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Clima relazionale e Gestione delle Risorse Umane: uno studio in due Pubbliche Amministrazioni

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

L'interesse da parte delle Pubbliche Amministrazioni di effettuare analisi inerenti al clima e alla cultura organizzativa risale allo scorso decennio.

Il Ministero della Funzione Pubblica a questo proposito, nel 2004, ha emanato una direttiva sulle misure finalizzate al miglioramento del clima organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni, con la quale vengono delineati gli obiettivi di “realizzazione e mantenimento del benessere fisico e psicologico delle persone, attraverso la costruzione di ambienti di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e delle prestazioni”.

Elementi come le condizioni emotive, la sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la creatività e l'apprendimento, l'ergonomia e la sicurezza del luogo di lavoro sono di fondamentale importanza per il perseguimento di fini incentrati sullo sviluppo e l'efficienza delle Pubbliche Amministrazioni.

Affinché questi obiettivi possano essere raggiunti, le organizzazioni devono essere in grado di valutare le opinioni dei propri dipendenti sulle dimensioni che determinano la qualità della vita lavorativa e delle relazioni che si instaurano all'interno delle proprie strutture.

Molto spesso vengono utilizzati questionari per sondare i punti di vista dei dipendenti in relazione all'eventuale presenza di fonti di stress e dei potenziali agenti che sono in grado di determinarlo. Con questo elaborato si intende analizzare, comprendere e valutare l'importanza dei diversi punti di vista e delle diverse opinioni che possono scaturire attraverso le interazioni fra singoli e gruppi, degli aspetti motivazionali e altri argomenti rilevanti quali la differenza di genere e gli aspetti pregiudiziali.

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poi passare ad un’analisi degli strumenti psicometrici che sono stati utilizzati all’interno della presente ricerca, quali ad esempio la Social Dominance Orientation, il Big Five Inventory-10 ed il Bisogno di Chiusura Cognitiva.

Nella seconda parte verranno esaminati i dati ottenuti dalla somministrazione dei questionari consegnati ai dipendenti dei Comuni di San Vincenzo e Piombino ed attraverso l’interpretazione dei risultati scaturiti, si cercherà di comprendere se vi siano correlazioni tra gli strumenti psicometrici adottati.

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1 - I PROCESSI DI SOCIALIZZAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI

1.1 - PRINCIPALI PROSPETTIVE TEORICHE

I contesti in cui operano le organizzazioni sono sempre più competitivi e queste, per raggiungere e sostenere un vantaggio competitivo, devono far leva sulle risorse che possiedono, che possono essere fisiche, organizzative, cognitive e umane.

Il successo di un’azienda deriva proprio dalla sua capacità di valorizzare al meglio le proprie risorse. Le più importanti, tra le tante che un’azienda può possedere, sono però quelle umane, le quali hanno un ruolo centrale nel processo di creazione del valore per un’organizzazione.

L'affermazione di un’impresa, in effetti, non dipende solo dal management, che può avere idee più o meno eccellenti o innovative, ma anche e soprattutto dai suoi collaboratori, che mettono in pratica queste idee (De Marinis, 2010).

Uno degli obiettivi che vengono posti in essere in ambito organizzativo è certamente quello di riuscire a lavorare con e attraverso i propri dipendenti (Kreitner & Kinicki, 2008).

Per questo motivo le amministrazioni, nella prospettiva di migliorare l’efficienza, l’efficacia e la qualità dei servizi, devono opportunamente valorizzare il ruolo centrale del lavoratore nella propria organizzazione.

La realizzazione di questo obiettivo richiede la consapevolezza che la gestione delle risorse umane non può esaurirsi in una mera amministrazione del personale, ma implica una adeguata considerazione della persona del lavoratore proiettata nell’ambiente di lavoro.

Affinché ciò accada, risulta di fondamentale importanza concentrare l’attenzione sullo sviluppo dei processi di socializzazione individuali all’interno dell’organizzazione di riferimento.

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sociale, integrandosi in un gruppo sociale o in una comunità.

Tale concetto sottolinea come lo sviluppo della personalità non sia determinato univocamente né da fattori genetici né da fattori ambientali, bensì dall’interscambio dinamico e contingente tra individuo e ambiente (Kreitner & Kinicki, 2008).

Attualmente la socializzazione costituisce una delle principali tematiche delle scienze sociali, in particolare della sociologia, della psicologia e della scienza dell’educazione, che analizzano lo sviluppo dell’individuo e del suo apprendimento focalizzando l’attenzione sulle dimensioni sociali e individuali dei processi di formazione della persona e di partecipazione ai vari aspetti della vita sociale.

La socializzazione riflette il contesto sociale dello sviluppo dell’individuo e il rapporto dinamico tra individuo e società.

In termini generali, essa può essere definita come trasformazione dell’essere biologico in un essere sociale caratterizzato da uno specifico modello culturale di percezione della realtà (Speltini & Palmonari, 1999).

Il processo di socializzazione viene solitamente suddiviso in due stadi: la socializzazione primaria e la socializzazione secondaria.

La prima, corrispondente al periodo dell’infanzia, è orientata all’acquisizione di condotte e competenze sociali indispensabili e comuni a tutti i membri di un determinato gruppo per poter comunicare e vivere.

Come suggerisce la “teoria dell’apprendimento sociale” (Bandura, 1977), il bambino apprende il funzionamento degli scambi sociali attraverso l’osservazione del modello proposto dai genitori ed in seguito trasferisce le modalità apprese in contesti diversi, per relazionarsi con gli altri.

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comprensione delle diverse tipologie di relazione: attraverso l’interazione con l’adulto, caratterizzata da un’asimmetria dovuta principalmente dalla dipendenza del bambino verso chi si prende cura di lui, quest’ultimo impara a rapportarsi con l’autorità, apprende competenze comunicative, norme e regole che strutturano lo stare insieme; attraverso i rapporti con i fratelli il bambino può invece fare esperienza di relazioni più paritarie, dotate di uno spazio più ampio di condivisione e di negoziazione (Besozzi & Colombo, 1998).

La socializzazione secondaria riguarda principalmente l’adolescenza e la fase di transizione verso l’età adulta e avviene ad opera delle istituzioni di formazione, ma si svolge anche in altri contesti, come quello del lavoro, dei partiti, dei sindacati e delle associazioni.

Essa risulta funzionale al rafforzamento dell’appartenenza sociale ed è orientata all’acquisizione di determinate competenze e abilità necessarie per poter svolgere specifici ruoli professionali, politici e sociali (Gisfredi, 2006).

La socializzazione comporta l’integrazione o l’adattamento degli individui in varie strutture e relazioni sociali, rappresentate dalla classe, dalla famiglia, dai reticoli, dalla scuola e dall’ambiente di lavoro.

Socializzazione significa, pertanto, far parte di un gruppo di persone e condividere opinioni e obiettivi per raggiungere uno specifico risultato.

Al centro del processo di socializzazione ci sono ovviamente gli individui con una propria struttura, carattere, abilità e competenza e atteggiamento.

Socializzare può essere inteso come la costruzione di un clima sereno sul posto di lavoro fatto di tutte quelle componenti che possono renderlo accogliente, coinvolgente, sincero e umano.

In generale i modelli di socializzazione sul posto di lavoro sono sostanzialmente due: la socializzazione passiva, in cui il soggetto non conosce il suo ruolo all’interno dell’organizzazione e

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si adatta al contesto, e la socializzazione attiva, in cui l’individuo tende ad assumere una posizione precisa (Speltini & Palmonari, 1999).

Certamente la capacità di socializzare di un individuo è indipendente dal posto di lavoro in cui opera e si costruisce lungo la vita.

Ci sono persone più inclini alla socializzazione rispetto ad altre: ci sono gli introversi e gli estroversi, ci sono gli egocentrici e coloro che si vorrebbero nascondere, gli audaci e i timorosi. Uno dei primi studiosi ad interessarsi della dinamica dei gruppi all’interno delle organizzazioni è stato sicuramente Lewin (1939) grazie al contributo della cosiddetta “teoria del campo”, in base alla quale il comportamento umano può essere espresso come una funzione:

C = f (A,P)

dove C, il comportamento umano, è espresso in funzione (f) dell’ambiente (A) in cui la persona vive e lavora, e della persona stessa (P), con le sue caratteristiche (personalità, carattere, esperienza etc.).

