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Funzionamento familiare e carico assistenziale dei caregiver nelle malattie Neurologiche.

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Academic year: 2021

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Indice

INTRODUZIONE...2

CAPITOLO 1. CAREGIVING E CARICO ASSISTENZIALE NELLE MALATTIE NEUROLOGICHE...4

1.1 Caregiving nelle Gravi Cerebrolesioni Acquisite...5

1.2 Caregiving nella Sclerosi Multipla...12

1.3 Caregiving nella Sclerosi Laterale Amiotrofica...16

1.4 Caregiving nella Demenza...21

1.5 Caregiving nel Morbo di Parkinson...29

1.6 Gli aspetti positivi del Caregiving...32

CAPITOLO 2. CARICO ASSISTENZIALE E FUNZIONAMENTO FAMILIARE 35 2.1 Funzionamento familiare...36

2.2 Ciclo di vita...38

2.3 L'impatto delle malattie neurologiche sulla famiglia...44

CAPITOLO 3. LA RICERCA...49 3.1 Obiettivi...49 3.2 Materiali e metodi ...49 3.2.1 Popolazione di studio...49 3.2.2 Strumenti...50 3.2.3 Analisi statistiche...53 3.3 Risultati...53 3.4 Discussione...70 CONCLUSIONI ...79 BIBLIOGRAFIA...80 APPENDICE...98

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INTRODUZIONE

La parola "Caregiver" significa letteralmente "persona che presta le cure". Il caregiver è un individuo che, in un ambito domestico, si prende cura di un soggetto malato o in condizione di handicap fisico e/o intellettivo. Esistono due tipologie di caregiver: quelli formali, cioè figure professionali come badanti o infermieri, e quelli informali, ovvero i familiari del malato, che possono essere coniugi, genitori, figli, o in casi più rari, altri parenti o amici. In relazione ai dati statistici, il profilo tipico del caregiver è quello di una donna (80% dei casi), partner o figlia del malato, di mezza età (range 45-64 anni) e non sempre in condizioni ottimali di salute, che si deve prendere cura del suo caro in modo più o meno continuativo, con un carico di ore settimanali che cresce al progredire della malattia (mediamente 20-30 ore settimanali) (Nastri & Corli, 2007).

Il "carico assistenziale" fa riferimento a tutta la serie di mansioni che il caregiver deve ricoprire quotidianamente prestando cure al malato, nonché alle conseguenze sul piano psicologico e sociale.

Sebbene le caratteristiche del caregiving dipendano dagli specifici bisogni della persona malata, esso di solito implica mansioni come ad esempio l'aiuto nella cura dell'igiene personale, l'accompagnamento negli spostamenti da un luogo ad un altro e la lettura ad alta voce per il malato inabilitato a farlo, ecc. Compito precipuo del caregiving è quello di garantire supporto emotivo e strumentale e al contempo promuovere l'indipendenza attraverso il mantenimento del migliore stato funzionale a livello fisico, intellettuale, emotivo e spirituale della persona colpita da malattia (Bridges, 1995).

Nella presente ricerca è stato analizzato il carico assistenziale dei caregiver di malati neurologici, in rapporto al funzionamento familiare e alle caratteristiche delle diverse malattie in termini di modalità di esordio, decorso e sintomatologia prevalente. Le malattie neurologiche sono malattie del sistema nervoso che si caratterizzano, nella loro espressione, per una stretta dipendenza dalla sede della/e lesione/i. Ovvero, persone aventi la stessa patologia neurologica potrebbero presentare quadri

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sintomatologici diversi, in funzione della diversa localizzazione del danno e, allo stesso modo, persone con patologie neurologiche differenti potrebbero mostrare gli stessi sintomi e segni, in relazione alla medesima localizzazione lesionale.

La diagnosi avviene nell'ambito della patologia neurologica che ancora il ragionamento clinico alle basi anatomo-funzionali del quadro clinico, e perciò alle conoscenze anatomiche e fisiologiche del sistema nervoso. In questo ambito, uno degli indicatori di malattia è spesso il comportamento del soggetto, che viene non di rado indagato in presenza di un parente o di qualcuno che possa testimoniare le difficoltà quotidiane di questa persona. Le malattie del sistema nervoso possono essere classificate in base al meccanismo patogenetico che le determina (vascolare, infiammatorio/infettivo, neoplastico, degenerativo, traumatico) (Lucchelli, 2011). Esse, inoltre, variano per la frequenza con cui si presentano nella popolazione e per il tipo di compromissione che causano, che può essere o meno a prevalenza cognitiva, sensoriale o motoria (Galassi, 2008).

In particolare, nel presente lavoro, sono stati intervistati i caregiver di pazienti con le seguenti condizioni mediche: esiti di Gravi Cerebrolesioni Acquisite (GCA), Sclerosi Multipla (SM), Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), Demenza (deterioramento cognitivo senile, demenza vascolare e Malattia di Alzheimer ) e Morbo di Parkinson, ed è stato indagato il loro carico assistenziale in rapporto al funzionamento familiare.

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CAPITOLO 1.

CAREGIVING E CARICO ASSISTENZIALE NELLE MALATTIE

NEUROLOGICHE

Data la funzione cruciale che il caregiver ricopre nei confronti del suo caro, della famiglia, nonché della società, è di fondamentale importanza che egli si mantenga a sua volta in un buono stato di salute psico-fisica, in modo da poter continuare a ricoprire le numerose funzioni di ruolo che una persona adulta normalmente ricopre. Affinché ciò sia possibile, il caregiver deve prendersi cura anche di sé stesso. Questo argomento ha preso spunto da diverse ricerche che hanno messo in relazione il carico assistenziale e lo stress percepito dal caregiver con il suo stato di salute e con il rischio di sviluppare malattie. Le evidenze rispetto al fatto che la salute dei caregiver sia maggiormente a rischio rispetto a quella della popolazione generale si possono comprendere tenendo presenti le difficoltà e l'impegno psico-fisico di chi si prende cura costantemente di una persona con malattia cronica e, nel nostro caso, neurologica. Questo tipo di esperienza è pertanto da valutare in base alle relazioni esistenti tra distress psicosociale, abitudini di vita, indicatori di salute e i possibili esiti fisiologici (Vitaliano, Scanlan & Zhang, 2003).

I caregiver si ritrovano spesso sormontati dagli impegni di cura del proprio caro, da quelli lavorativi e domestici e sono sottoposti ad uno stress cronico (Teri et al, 1992) che può incidere sul loro stile di vita, conducendoli spesso alla messa in atto di comportamenti non salutari (George & Gwyther, 1986). Inoltre, ricerche ed esperienze cliniche evidenziano che i fattori che causano stress nel malato (come l'insorgere della sintomatologia, il decorso e la sofferenza fisica e psicologica), provocano distress anche in chi intrattiene con loro relazioni significative, per esposizione diretta e indiretta. Ciò va quindi ad aggiungersi al carico oggettivo e ad influenzare la percezione che ne ha di esso il caregiver (Acitelli & Badr, 2005; Bodenmann, 2005; Coyne & Fiske, 1992). In generale, da varie revisioni della letteratura sul caregiving nelle malattie neurologiche, i dati pervenuti riguardo allo

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stato di salute dei caregiver hanno evidenziato condizioni di salute peggiori rispetto alla popolazione generale. Tuttavia questi dati non ci autorizzano a inferire che il caregiving sia pericoloso per lo stato di salute, ma piuttosto che potrebbe essere considerato come un potenziale fattore di rischio aggiuntivo, assolutamente degno di nota in quanto potrebbe avere implicazioni cliniche per milioni di persone. Aiutando i caregiver a mantenere un buono stato di salute, si aiutano quindi anche i destinatari delle loro cure e la società (Vitaliano, Scanlan & Zhang, 2003).

Nei prossimi paragrafi verranno descritte le caratteristiche principali delle condizioni di malattia esaminate in questa ricerca e verranno riportati degli studi che hanno indagato le implicazioni, di ogni specifico disturbo neurologico, a livello del carico assistenziale e sul vissuto e la salute dei caregiver.

