essere libero, ed è proprio la libertà a costituire per lui un destino al quale non può sottrarsi. Di conseguenza, si apre la possibilità di provare a fuggire la propria angoscia, la consapevolezza della sempre presente apertura umana al non essere, tentando di nasconderla. L’uomo può assumere, di fronte alla propria angoscia, quello che Sartre chiama un atteggiamento di malafede. La malafede non deve essere confusa con la menzogna perché la menzogna è un comportamento di trascendenza: ovvero si dà una relazione tra mentitore ed ingannato, si presuppone cioè una dimensione di alterità e reciprocità. Inoltre, la menzogna, richiede che il mentitore abbia lucidamente progettato un piano per alterare una verità, e che sia perfettamente in grado di distinguerla dalla menzogna che esporrà all’altro. Al contrario la malafede è un tipo di menzogna che riguarda la coscienza, ma come menzogna verso se stessi. Essa mantiene quindi solo apparentemente la struttura della menzogna, perché viene meno la dualità tra ingannatore ed ingannato, tutto avviene nell’unità di una stessa coscienza. Essendo soppressa questa dualità, il soggetto in malafede deve conoscere perfettamente la verità per potersela nascondere, e questo non in due momenti distinti ma nell’unità di un preciso progetto72.

C’è nel fenomeno della malafede qualcosa di evanescente, è vero che può essere considerata una struttura psichica metastabile, cioè una dimensione di semi-coscienza pensata sotto forma di equilibrio temporaneo, tuttavia per molte persone può costituire l’aspetto normale della vita, può essere assunta in modo permanente73.

Sartre, contro la psicanalisi freudiana, non accetta di ricorrere all’inconscio, né di dividere la massa psichica in due (Es ed Io), poiché in questo modo si reintrodurrebbe una dualità nella coscienza74. La malafede si presenta come qualcosa di più sottile e complesso, la coscienza infatti deve essere cosciente di ciò che rifiuta per poterlo dissimulare; è una condotta di 72 Ivi, p.84. 73 Ivi, p.86. 74 Ivi, p.88.

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autoinganno che viene ammessa nell’unità di una stessa coscienza. La malafede corrisponde ad un modo di essere inautentico che, se pur con esiti differenti, è stato pensato da Sartre a partire dal concetto di inautenticità di Heidegger75. L’inautenticità era stata descritta da Heidegger come lo stato quotidiano in cui l’esserci si trova originariamente gettato. In questo stato quotidiano l’esserci si trova ad abitare il mondo insieme ad altri uomini; l’esserci vede gli altri usare gli oggetti-strumenti e ne sente parlare. Proprio perché l’uomo nasce come esser-con, cioè insieme ad altri, inizialmente può comprendere il mondo solo grazie all’opinione comune. L’inautenticità corrisponde allo smarrimento nella mentalità pubblica del “si” o del “noi” espressa nella chiacchiera, al fatto che l’uomo non si rapporti in prima persona al mondo ed alle proprie possibilità; tuttavia l’inautenticità non comporta per Heidegger un giudizio di valore negativo, l’esistenza dell’uomo è originariamente inautentica e l’uomo potrebbe anche non uscirne mai. Sartre ritiene che il criterio di giudizio della scelta morale non sia un giudizio di valore, ma un giudizio logico, la malafede equiparata all’inautenticità corrisponde ad essere in errore. La malafede è una struttura di una coscienza metastabile che dissimula l’impegno delle proprie scelte con scuse deterministiche, dietro alle passioni o con valori considerati come esistenti a priori. Gli uomini in malafede sono la “gens bien”, gli sporcaccioni, gli spiriti imbevuti di serietà descritti nella Nausea, che ritengono di aver diritto all’esistenza76. Sartre porta alcuni esempi concreti per farne comprendere meglio il funzionamento. Se prendiamo in considerazione l’idea di sincerità, notiamo che l’ideale da raggiungere che essa ci pone è che l’uomo sia per se stesso soltanto ciò che è, che sia pienamente ciò che è. Quello che la sincerità pone con la massima di “dover essere ciò che si è” è dunque un ideale d’essere77. Questa massima corrisponde per Sartre proprio alla definizione dell’in sé o del principio di identità; tuttavia se l’uomo fosse ciò che è, non

75

M. Heidegger, Essere e tempo, Cit., p.144.

76 Supra nota 54. 77

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sarebbe possibile la malafede. Sartre porta l’esempio di un cameriere, eccessivamente zelante ed affettato, nello svolgimento della sua attività78. Il cameriere si sforza così tanto nella sua condotta, che sembra stia giocando. Quello che il cameriere sta facendo è giocare ad impersonare un ruolo; gioca con il suo corpo e con la sua condizione per realizzarla.