Le situazioni psicologiche per Lewin devono essere analizzate in relazione al contesto di riferimento, nel quale agiscono delle forze in grado di agevolare od ostacolare i modelli di comportamento e di condotta.

E’ chiara quindi l’importanza di questa teoria calata nei contesti organizzativi in generale ed aziendali in particolare, dove gli elementi personali ed ambientali interagiscono dinamicamente ed influenzano il comportamento dell’organizzazione.

Il comportamento umano è inevitabilmente influenzato anche dalle norme sociali presenti nell’ambiente di riferimento, le quali vengono codificate all’interno della cultura del gruppo.

La cultura viene intesa come un fenomeno che esiste in un’organizzazione a prescindere dalle intenzioni dei membri che la compongono.

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Il primo ad introdurre il concetto di cultura nel campo del comportamento e delle teorie organizzative è Pettigrew (1979) che sottolinea l’importanza che può assumere l’insieme di rituali, simboli, regole implicite che formano la cultura dell’organizzazione.

Secondo Schein (1985), la cultura organizzativa è un insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato per affrontare i problemi, per adattarsi all’esterno e per gestire l’organizzazione interna, e che avendo funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi possono quindi essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire e pensare riguardo a quei problemi. In altre parole la cultura organizzativa rappresenta il modo giusto di fare le cose.

La cultura appartiene quindi ad un gruppo, è appresa e determina come i suoi membri percepiscono, pensano e sentono ed in definitiva qual è la mission dell’organizzazione e come essa la realizza; può essere descritta come la colla sociale e normativa in quanto costituisce una fonte di forza e di identità del gruppo.

Al concetto di cultura organizzativa si affianca spesso quello di clima organizzativo; a tal proposito è però necessario chiarire le differenze sostanziali che sussistono tra i due costrutti.

Mentre l’analisi della cultura nelle organizzazioni richiama studi sull’antropologia e quindi sull’uomo nei suoi tratti fisici e psichici, lo studio del clima organizzativo è invece legato all’esigenza di individuare le influenze ambientali sulla motivazione e il comportamento degli individui per le quali si fa quindi riferimento alla psicologia.

La cultura viene al contrario intesa come un fenomeno che esiste in un’organizzazione a prescindere dalle intenzioni dei membri che la compongono.

Il clima può essere definito come un costrutto che permette di capire perché alcune organizzazioni risultano più efficaci di altre nel raggiungimento dei propri obiettivi.

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L’interesse degli studiosi per il clima organizzativo è cresciuto man mano che si faceva contemporaneamente strada l’idea che le risorse umane siano fondamentali nel determinare il risultato organizzativo.

Riuscire a motivare i singoli, aumentare il loro senso di appartenenza all'organizzazione e riuscire a creare un contesto lavorativo piacevole, sono solo alcuni degli aspetti che determinano la creazione di un buon clima organizzativo.

Il termine clima, mutuato dalla meteorologia, sta ad indicare un fenomeno che si manifesta in modo relativamente stabile all'interno di un determinato gruppo di individui , attraverso condizioni socio-psicologiche che caratterizzano il gruppo stesso (Spaltro & De Vito Piscicelli, 1990).

La misura ed il monitoraggio del clima ha assunto una importanza crescente per le organizzazioni nella misura in cui questa percezione è in grado di condizionare le attività operative che avvengono all’interno del contesto organizzativo.

Secondo Spaltro (2002) il clima di un’organizzazione o di un gruppo di lavoro è ciò che un dato numero di individui pensano e sentono riguardo alle modalità di interazione reciproca; è un giudizio variamente condiviso, in parte descrittivo e in parte valutativo, soggetto a mutamenti di origine interna o esterna, su ciò che succede, nel tempo e nello spazio di lavoro, ad un gruppo nel suo complesso, sia per ciò che concerne il suo funzionamento interno, sia per ciò che riguarda il rapporto con gli altri gruppi dell’organizzazione stessa.

Il periodo tra l’inizio degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 può essere considerato quello di fondazione ed affermazione del costrutto.

Uno dei primi ad aver impiegato il termine organizational climate è stato Argyris (1958), il quale ne sviluppò un vero e proprio modello costituito da tre gruppi di variabili organizzative:

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 i fattori personali che includono bisogni, valori e capacità individuali;

 l'insieme delle variabili associate con gli sforzi degli individui per conformare i propri fini a quelli dell'organizzazione.

Secondo Decastri, Tomasi & Hinna (2003) queste variabili nel loro complesso permettono di definire quel “livello di analisi discreto”, risultante dall’interazione dei livelli di analisi individuale, formale, informale e culturale.

Negli anni ‘60 viene posto l’accento soprattutto sul connubio tra clima e stile di leadership. McGregor (1960) introduce il termine “managerial climate”, riferendosi con questo al clima percepito dal personale dell’organizzazione come risultante delle pratiche gestionali adottate dai manager delle aziende.

Si tratta di un fattore sicuramente decisivo all’interno del clima organizzativo ma che risulta riduttivo se considerato isolatamente dagli altri.

I primi veri contributi di fondazione del costrutto sono quindi legati ai lavori di Forehand & Gilmer (1964) e di Litwin & Stringer (1968) che lo analizzano allo scopo di determinarne la natura e le potenzialità da un punto di vista applicativo, riconoscendone il carattere multidimensionale. I primi definiscono il clima organizzativo come “un insieme di caratteristiche relativamente durevoli che distinguono ogni organizzazione da un’altra e che influenzano il comportamento degli individui al suo interno” .

Per gli autori il clima è determinato dalla percezione che i membri hanno dell’organizzazione, che dipende a sua volta dal ruolo dei membri e dalle loro caratteristiche di personalità.

Si riconosce la natura fenomenica e multidimensionale del clima e si propone di indagarlo nell’ambito di organizzazioni tra loro comparabili.

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Intorno alla fine degli anni sessanta, sulla scia di Lewin, Litwin e Stringer forniscono un importante contributo sia in termini metodologici sia in termini teorici al consolidamento del concetto di clima. Gli autori conducono una ricerca che coinvolge un gruppo di studenti universitari suddivisi in tre ambienti organizzativi che simulano una situazione democratica, una autoritaria e una stimolante per il successo individuale.

I risultati consentono agli autori di confermare la relazione tra modelli di leadership e clima, e tra clima e performance individuali.

Per gli autori il clima si sostanzia in un insieme di aspettative e di incentivi il cui studio permette l’analisi delle determinanti dei comportamenti in situazioni sociali complesse, semplifica la misura dei determinanti situazionali legati a percezioni e convincimenti individuali, consente la definizione della situazione globale di influenza sia dell’ambito esterno che dei vari tipi di ambienti interni all’organizzazione (Litwin & Stringer, 1968).

Intorno alla metà degli anni settanta un gruppo di ricercatori dell’Università di Aston, in Inghilterra, affrontò il tema del clima organizzativo da una diversa prospettiva privilegiando la relazione tra struttura organizzativa e clima.

Tra questi Payne & Pugh ipotizzarono che il costrutto del clima organizzativo poteva essere utile per descrivere i processi comportamentali che caratterizzano un sistema sociale in un dato momento, processi che riflettono i valori, gli atteggiamenti e le credenze dei membri di un'organizzazione (De Vito Piscicelli, 1984).

Anche per Guion il clima si lega alla struttura organizzativa presente in un dato contesto.

Le caratteristiche strutturali di un’organizzazione si applicano a tutti i suoi membri che quindi avranno percezioni simili rispetto alle caratteristiche organizzative.

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Nonostante vi siano vari elementi di differenziazione, i costrutti di cultura e clima organizzativo si mantengono comunque in una forte interconnessione.

Entrambi analizzano come i membri di un'organizzazione conferiscano un senso al loro ambiente e come questa ricerca di senso si manifesta attraverso significati condivisi che guidano le azioni. Tutti e due i costrutti nascono dal processo di socializzazione ed attraverso l’interazione simbolica dei membri del gruppo.

