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Caratterizzazione di un fenotipo simil-Alzheimer in topi knockout per il recettore TrkA

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MEDICINA E CHIRURGIA

CARATTERIZZAZIONE DI UN FENOTIPO SIMIL-ALZHEIMER IN TOPI KNOCKOUT PER IL RECETTORE TRKA

CANDIDATO: RELATORE:

ALESSANDRA DELLA VECCHIA PROF. ANTONINO CATTANEO

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2 INDICE 2

RIASSUNTO ANALITICO 5

PARTE 1: INTRODUZIONE

1 LA MALATTIA DI ALZHEIMER 6

1.1 La prima descrizione della malattia 6 1.2 Aspetti epidemiologici 7

1.3 Aspetti clinici 8 1.4 Aspetti eziologici 11

1.5 Lesioni istopatologiche e meccanismi patogenetici 13 1.5.1 Placche senili 15

1.5.2 Grovigli neurofibrillari 20 1.5.3 Glia e neuroinfiammazione 21 1.6 Ipotesi colinergica 25

1.7 Il dibattito sui meccanismi della malattia e l’Ipotesi amiloide 26 1.8 Il “fallimento” dell’ipotesi amiloide 28

2 NGF E RECETTORI 29

2.1 l fattore di crescita neuronale 29

2.2 I recettori del fattore di crescita neuronale 29 2.3 Il signaling NGF/TrkA 32

2.4 Il signaling NGF/p75NTRLa scoperta del fattore di crescita neuronale 33

3 NGF E MALATTIA DI ALZHEIMER 35

3.1 Lo squilibrio proNGF/NGF e TrkA/p75NTR nella AD 35

3.2 Modelli murini che supportano il ruolo dello squilibrio proNGF/NGF e TrkA/p75NTR nella AD 37

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3

3.2.1 I topi AD11 37 3.2.2 I topi MNAC13 38 3.2.3 I topi AD12 39

PARTE 2: SCOPO DELLA TESI 41

PARTE 3: MATERIALI E METODI

1. Animali 42

2. Trattamento dei tessuti per immunoistochimica 42 3. Immunoistochimica 43

3.1 Immunoistochimica anti-CAT 43 3.2 Immunoistochimica anti-IBA1 44 3.4 Immunoistochimica anti-GFAP 45 3.5 Immunoistochimica anti Aβ 45 4. Microscopia 46

4.1 Microscopio confocale a scansione laser 46 4.2 Microscopio ottico a campo chiaro 47 5. Software per l’analisi delle immagini 47

5.1 Imaris 47 5.2 Imagej 48

6. Test comportamentali 48

6.1 Test di riconoscimento degli oggetti 48 6.2 Test del labirinto a croce rilevato 49 7. Analisi statistica 50

PARTE 4: RISULTATI

1. Valutazione dei neuroni colinergici del prosencefalo basale 51 2. Valutazione degli aspetti cognitivi 56

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4

3. Valutazione della patologia a carico di Aβ 58 4. Valutazione del lato emozionale 60

5. Valutazione morfologica della microglia 61 6. Valutazione degli astrociti 68

PARTE 5: DISCUSSIONE 73

PARTE 6: CONCLUSIONI 79

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5 RIASSUNTO ANALITICO

La malattia di Alzheimer (AD) è un disordine neurodegenerativo che colpisce principalmente la popolazione anziana, caratterizzato da aggregazione di Aβ, grovigli di Tau e deficit di innervazione colinergica. Negli ultimi anni è emerso un possibile ruolo di NGF/TrkA nella patogenesi della malattia. Nel cervello di pazienti con AD analizzati post-mortem è stata osservata una ridotta espressione di TrkA e un’alta concentrazione di NGF a livello della corteccia e dell’ippocampo. In modelli murini con deficit del segnale NGF/TrkA è stata osservata neurodegenerazione simil-AD.

Lo scopo di questo lavoro di ricerca è stato quello di studiare il fenotipo di un topo transgenico TrkA knockout dal punto di vista della neurodegenerazione e di validarlo come modello di neurodegenerazione simil-Alzheimer, per contribuire a comprendere il ruolo che il deficit nell’espressione di TrkA potrebbe avere nella malattia.

Con questo scopo ho analizzato topi transgenici TrkA knockout eterozigoti e topi WT, effettuando test comportamentali per valutare le funzioni cognitive e comportamentali e analisi immunoistochimiche per investigare la degenerazione colinergica, l’aggregazione di Aβ e il comportamento della glia.

Dal lavoro è emerso che il deficit di TrkA è associato a neurodegenerazione simil-Alzheimer e amiloidogenesi e che TrkA potrebbe avere un ruolo su diverse popolazioni cellulari del sistema nervoso centrale, attraverso il quale potrebbe influenzare anche lo sviluppo e la progressione della AD.