1.1 Caregiving nelle Gravi Cerebrolesioni Acquisite

Le Gravi Cerebrolesioni Acquisite (GCA) possono avere origine traumatica o essere l'esito di una malattia cerebrovascolare. I traumi cranici sono la prima causa di mortalità giovanile, tra i 15 e i 24 anni, ma anche di disabilità, considerando le sequele neurologiche e psichiche ad essi correlate, a seconda della gravità e dell'area cerebrale danneggiata. Tra i possibili outcome di un evento di tipo traumatico grave, si possono riscontrare una commozione cerebrale oppure una contusione cerebrale. Il primo esito possibile è la conseguenza dello scuotimento della massa cerebrale che, nelle forme gravi, implica un danno diffuso degli assoni della sostanza bianca e si manifesta con un coma prolungato che può evolvere in stato vegetativo. Nel caso di una contusione cerebrale invece si ha una lesione macroscopica di lacerazione e necrosi emorragica, che può avere sede nel punto di impatto o meno; nei casi gravi, una volta risolti i disturbi di coscienza, si manifestano sintomi neurologici di vario tipo e gravità a seconda della zona colpita, come da definizione nell'ambito dei disturbi neurologici; tuttavia quando la causa della GCA è traumatica è più facilmente riscontrabile un miglioramento di questi deficit neurologici, diversamente a quanto accade se la causa è di tipo cerebrovascolare (Bertora & Mariani, 2009).

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Le malattie cerebrovascolari rappresentano la principale causa di disabilità e la terza causa di morte nell'adulto (dopo le malattie cardiologiche e il cancro), con un'incidenza annuale che cresce con l'età della popolazione (Resta et al., 2006). L'ictus è contraddistinto da un'insorgenza improvvisa di segni e sintomi che indicano un danno limitato ad un'area circoscritta del sistema nervoso centrale, causato da un'alterazione della circolazione cerebrale. In generale, il danno avviene a seguito della morte delle cellule nervose, causata da una catena di cambiamenti metabolici conseguenti alla mancanza temporanea del normale afflusso di sangue che le rifornisce di ossigeno e glucosio. Tali variazioni conducono all'alterazione, fino alla possibile compromissione, delle funzioni esercitate dalle cellule di quell'area. Si è in presenza di ictus emorragico quando c'è una rottura di un vaso con fuoriuscita di sangue nella zona circostante. La causa della rottura del vaso può essere riconducibile ad un trauma o all'ipertensione arteriosa (solitamente dopo i cinquant'anni), ad aneurismi (dilatazione della parete del vaso) o a malformazioni artero-venose (in età giovanile); cause più rare riguardano disturbi della coagulazione del sangue (Lucchelli, 2011). Il soggetto può presentare all'esordio alterazione della coscienza e crisi epilettiche. Si ha invece ictus ischemico quando c'è una mancanza di afflusso di sangue, causata dall'occlusione di un'arteria da parte di un embolo (materiale aggregato che circola nei vasi) o di un trombo (ispessimento di un vaso, di cui una parte, staccandosi, può diventare un embolo), che nella maggior parte dei casi devono la loro formazione ad un insieme di fattori ascrivibili ad uno stile di vita poco salutare (cattiva alimentazione, sedentarietà e abuso di fumo e alcol). L'esordio di un ictus ischemico si caratterizza per un'improvvisa comparsa di un deficit neurologico focale, che può essere fin dall'inizio globale o evolvere in attacchi successivi, a gradini, oppure in modo rapidamente progressivo; una cefalea, talora di tipo emicranico, può accompagnare o precedere l'ictus. Crisi epilettiche generalizzate o parziali, isolate o ripetute, che danno origine talora ad uno stato di male epilettico, sono state riscontrate nel 5% circa dei casi nella fase iniziale dell'ictus. La sintomatologia riscontrabile può prevedere, anche in combinazione tra loro: emiparesi (perdita parziale della funzione motoria di una metà del corpo), emiplegia

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(perdita della motilità volontaria in una metà del corpo), ipoestesia (diminuzione della sensibilità soprattutto tattile, termica e dolorifica), emianestesia (perdita della sensibilità da un solo lato del corpo), emianopsia (cecità limitata a metà del campo visivo), afasia (disturbo della formulazione e della comprensione di messaggi linguistici), vertigine, disfagia (disturbo della deglutizione, che diventa dolorosa, difficile o impossibile), diplopia (percezione doppia di un’immagine, che può riguardare uno o entrambi gli occhi), atassia (disturbo che si manifesta nell’esecuzione dei movimenti, che vengono effettuati senza misura e con errori di direzione, oppure nella conservazione delle posizioni del tronco e degli arti) (Mariani & Bertora, 2009).

Una frequente complicanza delle GCA (soprattutto di tipo ischemico) è rappresentata dalla depressione, con una prevalenza che oscilla tra il 30 e il 50% dei pazienti, a seconda che si considerino studi ambulatoriali, di comunità o di reparti specialistici o di riabilitazione, e a seconda del periodo di rilevazione del disturbo e dei criteri di inquadramento diagnostico adottati. Il livello di depressione del soggetto può variare nel tempo e le manifestazioni depressive si differenziano in base alla sede della lesione emisferica: infatti, in caso di lesione emisferica destra, si hanno più spesso caratteristiche di endogenicità (marcata flessione timica, pessimismo, inibizione volitiva, idee di suicidio, iporessia con calo ponderale, risveglio precoce, peggioramento mattutino della sintomatologia), mentre in caso di lesioni emisferiche sinistre si hanno caratteristiche cliniche di tipo più cognitivo, le quali spesso provocano difficoltà nella diagnosi differenziale di disturbi cognitivi su base vascolare. I pazienti con depressione post-ictus presentano una prognosi immediata e di recupero funzionale peggiore rispetto ai soggetti non depressi. Anche il recupero riabilitativo a due anni dall'infarto cerebrale subisce l'influenza del disturbo affettivo, anche se quest'ultimo si è manifestato solo nel primo periodo seguente l'ictus. E' proprio questo infatti il momento più cruciale per la riabilitazione e, ad esempio, il ritiro sociale che caratterizza l'umore depresso potrebbe portare ad una scarsa adesione al trattamento riabilitativo con conseguenti esiti negativi sulla prognosi della malattia neurologica e sulla qualità di vita del paziente (Monaco & Torta,

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2006).

Le GCA hanno di solito conseguenze a lungo termine sul funzionamento psico-fisico e psico-sociale del malato. Allo stesso modo, la vita familiare ne è enormemente influenzata, soprattutto per i profili di elevato carico assistenziale che si vengono spesso a delineare, nonché per il tipo di esordio improvviso che interferisce significativamente con le traiettorie di sviluppo della famiglia ed ha effetti diversi a seconda della particolare fase in cui irrompe nel ciclo vitale della famiglia medesima. Spesso sono proprio le caratteristiche temporali dell'esordio di questa condizione a caratterizzare in modo peculiare gli esiti a livello di impatto psicologico e vissuto emotivo dei familiari. Infatti, sebbene tutte le malattie neurologiche degenerative comportino uno scoinvolgimento della vita familiare, il loro impatto è più graduale rispetto alle GCA in cui si passa improvvisamente da una situazione di normalità ad una in cui il proprio caro è per certi versi assente, apatico, disregolato a livello emotivo e comportamentale, o in altri casi presenta deficit cognitvi, o nei casi ancora più estremi si trova in stato vegetativo (Tramonti et al., 2015).

Il carico del caregiver e il distress familiare sono di solito elevati (Gan, Campbell, Gemeinhardt & McFadden, 2006); in particolare il ruolo del funzionamento familiare necessita di essere approfondito con ulteriori studi, in quanto è risultato essere un fattore di cruciale importanza nell'influenzare gli outcome riabilitativi in questa condizione (Sander et al., 2002). La famiglia è sottoposta ad una serie di oneri, per cui sono inevitabili molti cambiamenti a livello di vita familiare, in termini di ruoli rivestiti (Carter & McGoldrick, 1999). Un evento inaspettato, come può essere un grave trauma cranico o un ictus, può interferire sulla traiettoria di sviluppo dell'individuo malato in primo luogo e immediatamente dopo sul caregiver e la famiglia.

La letteratura disponibile sul carico assistenziale del caregiver in rapporto al ruolo familiare mostra risultati contrastanti, talvolta riportando altissimi sovraccarichi per i partner e altre volte non mostrando significative differenze tra il carico coniugale e quello degli altri familiari (Perlesz, Kinsella & Crowe, 1999). Tuttavia, per quanto concerne le differenze nel carico assistenziale, bisogna tenere in considerazione

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l'eterogeneità delle condizioni in esame. Infatti, ad esempio, sono molto diversi gli oneri a cui deve far fronte un caregiver il cui caro è in stato vegetativo, rispetto a quelli che deve affrontare il caregiver di un malato la cui coscienza è parzialmente compromessa, o ancora diversi rispetto ai casi in cui sono presenti delle paresi e a quelli in cui le compromissioni sono prevalentemente a livello neuropsicologico. Inoltre, l'impatto emozionale e il carico di oneri non vanno sempre di pari passo nelle diverse condizioni sopra citate; infatti, ad esempio, sebbene l'impatto emozionale di uno stato vegetativo o di minima coscienza possa essere ovviamente devastante, nei caregiver di pazienti pienamente coscienti, ma con problemi neuropsicologici, si riscontra un carico assistenziale spesso più provante e prolungato (Boss & Greenberg, 1984).