Cultura e clima riconducono entrambi ad approcci per identificare l’ambiente che influenza il comportamento delle persone nell’organizzazione (D’Amato & Majer, 2005).

Secondo Denison (1996) la cultura e il clima rappresentano due facce di una stessa medaglia che vengono osservate separatamente, ma che dal punto di vista della gestione operativa rappresentano uno strumento tanto più potente quando visto nella sua unità e non nelle sue differenze.

L'obiettivo delle analisi dei due concetti è quello di arrivare alla comprensione dell'ambiente organizzativo per proporre i più opportuni interventi gestionali.

Con il presente lavoro di tesi si è cercato di studiare il clima e la cultura attraverso l’utilizzo di strumenti psicologici che consentono di cogliere gli orientamenti individuali e sociali dei membri di un’organizzazione, quali la Social Dominance Orientation, il Bisogno di Chiusura Cognitiva, il pregiudizio, il sessismo e il modello di personalità Big Five.

Tutti questi elementi possono essere considerati come indicatori indiretti di benessere organizzativo e verranno presi in esame nei capitoli successivi.

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1.2 - NASCITA E SVILUPPO DELLO STAR BENE NELLE ORGANIZZAZIONI

Agli inizi del novecento le organizzazioni erano concepite come sistemi meccanicistici che operavano soltanto in funzione del raggiungimento del miglior risultato, senza tenere in considerazione né la qualità dell'ambiente di lavoro né lo stato di salute del singolo lavoratore. Come ben sappiamo il raggiungimento degli obiettivi prefissati deve essere necessariamente collegato ad una corretta e attenta gestione del personale.

Risulta quindi fondamentale che si venga a creare un ambiente di lavoro caratterizzato da benessere e salute organizzativa, elementi cardine che garantiscono l'efficienza dei gruppi di lavoro.

Ecco perché nell'ultimo secolo è nata e si è sviluppata la psicologia della salute organizzativa. La salute organizzativa è definita come "l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative" (Avallone & Paplomatas, 2005).

I più grandi e importanti mutamenti riguardanti lo sviluppo del benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori si sono verificati nel secolo scorso.

Uno dei primi contributi da annoverare è certamente quello attribuibile all'ingegnere Frederick Taylor, che nel 1911 pubblicò la sua opera "Princìpi di organizzazione scientifica del lavoro".

Taylor parte dal presupposto che qualsiasi operazione del ciclo produttivo industriale può essere scomposta e studiata nei minimi particolari: è questo il compito dei manager che, sulla base delle verifiche empiriche, devono assegnare ad ogni operaio una specifica mansione e stabilire in quanto tempo e come egli debba svolgerla.

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Il principio su cui Taylor basava la sua teoria innovativa era definito "one best way", secondo il quale esiste solo un'unica soluzione valida per svolgere un'attività ottenendo il miglior risultato possibile.

L'organizzazione scientifica del lavoro tayloriana venne aspramente criticata per quanto concerne il trattamento riservato ai lavoratori, visti come esseri passivi il cui compito consisteva nel ripetere meccanicamente le solite azioni per diverse ore.

L'obiettivo principale del Taylorismo è racchiuso nella formula "The Right Man to the Right Place", secondo cui è necessario disporre della persona giusta nel posto giusto imponendole ritmi e pause, con l'unico scopo di massimizzare e uniformare l'attività produttiva.

L'interesse alla salute dei lavoratori prende piede intorno agli inizi degli anni Venti grazie al lavoro di ricerca svolto dallo psicologo australiano Elton Mayo.

La sua corrente di pensiero si pose in aperto contrasto con la concezione tayloristica del lavoro, cercando di fornire un volto più umano all'organizzazione del lavoro in fabbrica.

I suoi studi vennero condotti, assieme ad un'équipe di circa cento ricercatori provenienti dall'Università di Harvard, presso le officine Hawthorne dello stabilimento della Western Electric di Chicago.

Grazie alle numerose modifiche alle condizioni di lavoro proposte da Mayo ai dipendenti, come riduzioni dell'orario di lavoro, pause ed incentivi, si registrò non solo un aumento della produttività ma anche una riduzione consistente del tasso di assenteismo.

Ciò avvenne anche quando venne imposto ai dipendenti di ritornare alle condizioni di lavoro iniziali.

L'unica spiegazione, concluse Mayo, era che i dipendenti si sentivano molto più soddisfatti del lavoro perché avevano la sensazione di essere individui e non ingranaggi di una macchina e perché

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si sentivano maggiormente investiti della responsabilità della propria performance e di quella dell'intero gruppo.

Ai fini della performance, la sensazione di coesione e la stima di sé erano più importanti di qualsiasi miglioramento nell'ambiente di lavoro.

Mayo divenne il padre fondatore del movimento dello "Human Relations".

Questa corrente mise in risalto l'importanza della componente del "fattore umano", variabile interveniente vista come complesso di fattori psicologici che condiziona il comportamento dei soggetti e i loro aspetti motivazionali (Bonazzi, 2007).

Il ventennio successivo (’50-’60) è caratterizzato da una visione più attiva del soggetto lavoratore: egli è visto interagire con il proprio ambiente di lavoro, pur permanendo un concetto di causalità di tipo lineare.

Gli aspetti della sicurezza e della salute iniziarono a comprendere campi come il job design, la formazione/addestramento e la selezione dei dipendenti: questo tipo di studi va sotto il nome di Early Ergonomics.

L’intervento resta prevalentemente incentrato sulla cura dell’individuo ma si presta attenzione anche alle conseguenze psichiche (Avallone & Bonaretti, 2003).

Gli inizi del ventennio successivo (’70-’80) sono caratterizzati dal passaggio da un approccio di intervento incentrato sulla cura a una focalizzazione sulla prevenzione.

Si affinano, pertanto, gli studi e le tecniche per migliorare la qualità della sicurezza nei contesti lavorativi (Health protection).

L’importanza della sicurezza sui luoghi di lavoro è ormai un principio riconosciuto e sentito, tanto che inizia la partecipazione attiva di tutti gli attori all’interno del mondo del lavoro (sindacati, gruppi di lavoratori).

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E’ sempre più evidente e studiata l’influenza sulla salute oltre che dei fattori biologici anche di quelli psicologici e sociali, così come l’importanza della loro combinazione e interazione (Ilgen & Swisher, 1989).

Gli anni ’80 infatti vedono l’introduzione del concetto di Wellness e dell’Occupational Health Promotion (Glasgow & Terborg, 1988).

Terborg (1986) distingue Health Protection, che consiste nel proteggere quante più persone è possibile dalle minacce alla loro salute, e Health Promotion, che consiste nell’indurre le persone a fare scelte ragionate che migliorino la loro salute fisica e mentale.

Il job design mira al primo aspetto, le tecniche di motivazione mirano al secondo.

La novità principale è lo spostamento dell’interesse dalla prevenzione degli infortuni e delle malattie alla conservazione attiva della salute.

Prima di allora, infatti, la salute era definita semplicemente come l’assenza di invalidità o di malattia, mentre da allora in poi è concepita in chiave decisamente più positiva, come l’altro estremo di un continuum al centro del quale si trova l’assenza di invalidità o di malattia.

Si apre così un campo d’intervento per migliorare e conservare uno stato di autentico benessere fisico e psicologico (Avallone & Bonaretti, 2003).

Inoltre si guarda alle persone come precursori primari della salute.

L’attività di conservazione della salute si concentra sul comportamento dei soggetti (per esempio nel bere, nel mangiare, nell’esercizio fisico, nel fumo): si cerca di cambiarne i comportamenti dannosi alla salute e di sostituirli con comportamenti salutari, oppure di instaurare ex novo comportamenti salutari (nella dieta, nell’esercizio fisico, nell’abbandono del fumo, nella prevenzione e nella cura delle tossicodipendenze), offrendo anche ai dipendenti un feedback specifico.