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6 1 MALATTIA DI ALZHEIMER

1.1 La prima descrizione della malattia

La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906 dal neuropatologo Alois Alzheimer (1863-1915) (fig.1).

Fu, infatti, durante la Convenzione psichiatrica di Tubingen del 1906 che Alzheimer presentò quello che è passato alla storia come il primo caso diagnosticato di malattia di Alzheimer, il caso di una donna di 51 anni, Auguste Deter (fig. 1), da anni affetta da una sconosciuta forma di demenza. La donna mostrava problemi di memoria, difficoltà con il linguaggio, disorientamento e allucinazioni, nonché disturbi comportamentali. A tratti era violenta, paranoica e non riusciva a prendersi cura di se stessa [1].

Alla morte della paziente, il neuropatologo Alois Alzheimer ottenne il permesso di eseguire l’autopsia della signora, potendo esaminare a fondo il suo cervello. La prima cosa che notò fu una spiccata atrofia della corteccia (tanto che in seguito si sarebbe riferito alla condizione osservata come “una particolare malattia della corteccia cerebrale”), mentre le analisi al microscopio rivelarono depositi anomali nel tessuto nervoso, quelle che poi vennero identificate come le placche amiloidi e gli ammassi neurofibrillari, la cui scoperta risale, di fatto, al 1984, quando, facendo uso della biologia molecolare, Wong e Glenner scoprirono la β-amiloide [2].

Fu soltanto nel 1910, però, che la malattia ebbe il primo riconoscimento in quanto entità clinica a sé stante, quando Emil Kraepelin, il più famoso psichiatra di lingua tedesca dell'epoca, ripubblicò il suo trattato “Psichiatria”, definendo in esso una nuova forma di demenza scoperta da Alzheimer, chiamandola appunto malattia di Alzheimer [1].

Risulta che nella caratterizzazione della malattia abbia avuto un ruolo chiave anche un giovane ricercatore italiano: Gaetano Perusini (1879-1915). Il Perusini si recò nel 1906 a Monaco, proprio presso la scuola di Kraepelin e sembra che sia stato quest'ultimo ad affiancarlo al professor Alzheimer nella ricerca. Si ritiene che proprio il professor

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7 Alzheimer affidò al giovane ricercatore italiano la continuazione della sua ricerca sulla strana forma di demenza. Perusini studiò diversi casi, e i suoi studi furono pubblicati sulla rivista “Histologische und histopathologische Arbeiten”, nella quale vennero menzionati, però, come autori Franz Nissl ed Alois Alzheimer, escludendo del tutto Perusini dal lavoro [3].

1.2 Aspetti epidemiologici

La malattia di Alzheimer (AD) rappresenta una delle più grandi sfide mediche di questo secolo: si sta assistendo ad una crescita esponenziale della patologia a causa dell'aumentata aspettativa di vita della popolazione generale, in assenza di terapie efficaci che possano prevenirne l’insorgenza o bloccarne la progressione, il che rende la AD un problema di sanità pubblica con risvolti socio-economici dall’impatto devastante.

Figura 1. A sinistra Auguste Deter, primo caso di AD diagnosticato. A

destra Alois Alzheimer, neuropatologo che ha descritto per la prima volta la AD.

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8 Si tratta della forma di demenza più comune, rappresentando il 50-60% di tutte le demenze, e, seppure sia una patologia multifattoriale, il più grande fattore di rischio è considerato l’età [4], tranne che per rare forme genetiche familiari, che corrispondono a circa il 25% di tutti i casi di AD (cioè, ≥ 2 persone in una famiglia hanno la malattia), di cui circa il 95% ad esordio tardivo (età> 60-65 anni) e il 5% ad esordio precoce (età <65 anni).

Lo studio Framingham nei primi anni del novecento, ed altri studi successi, hanno mostrato che l'incidenza della malattia raddoppia ogni 5 anni fino all'età di 89 anni [5]. Nel mondo, la prevalenza stimata degli affetti da demenza per l’anno 2016 è stata di 47 milioni di persone [6], di cui la maggior parte affetti da malattia di Alzheimer [7], e questo numero è destinato ad aumentare, quasi a raddoppiare ogni 20 anni, fino ad arrivare a 131 milioni entro il 2050. Sono oltre 9,9 milioni i nuovi casi di demenza ogni anno, vale a dire un nuovo caso ogni 3,2 secondi. Considerando l'incidenza della malattia di Alzheimer la stima è quindi di circa 5 milioni di nuovi malati di questa forma di demenza ogni anno.