Vuole essere assolutamente cameriere, ‹‹Ecco tante precauzioni per imprigionare l’uomo in ciò che è››79. Quest’uomo però, non può essere cameriere nel senso in cui un calamaio è calamaio. Quello che sta tentando di fare il cameriere è privilegiare l’essere in sé, e cercare di cristallizzarsi in esso. Anche se in un certo senso egli è cameriere, non potrà esserlo in altro modo che giocando ad esserlo, rappresentandolo a se stesso e agli altri. Sarà quindi cameriere nel modo di essere ciò che non è, cioè trascendendo la propria condizione. Di conseguenza l’ideale della sincerità richiede l’adempimento di un compito impossibile perché in contraddizione con la struttura della coscienza. La sincerità corrisponde dunque per Sartre un atteggiamento di malafede. Un altro esempio è quello di un omosessuale, che pur ammettendo la propria propensione ed ogni atto compiuto, rifiuta di considerarsi un pederasta80. Egli infatti troverà mille scuse per il suo comportamento, il suo sarà sempre da considerarsi come un caso a parte. L’omosessuale, al contrario del cameriere, con il suo atteggiamento privilegia la dimensione della trascendenza, non dando peso a quella dell’in-sé. L’omosessuale non vuole essere considerato come una cosa, non vuole che i suoi atti costituiscano per lui un destino. Tuttavia l’atteggiamento dell’omosessuale contiene una fondamentale verità: l’in-sé non è il per-sé. Egli riconosce infatti quel carattere irriducibile della realtà umana di costituirsi come fuga e trascendimento del proprio essere verso il non essere. Alla base di questi differenti aspetti di malafede vi è la capacità di formare concetti contraddittori che riuniscono in sé

78 Ivi, p.96. 79 Ivi, p.97. 80 Ivi, p.101.

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un’idea e la sua negazione81. Proprietà dell’uomo è di riunire in se stesso l’essere una fatticità (quella parte di permanenza, di essere, che si trova nell’uomo) ed una trascendenza. Ma invece di coordinare questi due aspetti della realtà umana, la malafede afferma la fatticità come essente la trascendenza, e la trascendenza come essente la fatticità82. Ciò significa che l’opera di mistificazione introdotta dalla malafede si traduce nel fatto che un soggetto si persuade di poter privilegiare solo uno dei due aspetti che lo costituiscono, fatticità o trascendenza, per definire la propria persona, mentre in realtà li possiede entrambe. L’essere della coscienza, poiché è in-sé per nullificarsi nel per-sé, rimane contingente. Questa contingenza evanescente dell’ in-sé che aderisce al per-sé senza lasciarsi mai percepire è chiamata da Sartre “fatticità”. Proprio la fatticità permette di dire che il per-sé esiste, nonostante non sia possibile realizzarla e la si percepisca solo attraverso il per-sé83.

A questo proposito Claudio Tognonato84 osserva che nell’istante del presente, il per sé prima di nullificare l’in sé è, esiste ed è totalità assoluta con il suo essere. Di conseguenza l’esistenzialismo ha il merito di cogliere l’esistente nel suo farsi come momento positivo.

‹‹Il presente nella sua spontaneità è l’assoluto positivo, è una totalità senza fratture, il per sé come

trasparenza che lascia apparire al sé è, ed è l’in-sé-per-sé››85.

Il vero scacco che l’uomo subisce non è pertanto l’impossibilità di cogliere l’in-sé-per-sé, ma l’irraggiungibilità di quello che Sartre chiama desiderio di essere sé o desiderio di essere Dio, cioè di esistere come essenza. Pur tenendo presente che nell’analisi sartriana il presente è precario e non resiste al ritorno della coscienza nullificante, se ignorassimo questo primo 81 Ivi, p.93. 82 Ivi, p.93. 83 Ivi, p.123.