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Se in precedenza si consideravano le condizioni ambientali che potevano causare effetti nocivi alla salute, ora si mira quasi esclusivamente a cambiare i comportamenti dei lavoratori che possono aumentare la probabilità o la gravità di malattie o di altre forme inabilitanti.

Negli anni Novanta si fa strada la nuova materia interdisciplinare dell'Occupational Health Psichology, nata dall'unione della salute pubblica con la psicologia della salute, con l'obiettivo di ottimizzare la qualità e la sicurezza della vita lavorativa (Raymond, Wood & Patrick, 1990).

Nonostante vi siano stati molteplici cambiamenti sia di natura sociale che legislativa riguardanti il tema della salute organizzativa, ancora oggi non si è giunti ad elaborare una sua definizione ben precisa.

La creazione di un contesto lavorativo che riesca a garantire un buon livello di benessere psicofisico nei lavoratori ed un conseguente miglioramento delle performance, è un procedimento lungo e complesso che necessita di una continua attività di monitoring per cercare di tenere sotto controllo alcune situazioni che potrebbero sfociare in malessere, andando così ad inficiare la qualità della vita lavorativa.

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2 - LE MOTIVAZIONI EPISTEMICHE NELLE ORGANIZZAZIONI

2.1 - L'IMPORTANZA DEGLI ORIENTAMENTI MOTIVAZIONALI NELLO STUDIO DELLA COGNIZIONE

Agli inizi degli anni '90 del secolo scorso la psicologia sociale si arricchisce del contributo di Arie W. Kruglanski (1990) il quale, all'interno della ricerca "Lay Epistemology" in merito allo studio del rapporto tra gli aspetti dell'attività cognitiva degli individui e i fattori motivazionali ad essa collegati, propone il costrutto del "Bisogno di Chiusura Cognitiva" (Need for Cognitive Closure). Il BCC è una misura del grado in cui gli individui tendono a dare una risposta ad un quesito o problema, per evitare di rimanere in situazioni di incertezza e ambiguità.

Qualunque risposta è accettata piuttosto che sentirsi in confusione, con lo scopo di liquidare la questione il prima possibile, passare all'azione o ad un altro ambito di interesse (Kruglanski, 2004). Secondo gli studiosi Webster & Kruglanski (1994) esistono delle forze o tendenze motivazionali strettamente connesse all'attività del bisogno di chiusura cognitiva denominate "motivazioni epistemiche", che risultano associate all'avvio, all'avanzare e alla chiusura dell'attività stessa. Le leve motivazionali sulle quali si fonda il BCC sono di due tipi: la motivazione che tende all'urgenza e la motivazione che tende alla permanenza.

Ognuno reagisce in maniera diversa di fronte alle questioni che si possono presentare, da colui che preferisce trovare immediatamente una soluzione al problema a colui che invece preferisce posticipare la decisione mantenendo una sorta di self-control.

Coloro che dispongono di un alto livello di chiusura cognitiva vengono definiti "Locomotors" e sono individui che intendono risolvere i problemi il prima possibile, evitando così di rimanere in una situazione di ambiguità.

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"Assessors" e preferiscono procrastinare le decisioni guadagnando tempo per cercare di trovare la miglior soluzione possibile, valutandola fra diverse opzioni (Kruglanski, 1990).

La tendenza motivazionale all'urgenza si baserebbe sul bisogno cognitivo dell'individuo di cercare di avvicinarsi il prima possibile alla fase di chiusura, per evitare che si possano innescare reazioni negative come irritazione o impazienza.

Il "freezing", dall'inglese "to freeze" (congelare) o motivazione che tende alla permanenza, è un principio che si sviluppa in soggetti che hanno un basso livello di chiusura cognitiva.

Coloro che presentano questa tendenza al rimandare sono alla continua ricerca di alternative che comportano una sorta di evitamento alla chiusura, a volte anche dopo aver trovato apparentemente una soluzione valida; dall'altro lato invece troveremo dei soggetti con idee e giudizi più stabili, in linea col loro bisogno di raggiungere una chiusura e di evitare decisioni a lungo termine.

Un peso rilevante sullo sviluppo di un alto o basso livello di chiusura cognitiva è dato sicuramente da situazioni o accadimenti che possono cambiare la personalità dell'individuo, portandolo a variare i propri comportamenti (Nezlek, 2007).

Per questo motivo risulta importante analizzare il costrutto del BCC riguardante l'influenza motivazionale degli individui nello svolgimento dei propri compiti e obiettivi, ma anche nelle relazioni interpersonali.

I diversi orientamenti motivazionali degli individui possono condizionare l'andamento dell'intero gruppo di lavoro, che non deve essere visto come un qualcosa a sé stante, ma deve essere analizzato come un insieme di soggetti che fanno il possibile per mantenerlo sano e in vita.

Per gruppo di lavoro si intende una particolare tipologia di gruppo presente in varie organizzazioni, composto da più dipendenti che interagiscono e collaborano per il raggiungimento dei fini

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19 aziendali.

Secondo Borgogni (1996) tali obiettivi possono essere raggiunti in maniera proficua se vengono garantite e soddisfatte le esigenze di crescita personale dei lavoratori.

Tale crescita può attecchire soltanto in un ambiente di lavoro sano e produttivo, ed un ruolo importante per garantirne il suo sviluppo lo hanno avuto le cosiddette teorie motivazionali, le quali si sono concentrate maggiormente sulla natura psicologica anziché fisica dei soggetti.

Uno dei primi studiosi che ha contribuito alla teorizzazione dell'importanza del fattore motivazionale è stato Abraham Maslow che nel 1954 pubblicò il libro "Motivation and Personality", in cui sostenne che bisogni e motivazioni hanno lo stesso significato e si strutturano in gradi, connessi sottoforma di piramide gerarchica.

Per Maslow (1954) l'individuo deve essere visto come un insieme di bisogni, che devono essere soddisfatti per conseguire il benessere e la sopravvivenza e che si differenziano per natura, grado e complessità.

La motivazione si origina dal bisogno, inteso come carenza di un qualcosa di desiderato che spinge la persona ad agire per colmare tale mancanza.

Nel momento in cui un bisogno viene soddisfatto esso risulta non più motivante, e l’individuo tenderà a perseguire un obiettivo collocato su un gradino più alto della piramide gerarchica. Inoltre nessun bisogno potrà mai essere motivante se non viene prima soddisfatto un bisogno di ordine inferiore ad esso.

La teoria di Maslow ha avuto un gran peso applicata ai contesti lavorativi, ma il contributo che offre è insufficiente a stabilire linee guida e strategie utili a soddisfare intere organizzazioni.

Questo per vari motivi: ogni individuo percepisce e soddisfa i propri bisogni in modo differente; l’intensità con cui i bisogni si manifestano varia da individuo a individuo; non va poi tralasciato il

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fatto che ciascun bisogno subisce rilevanti influssi culturali.

Un'altra importante teoria motivazionale che ha preso spunto dalla gerarchia dei bisogni di Maslow e che ha trovato maggior applicazione in ambito organizzativo è quella di Herzberg (1959), denominata "motivazione-igiene".

Secondo questo autore il compito dell’organizzazione è quello di stimolare, individuare e rendere operanti i fattori motivazionali positivi dell’individuo attraverso il lavoro.

Dalle sue ricerche emerge che vi sono due tipi di fattori che incidono sulla soddisfazione e sull’insoddisfazione lavorativa: i fattori igienici e i fattori motivanti.

I fattori igienici si collegano al contesto ambientale del lavoro e alla sua retribuzione: esempi di essi potrebbero essere lo stipendio, le relazioni interpersonali con pari e superiori, l’ambiente fisico di lavoro, le condizioni di sicurezza, le procedure di impresa.

Per l’autore questi fattori non sono direttamente motivanti, ma se non sono presenti inducono una certa insoddisfazione.

Si tratta certamente di elementi indispensabili al fine di ridurre il malcontento lavorativo, ma per poter ottenere una motivazione durevole nei confronti del proprio lavoro è opportuno che siano presenti i cosiddetti fattori motivanti, ossia il raggiungimento di risultati significativi, il riconoscimento dei risultati raggiunti, il livello di responsabilità, le possibilità di avanzamento professionale.