Gli attuali costi economici e sociali della demenza ammontano a 818 miliardi di dollari e ci si aspetta che raggiungano 1000 miliardi di dollari in soli tre anni. I costi globali della demenza sono cresciuti del 35% rispetto ai 604 miliardi di dollari calcolati nel Rapporto Mondiale 2010 [8].

L’incidenza della malattia risulta inferiore nei paesi economicamente meno sviluppati rispetto all’America del Nord e all’Europa, ma un forte aumento di incidenza si sta osservando in Cina, India, e America Latina [9][10].

1.3 Aspetti clinici

Il termine “demenza” venne identificato per la prima volta nel 1838 da Esquinol, che lo definì come un quadro clinico caratterizzato dalla perdita della memoria, della capacità di giudizio e dell’attenzione [11]. La demenza è considerata una sindrome caratteristicamente degenerativa, con perdita progressiva delle funzioni cognitive e

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9 comparsa di sintomi non cognitivi che interessano la personalità, l’affettività e il comportamento in generale.

La malattia d'Alzheimer è la forma di demenza più frequente nell’anziano, caratterizzata da un progressivo declino delle funzioni cognitive, in particolare riguardanti la memoria di eventi remoti o recenti, il linguaggio, la capacità di giudizio, l’attenzione e le funzioni esecutive come pianificazione e organizzazione [12]. Questi disturbi comportamentali progrediscono durante il corso della malattia [13] e vengono accompagnati da modifiche comportamentali e apatia già dai primi stadi della malattia, seguiti, nelle fasi più tardive, da psicosi e agitazione [14]. Le caratteristiche psicotiche (deliri e allucinazioni) sembrano essere ereditarie [15]. Alterazioni dei sistemi motori e sensoriali restano invece poco comuni fino agli ultimi stadi della malattia [16].

La durata tipica della malattia è da otto a dieci anni, con intervallo di variabilità che spazia da uno a 25 anni, e si conclude inevitabilmente con la morte, successiva solitamente ad inanizione e complicanze infettive quali polmonite [17].

Per tanto tempo la malattia di Alzheimer è stata considerata una entità clinico-patologica [16], con stretta corrispondenza tra sintomi clinici e sottostante fisiopatologia, tale per cui gli individui con elementi patogenetici tipici venivano considerati dementi mentre quelli che non li avevano non venivano considerati tali (o almeno non a causa della malattia di Alzheimer). Nel corso degli anni, però, è diventato chiaro che questa stretta corrispondenza non sussiste: gli elementi patogenetici tipici della malattia possono essere presenti in assenza di sintomi evidenti [18][19] e gli stessi elementi patogenetici possono manifestarsi con presentazioni cliniche atipiche, come disturbi del linguaggio e disturbi visuo-spaziali [20][21]. Di conseguenza è stata fatta una distinzione semantica e concettuale tra i processi fisiopatologici della malattia di Alzheimer e le varie sindromi clinicamente osservabili che ne risultano, che denotano diverse espressioni cliniche qualitative e quantitative della malattia, legate al fatto che i deficit cognitivi si evolvono gradualmente [22]. Con questi presupposti nel 2011 i gruppi di lavoro della National Institute of Aging-Alzheimer’s Association

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(NIA-10 AA) hanno pubblicato i nuovi criteri diagnostici della AD, operando una distinzione tra una lunga fase preclinica, in cui sono già presenti le alterazioni fisiopatologiche ma non vi sono i sintomi, e una fase sintomatica, a sua volta divisa in una fase di declino cognitivo lieve (MCI) [23] e una fase di demenza conclamata (lieve, moderata e grave), includendo i nuovi indicatori biologici/fisiopatologici per la diagnosi precoce ed eziologica [24][25][26].

Mild cognitive impairment (MCI): è la fase del deficit cognitivo lieve [23], ed interessa esclusivamente la memoria episodica anterograda, quindi la capacità di apprendere e di richiamare nuove informazioni. In questa fase la persona è perfettamente autonoma, anche nelle attività più complesse. L’individuo può presentare saltuarie amnesie, isolate anomie, sfumate modificazioni comportamentali, episodi isolati di disorientamento [27][28]. Una recente meta-analisi di 32 studi ha concluso che in media il 32 per cento degli individui con MCI ha sviluppato la malattia di Alzheimer in 5 anni [29]. Risultato simile si evince in una precedente meta-analisi di 41 studi in cui si evince che tra gli individui con MCI monitorati per 5 anni o più, in media il 38 per cento ha sviluppato demenza [30].