84 Claudio Tognonato, Sartre contro Sartre, Ed. Cosmopoli, Roma, 1996, p.61. 85

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momento positivo significherebbe, secondo Tognonato, trascurare l’elemento forse più significativo di ciò che si afferma quando si parla di esistenzialismo86.

c) Tempo, riflessione e conoscenza.

Abbiamo notato che l’incompletezza costitutiva della coscienza umana è definita da Sartre come mancanza, e inevitabilmente l’uomo subisce lo scacco dell’impossibilità di avere una base di appoggio che gli permetta di raggiungere quella totalità di in-sé-per-sé che si affanna a realizzare. Questa ricerca disperata della totalità ed il suo inevitabile insuccesso, l’uomo la esperisce in ogni attività di coscienza, possiamo infatti dire che essa costituisce il filo conduttore che attraversa tutto L’essere e il nulla. Sartre riprende l’idea di Heidegger secondo la quale “essere è tempo”, cioè che l’uomo sia costituito radicalmente dalla temporalità in quanto è uno spirito vivente che si storicizza. L’essenza dell’uomo che Heidegger vuole cogliere non corrisponde ad una natura o sostanza ma alla stessa esistenza dell’uomo. Infatti l’uomo esistendo al modo della possibilità, del poter essere, si distingue dalle cose e non può essere pertanto considerato come una semplice presenza, come qualcosa di dato87.

Sartre riprende il significato di esistenza così come era stato pensato da Heidegger nel suo senso etimologico e dinamico dell’ex-sistere, oltrepassare la realtà in direzione della possibilità; la temporalità si manifesta dunque come dispiegamento del proprio essere costitutivamente progettante. Nella concezione sartriana della temporalità ritroviamo inoltre l’influenza del pensiero di Husserl88 e di Bergson89, in particolare dell’idea di non considerare il tempo al modo della scienza, come un tempo spazializzato, che possiamo immaginare come un insieme di punti disposti su una linea; ma propriamente come il tempo vissuto dall’uomo

86 Ibidem. 87

M. Heidegger, Essere e tempo, Cit., p.73.

88 E. Husserl, Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins, 1893-1917 (trad. It. di A. Marini. Per la

fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano, 1981).

89 Henri- Louis Bergson, Matière et mémoire, 1896 (trad. It. di A. Pessina. Materia e memoria, Città armoniosa,

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corrispondente alla vita della coscienza. Sartre concepisce la temporalità non come un tempo universale che conterrebbe tutti gli esseri, ma così come è vissuta dall’uomo, come il modo d’essere dell’uomo stesso. La temporalità non è che un’espressione della dialettica tra l’indivisibile coppia di essere e nulla che Sartre paragona al movimento di profonda coesione e dispersione della diaspora90. Contrariamente all’istantaneismo di Cartesio, ovvero la struttura temporale del cogito che riduce il divenire della coscienza ad una serie di punti discontinui, in quanto si realizza come una trasparenza dell’io a se stesso che avviene al di fuori del flusso temporale; il tempo non deve essere considerato come una collezione di attimi di cui fare la somma, ma come momenti strutturali di una sintesi originaria91. Il tempo ci viene mostrato da Sartre nel modo in cui è vissuto dal soggetto, proprio perché il tempo viene al mondo per mezzo dell’uomo stesso. Husserl e Bergson, al contrario di Cartesio, avevano giustamente conferito al passato l’essere, ma questo non era sufficiente agli occhi di Sartre perché essi avevano considerato il passato come isolato non tenendo conto del rapporto ontologico che unisce il passato al presente92. Bergson aveva concepito il tempo come un continuo processo di creazione e conservazione integrale del passato, possibile da raffigurare come una palla di neve che cresce progressivamente con l’avanzare del futuro93. Egli aveva poi distinto due forme di sopravvivenza del passato: il ricordo puro inteso come un polo ideale, corrispondente alla memoria conservata integralmente; ed il ricordo immagine che avrebbe una funzione pratica nel costituire le nostre reazioni di fronte agli stimoli dell’ambiente. Tuttavia la descrizione del passato di Bergson non soddisfa Sartre in quanto non ha definito un vero legame ontologico con il soggetto, non spiegando ‹‹come il passato

90

J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Cit., p.185.