Da uno studio di Tramonti e colleghi (2015), che si è servito del Caregiver Burden Inventory (CBI, Novak & Guest, 1989) per indagare il carico percepito dal caregiver in rapporto ai ruoli e al funzionamento familiare, sono emersi punteggi moderatamente alti; tuttavia, la media dei punteggi totali a questo test non supera il cut-off designato per segnalare situazioni di sovraccarico eccessivo. Nella lettura di questi risultati bisogna tuttavia tenere in considerazione il periodo in cui i caregiver sono stati intervistati, ovvero quando i malati erano ospedalizzati. In questa fase, infatti, i caregiver possono contare, almeno sul piano del supporto strumentale, sull'aiuto dei professionisti della salute, e avere quindi un alleggerimento di alcuni aspetti del carico assistenziale, diversamente da quando la persona malata rientra a casa e la maggior parte del carico ricade sulla famiglia. Nello stesso studio, i caregiver-partner hanno riportato punteggi più alti, per quanto riguarda il tempo dedicato alla cura, rispetto ai caregiver-figli, il che suggerisce un più forte coinvolgimento dei coniugi nell'assistenza al malato. I figli hanno invece riportato un più alto carico evolutivo, ovvero un maggiore impatto sul piano delle rinunce, in termini di opportunità di vita, dovute all’assistenza. Questi risultati sono coerenti con quelli di altri studi simili, sia per la medesima condizione che per altre malattie neurologiche (Chiambretto & Vanoli, 2006).

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esperito dal caregiver in rapporto al funzionamento familiare (in un campione di caregiver di 62 pazienti con ictus), misurati rispettivamente con le scale Brief Symptom Inventory (BSI) e Family Assessment Device (FAD). Questi risultati indicano che approssimativamente la metà dei caregiver presi in considerazione riportano elevati livelli di distress, un terzo del campione presenta elevati punteggi per l'ansia e un quarto per la depressione, oltre ad elevati punteggi nelle sottoscale di Ideazione Paranoide e Psicoticismo che suggeriscono che le sensazioni di sovraccarico e alienazione sono comunemente esperite dai caregiver di persone in questa condizione. Per quanto concerne il funzionamento familiare, i risultati mostrano elevati livelli di malfunzionamento (che tuttavia sono minori di quelli di un campione di confronto di caregiver di pazienti psichiatrici). Anche rispetto ai ruoli familiari sono emerse differenze significative in questo studio. In particolare, sembra che le caregiver-compagne abbiano maggiore probabilità di esperire sintomi depressivi, rispetto ad esempio ai caregiver-genitori. E' stata notata inoltre una tendenza delle partner a riportare più elevati punteggi di malfunzionamento familiare rispetto al campione dei genitori. Un'estensione di questo studio (Kreutzer et al., 1994) ha approfondito la relazione esistente tra le caratteristiche del quadro clinico dei pazienti e il distress dei caregiver in rapporto al funzionamento familiare, utilizzando quattro categorie di variabili predittrici: indice di gravità del danno cerebrale, risultati ai test neuropsicologici, tipo e gravità di problemi neuro-comportamentali e grado di parentela col caregiver (in particolare: coniuge o genitore). Dall'analisi dei dati è emerso che gli indicatori di gravità del danno non sono predittori dei punteggi di distress al BSI; il tempo trascorso dall'evento patologico predice i punteggi di parecchie sottoscale del funzionamento familiare al FAD; la numerosità dei problemi neuro-comportamentali del paziente predice i punteggi alle sottoscale del BSI in maniera più consistente rispetto ad ogni altra variabile, in particolare per quanto concerne le sottoscale del BSI dell'Indice di Gravità Globale, Somatica, Ossessiva-Compulsiva e della Depressione. I punteggi inerenti i problemi comportamentali predicono i punteggi al BSI meglio di ogni altra tipologia di problemi e inoltre sono in relazione con diverse sottoscale del FAD. Per

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quanto concerne invece la variabile del grado di parentela tra caregiver e malato, essa è predittrice dei punteggi di Depressione. I dati ricavati da questi studi confermano l’importanza del danno cognitivo come fattore predittivo dell’impatto sul carico assistenziale e sul funzionamento familiare, oltre a dimostrare il potenziale clinico delle scale BSI e FAD come strumenti di ricerca (Kreutzer, Gervasio & Camplair, 1994).

Merita un discorso a parte la peculiare e gravissima situazione in cui l'esito finale dell'evento cerebrale è lo stato vegetativo. Ad oggi si riscontrano pochi studi su questa condizione di assistenza al malato, mentre sarebbe importante conoscere in maniera più approfondita quali sono le strategie di coping messe in atto per gestire la quotidianità, se i livelli di depressione e di ansia si modificano con il passare del tempo e se tra lo stato emotivo dei familiari e il luogo scelto per l’assistenza al paziente (domicilio o lungodegenza) intercorre una relazione. Dai risultati di alcune ricerche su questi casi (Chiambretto & Vanoli, 2006), è emerso un generale vissuto di forte disagio e distress psicofisico nei caregiver, con signifcativi livelli di ansia e depressione e un utilizzo di strategie di coping principalmente orientate alla situazione. Nella popolazione in esame, le relazioni familiari sono state descritte come poco soddisfacenti, anche se con il tempo sono stati osservati dei miglioramenti, mentre i livelli di ansia, depressione e sovraccarico emotivo sono risultati superiori alla norma e pressoché immodificati ad un follow-up di cinque anni. Il confronto è lievemente migliore per coloro che partecipano a gruppi di auto-mutuo-aiuto condotti da psicologi. Il lavoro terapeutico in gruppo, quando ha l’obiettivo di condividere i propri vissuti rispetto alle modalità relazionali dell’assistenza, pare aiutare a sviluppare nuove strategie e risorse per affrontare la quotidianità. Dall’esperienza clinica si evince l'enorme difficoltà dei familiari ad accettare la diagnosi di stato vegetativo e da ciò scaturiscono vissuti di shock, ansia, senso di colpa, depressione, nonché rabbia e aggressività verso lo staff sanitario e il paziente stesso. Il caregiver e la famiglia si ritrovano dinnanzi ad un percorso emotivo che è in parte simile a quello che devono affrontare coloro che vivono la perdita di una persona cara e ne devono elaborare il lutto. Tuttavia, come afferma

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Stern (1988), lo stato vegetativo può essere considerato un paradosso emotivo per i familiari, in quanto il loro amato è presente solo a livello fisico, ma è impossibile interagire con lui e, nonostante la gravità della condizione clinica, il suo corpo che sopravvive rende socialmente inaccettabile l’elaborazione del lutto e un allontanamento dei congiunti. Molti familiari di pazienti in stato vegetativo restano perciò intrappolati per molto tempo (anni) in un limbo emotivo, che riflette la condizione di vita del paziente, incapaci di oltrepassarlo per re-investire nella loro vita. "Per queste persone al limite dell’ossessione, la quotidianità ha il ritmo di un rituale che si deve svolgere sempre uguale a sé stesso, senza gradi di libertà. Come spesso capita nei pazienti ossessivi il rituale imprigiona, ma protegge dal rischio di essere travolti dalle emozioni, così per molti di questi familiari accanitamente impegnati a negare ogni desiderio o aspirazione personale lo spettro è quello del distacco, del fuggire una situazione insopportabile, del rifarsi una vita" (Chiambretto & Vanoli, 2006). Si sta lavorando a livello nazionale e internazionale per delineare delle linee guida per la gestione di questi pazienti, ma il vissuto dei loro cari necessita di essere ulteriormente compreso, per contribuire all'individuazione di più idonei percorsi assistenziali-gestionali (Chiambretto & Vanoli, 2006).

1.2 Caregiving nella Sclerosi Multipla

La Sclerosi Multipla (SM) è una malattia del sistema nervoso centrale appartenente al gruppo delle malattie infiammatorie demielinizzanti, cioè quelle malattie caratterizzate dalla perdita di mielina (la guaina che riveste gli assoni), con relativo risparmio degli assoni stessi, su base autoimmune.