Demenza lieve (durata media 2-4 anni): è caratterizzata da accentuazione dei deficit mnesici, con conseguente difficoltà nello svolgimento delle attività quotidiane. Il soggetto lamenta, inoltre, difficoltà visuo-spaziali [31] e il linguaggio comincia ad essere compromesso (afasia isolata) [32]. Possono essere presenti labilità emotiva, reattiva alla perdita di memoria, ed umore depresso [33].

Demenza moderata (durata media 2-10 anni): è caratterizzata da marcato deficit mnesico, a carico della memoria episodica sia anterograda che retrograda [34]. Compaiono in questa fase afasie, agnosie e aprassie, con problemi di comunicazione, perdita della capacità di riconoscere gli oggetti e il loro uso appropriato, perdita della capacità di compiere atti volontari e finalizzati, nonostante l'integrità della funzione motoria, prosopoagnosia (incapacità a riconoscere i volti) [35]. Possono manifestarsi anche disturbi del comportamento (sintomo comune è il "girovagare" di giorno e di

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11 notte il cosiddetto "affaccendamento afinalistico"), cambiamenti di personalità (una persona educata e socievole può diventare irritabile ed aggressiva), disturbi dell’umore (episodi depressivi rappresentano l’evenienza più comune)[27]. In questa fase il soggetto inizia a manifestare difficoltà nelle attività quotidiane.

Demenza grave (durata media 3 anni): in questa fase terminale c’è compromissione di grado avanzato delle funzioni cognitive, psico-motorie e vegetative. Il paziente è completamente dipendente e richiede assistenza continua e totale nell’effettuare ogni tipo di attività quotidiana, è allettato e non vi è più alcun controllo sfinterico. La nutrizione diventa problematica per la comparsa di disfagia (incapacità a deglutire) con conseguente malnutrizione, rendendosi necessario il ricorso all’alimentazione artificiale. Diventa infine elevato il rischio di altre complicanze come disidratazione, polmoniti (soprattutto da inalazione) e piaghe da decubito; spesso queste complicanze rappresentano la causa del decesso [27].

1.4 Aspetti eziologici

Si distinguono forme di AD ad esordio precoce e ad esordio tardivo, che condividono le caratteristiche cliniche e anatomopatologiche [36] e possono essere distinte solo dalla storia familiare e/o da test di genetica molecolare.

La forma ad esordio precoce (EOAD), esordisce prima dei 65 anni, rappresenta dall’1% al 6% di tutte le forme di AD e nel 13% dei casi ha una eredità autosomica dominante [37]. La EOAD comprende almeno tre sottotipi (AD1, AD3, AD4), classificati in base al gene la cui mutazione è causale: AD1 è associato a mutazione di APP, AD3 a mutazione di PSEN 1 (presenilina 1), AD4 a mutazione di PSEN2 (presenilina 2) [33] [38].

La forma ad esordio tardivo (LOAD) è una forma multifattoriale, ad eziologia sconosciuta, esordisce dopo i 65 anni, e rappresenta il 95 % di tutte le forme di malattia di Alzheimer. Si pensa sia il risultato di fattori ambientali sconosciuti che agiscono su uno sfondo genetico predisponente [39]: studi sui gemelli hanno

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12 confermato che nella genesi di questa patologia sono coinvolti sia i geni che l'ambiente [40]. Non ci sono, tuttavia, agenti ambientali (ad esempio, virus, tossine) che si sono dimostrati coinvolti in modo necessario e sufficiente nella patogenesi di AD. Il principale fattore di rischio rimane l’età: il 50% o più delle persone con più di 85 anni di età soffrono di AD [4]. Studi di linkage hanno permesso di identificare diversi geni come possibili fattori di rischio per tale forma.

L’apolipoproteina E (ApoE) è il principale fattore di rischio genetico identificato per la LOAD. Il gene per l’ApoE è situato sul cromosoma 19q13.2 e codifica per una glicoproteina pleiotropica, di cui esistono 3 alleli: ε2, ε3 e ε4. L’allele ε4 è associato ad un aumentato rischio di AD: individui eterozigoti per ApoE4 hanno un rischio aumentato di 3 volte rispetto alla popolazione sprovvista di tale allele, mentre quelli omozigoti di 12 volte [41]. L’allele ε2, invece, riduce il rischio di AD e ritarda l’insorgenza della LOAD [41][42]. L'apolipoproteina E è il principale vettore del colesterolo nel cervello e si occupa di manutenzione e riparazione neuronale. Normalmente l’APOE si lega al peptide Aβ e svolge un ruolo nella sua clearance [43]. Essa lega direttamente Aβ influenzandone la clearance e l'aggregazione: in particolare l’ApoE E4 ha maggiore affinità per il peptide e causa accelerata formazione di fibrille [44][45]. Essa, però, influenza il metabolismo di Aβ anche indirettamente, interagendo con i recettori LRP1 (low-density lipoprotein receptor-related protein 1), implicati nella endocitosi [45]. In topi transgenici per APP, l’ApoE migliora l'aggregazione di Aβ in un modo isoforma-dipendente [49].