Fattori che sono relativi al soddisfacimento di bisogni di livello superiore.

La distinzione tra questi due fattori sta nel fatto che i fattori igienici sono inerenti al “contesto” lavorativo, mentre i fattori motivanti riguardano i “contenuti” del lavoro in sé. La teoria di Herzberg è infatti nota come "Teoria dei fattori duali", e sfida l’erronea convinzione che se una persona risulta insoddisfatta di qualche aspetto del proprio lavoro, come ad esempio

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potrebbe essere la retribuzione economica, bisogna far sì che tale aspetto venga modificato per accrescere la motivazione.

Ma non è esattamente così, in quanto insoddisfazione lavorativa non equivale a scarsa motivazione, così come una diminuzione di insoddisfazione non si tradurrà nella comparsa di soddisfazione che indurrà i lavoratori ad operare con il giusto stimolo. Per ottenere una soddisfazione positiva sarebbe opportuno che si agisca non sui fattori igienici, ma sui fattori motivanti e quindi relativi al contenuto del proprio lavoro (Ostinelli, 2005).

Herzberg (1959) sostiene che la soddisfazione e l'insoddisfazione lavorativa non siano valori positivi o negativi, ma bensì due dimensioni distinte che si muovono su piani paralleli.

In caso di assenza di fattori igienici si riscontrerà sicuramente un certo malcontento, ma in caso contrario si ridurrà il livello di insoddisfazione senza accrescere la motivazione.

I fattori motivanti migliorano invece effettivamente la prestazione, modificando la natura stessa del lavoro, rendendolo più stimolante e gratificante: riguardano infatti quegli elementi relativi al soddisfacimento di bisogni superiori e di conseguenza portano ad una maggiore produttività. L’assenza di questi fattori non determina insoddisfazione, ma non consente nemmeno di fare quel cosiddetto “passo in più”, di avere la giusta motivazione.

Un lavoro "soddisfacente" non equivale necessariamente ad un lavoro "stimolante" o motivante, in grado cioè di conferire una spinta in più per raggiungere gli obiettivi preposti con il giusto stimolo. In conclusione, le motivazioni individuali devono legarsi il più possibile agli obiettivi aziendali al fine di ottenere un livello di performance ottimale da parte del proprio personale.

A tal proposito risulta molto importante l'analisi del bisogno di chiusura cognitiva, che consente all'organizzazione di avere un focus sugli orientamenti motivazionali dei singoli e sul modo in cui essi rispondono alle problematiche lavorative.

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2.2 - IL BISOGNO DI CHIUSURA COGNITIVA NEI CONTESTI LAVORATIVI

Quando si parla di bisogno di chiusura cognitiva ci si riferisce al “desiderio da parte dell’individuo di una risposta definitiva e certa ad un quesito/problema e all’avversione per l’ambiguità” (Kruglanski, 1980).

Una caratteristica che viene spesso sottolineata è la non specificità del bisogno di chiusura che, così come è inteso dallo stesso Kruglanski (1980), può essere descritto come la “tendenza a ricercare e difendere una qualsiasi risposta certa piuttosto che un particolare tipo di risposta congruente con gli interessi del soggetto stesso” (Pierro et al., 1995).

Anche Rocchi (1997) pone l’accento su questo aspetto del BCC come motivazione epistemica aspecifica, ossia indipendente da particolari contenuti conoscitivi, sottolineando che esso si riferisce alla necessità di ottenere la risposta a un dato problema, “qualunque risposta piuttosto che la confusione o l’ambiguità”.

L’obiettivo principale che spinge alla chiusura è, infatti, quello di risolvere una questione aperta disambiguandola, di giungere a una decisione definitiva per poter mettere da parte il problema, e poi passare all’azione o ad un altro ambito d’interesse.

Si evidenzia, così, una caratteristica peculiare del BCC, che riguarda l’assenza di una direzione determinata, dal momento che tale spinta motivazionale avrebbe come unico scopo quello di ridurre l’incertezza e l’ambiguità, approdando velocemente a una risposta univoca e inequivocabile che escluda le alternative presenti nel campo decisionale del soggetto.

Il BCC può essere attivato o ridotto da diversi fattori situazionali che sarebbero in grado di incrementare i benefici e di ridurre i costi della chiusura cognitiva, assumendo che gli individui abbiano la capacità implicita di valutare i vantaggi della chiusura, soppesandoli e confrontandoli

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23 con l’eventuale “prezzo da pagare”.

In altri termini, “il bisogno di chiusura cognitiva che i soggetti sperimentano sarebbe basato sulla percezione dei vantaggi e degli svantaggi potenzialmente derivanti dalla chiusura, o meno, in una determinata situazione” (Pierro et al., 1995).

Ad esempio, in alcune situazioni le persone possono percepire come particolarmente rilevanti le conseguenze negative di una presa di decisione affrettata e prematura, che può essere giudicata dagli altri come una scelta avventata, incauta o sconsiderata.

La volontà di sottrarsi alle critiche, unita alla consapevolezza dei possibili risvolti positivi derivanti da una scelta ponderata, renderebbe i soggetti più fortemente motivati ad evitare la chiusura, per cui essi sperimenterebbero un basso BCC.

In altre situazioni, all’opposto, mostrare di possedere la capacità di prendere tempestivamente decisioni importanti può essere considerato un requisito fondamentale per chi, ad esempio, ricopra o aspiri a determinate posizioni o ruoli in certi ambiti lavorativi, e si rivela dunque una necessità per l’individuo l’essere in grado di fornire prontamente una risposta per risolvere un problema che si pone come imminente, senza soffermarsi più di tanto sulle varie alternative. Naturalmente, la percezione dei costi e dei benefici della chiusura cognitiva varia in funzione delle caratteristiche del contesto in cui ci si trova ad agire e ad affrontare compiti di diversa natura. Nelle relazioni interpersonali il BCC incide in maniera rilevante sulla capacità di produrre maggiore o minore empatia nei confronti delle persone con cui si interagisce e quindi modifica il modo in cui gli individui riescono a comunicare con gli altri (Nelson, Klein & Irvin, 2003).

Il costrutto del bisogno di chiusura cognitiva incide sulle modalità di convivenza all'interno della società e delle organizzazioni, influenzando anche le motivazioni dei soggetti nello svolgimento delle proprie mansioni.

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A questo proposito Kruglanski (1990) parla di tre bisogni interdipendenti che regolano il processo cognitivo degli individui:

 Bisogno di Strutturazione: consiste nella necessità di chiudere e risolvere problemi non appena si giunge a conclusioni semplici e ben strutturate;

 Timore di Invalidità: consiste nel protrarre soluzioni per evitare che nel tempo le conclusioni possano essere invalidate;

 Bisogno di Preferenza per le Conclusioni Desiderabili: consiste nel chiudere la sequenza a seconda della desiderabilità delle conclusioni alle quali si è giunti (Kruglanski & Freund, 1983).

I risultati ottenuti nel corso degli anni resero necessaria la creazione di una scala di misurazione del bisogno di chiusura cognitiva.

Vi furono numerosi contributi in tal senso, ma un ruolo centrale nella creazione di quest'ultima va riconosciuto a Webster & Kruglanski (1994).

I due studiosi partirono da una scala di misurazione di tipo Likert, costituita da una serie di affermazioni (item) semanticamente collegate agli atteggiamenti su cui si vuole indagare: ciascun item rileva lo stesso concetto sottostante, per questo motivo è una scala unidimensionale.

Gli item sono presentati agli intervistati sotto forma di batterie.

La scala si avvale dell'analisi di cinque bisogni attivabili da parte di contingenze situazionali, come presenza di rumore, monotonia del compito, affaticamento mentale, ma potrebbero esprimere anche una disposizione personale relativamente stabile (Webster & Kruglanski, 1994).