E' una malattia tipica dell'età giovanile, spesso associata a grave disabilità, ma non di per sé letale o interferente con l'aspettativa di vita di chi ne è colpito. E' leggermente più frequente nella donna che nell'uomo (rapporto M:F 2:3) ed esordisce nel 70% dei casi fra i venti e i quarant'anni, prima nel 10% dei casi, più tardi nel 20% dei casi, molto raramente prima dei quindici anni o dopo i cinquanta.

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La modalità di esordio e decorso, nella sua forma classica recidivo-remittente, può essere assai differente da caso a caso. Il sintomo o i sintomi iniziali possono essere compatibili con una singola lesione focale o rispecchiare fin dall'inizio il carattere multifattoriale della malattia. I sintomi si instaurano in modo veloce e progressivo entro pochi giorni. Nella sua forma più tipica il decorso clinico è di tipo recidivo-remittente, con attacchi che almeno in parte possono andare incontro a temporanea risoluzione, ma sono note anche forme progressive. I sintomi osservabili riflettono di volta in volta la sede focale di demielinizzazione, con possibile interessamento di qualsiasi parte del sistema nervoso. E' quindi possibile osservare deficit motori, sensitivi, visivi, cerebellari, sfinterici, ecc. Anche la compromissione cognitiva è frequente e indipendente dalla durata della malattia e dal livello di disabilità; tuttavia un franco quadro demenziale si osserva solo in una piccola percentuale (5% circa) di pazienti (Lucchelli, 2011).

La sintomatologia causata da alterazioni sensitive comprende: sensazioni di intorpidimento, parestesie (disturbo della sensibilità consistente nel provare una sensazione di formicolio, pizzicore, solletico ecc. in assenza di una stimolazione specifica), segno di Lhermitte (una sensazione di scarica elettrica che percorre il rachide e gli arti in risposta a una flessione della nuca), sensazioni dolorose e parestesie termiche, difficoltà nell'identificare al tatto gli oggetti.

Le alterazioni motorie sono associate a sindrome piramidale riflessa (con il termine piramidale si intende un sistema deputato al controllo dei movimenti volontari) a livello mono o bilaterale: segno di Babinski, abolizione dei riflessi addominali, iperreflessia tendinea.

Tra i vari sintomi della SM troviamo anche affaticabilità, neurite ottica (grave infiammazione del nervo ottico che può portare a ipovisione o cecità), disturbi della marcia, spasticità, nistagmo, vertigini, disartria, ecc. L'evoluzione della SM si caratterizza il più delle volte per attacchi o esacerbazioni e progressione della disabilità. Un attacco è una rapida comparsa di sintomi o segni neurologici che possono essere nuovi o l'aggravamento rapido di manifestazioni preesistenti. L'attacco raggiunge l'apice in qualche ora o in qualche giorno, dopodiché i nuovi

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segni si stabilizzano. Nella maggior parte dei casi l'episodio è seguito da regressione, che inizia dopo qualche giorno o settimana. Questa regressione può essere totale, ma solitamente è incompleta e lascia una disabilità residua. Gli attacchi devono essere distinti dai peggioramenti transitori dovuti ad esempio all'affaticabilità del soggetto. La frequenza degli attacchi è variabile e questi spesso si presentano spontaneamente, ma la loro comparsa è talvolta favorita da eventi precipitanti (come un trauma, un'infezione intercorrente, una vaccinazione). Sebbene la progressione della disabilità abbia una grande varianza interindividuale, gli studi clinici hanno mostrato che un disturbo della deambulazione appare mediamente dopo dieci anni di evoluzione e che la necessità di un ausilio unilaterale alla marcia si pone dopo quindici-vent'anni. La progressione della disabilità, che è relativamente indipendente dagli attacchi, testimonia l'evoluzione insidiosa delle lesioni; la disabilità, infatti, può comparire in un secondo tempo, nelle forme secondariamente progressive, o fin da subito, nelle forme primariamente progressive. In due casi su tre nel corso dell'evoluzione della SM si sviluppa un certo grado di deterioramento delle funzioni cognitive. I test neuropsicologici hanno dimostrato che queste alterazioni cognitive sono talora precoci. I deficit cognitivi prevalenti riguardano la memoria e l'attenzione. Raramente si osservano afasie o forme demenziali della malattia (Bertora & Mariani, 2008).

Per quanto concerne i disturbi dell'umore, invece, gli episodi depressivi compaiono frequentemente nel corso dell'evoluzione della malattia. In alcuni pazienti si osserva un disturbo affettivo paradosso caratterizzato da un umore euforico e dalla tendenza a misconoscere la gravità del disturbo, probabilmente causato da un sottostante disturbo cognitivo (Bertora & Mariani, 2008). Dalla letteratura emerge che la qualità di vita di familiari e caregiver di malati di SM diminuisce all'aumentare dei sintomi fisici, nonché depressivi, dei loro cari; entrambi i tipi di sintomi implicano infatti una serie di oneri a cui i caregiver devono sopperire e che potrebbero influire negativamente sulla loro vita sociale, comportando delle forti restrizioni (Peters et al., 2013).

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al decorso recidivante-remittente e quindi agli stati d'animo di incertezza e senso di allerta che una malattia cronica e allo stesso tempo così incostante può provocare. Il ruolo del caregiver in questa patologia è molto complesso, come lo sono le variegate sfide a cui deve far fronte sul piano emotivo, assistenziale e relazionale (Figved, Myhr, Larsen & Aarsland, 2007). Ogni famiglia possiede un suo stile e una sua peculiare modalità di organizzazione delle routine, ovvero modi per rendere gli eventi prevedibili e per favorire la risoluzione delle difficoltà a cui può andare incontro; quando un membro della famiglia si ammala di SM questa organizzazione viene turbata, ciò che prima era pianificabile e prevedibile può difficilmente esserlo in considerazione delle caratteristiche intrinseche di questa malattia. E' di fondamentale importanza tenere in considerazione quelli che sono i vissuti emotivi, le necessità e i bisogni di questo specifico momento di crisi e rinegoziazione del funzionamento familiare, nonché considerare che le ripercussioni sono diverse per ciascun membro della famiglia, in relazione a fattori quali l'età, il periodo del ciclo di vita, ecc. (Pakenham, 2005). A tal proposito alcuni studi nell'ambito della Sclerosi Multipla si sono occupati di indagare l'impatto della malattia sui caregiver e sui vari membri della famiglia. Ad esempio uno studio di Aronson (1997) ha messo in evidenza che la tipologia di parentela intercorrente tra paziente e caregiver influenza più di ogni altra variabile la qualità della vita di quest'ultimo. In particolare se il caregiver è il coniuge del malato di SM esperirà un'ulteriore diminuzione della soddisfazione rispetto alla qualità di vita. Altri fattori che hanno un'influenza su quest'ultima sono il protrarsi a lungo termine dell'assistenza, il livello di gravità dei sintomi e il decorso particolarmente instabile che caratterizza questa malattia. In particolare, per quanto concerne il carico assistenziale percepito dal caregiver, è stato notato che, soprattutto quando il proprio caro si trova in condizioni di ridotta mobilità, i caregiver hanno una percezione dei sintomi fisici e della disabilità del paziente come più grave rispetto a quella dei malati stessi o rispetto al resoconto di una visita clinica. Anche la loro autovalutazione sul proprio affaticamento fisico non è in linea con la percezione che ne hanno i pazienti (Aronson et al. 1996).

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l'umore connotato positivamente dei familiari possano essere indicatori indiretti del benessere emozionale della persona malata; mentre i sentimenti di incertezza dei caregiver possono avere degli effetti negativi sull'umore delle persone colpite da SM (Wineman, O'Brien, Nealon & Kastel, 1993).

Invece, un interessante studio di Gulick (1995) si è occupato di studiare le strategie di coping, indagandole nei coniugi e in altre persone significative per i pazienti con SM. Da questa ricerca è emerso che in generale sono maggiormente messe in atto strategie di coping di tipo "problem-focused" (pianificazione, confronto attivo) rispetto a quelle di tipo "emotivo" (ambivalenza, fuga/rabbia, prendere le distanze). In particolare il "prendere le distanze" e la "fuga/rabbia" prevalgono quando i malati di SM hanno un rapporto di dipendenza coi loro caregiver e nei casi peculiari in cui anche quest'ultimo ha dei problemi di salute viene più spesso adottata la strategia di coping del "prendere le distanze". La tipologia "pianificazione" è più spesso utilizzata dai caregiver maschi. I coniugi, invece, rispetto agli altri familiari presentano in misura maggiore uno stile di coping di tipo "ambivalente" e meno frequentemente ricorrono al "prendere le distanze" e alla "fuga/rabbia", coerentemente a quanto si ci aspetta in considerazione del loro vincolo matrimoniale.