Altri geni associati alla LOAD sono geni implicati nella biologia dei lipidi (APOE, CLU, e ABCA7), nella funzione del sistema immunitario (CLU, CR1, ABCA7, CD33 e EPHA1) e nei processi di membrana cellulare come l’endocitosi (PICALM, BIN1, CD33 e CD2AP) [35]. Questi fattori genetici non influiscono necessariamente sulla processazione di APP o sull’aumentata produzione di Aβ, per cui è stato suggerito che la forza trainante della malattia di Alzheimer possa essere da ricercare in una disregolazione della clearance di Aβ [43].

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13 A queste forme si aggiunge una forma cromosomica di malattia di Alzheimer, associata alla sindrome di Down (DS), che rappresenta meno dell’1% di tutti i casi di Alzheimer. Tutte le persone con sindrome di Down (trisomia 21) sviluppano le caratteristiche neuropatologiche di AD dopo l'età di 40 anni, e oltre la metà degli individui con DS mostrano anche segni clinici di declino cognitivo. La ragione presunta per questa associazione è l'iperespressione di APP causata dalla trisomia del cromosoma 21 su cui si trova il gene di APP [46]. In questo caso la deposizione di β-Amiloide nel cervello può aver inizio nella prima decade di vita [47].

1.5 Lesioni istopatologiche e meccanismi patogenetici

La malattia di Alzheimer (AD) è un disordine neurodegenerativo progressivo del sistema nervoso centrale, caratterizzato anatomo-patologicamente, sia nella sua forma precoce che tardiva, dall'accumulo di placche senili e grovigli neurofibrillari [48], aggregati che fanno della malattia di Alzheimer una malattia causata da da misfolding proteico (proteine malripiegate) [49], e da perdita sinaptica e neuronale, responsabile dell’atrofia cerebrale tipica della malattia.

Le placche Aβ, in genere, si formano prima nella isocorteccia (in particolare nella corteccia prefrontale) e poi si propagano verso l’allocorteccia (ippocampo) e le strutture sottocorticali [50] (fig. 2). I grovigli neurofibrillari, invece, seguono il percorso inverso, partendo dall’allocorteccia, interessando le aree limbiche, e diffondendosi solo in seguito all’isocorteccia [50] (fig. 3).

Se, però, la progressione dei grovigli neurofibrillari tende ad essere costante, dunque prevedibile, quella delle placche senili non lo è.

La perdita sinaptica e neuronale sembra seguire l’andamento dei grovigli neurofibrillari [51][52], per cui la patologia tau sembra correlare molto più strettamente con la perdita neuronale e i sintomi clinici della malattia rispetto alle placche amiloidi [53][50][54]: il principale sistema neuronale intaccato è il sistema colinergico del prosencefalo basale, sebbene alterazioni importanti si osservino anche a livello dei

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14 sistemi neuronali che usano come neurotrasmettitore la noradrenalina, la serotonina, il glutammato, la sostanza P e la somatostatina. Rimangono sostanzialmente inalterati il sistema dopaminergico e quelli utilizzanti neuropeptidi [55][56].

Gli aggregati di Aβ e tau forniscono un importante contributo alla patogenesi della malattia, ma da soli non ne spiegano la progressione, motivo per il quale gli studi stanno concentrando l’attenzione sul possibile ruolo della glia in tale processo.

Figura 2. Progressione spazio-temporale della deposizione delle placche amiloidi secondo i cinque stadi

di Thal, qui riassunti in tre stadi. Sezione Coronale (A), Sezione assiale (B), e Sezione sagittale (C) del cervello. I depositi di amiloide si accumulano prima nelle aree isocorticali (fase 1 o isocorticale, in rosso), poi nel sistema limbico e nelle aree allocorticali (stadio 2 o limbico, in arancione), quindi in strutture sottocorticali, tra cui i gangli della base, il diencefalo, il tronco dell’encefalo e la corteccia cerebellare (stadio 3 o subcorticale, in giallo). Amyg = amigdala; CE = Corteccia entorinale; Hipp = Ippocampo; Cg = Corteccia cingolata; Cd = Nucleo caudato; Put = Putamen; Gpe = Globo pallido eserno; Gpi = Globo pallido interno; Cl = Claustro; Ins = Corteccia insulare; Die = Diencefalo; Mid = Mesencefalo; Med = midollo allungato; Cblm = cervelletto.

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Figura 3. Pattern di progressione spaziotemporale dei grovigli neurofibrillari secondo i sei stadi di Braak

e Braak. Il colore indica la distribuzione, l’intensità di colore la densità.