Tali bisogni vengono suddivisi in:

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una forte avversione verso ogni situazione di caos e confusione, riflettendo la tendenza alla permanenza;

 Chiusura mentale: rappresenta il rifiuto a conclusioni che sono diverse dalle proprie;

 Decisionalità: rappresenta il forte desiderio di riuscire a raggiungere una pronta chiusura nel giudizio e di arrivare ad una presa di decisione, riflettendo la tendenza all'urgenza;  Intolleranza per l'ambiguità: rappresenta il disagio nei confronti di situazioni e conclusioni

poco chiare;

 Bisogno di prevedibilità: rappresenta l'aspirazione a raggiungere conoscenze e conclusioni sicure e generalizzabili, atte a consentire di prevedere lo svolgimento futuro degli eventi (Pierro, De Grada, Mannetti, Livi & Kruglanski, 2004).

In ambito di ricerche a livello italiano va segnalato il prezioso contributo dello psicologo sociale Antonio Pierro (1995), il quale ha proposto una versione italiana della Need for Closure Scale composta da 37 item in formato Likert, che misurano i cinque bisogni della versione originale di Webster & Kruglanski (1994) e, successivamente, un’altra tipologia composta da 16 item su una scala Likert a 7 punti (Kruglanski & Pierro, 2005).

Un’altra motivazione epistemica importante da citare è sicuramente quella relativa alle tendenze di Locomotion e Assessment.

Il primo concetto si riferisce all’inclinazione degli individui con alto BCC ad arrivare velocemente alla chiusura; ogni posticipazione è percepita come irritante e spiacevole.

La propensione alla permanenza si riferisce invece al desiderio di perpetuare la chiusura dando luogo all’inclinazione di preservare, o "congelare" la conoscenza passata e salvaguardare la conoscenza futura.

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Le nozioni di urgenza e di permanenza si basano sul presupposto che le persone con un alto Bisogno di Chiusura Cognitiva percepiscono l’assenza di chiusura come ostile, perciò cercano di terminare questa spiacevole esperienza il più velocemente possibile (tendenza all’urgenza) ed evitare che essa si ripeta (tendenza alla stabilità).

In conseguenza della disposizione a cogliere le informazioni velocemente e a “congelarle” immediatamente, le persone che presentano un’alta necessità di chiusura elaborano meno informazioni prima di impegnarsi in un giudizio e generano un minor numero di ipotesi concorrenti.

Paradossalmente, le persone con un alto BCC si sentono più sicure di tali decisioni, anche se sono meno radicate nell’esplorazione poiché meno ipotesi concorrenti sono a disposizione, più fiducia l’individuo ripone nelle proprie idee (Kruglanski & Webster, 1996).

Varie ricerche hanno confermato che il bisogno di chiusura può essere temporaneamente aumentato da manipolazioni situazionali.

La tendenza a basare le proprie impressioni sui primi dati che vengono presentati (effetto “primacy”), la tendenza a regolare il proprio giudizio in base alla prima informazione rilevata (effetto “ancoraggio”), l’inclinazione ad attribuire stabilmente alle persone caratteristiche uniche e durature, basandosi sui comportamenti che osserviamo, anche se sono interamente spiegabili dalla situazione in cui avvengono (“propensione alla corrispondenza”), sono errori di attribuzione compiuti più facilmente dagli individui con alto BCC (Webster e Kruglanski, 1994; Hart, Burton, Shreves, Hamilton, Shaping, 2012; Kruglanski, Freund, Bar-Tal, 1996).

Infine, nelle persone con alto BCC, si è rilevato un maggiore utilizzo degli stereotipi a causa della loro tendenza ad evitare un’ulteriore esplorazione delle informazioni specifiche che posticiperebbe la chiusura.

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27 2.3 - LA SOCIAL DOMINANCE THEORY

All'interno delle organizzazioni vi sono divisioni gerarchiche più o meno marcate, che pongono alcune persone in cima alla piramide sociale ed altre in fondo.

Lo stesso accade anche più generalmente nella società in cui viviamo, in quanto da sempre esistono disuguaglianze e conflitti fra gruppi di persone.

Pratto & Sidanius (1999) formularono a tal proposito la Social Dominance Theory (SDT), teoria che si pone lo scopo di indagare come riescono i gruppi basati su gerarchie sociali a formarsi e a sopravvivere nel tempo.

Il presupposto su cui poggia le basi la suddetta teoria è il riconoscere che nella società vi è una divisione in gruppi organizzati in gerarchie, differenziati tra loro dalla capacità di possedere o meno elementi dominanti rispetto ad altri, come ad esempio un maggior potere decisionale, una maggior ricchezza, una maggiore cultura.

I gruppi che non presentano tali elementi risultano soggetti a maggiori limitazioni in termini di risorse, cultura e servizi, il che li renderà subordinati a quelli dominanti (Pratto & Sidanius, 1999). Secondo gli autori la presenza delle disuguaglianze e del conflitto fra gruppi è connaturata all'esistenza umana, a causa di fattori evolutivi, sociali, culturali e strutturali che portano i gruppi “inferiori” ad essere oppressi da quelli “superiori” (Sidanius et al., 2004).

Tutto ciò però non deve assumere necessariamente una connotazione negativa, dal momento che esistono differenze individuali che permettono la presenza di individui più o meno propensi verso la dominanza o la subordinazione.

Nonostante ogni società abbia sviluppato relazioni gerarchiche differenti, secondo gli autori sarebbe possibile elaborare una teoria di “gerarchizzazione” che si adatti a regola universale,

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28 originata da tre diversi sistemi di divisione:

 Età: sistema di disparità basato sull'età dei membri e sul fatto che gli adulti devono avere più potere verso i giovani e gli anziani, facilmente riscontrabile in ogni gruppo;

 Genere: sistema di disuguaglianza dato dalla differenza sessuale tra i membri del gruppo, che vede favorire gli uomini a discapito delle donne;

Arbitrary Set System: sistema di disuguaglianza costituito da un insieme di criteri arbitrari che individuano delle caratteristiche socialmente dominanti in un dato contesto di gruppo o societario, come l'appartenenza ad un territorio, l'etnia o il credo religioso.

Dati i seguenti sistemi divisionali risulta possibile delineare alcuni costrutti fondamentali, come il fatto che la gerarchia basata sull'età si sviluppa pressoché in tutti i sistemi sociali, mentre quella incentrata sull'Arbitrary Set System la si può notare solo all'interno di società dove è presente un surplus economico (Sidanius et al., 1994).

La maggior parte delle forme di oppressione quali sessismo, razzismo o classismo dipendono dalla predisposizione umana a formare gruppi gerarchizzati.

La SDT si pone l'obiettivo di “identificare e comprendere i meccanismi intrapersonali, interpersonali e intergruppali che contribuiscono a produrre e a mantenere le gerarchie sociali” (Pratto & Sidanius, 1999).

Vi possono essere in particolare tre diversi processi che conducono alla gerarchia fra gruppi, ovvero la discriminazione individuale, la discriminazione istituzionale e l'asimmetria di comportamento.

Il primo si verifica quando un membro di un gruppo assegna selettivamente valori e risorse reali o simbolici ad altri individui, in virtù della loro appartenenza ad altri gruppi.

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Il secondo si manifesta allorché norme, procedure e azioni delle organizzazioni risultino in un'assegnazione non equilibrata di valori sociali positivi e negativi, in funzione del gruppo di appartenenza.

Il terzo si riferisce invece alle differenze di comportamento degli individui appartenenti a gruppi sociali diversi (Major et al., 2002).

Ciò implica che gli atteggiamenti sociali dei soggetti tendono a variare in base alla posizione assunta dal proprio gruppo all'interno di un'organizzazione.

All’interno della SDT, una dimensione rilevante è quella della Social Dominance Orientation (SDO). La SDO è un orientamento individuale che si riferisce al desiderio di mantenimento di gerarchie all'interno della società o delle istituzioni (Pratto et al., 1994).

La SDO misura il grado di accordo o disaccordo alle relazioni gerarchiche fra gruppi, risultando fondamentale per la comprensione della discriminazione societaria.

I soggetti con alti livelli di SDO sono decisamente favorevoli alle gerarchie sociali, definendole assolutamente legittime, mentre coloro che ne mostrano un livello più basso risultano riluttanti alle discriminazioni sociali, preferendo un sistema societario egualitario (Pratto et al., 1994).