1.3 Caregiving nella Sclerosi Laterale Amiotrofica

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia degenerativa che colpisce i motoneuroni a livello del tronco encefalico e del midollo spinale. E' la più grave delle malattie del motoneurone e causa deficit ingravescenti nella mobilità e difficoltà nella respirazione, nella deglutizione e nella parola. La sua incidenza è di circa 4 casi su 100.000 e il suo picco d'insorgenza si colloca tra i 40 e i 60 anni (Rowland & Shneider, 2001).

A livello neuropatologico si osserva:

•una scomparsa progressiva dei motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale e del bulbo: la massima concentrazione delle lesioni si localizza a livello del

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midollo cervicale. A livello del tronco cerebrale, le lesioni interessano i motoneuroni dei nervi cranici risparmiando i nuclei dei nervi oculomotori;

•una degenerazione delle vie piramidali, ben visibile a livello delle piramidi bulbari e dei cordoni laterali del midollo. E' frequente il riscontro anatomico di lesioni delle vie spinocerebellari e dei cordoni posteriori del midollo che non hanno un'espressione clinica.

Il quadro clinico della SLA differisce in funzione della localizzazione iniziale del deficit. Se l'interessamento è prevalentemente periferico compaiono progressivamente un deficit motorio e un'amiotrofia, associati a fascicolazioni e crampi. Se l'interessamento è prevalentemente centrale si manifesta una sindrome piramidale associata ad amiotrofia, che configura un quadro peculiare, caratterizzato dalla conservazione dei riflessi tendinei che sono addirittura esagerati e policinetici. A livello anatomico-funzionale le manifestazioni cliniche della SLA insorgono in maniera localizzata. Nella maggior parte dei casi l'esordio è a carico di un arto superiore o inferiore (esordio spinale), ma può manifestarsi anche con una paralisi labio-glosso-faringea causando problemi nell'articolazione e nella deglutizione (esordio bulbare).

Nella maggior parte dei casi la SLA è una malattia sporadica, la cui eziologia resta sconosciuta. Si manifesta in forma familiare nel 5-10% dei casi, con un'ereditarietà autosomica dominante. Circa il 20% di queste forme familiari è legato a mutazioni genetiche a carico del cromosoma 21 (del gene della Cu-Zn superossido dismutasi di tipo 1, SOD1) (Bertora & Mariani, 2011).

Oltre agli effetti sul sistema motorio, sono state messe in evidenza anche le possibili conseguenze sul piano cognitivo: in particolare vi sono sempre più evidenze di sintomi cognitivi ascrivibili a forme, spesso attenuate, di demenza frontotemporale (Phukan, Pender & Hardiman, 2007). Quest'ultima si manifesta comunemente con una grave alterazione della personalità e della condotta sociale, può essere caratterizzata da inerzia e perdita di iniziativa o da disinibizione sociale e distraibilità; le funzioni mnestiche sono relativamente preservate (Papagno, 2011). Ad oggi non esistono cure per arrestare il decorso della malattia e soltanto un

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farmaco (Riluzolo) si è mostrato efficace nel rallentarlo, anche se in maniera molto lieve (Andersen et al., 2005). I trattamenti messi in atto sono essenzialmente di contenimento e riduzione dei sintomi, volti a preservare più a lungo possibile l'autonomia e a migliorare, ove possibile, la qualità di vita. Essi devono tenere in considerazione anche una serie di manifestazioni molto diverse tra loro, fra le quali: disturbi ansioso-depressivi, dolori, crampi, sciallorea, spasticità, deficit nutrizionali. Ad esempio la fisioterapia adattata alle specifiche necessità, il trattamento fisioterapico delle bronco-pneumopatie ostruttive, il trattamento logopedico, permettono di migliorare la qualità di vita. Invece, altri interventi essenziali ma molto invasivi per il paziente sono la gastrostomia, che diventa indispensabile qualora l'alimentazione orale comporti il rischio di aspirazione e il trattamento dell'insufficienza respiratoria, che prevede il ricorso alla ventilazione non invasiva per evitare l'intubazione o la tracheotomia nei casi e nelle fasi di maggiore compromissione o di emergenza (Bertora & Mariani, 2011).

La prognosi della SLA è purtoppo infausta e la malattia ha un decorso relativamente rapido, considerando che la sopravvivenza media è di 3-5 anni dal momento della diagnosi (Phukan & Hardiman, 2009). Un quadro clinico di questo genere potrebbe far pensare a gravi ripercussioni anche a livello psicopatologico sulla persona malata, ma in realtà alcuni studi hanno mostrato che la depressione clinica non è molto diffusa (Averill, Kasarskis & Segerstrom, 2007; Hogg, Goldstein & Leigh, 1994). Ciò è confermato da studi sulla qualità di vita che mostrano come alla disabilità fisica imposta dalla malattia non corrispondono necessariamente bassi livelli di soddisfazione per la propria vita (Neudert, Wasner & Borasio, 2004). Una riconsiderazione in chiave adattiva dei valori e delle priorità della propria vita permette frequentemente, ai malati di SLA, di adattarsi psicologicamente e di avere reazioni resilienti (Sprangers & Schwartz, 1999).

Tuttavia, l'impatto psicologico della malattia può essere ovviamente considerevole, sia per chi ne è colpito direttamente nel corpo, sia per chi ne è coinvolto nel ruolo di caregiver principale o di familiare (Goldstein et al., 1998; Pagnini et al., 2012). Oltre all'impatto emotivo che può essere devastante, possono emergere particolari

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dinamiche familiari caratterizzate dalla dipendenza, soprattutto nella diade malato-caregiver. Queste sono infatti indagate da molti studi che focalizzano la loro attenzione sul carico assistenziale e in particolare sulle relazioni intercorrenti tra questo e il dolore e la fatica del caregiver, nonché sulla sensazione del malato di essere un peso gravante sul proprio caro (Chiò et al., 2005). Questi sono sicuramente aspetti che influiscono significativamente sulla qualità della vita delle persone coinvolte ed è perciò di fondamentale importanza, affinché ci possa essere adattamento psicologico alla malattia, fornire un supporto sia di tipo emotivo che strumentale, poiché tale malattia implica un grande carico su entrambi i livelli e condizioni di dipendenza, ed è altresì importante che tale supporto sia bilanciato dal mantenimento di sufficienti livelli di autonomia della persona con SLA (Tramonti et

al., 2012). Da ciò si evince la necessità di considerare i vari contesti dei quali la

diade paziente-caregiver fa parte, o a cui essa partecipa, ovvero il sistema familiare d'appartenenza, le reti sociali e i servizi socio-sanitari. L'individuazione e il buon utilizzo delle risorse a disposizione nei vari contesti, possono garantire un sostegno adeguato e la possibilità di mantenere una certa autonomia per la persona malata e per chi se ne prende cura. Il processo di adattamento della famiglia alla SLA è un processo continuo, data la natura progressiva e rapidamente ingravescente di questa malattia; infatti, ad ogni fase di aggravamento corrisponde una fase di adattamento e negoziazione delle necessità di coesione e autonomia, e di flessibilità e mantenimento dell'identità familiare. Capita spesso che la famiglia in cui compare una malattia grave, tenda ad identificarsi in qualche modo con essa e a funzionare in relazione ad essa, con un effetto totalizzante sulle vite dei suoi componenti. In questi casi il ricorso ad un supporto esterno, come i gruppi di sostegno multifamiliari, può essere di grande aiuto, sia per quanto riguarda il livello informativo-educativo, sia per l'esperienza di condivisione dei vissuti emotivi. Inoltre, queste occasioni di confronto contribuiscono a combattere l'isolamento di caregiver e familiari spesso costretti dalle caratteristiche stesse della malattia, ad una cura intensiva e spesso domiciliare del proprio caro (Tramonti, 2013b).