Amyg = Amigdala; EC = Corteccia entorinale; CA1 = Corno d’Ammone 1 dell’ippocampo; Cg = Corteccia del cingolo; Prec = Precuneo; 4 = Corteccia motoria primaria; 3-1-2 = Corteccia sensitiva primaria; 17 = Corteccia visiva primaria; 18 = Corteccia visiva associativa.

(da: Alberto Serrano-Pozo et al; 2011)

1.5.1 Le placche senili

Le placche senili o neuritiche sono foci microscopici extracellulari, costituiti da un core centrale di Aβ in forma fibrillare, insolubile [57], evidenziabile tramite la colorazione con il congo rosso, circondato da neuriti distrofici, dilatati e tortuosi, con anomalie ultrastrutturali (lisosomi ingranditi, numerosi mitocondri e filamenti elicoidali appaiati), astrociti e microglia reattivi. Gli aggregati amiloidi sono costituiti principalmente da Aβ42, un peptide generato dal taglio di APP, e in minor parte da Aβ40, peptide meno idrofobico di Aβ42, che sembra aggregare solo dopo la deposizione di Aβ42 [58]. Accanto alle placche senili è da menzionare l’esistenza delle placche diffuse, scoperte nel 1980 utilizzando anticorpi contro Aβ per la colorazione

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16 immunoistochimica [59][60][61], costituite solo da Aβ42, senza neuriti distrofici e reazione gliale, considerate i precursori delle vere e proprie placche senili [62].

Accanto alle placche senili, nel cervello di soggetti con AD si riscontra spesso anche microangiopatia amiloide, legata al deposito di Aβ, specie nella forma Aβ 40, nella membrana basale dei vasi e in posizione perivascolare, condizione potenzialmente responsabile di emorragie cerebrali per rottura dei vasi [63]. Anche se la microangiopatia amiloide può essere isolata (forma pura), si osserva nell’80% dei soggetti con AD. Nella malattia di Alzheimer l’angiopatia amiloide è spesso diagnosticata post-mortem, a meno che non diventi sintomatica a causa di complicanze emorragiche. Tuttavia, tre studi longitudinali post-mortem hanno rivelato come l’angiopatia amiloide possa contribuire al declino cognitivo della malattia [64][65][66].

Aβ deriva dal clivaggio proteolitico della proteina precursore dell’amiloide APP. Il gene che codifica per la APP è localizzato sul cromosoma 21q21. Le funzioni svolte dalla APP o dai suoi derivati non sono ben chiare: la APP agisce come fattore autocrino e come fattore neuroprotettivo e neurotrofico [67] [68], partecipa alla riparazione neuronale e alla sinaptogenesi [69][70], e sembra importante per il trasporto assonale anterogrado [71].

Aβ deriva dalla processazione della APP, una proteina transmembrana ubiquitaria [72], della quale esistono 3 isoforme (di 695, 751 e 770 residui amminoacidici) con frammento C-terminale rivolto all’interno della cellula e frammento N-terminale rivolto all’esterno, che viene modificata dopo la traduzione nel reticolo endoplasmatico. Il clivaggio proteolitico di APP si verifica durante e dopo il passaggio attraverso il reticolo endoplasmatico [73]. L’APP può essere processata secondo la via anti-amiloidogenica e amiloidogenica. Nella via anti-amiloidogenica, APP è processata inizialmente ad opera dell’alfa-secretasi, la quale produce αAPP, che è rilasciata nell’ambienta extracellulare, e un frammento C-terminale αAPP-CTF (C-83) che resta ancorato alla membrana; successivamente il peptide C-terminale αAPP-CTF è

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17 sottoposto all’azione della gamma-secretasi che produce il peptide P3, rilasciato anch’esso nello spazio extracellulare [74][75]. Nella via amiloidogeneica, APP viene processata in prima istanza dalla beta-secretasi, che produce βAPP, rilasciata successivamente nell’ambiente extracellulare, e un frammento C-terminale βAPP-CTF (C-99), che resta ancorato alla membrana; il frammento C-terminale βAPP-CTF è, poi, sottoposto all’azione della gamma-secretasi, che produce peptidi Aβ di 40/42 amminoacidi [48][74][75], secreti nello spazio extracellulare [74] (Fig.4)

In soggetti sani Aβ40 è la forma predominante, mentre in soggetti con AD la forma predominante è Aβ42, che è di fatto la forma che tende maggiormante ad aggregare.