Strumenti come la SDO scale possono risultare salienti per la comprensione e il modo in cui un individuo percepisce la propria società attraverso il suo grado di orientamento alla dominanza sociale.

Alcune ricerche hanno dimostrato che le organizzazioni e i potenziali lavoratori tendono a selezionarsi reciprocamente in base ai rispettivi gradi di orientamento alla dominanza sociale (Pratto & Espinoza, 2001).

Se ad esempio un’organizzazione incentiva la gerarchizzazione sociale al suo interno, cercherà di selezionare lavoratori con alti livelli di SDO e viceversa.

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Questo incontro tra orientamenti psicologici dei soggetti e caratteristiche interne alle organizzazioni rende possibile una sistematizzazione delle discriminazioni.

La SDO è uno strumento prezioso che le organizzazioni possono sfruttare per comprendere in che modo i lavoratori si oppongono o tollerano le disuguaglianze gruppali e può essere anche utilizzata per misurare quanto i soggetti condividono le stesse ideologie, gli stessi valori e gli stessi stereotipi (Pratto et al., 1994).

All’interno del filone di studi della SDT le suddette condivisioni di idee e credenze prendono il nome di “Legitimising Myths” e possono essere suddivise in due tipologie: Hierarchy-enhancing, che forniscono giustificazioni morali e intellettuali all’oppressione e alla disuguaglianza fra gruppi (forme di razzismo, sessismo, classismo), e Hierarchy-attenuating, che invece riconoscono nella democrazia, nella lotta per i diritti umani e nell’uguaglianza fra i sessi degli ideali imprescindibili. Entrambi gli aspetti risultano fortemente influenzati dalle proprie culture di riferimento.

Alcuni esempi di istituzioni che incentivano la gerarchizzazione sociale al loro interno possono essere le organizzazioni di sicurezza interna (es. KGB, FBI, Gestapo) ma anche quelle con finalità criminali.

Le organizzazioni umanitarie, le ONG e tutte quelle istituzioni che svolgono attività di sostegno nei confronti delle minoranze etniche e religiose vengono indicate come “attenuatrici” di gerarchie sociali.

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31 2.4 - I “BIG FIVE” PER LA MISURA DELLA PERSONALITA'

La maggior parte delle attuali classificazioni teoriche della personalità risentono delle cosiddette “teorie dei tratti”, ovvero di approcci improntati ad una visione empirica della personalità, secondo cui essa viene ridefinita in base alla diversa rilevanza dei tratti stessi che ne costituiscono l’architettura generale.

Alla base della teoria dei tratti vi sono metodi di analisi dei fattori, largamente determinati dallo sviluppo e dall’applicazione di tecniche psicometriche e statistiche.

Con il termine “fattore” si indica la capacità di esprimere il tratto psicologico, che è una caratteristica qualitativa del soggetto, in termini quantitativi (Lingiardi, 2001).

In linea generale i fattori hanno una funzione sintetica e descrittiva, e possono essere utili per convalidare ipotesi o suggerirne di nuove.

All’interno delle suddette teorie, le ricerche di Gordon Allport (1937) rappresentano il tentativo più autorevole di fornire una visione globale della personalità.

Allport la considera come “un’unità dinamica nella quale si uniscono fattori biologici e fattori psicosociali , che determinano i modi di adattamento dell’individuo all’ambiente”.

La teoria di Allport concerne la definizione dei tratti di personalità: strutture neuropsichiche dotate della capacità di rendere molti stimoli funzionalmente equivalenti, nonché di generare e guidare forme coerenti di comportamento adattivo ed espressivo.

I tratti sono classificati come tratti comuni, risultato delle influenze culturali che partecipano alla formazione della personalità, o come tratti individuali che esprimono la personalità individuale e possono essere solo in alcuni individui.

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riguardano ciò che è peculiare di una persona, le sue passioni e i suoi sentimenti prevalenti; tratti centrali, che contraddistinguono la persona; tratti secondari, meno frequenti e importanti, circoscritti a specifiche sequenze di comportamenti (Lingiardi, 2001).

Lo statunitense Henry Murray, assieme ad Allport, è stato un altro importante precursore dello studio sulla personalità.

Per Murray bisogna focalizzare l’attenzione sulla complessità e l’unicità dell’individuo, sottolineando l’essenziale importanza della sua esperienza passata.

Egli riconobbe nella motivazione l’elemento centrale per lo studio della personalità intesa come risultante dalle spinte provenienti da fattori biologici e sociali.

Per Murray la motivazione è strettamente legata e dipendente dall’ambiente, visto sia come fonte e sede di pressioni, sia come sede per soddisfare necessità (Murray, 1938).

In epoche più recenti si sono sviluppati studi sulla personalità antitetici rispetto alle proposte psicodinamiche formulate da Allport e Murray.

Il tedesco Hans Eysenck è lo studioso che ha maggiormente influenzato la ricerca moderna sulla personalità.

Egli propone la sua teoria come “un sistema che tende a fornire una spiegazione esaustiva della personalità globale e che cerca di formulare delle leggi generali che regolano lo sviluppo e il comportamento” (Eysenck, 1953).

Egli considera la personalità come un prodotto delle strutture biologiche del sistema nervoso centrale, riconoscendola quindi come una caratteristica ereditaria.

Partendo da questo assunto, elaborò uno strumento di misura della stessa partendo dall’individuazione di tre fattori: l’estroversione/introversione, il nevroticismo e lo psicoticismo. Al culmine dei suoi studi Eysenck elaborò un questionario, detto Eysenck Personality Inventory, che

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permetteva di stimare in quale posizione potevano collocarsi gli individui lungo le dimensioni dei tratti originari individuati (Carotenuto, 1991).

Un altro studioso che si avvalse dell’approccio fattoriale per l’analisi della personalità fu Raymond Cattell (1966).

Il suo proposito era quello di identificare i tratti originari attraverso la pura e semplice applicazione di strumenti statistici, senza formulare alcuna ipotesi sulla natura dei tratti stessi.

Dopo aver raccolto un’enorme quantità di dati relativi al più alto numero possibile di tratti superficiali su un campione molto vasto di soggetti, si servì di metodi statistici per determinare quali tratti superficiali si mostravano altamente intercorrelati, indicando quindi la presenza di un tratto originario comune.

I risultati della sua ricerca decennale permisero l’individuazione di 16 fattori primari (corrispondenti a tratti originari più profondi) e lo sviluppo di un questionario per misurarli, detto 16 Personality Factors Questionnaire (Goldberg, 1981).

Prendendo in esame i contributi di Eysenck e Cattell, negli ultimi anni si è affermato prepotentemente un modello capace di accomunare il sistema di valutazione della personalità di tipo clinico con quello di matrice fattoriale, prendendo il nome di “Teoria dei Big Five”.

I punti di partenza di questo modello riguardano appunto l’analisi fattoriale dei tratti di personalità, che mira a identificare le dimensioni che caratterizzano le differenze individuali mediante analisi statistiche, e l’approccio lessicale proposto da Cattell, secondo il quale il vocabolario della lingua comune viene indicato come una sorta di deposito di elementi in grado di descrivere le differenze individuali.

Il termine “Big Five” è stato usato per la prima volta da Goldberg (1981) e successivamente elaborato da Robert McCrae & Paul Costa (1985), i quali hanno postulato cinque grandi dimensioni

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lineari di personalità: l’estroversione/introversione, la gradevolezza/ostilità, la coscienziosità, la stabilità/instabilità emotiva e l’apertura all’esperienza.

L’analisi delle suddette dimensioni viene svolta attraverso la somministrazione del Big Five Questionnaire 2 (Caprara et al., 2000), adattamento del modello NEO-PI di McCrae & Costa (1985) ed evoluzione del Big Five Questionnaire di Caprara, Barbaranelli & Borgogni (1993), il quale si propone come un tentativo di unificazione e mediazione tra i vari tentativi teorici e pratici di studio della personalità.