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per il malato la perdita progressiva dell'indipendenza e l'aumento del bisogno d'aiuto per svolgere le attività quotidiane, questo fa sì che il caregiver impieghi molto del suo tempo per la cura del familiare, con conseguenti restrizioni personali e sociali. Un aspetto che assume una grande rilevanza in questa condizione riguarda la perdita delle capacità comunicative da parte del malato; tale perdita fa sì che il caregiver, che passa la maggior parte del tempo col suo caro, si ritrovi intellettualmente ed emotivamente isolato. E' perciò di fondamentale importanza, per il mantenimento di un certo grado di comunicazione, nonché di qualità di vita, che siano resi disponibili per questi pazienti degli strumenti di comunicazione alternativa-aumentativa. Inoltre la SLA è una malattia che per le caratteristiche della sua sintomatologia risulta estremamente disabilitante, anche a livello sociale. Ne sono un esempio alcuni sintomi come la sciallorea, la secchezza orale e le secrezioni bronchiali, ma anche sintomi secondari come la labilità emotiva con crisi di riso e pianto. Il trattamento di questi sintomi è quindi molto importante, sia per alleviare la sofferenza fisica e psicologica del malato, che per aiutare il caregiver a contrastare l'isolamento sociale che ne potrebbe derivare (Andresen et al., 2013).

Coloro che tipicamente prestano assistenza ai malati sono, come ormai noto, i familiari; tuttavia esistono notevoli differenze nella percezione del carico assistenziale e nel caregiving a seconda del grado di parentela, dell'età e del genere (Tramonti et al., 2014). Le differenze di genere più significative nell'ambito della cura di questa malattia, si riscontrano tra i caregiver-figli; in particolare le figlie lamentano un carico assistenziale maggiore. A livello generazionale, invece, i caregiver-figli/figlie riportano in generale una più elevata sensazione di perdita di opportunità nelle loro vite, causata appunto dall'impegno costante nelle mansioni assistenziali. Effettivamente, tenendo conto che solitamente la SLA insorge intorno ai 40-60 anni, i figli di questi malati che si trovano a rivestire il ruolo di caregiver hanno un'età che è tipicamente caratterizzata da importanti scelte per il futuro e da periodi di transizione, come ad esempio la scelta dell'università, il trasferimento in un'altra città, l'inizio della carriera lavorativa, il matrimonio o la convivenza. Queste circostanze di vita influiscono sulla percezione che essi hanno del carico assistenziale

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e del caregiving. Un intenso coinvolgimento nel caregiving può quindi creare un conflitto di lealtà, ad esempio tra la cura del genitore malato e quella dei propri figli, oppure un conflitto rispetto all'autonomizzazione o meno dalla famiglia di origine. Tuttavia, nel caregiving della SLA, sono generalmente più impegnati i partner che i figli, in quasi tutte le dimensioni del carico assistenziale. Essi lamentano dei significativi effetti sulla loro salute fisica ed uno scarso aiuto ricevuto. Ciò vale in particolar modo per le mogli, generalmente più coinvolte negli oneri familiari e per le quali un tale impegno "extra" può occuparle eccessivamente, oltre a ridurre notevolmente la loro partecipazione sociale.

L'età del caregiver influisce in particolare sul carico fisico percepito, poiché aiutare quotidianamente un malato di SLA comporta un grande sforzo fisico. Inoltre, con il progredire della patologia, i trattamenti si fanno più frequenti e intensivi e spesso è necessaria una tracheotomia o l'impianto di un endoscopio gastrico. Tali interventi ovviamente hanno delle ripercussioni anche su coloro che si prendono cura del malato, i quali dovranno acquisire nuove competenze e responsabilità per mettere in atto delicate procedure (Tramonti et al., 2014).

1.4 Caregiving nella Demenza

La Demenza, ovvero il deterioramento cognitivo, è un disturbo che colpisce le funzioni intellettive a seguito del loro completo sviluppo ed acquisizione. Nel 90% circa dei casi questa perdita avviene in modo progressivo ed irreversibile. L'eziopatogenesi è organica: degenerativa, multinfartuale, carenziale, metabolica, endocrina, tossica, infettiva ecc. La prevalenza delle forme gravi è del 4% circa della popolazione oltre i 65 anni, e ha un andamento proporzionale al progredire dell'età, arrivando al 20% e oltre sopra gli 85 anni. Nelle fasi iniziali sono rilevabili disturbi della memoria, che si accentuano col progredire della condizione, fino a divenire gravi, nelle fasi avanzate, e accompagnati da mancanza di consapevolezza e modificazioni della personalità (Poli & Cioni, 2006).

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La demenza è un quadro clinico eziologicamente correlato a differenti condizioni morbose che colpiscono il cervello direttamente o indirettamente causando un danneggiamento variabile nella sua estensione e localizzazione. Nello studio delle demenze bisogna perciò sempre tener conto delle corrispondenze tra struttura e funzione, considerando il termine struttura nelle varie sfaccettature di ambito medico, ovvero anatomica, macroscopica, istologica, biochimica e metabolica. Dal processo eziopategenetico dipendono l'età di esordio, il quadro clinico, l'evoluzione, il trattamento e la prognosi della malattia. La demenza può perciò manifestarsi a diverse età e con diverse caratteristiche salienti ed è perciò di fondamentale importanza che il clinico colga la sintomatologia demenziale fin dal suo esordio ed effettui tutte le indagini necessarie per raggiungere una diagnosi eziologica che gli permetta di intervenire imminentemente e in maniera mirata sui diversi quadri demenziali e in particolare su quelli che possono regredire ed essere bloccati nella loro evoluzione (Cassano, 2006).

Secondo la definizione proposta dal Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians (1981): "la demenza consiste in una compromissione globale delle funzioni corticali superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste della vita quotidiana e di svolgere le prestazioni percettivo-motorie già acquisite in precedenza, di conservare un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive; tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di viglanza". Questa definizione rende ragione della condizione complessa delle persone coinvolte nella malattia poiché integra nella descrizione gli aspetti clinici con i vari contesti ambientali con i quali la persona malata si deve rapportare, ovvero la sua quotidianità e le mansioni da questa previste, che implicano una certa prestanza psico-fisica per essere svolte. La definizione evidenzia inoltre il contesto delle interazioni a vari livelli, dalla famiglia al lavoro, e infine il vissuto emotivo della persona che si ritrova gradualmente e sempre più inconsapevolmente immersa nelle sue difficoltà.

Una causa frequente di deterioramento cognitivo è la demenza vascolare, che si caratterizza per la presenza concomitante di una patologia cerebrovascolare e di

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demenza. Il suo esordio è piuttosto brusco rispetto ad altri tipi di demenza e si manifesta con labilità emotiva e sintomatologia depressiva, nonché con precoci disturbi della marcia e incontinenza urinaria; anche il linguaggio diviene deficitario (Papagno, 2011).

La prevalente causa di demenza, tuttavia, è la Malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease - AD), il cui esordio è nella grande maggioranza dei casi in età senile. Colpendo più di venticinque milioni di persone in tutto il mondo è una delle prevalenti minacce alla salute in età avanzata, oltre a rappresentare un gravoso costo sul piano della politica sanitaria (Brookmeyer et al., 2007). Questa tipologia di demenza è caratterizzata dalla presenza di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari associati ad un diffuso depauperamento neuronale nel cervello (Waldemar et al., 2007). Il deterioramento demenziale è a esordio insidioso e il quadro neurologico che si viene a configurare non è specifico; i suoi segni aspecifici sono infatti evidenziabili anche negli anziani sani. Nella fase di esordio il soggetto con AD può presentare una sintomatologia molto aspecifica, come ad esempio alterazioni del ritmo sonno-veglia, con risveglio precoce e sonnolenza durante il giorno, umore depresso che può essere sia la conseguenza dei fallimenti nelle attività quotidiane che una condizione intrinseca al disturbo dementigeno stesso, e accentuazioni di caratteristiche di personalità, le quali diventano più marcate e, nelle fasi successive, particolarmente vistose. La condizione necessaria per porre diagnosi di AD è la compromissione della memoria. Il disturbo più evidente è che la persona non è più in grado di apprendere nuove informazioni a partire dagli eventi di vita quotidiana, fino a eventi complessi e di particolare rilevanza (Papagno, 2011). Lo sgretolamento progressivo delle capacità mnestiche causa impedimenti di notevole entità sul piano dell'autonomia e dello svolgimento delle attività di vita quotidiana. Nelle fasi intermedie e avanzate si assiste ad un'accentuazione della sintomatologia comportamentale e dell'umore e possono manifestarsi sintomi di tipo psicotico come deliri e allucinazioni. Progressivamente, il disorientamento accresce ed invade, oltre alla dimensione spazio-temporale, anche quella relazionale; infatti negli stadi avanzati di malattia il paziente non riconosce neppure i suoi familiari. Infine con

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l'aggravarsi della condizione neurologica e delle complicanze internistiche associate si ha un declino generale della salute (Ghicopulos, 2013).