91 Ivi, p.146. 92

Ivi, p.150.

93 H.-L. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, 1889 (trad. It. di V. Mathieu. Saggio sui

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possa esistere per noi››94. Husserl similmente a Bergson concepiva l’idea di un’infinita corrente di esperienze vissute, ed aveva dotato la coscienza di procedimenti di ritenzione in grado di arrestare le coscienze passate impedendogli di dissolversi: ogni esperienza vissuta andrebbe così a formare un continuo pieno conservato come una specie di eterno presente95. Queste ritenzioni e in generale le tendenze della coscienza descritta da Husserl, sono criticate da Sartre, al pari di mosche che sbattono contro il vetro del presente senza poterlo rompere96. Sartre, al contrario, ritiene che le tre ekstasi temporali (passato, presente, futuro) manifestino la totalità dinamica ed incompiuta dell’essere dell’uomo come “presenza a sé”: cioè come non poter coincidere pienamente con il proprio passato, da cui il presente ci separa superandosi nel futuro delle proprie possibilità.

‹‹Ogni dimensione è un modo di protendersi invano verso il sé, di essere ciò che si è al di là di un nulla, un modo differente d’essere questo cedimento, questa vanificazione dell’essere che il per-sé deve essere››97.

Correlato al tempo è il momento della riflessione, che Sartre definisce come un tentativo fallimentare di oggettivare il tempo interiorizzandolo. La riflessione agli occhi di Sartre non può che rappresentare una sconfitta, essa infatti porta con sé la pretesa del soggetto di riprendere e dominare la propria fuga da sé, così da poterla fondare conferendogli l’essere invece di temporalizzarla come fuga che sfugge a se stessa98. Riducendo la durata di un atto concreto in durata psichica, il soggetto cerca di bloccare il flusso di coscienza per poterlo sottoporre ad un’analisi oggettiva. Sartre distingue tra una riflessione pura, ed una impura: la

94

J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Cit., p.149.

95 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Cit. 96

J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Cit., p.149.

97 Ivi, p.180. 98

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prima coglie la temporalità nella sua non sostanzialità originale, nel suo rifiuto di essere in-sé, si coglie cioè come storicità. La riflessione pura non tematizza il flusso di coscienza, ma scopre il per-sé come quell’individualità che nel suo essere totalità detotalizzata può essere il suo sé solo ‹‹a distanza da se stesso, nell’avvenire, nel passato, e nel mondo99››.

La riflessione impura al contrario prende in considerazione la temporalità psichica, cioè la successione dei fatti di coscienza e ne fa un oggetto di scienza. Per Sartre la riflessione impura è in malafede perché rappresenta il tentativo abortito di farsi radicalmente altro da se stessi100. Nella riflessione impura la temporalizzazione originale non è più considerata come un’unità ek-statica ma si frammenta in una infinità di “adesso” che ‹‹sono ciò che sono, e che, proprio per questo, tendono a isolarsi nella loro identità-in-sé››101.

Un esempio di questo atteggiamento Sartre lo ritrova nella psicologia intellettualistica di Proust102. Sartre ritiene che Proust, con la sua analisi intellettuale, cerchi di individuare nella successione temporale degli stati psichici dei legami di causalità razionale di questi stessi stati. Tuttavia i risultati di tale analisi non giungono secondo Sartre a rendere più intelligibile il mondo psichico, ma portano a una interpretazione meccanicistica di esso deformandone la natura. La temporalità così considerata è qualcosa di passivo, qualcosa che è al modo dell’in sé; per questo motivo Sartre non ritiene gli esiti di Proust differenti quelli di Bergson103. Si può notare con evidenza che il filo conduttore adottato per descrivere al meglio il per-sé si risolve nell’esame delle sue condotte negative, Sartre vuole infatti far emergere il fatto che ad influenzare le domande e le risposte che l’uomo può concepire è proprio la continua possibilità del non-essere fuori e dentro di sé. Anche il fenomeno della conoscenza è infatti

99 Ivi, p.201. 100 Ivi, p.205. 101 Ivi, p.211. 102

Marcel Proust, Du côté de chez Swann,1913 (trad. It. di F. Cappelletti. Dalla parte di Swann, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1998).

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