Figura 4. La figura mostra i percorsi alternativi di processazione della proteina precursore dell'amiloide (APP): a destra, la via anti-amiloidogenica, con la scissione sequenziale di alfa e secretasi; a sinistra, la via amiloidogenica, con scissione sequenziale di beta e gamma-secretasi. Sono descritte anche le possibili funzioni di APP e dei suoi derivati: si pensa che APP abbia un ruolo nella adesione cellulare, la forma solubile αAPP nella proliferazione neuronale e nella neuroptotezione, il peptide solubile Aβ nel modulare la trasmissione sinaptica, la coda citoplasmatica e la porzione transmembrana nella differenziazione cellulare, il peptide intracellulare solubile (AICD) nella trascrizione genica. Il peptide Aβ, in particolare nella sua forma Aβ42, si ritiene implicato nella neurodegenerazione, formando oligomeri, fibrille e placche ad azione tossica.

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18 Normalmente Aβ ha una struttura ad α-elica. Aβ42 monomerica, però, tende ad acquisire una conformazione a β-sheet, che la rende particolarmente incline ad associarsi con altri monomeri per formare dimeri e oligomeri. Questo evento rappresenta la fase di nucleazione dell’aggregazione, seguita dalla formazione delle protofibrille e delle fibrille mature [76] (fig. 5).

Figura 5. Rappresentazione delle due fasi di aggregazione di Aβ. La formazione degli aggregati amiloidi è

caratterizzata da due fasi: la fase di nucleazione, che è una fase lenta di aggregazione dei monomeri malripiegate in dimeri e oligomeri; la fase di allungamento, che è una fase rapida che porta alla formazione di fibrille. Il grafico rappresenta tutto il processo di aggregazione del monomero alle fibrille mature (curva verde). La curva rossa rappresenta la formazione di fibrille quando proteine malripiegate vengono aggiunte al sistema, riducendo il tempo di aggregazione.

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19 Si ritiene che l’aggregazione di Aβ sia il risultato di una aumentata produzione o di una ridotta eliminazione di Aβ. Come esistono meccanismi fisiologici per la produzione di Aβ, analogamente esistono meccanismi fisiologici di rimozione dei peptidi. Sono stati individuati due meccanismi principali:

 il primo riguarda il trasporto di Aβ, prevalentemente nella forma Aβ1-40, attraverso la barriera emato-encefalica fino alla circolazione ematica [77]; tale meccanismo di trasporto è mediato principalmente da LRP-1 (LDL receptor-related protein-1) presente sull’endotelio microvascolare cerebrale;

 il secondo riguarda la degradazione di Aβ, soprattutto della forma Aβ1-42, mediante peptidasi come NEP (neutral endopeptidase) e IDE (insulin degrading enzyme), prodotte dalla microglia e dagli astrociti [78][79].

L’APOE sembra avere un ruolo promuovente in entrembe i meccanismi [45][80].

La tossicità di Aβ è stata dimostrata, in particolare sugli oligomeri, ma anche le fibrille risultano associate a tossicità cellulare [81][82][83].

Non è ancora pienamente chiaro come gli aggregati di Aβ siano citotossici, ma si pensa che Aβ faccia un danno principalmente di tipo ossidativo che comporta apoptosi neuronale. L'induzione dell’apoptosi sembra coinvolgere la via di morte cellulare p53-Bax [84]. L’apoptosi sembra attivata dal danno ossidativo: la perossidazione lipidica causata da Aβ altera la funzione di proteine fondamentali nel metabolismo cellulare, come ATPasi, trasportatori di glucosio e trasportatori del glutammato [85]. L’alterazione di queste proteine comporta alterazioni ioniche ed energetiche, che possono indurre eccitotossicità e apoptosi [86][87][88]. È stato suggerito anche un ruolo dei mitocondri nell’apoptosi Aβ indotta: si è osservato che l'alcool deidrogenasi interagisce con Aβ nei mitocondri dei pazienti con AD e in topi transgenici [89], potenziando l'apoptosi indotta da Aβ e la generazione di radicali liberi nei neuroni. Un altro modo in cui Aβ induce potenzialmente la generazione di radicali liberi è il suo legame con metalli reattivi come il rame, con conseguente produzione di radicali idrossilici [90].

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20 È noto, inoltre, che Aβ attiva la microglia [91][92], attraverso diversi recettori, (tra cui ruolo principe è svolto da SCARA-1, CD36, TLR4 e TLR6), e gli astrociti [93], che possono, così, contribuire alla disfunzione e al danno neuronale.