Le caratteristiche di questi macro-elementi della personalità sono così sintetizzabili:

 Estroversione/introversione: legato a caratteristiche come l’attività, la ricerca di stimoli e sensazioni, socievolezza, ottimismo ed energia nel primo caso e la chiusura in sé stessi e la riservatezza nel secondo caso;

 Gradevolezza/ostilità: legato a caratteristiche come fiducia nell’altro, altruismo, schiettezza, scarsa aggressività, cordialità, gentilezza, e ottimismo da un lato; egoismo, astiosità, superbia, indifferenza dall’altro lato;

 Coscienziosità: legato a caratteristiche come autodisciplina, senso del dovere, puntualità, affidabilità, ordine, perseveranza, precisione, scrupolosità e ponderatezza;

 Stabilità/instabilità emotiva (o “nevroticismo”): legato a caratteristiche come sicurezza, calma e tranquillità nel primo caso; insicurezza, ansietà e vulnerabilità emotiva nel secondo caso;

 Apertura all’esperienza: legato a caratteristiche come originalità, creatività, curiosità intellettuale e fantasia.

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Il Big Five risulta un sistema tassonomico per lo studio della personalità tra i più efficaci in diversi contesti, per la sua capacità di rappresentare un’organizzazione gerarchica di tratti, dai più generali ai più specifici, con coefficienti di correlazione elevati: le cinque dimensioni di estroversione/introversione, gradevolezza/ostilità, stabilità/instabilità emotiva, coscienziosità e apertura all’esperienza descrivono le differenze individuali, consentendo la predittività dei comportamenti dei soggetti presi in esame (McCrae & Costa, 1997).

All’interno del presente lavoro di tesi è stato utilizzato un adattamento del modello “Big Five Inventory” (BFI), proposto da John, Donahue & Kentle (1991), ovvero il “Big Five Inventory-10” di Rammstedt & John (2007).

L’obiettivo degli studiosi era quello di proporre uno strumento che riuscisse a misurare le varie dimensioni della personalità in maniera rapida ed efficiente, specialmente in contesti dove non è necessario analizzare nello specifico le numerose sfaccettature individuali (John et al., 2008). I vantaggi derivanti dall’utilizzo del BFI-10 sono dati dal ridotto numero di item, composti da affermazioni brevi e di facile interpretazione, e dal tempo richiesto per la sua compilazione (circa 5-10 minuti).

Il successo e l’attendibilità di tale modello fattoriale ne hanno determinato l’utilizzo anche ai fini della valutazione della personalità nei contesti organizzativi, e la sua capacità di essere predittore di comportamenti individuali consente di effettuare analisi psicometriche relative al benessere sia a livello soggettivo che indirettamente a livello organizzativo.

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36 2.5 - IL PREGIUDIZIO IN AMBITO LAVORATIVO

Molto spesso alla base dei vari processi che conducono a differenti forme di discriminazione, si annidano la stereotipizzazione e il pregiudizio.

Secondo Hamilton & Trolier (1986) uno stereotipo è “una struttura cognitiva che contiene la conoscenza, le credenze e le aspettative possedute da un soggetto a proposito di un certo gruppo umano. Tali contenuti possono essere positivi o negativi e si acquisiscono sia attraverso l'esperienza personale, sia in seguito a processi di apprendimento sociale.”

In sostanza lo stereotipo è una raffigurazione rigida ed eccessivamente semplificata di un aspetto della realtà, e in particolare di un determinato gruppo o categoria sociale, basata su pochi tratti fra loro coerenti e diffusa all'interno della società.

Per renderci conto dell’esistenza di queste raffigurazioni e della loro azione su ognuno di noi, possiamo pensare a come spesso ci facciamo un’idea di un popolo anche senza averne fatto alcuna esperienza diretta: tendiamo, ad esempio, a rappresentarci i settentrionali come freddi, schematici e ligi al lavoro, mentre i meridionali come solari, buontemponi e scansafatiche.

Alcuni stereotipi sociali sono, tutto sommato, innocui: non producono, cioè, atteggiamenti concreti di ostilità, anche se possono, in qualche modo, ostacolare i contatti fra le persone e generare forme di antipatia preconcetta; altri, invece, soprattutto se associati a fattori emotivi o sociali particolari, alimentano pregiudizi negativi che possono condurre a vere e proprie forme di discriminazione e di conflitto.

Atteggiamenti manifestati da alcuni individui e favoriti da circostanze negative divengono poi, a causa degli stereotipi, attributi di un popolo intero, sue caratteristiche permanenti.

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ogni sorta e per questo vittime del più spaventoso genocidio di sempre.

Stereotipi e pregiudizi non sono esattamente la stessa cosa anche se si tratta di fenomeni strettamente collegati: il pregiudizio infatti è “un atteggiamento negativo e ostile nei confronti dei membri di un altro gruppo, esclusivamente in quanto appartenenti a quel gruppo” (Arcuri & Boca, 1996).

Lo studioso americano Gordon Allport (1954) ha approfondito questo tema nel suo fondamentale lavoro “La natura del pregiudizio”.

Egli ha illustrato i meccanismi che stanno alla base di questo fenomeno mettendo in evidenza l’errore fondamentale insito negli stereotipi e nei pregiudizi, consistente nel fatto che si giudica qualcuno non per le sue effettive caratteristiche personali, ma in quanto membro di una specifica categoria.

Per semplificare i molteplici dati che giungono dalla realtà che ci circonda, gli esseri umani ricorrono infatti alla categorizzazione, ossia all’organizzazione delle informazioni in concetti generali facilmente utilizzabili per valutare oggetti e situazioni.

La categorizzazione è una strategia efficace, ma non priva di rischi: infatti le nostre conoscenze sono inevitabilmente limitate e questo ci costringe a operare delle generalizzazioni, ossia a estrapolare valutazioni di ordine generale da un numero ridotto di esperienze.

Per esempio, dopo un soggiorno a Parigi durante il quale avremo sicuramente conosciuto alcuni francesi, tenderemo a formarci una certa immagine di quel popolo, anche se la nostra esperienza diretta al riguardo è limitata a poche persone.

Questo è possibile grazie a un meccanismo che gli psicologi chiamano accentuazione, che opera sulle generalizzazioni già esistenti.

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tra elementi di categorie diverse e, viceversa, a minimizzare quelle tra elementi della stessa categoria.

Ad esempio, quando parliamo genericamente di “immigrati”, perlopiù assumiamo l’erroneo presupposto che essi siano molto più simili tra loro, indipendentemente dal paese di provenienza, che non ai membri della popolazione autoctona, senza pensare che dietro al fenomeno delle migrazioni, quindi dietro la parola “immigrati”, ci sono realtà sociali, linguistiche e culturali molto diverse e a volte anche in contrasto tra di esse (Arcuri & Boca, 1996).

Un aspetto molto interessante analizzato da Allport e da altri studiosi è quello relativo alla resistenza dei pregiudizi: coloro che coltivano pregiudizi di carattere sociale e culturale sono generalmente poco disponibili ad ammettere i loro errori, per quanto grossolani possano essere. Anzi, spesso rinforzano i loro pregiudizi poiché tendono a percepire e a ricordare solo quegli aspetti della realtà che sembrano confermare la loro opinione: si parla in questo caso di percezione selettiva e di memoria selettiva (Allport, 1954).

Chi è convinto che i meridionali siano degli scansafatiche tenderà a vedere (percezione selettiva) e a ricordare (memoria selettiva) solo certi comportamenti negativi, mentre non farà caso a tutte le manifestazioni di operosità presenti in quel gruppo di persone; chi ritiene che gli immigrati siano inclini alla delinquenza troverà ampie conferme alle sue tesi sui giornali che riferiscono fatti di cronaca nei quali essi sono implicati, laddove i giornali quasi mai riferiscono, invece, tutti gli episodi che testimoniano una positiva integrazione di molti stranieri nel tessuto sociale e lavorativo del paese; chi crede che la propria squadra di calcio sia penalizzata dagli arbitri tenderà a notare tutti i minimi falli degli avversari mentre non farà caso a quelli compiuti dai propri giocatori.

La questione dell’origine dei pregiudizi ha assunto un posto centrale nella filosofia e nelle scienze umane in seguito alle tragiche conseguenze della discriminazione e dell’odio razziale verso gli

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