Le caratteristiche cliniche sopra elencate fanno presagire il tipo di impatto che una malattia del genere può avere sulla famiglia: un grande carico emotivo e assistenziale, dal momento che il quadro clinico è caratterizzato sia da deficit cognitivi che più specificamente percettivo-motori (Beeson, 2003). Bisogna inoltre considerare che l'AD, a differenza di altre malattie neurodegenerative, ha un decorso molto lungo (anche più di dieci anni), il che può accrescere il carico assistenziale che sarà quindi protratto nel lungo termine. Le peculiari caratteristiche della sintomatologia di questo tipo di demenza rendono conto del tipo di perdita che sarà esperita dai familiari del malato, ovvero una "perdita ambigua" nel senso che il loro caro è presente fisicamente, ma allo stesso tempo è assente mentalmente perchè non è più la persona che conoscevano, sulla quale potevano contare, alla quale potevano parlare per essere ascoltati; la sensazione è quindi quella di avere a fianco una persona che, seppur viva, sembra aver ormai perso la sua integrità psichica (Garwick, Detzner & Boss, 1994). La demenza di Alzheimer è stata anche definita una "malattia del riconoscimento", inteso in senso bilaterale, in quanto a causa del deterioramento indotto dalla patologia il malato non riconosce più i familiari e allo stesso tempo egli stesso non viene riconosciuto da loro per la persona che era, a causa del cambiamento in senso dementigeno (Tamanza, 1998). Un ulteriore evento che può avere un forte impatto sul vissuto dei familiari riguarda la necessità di istituzionalizzazione, che spesso risulta inevitabile nelle fasi terminali della malattia (Carbone, 2007).

In una malattia a decorso graduale come la Demenza, i caregiver che sono per lungo tempo esposti al carico assistenziale fisico e psicologico, sono spesso sovrastati dagli incarichi familiari e sono fortemente esposti a sintomi di depressione, irritabilità, agitazione e paranoia (Teri et al., 1992). Questi stati d'animo negativi possono poi influire sulla qualità delle loro relazioni (Mendelsohn, Dakof & Skaff, 1995; Vernon & Stern, 1988). Al progredire della malattia, i caregiver devono monitorare sempre più assiduamente i loro cari e sono testimoni del loro deterioramento cognitivo

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(Stephens, Kinney & Ogrocki, 1991). L'esposizione continua a questi fattori stressogeni, nella demenza come in altre malattie neurologiche, può condurre ad una sofferenza psicosociale ed aumentare la possibilità di messa in atto di comportamenti a rischio per la salute (Vitaliano, Scanlan & Zhang, 2003). Il carico percepito dai caregiver risulta dalle varie problematiche inerenti la gestione della malattia, che possono essere di tipo fisico, psicologico, emotivo, sociale e finanziario (George & Gwyther, 1986). Alcuni fattori che influiscono sulla percezione del carico assistenziale in senso negativo sono: la sensazione di disagio o imbarazzo, il carico eccessivo su più e troppi fronti, il sentirsi intrappolati nella situazione, il risentimento, l'isolamento dalla società (Zarit, Reever & Bach-Peterson, 1980), la sensazione di perdita di controllo, l'impoverimento della comunicazione (Morris, Morris & Britton, 1988), e le pressioni dell'occupazione (Stephens et al., 1991). Dati questi problemi e vissuti è facile aspettarsi che i caregiver riportino più sofferenza e maggiori comportamenti a rischio per la salute, rispetto alla popolazione generale (Vitaliano, Scanlan & Zhang, 2003).

In una ricerca di Blazer (2003) che ha revisionato alcuni studi sull'incidenza della depressione minore e maggiore su popolazioni di caregiver e non, con diverse metodologie (interviste strutturate e self-report), i risultati hanno mostrato una netta prevalenza di questi disturbi dell'umore nella popolazione dedita alla cura di un familiare; sebbene in una minoranza di casi si riscontri depressione clinica vera e propria, sono evidenziati significativi segni di distress psicologico anche in assenza di una ricerca attiva di interventi di supporto psicologico (Neundorfer, 1991; Wright, Clipp & George, 1993). Oltre alla depressione, vi sono altri fattori e condizioni che possono accrescere il rischio di malattia fisica nei caregiver, ossia problemi riguardanti il sonno, una dieta sregolata e abitudini sedentarie (Fuller-Jonap & Haley, 1995; Gallant & Connell, 1997; Vitaliano et al., 2002).

Un altro fattore positivamente associato alla malattia fisica, all'utilizzo del sistema di cure sanitarie (Prigerson et al., 1997; Stroebe & Stroebe, 1987), e alla mortalità (Goldman, Korenman & Weinstein, 1995), è il fenomeno del lutto anticipato che il caregiver vive nei confronti della perdita del suo amato (Kaprio, Koskenvuo & Rita,

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1987). Come accennato, è soprattutto nelle malattie che comportano una grave compromissione cognitiva che si riscontrano tra i familiari delle "perdite ambigue" nel senso che il loro caro è presente fisicamente, ma allo stesso tempo è assente mentalmente (Garwick, Detzner & Boss, 1994). Nelle malattie che comportano una prognosi infausta, si può osservare anche una "perdita anticipata", il cui effetto è spesso quello di bloccare la vita familiare e provocare un perdurante stato di sofferenza (Rolland, 1990).

La probabilità di ammalarsi del caregiver deve essere considerata tuttavia in relazione alla variabilità interindividuale. Infatti, le differenze interindividuali, sia innate che legate alla storia di vita, possono influire sulla probabilità di ammalarsi (Mechanic, 1967). Tali caratteristiche sono ad esempio l'età, il sesso, il temperamento, (Lazarus & Folkman, 1984), l’etnia (Robins, 1978), la storia familiare e l'ereditarietà (Zubin & Spring, 1977), tutte variabili che possono favorire una particolare vulnerabilità alla malattia in condizioni di stress. All'opposto, le risorse, ossia i fattori protettivi, sono più mutevoli e influenzati dalle interazioni della persona con l'ambiente. Le risorse comprendono le risposte adattive di coping (Folkman & Lazarus, 1980) e un adeguato supporto sociale (Cohen & Wills, 1985). Il supporto sociale, in base alla sua qualità, può essere o meno una risorsa, poiché è la qualità delle relazioni a rendere il supporto effettivamente efficace (Coyne & DeLongis, 1986).

Altri fattori che possono moderare gli effetti del caregiving sono: la storia psichiatrica, la personalità, la presenza di malattie croniche e lo status socio-economico (Vitaliano, Scanlan & Zhang 2003). E' interessante notare come l'etnia sia un fattore rilevante per la salute del caregiver, in quanto è in relazione con le disparità di salute che si possono riscontrare e con differenti aspetti culturali in relazione all'esperienza di malattia (Kaplan, 1992). Spesso, infatti, l'appartenenza ad una determinata etnia è caratterizzata da modalità diverse, rispetto ad altre, di far fronte al caregiving (Hinrichsen & Ramirez, 1992); per esempio i caregiver di colore percepiscono i problemi dei malati a cui devono far fronte come meno stressanti e riportano quindi un'autoefficacia maggiore nel gestirli, oltre a manifestare minore

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depressione rispetto ai caregiver bianchi (Dilworth-Anderson & Anderson, 1994). Gli stressor inerenti il caregiving e i fattori correlati all’etnia non influenzano tuttavia in maniera diretta il benessere della persona, ma sono mediati dagli effetti della valutazione personale, del supporto sociale, dell'attività svolta e delle strategie di coping adottate (Haley et al., 1996). Pare che i caregiver di colore abbiano solitamente minori risorse finanziarie, ma che posseggano più risorse spirituali rispetto ai caregiver bianchi (Dilworth-Anderson & Anderson, 1994). Per quanto concerne il supporto sociale, alti livelli di supporto percepito sono predittori di un migliore stato di salute percepito (Monahan & Hooker, 1995) e di minori rischi metabolici e cardiovascolari (Vitaliano et al., 2002). In relazione a ciò, un aspetto di rilevante importanza nella gestione della malattia sembra quindi essere l'appartenenza a società e gruppi etnici orientati ad un vivere sociale individualista o collettivista. Questa differenza risulta sostanziale sugli esiti a livello di carico e supporto percepito dai caregiver nella cura del malato e nel contatto con le reti sociali e le istituzioni deputate alla cura (Tramonti, 2013).

Variabili quali l'età del caregiver, la relazione con il malato e il sesso di appartenenza, possono essere particolarmente rilevanti in relazione al rischio di malattia. In due studi revisionati da Schulz e colleghi (1995), le donne riportavano maggiori problemi di salute rispetto agli uomini, mentre per quanto riguarda l'età non sono state osservate correlazioni significative (Schulz et al., 1995). Sebbene le persone di età più avanzata abbiano una minore resistenza alla malattia (Rowe & Kahn, 1998), il caregiving potrebbe essere da loro valutato come un impegno piuttosto normale, dovuto ai cambiamenti causati dalla vecchiaia; in quest'ottica sarebbe quindi maggiormente accettato da loro, piuttosto che dai giovani caregiver (Neugarten, 1969). Allo stesso modo i coniugi potrebbero sentirsi più fragili, isolati e più angosciati nel prendersi cura del proprio compagno, rispetto agli altri caregiver (Cohen et al., 1993), ma allo stesso tempo questo incarico potrebbe essere da loro considerato come un impegno intrinseco al vincolo matrimoniale. Al contrario, invece, il prendersi cura di un genitore potrebbe far emergere un conflitto di lealtà, quando una persona deve scegliere tra il dedicare il suo tempo e le sue cure a un

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genitore piuttosto che al coniuge e ai figli (George, 1982).

Il genere d'appartenenza sembra essere un importante fattore moderatore per la salute dei caregiver delle persone con Demenza; alcuni studi riportano infatti una maggiore sofferenza femminile (Kessler et al., 1994) con un maggior numero di sintomi (Rahman, Strauss, Gertler, Ashley & Fox, 1994; Ross & Bird, 1994), ed un più elevato utilizzo dei servizi di assistenza sanitaria, rispetto al genere maschile (Nathanson, 1990). Tuttavia, su questo tema la letteratura non è in assoluto accorodo: infatti, ad esempio, alcuni studi riportano che, in un setting di laboratorio in cui a uomini e donne vengono somministrati degli stimoli stressanti, i primi mostrano un più consistente aumento dell'ormone e dei neurotrasmettitori dello stress, oltreché della pressione sanguigna, rispetto a quanto accade nelle donne (Earle, Linden & Weinberg, 1999; Kirschbaum, Kudielka, Gaab, Schommer & Hellhammer, 1999). Contestualizzando, questi significativi aumenti degli indicatori dello stress a livello fisico, potrebbero manifestarsi anche nei caregiver uomini, che si ritrovano impegnati in un ruolo stressante e che esula dalle tradizionali aspettative di genere, degli effetti negativi (Kramer, 1997a). Questo lascia pensare che la maggiore incidenza di disturbi e le maggiori richieste di aiuto da parte delle donne, siano legate anche e soprattutto ad un loro più frequente impegno nel ruolo di caregiver. Secondo altri studi, anche i vedovi sembrerebbero incorrere maggiormente in malattia, in risposta alla perdita delle mogli, rispetto alle vedove (Chen et al., 1999). E' perciò ragionevole aspettarsi che le differenze di salute in relazione al genere dipendano da vari aspetti, tra cui le differenze nei pattern di vulnerabilità biologica e aspettative di genere legate a dimensioni culturali.

Da varie revisioni della letteratura sul caregiving nella demenza, operate da Vitaliano, Scanlan e Zhang (2003) nell'arco di trentotto anni, i dati pervenuti riguardo agli indicatori fisiologici dello stato di salute di caregiver e non caregiver evidenziano un livello di ormone dello stress più alto del 23% e un livello del 15% in meno di risposta degli anticorpi, nei primi rispetto ai secondi.

Ormai molti contributi della letteratura evidenziano che essere portatori di un carico assistenziale gravoso, quanto quello legato all'avere un familiare affetto da Demenza,

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sia un fattore di rischio per la salute fisica e il benessere psicologico delle persone in esso coinvolte (Aguglia et al., 2004; Gallant & Connell, 1997; Schulz et al., 2008; Thommessen et al., 2002). Tali persone sono infatti descritte come le "seconde vittime" della malattia, in quanto vengono sconvolte psicologicamente e coinvolte in un processo di modificazioni radicali nella loro vita quotidiana, sia per quanto concerne le loro attività abituali che per le loro relazioni sociali, le quali possono subire drastici cambiamenti, contribuendo ad esacerbare ulteriori difficoltà di adattamento (Haley et al., 1987).

1.5 Caregiving nel Morbo di Parkinson

Il Morbo di Parkinson (Parkinson's Disease-PD) può esser descritto come il prototipo delle malattie degenerative con sintomatologia prevalentemente motoria. L'esordio è graduale e asimmetrico e il decorso è lentamente ingravescente. I sintomi che caratterizzano la condizione clinica consistono in: bradicinesia (lentezza dei movimenti), rigidità (aumento del tono muscolare) e tremore a riposo (non sempre presente). Questa sintomatolgia classifica il PD come malattia extrapiramidale (cioè relativa ad aspetti non volontari del movimento). Bradicinesia, rigidità e tremore causano una riduzione della performance motoria, provocando un'alterazione nella programmazione del movimento spontaneo, una riduzione della destrezza, un impoverimento della complessità del movimento, impaccio motorio e disturbi posturali e propriocettivi.

Il correlato anatomo-patologico consiste nella presenza di corpi eosinofili citoplasmatici (corpi di Lewy) all'interno dei neuroni dopaminergici della sostanza nera mesencefalica (pars compacta), i quali provocano una perdita neuronale e una conseguente carenza di dopamina, che pare essere la causa principale della malattia di Parkinson (Lucchelli, 2011).

Si riscontrano, inoltre, disturbi cognitivi piuttosto frequenti e significativi. La presenza di demenza nella popolazione affetta da PD si stima che sia di due volte

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maggiore rispetto all'incidenza riscontrata nella popolazione generale di pari età. Il quadro clinico può essere molto variabile nella popolazione parkinsoniana. Spesso è riscontrabile bradifrenia o acinesia psichica, ovvero un rallentamento dei processi mentali (distinto da quello dei processi motori) con deficit di memoria caratterizzati dalla difficoltà di accesso ai dati memorizzati piuttosto che all'apprendimento in sé; compromissione delle funzioni visuo-spaziali, tendenza alla perseverazione, alterazioni dell'ordinamento sequenziale. Dalla letteratura emerge che un peggioramento a livello cognitivo nel paziente, sembra essere determinante nella percezione del tipo e del livello di carico assistenziale percepito dai caregiver in questa ed altre tipologie di malattie neurologiche (Thommessen et al., 2002).

Per quanto concerne i disturbi dell'umore concomitanti al PD, nel 20-40% dei casi sono riscontrati disturbi depressivi che possono precedere o seguire l'esordio della sintomatolgia motoria. I pazienti parkinsoniani depressi sembrerebbero rappresentare un sottogruppo peculiare di questa malattia, caratterizzato da un'anamnesi familiare positiva per le malattie psichiche, da sintomi motori che tendono a manifestarsi più precocemente, da una progressione del tremore più rapida e da un più celere declino cognitivo. Infatti, l'associazione del Morbo di Parkinson con la depressione determina nei caregiver di questi malati un aumento del distress e del carico assistenziale. Anche i disturbi ansiosi sono abbastanza comuni nella popolazione parkinsoniana, specialmente disturbi fobici (come l’eccessiva paura di cadere), fobie sociali ed ansia generalizzata, disturbi che sono talvolta farmaco-indotti (Aguglia, Conti & De Vanna, 2006). La malattia di Parkinson e le sindromi parkinsoniane figurano tra le patologie croniche dell’anziano con maggiore impatto in termini di disabilità e di carico assistenziale (Petrona Baviera & Avarello, 2004). I problemi più frequentemente riportati dai caregiver in relazione a questi ultimi, che si acuiscono col progredire della patologia, riguardano: disturbi del sonno, restrizioni nella vita sociale, disorganizzazione nelle routine familiari e impossibilità di andare in vacanza o fare un viaggio (Thommessen et al., 2002). I fattori che più influenzano il carico assistenziale sono: il livello di benessere psicologico del caregiver, l'umore e la gravità della disabilità del paziente e la qualità di vita in relazione alla salute sia del

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