1.5.2 I grovigli neurofibrillari

I grovigli neurofibrillari sono inclusioni intracellulari neuronali insolubili, presenti sia in soggetti con malattia di Alzheimer sia in soggetti con altre patologie neurodegenerative definite Taupatie. Si tratta di fasci di filamenti presenti nel citoplasma dei neuroni, dove dislocano o circondano il nucleo, con una forma a fiamma (neuroni piramidali) o globosa (cellule rotonde) e negli assoni distrofici che formano le porzioni più esterne delle placche senili. Al microscopio elettronico è evidente che i grovigli neurofibrillari sono formati da coppie di filamenti elicoidali di circa 10 nm e le analisi immunocitochimiche e biochimiche hanno mostrato che il principale componente di tali formazioni è una forma iperfosforilata di proteina Tau [94][95][48]. All’ematossilina eosina appaiono come strutture fibrillari basofile, ma si colorano più intensamente con colorazione argentica (Bielschowskj). Sono ammassi insolubili e resistenti ai processi di proteolisi in vivo, rimanendo così visibili nelle sezioni tissutali come pietre tombali, anche molto tempo dopo la morte dei neuroni.

La proteina Tau è codificata da un gene localizzato sul cromosoma 17q21 costituito da 16 esoni. Esistono diverse isoforme della proteina, espresse in stadi diversi dello sviluppo cerebrale [96]. Tau è principalmente una proteina neuronale assonale, ma sappiamo che può essere espressa anche in altri tipi di cellule (cellule gliali e cellule tumorali), nel nucleo e in particolare nel nucleolo [97], e la sua distribuzione è influenzata dalla fosforilazione [98].

Tau è una proteina associata ai microtubuli (MAP) e la sua funzione primaria è quella di stabilizzare i microtubuli [99], anche se diversi studi dimostrano la sua capacità di proteggere la cellula e il DNA dal danno ossidativo [97][100].

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21 Dopo la traduzione, Tau subisce una serie di modifiche che influiscono sulla sua funzione e che sono coinvolte anche nella patogenesi dell’AD. Tra queste, la principale è la fosforilazione. La proteina Tau fosforilata è caratteristica dello sviluppo embrionale, durante il quale controlla la dinamica dei microtubuli, mentre scompare nel periodo postnatale. Negli individui adulti Tau non è ipersforilata, ma lo diventa nei soggetti con AD, in cui tende ad aggregare nelle cellule [101][102].

La neurodegenerazione legata a Tau è il risultato sia della tossicità degli aggregati neurofibrillari che della perdita della funzione della proteina fisiologica [103]:

 gli aggregati di Tau sono citotossici [104], e compromettono le funzioni cognitive [105][106];

 la perdita della funzione di Tau compromette la stabilità dei microtubuli, alterando il trasporto lungo l'assone [107]. L'inibizione del trasporto provoca diminuzione del metabolismo glucidico e lipidico, riduzione della sintesi di ATP, e squilibrio del Ca2+, che portano a loro volta a un processo di degenerazione distale [108][109].

Nell’AD, inoltre, Tau iperfosforilato non solo si accumula nelle cellule, ma è secreto nell’ambiente extracellulare, potendo diffondere a cellule adiacenti. Inizialmente questa secrezione è stata considerata come il rilascio di Tau da parte di cellule morte [110]; successivamente è stato suggerito che la secrezione extracellulare di Tau possa essere un modo per la cellula di eliminare l'eccesso di proteina Tau dannosa [110].

1.5.3 Glia e neuro-infiammazione

Il concetto del coinvolgimento della glia nella malattia di Alzheimer nasce dalla stretta relazione spaziale tra le popolazioni gliali e le placche di Aβ [111]. Per anni la neuro-infiammazione associata ad AD è stata vista solo come una risposta fisiologica passiva ad eventi patologici. Studi recenti, però, hanno riconosciuto un ruolo più centrale del sistema immunitario nella patogenesi della malattia [112], che, alla stregua di placche amiloidi e grovigli neurofibrillari, si ritiene implicato nella progressione e nella severità

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22 della malattia [113]. A testimonianza di questo vi è il fatto che mutazioni di geni che codificano per molecole del sistema immunitario, tra cui TREM2 [114] e CD33 [115] [116] sono associate alla malattia di Alzheimer.

La microglia risulta attivata nella AD, come dimostrato dall’espressione di molecole MHC di classe II sulla microglia nei pressi delle placche [117][111], e da cambiamenti morfologici associati all’attivazione della microglia [118], consistenti in una retrazione dei prolungamenti e in un ingrandimento del soma per acquisire una forma attivata "ameboide", l'unica forma ritenuta in grado di reagire [119]; tuttavia oggi sappiamo che esistono diversi fenotipi della microglia, ai cui estremi abbiamo un fenotipo pro-infiammatorio e un fenotipo anti-pro-infiammatorio, in base al microambiente di attivazione [120][121] (fig. 6).

Gli astrociti risultano reattivi e ipertrofici [122][123], con aumentata espressione della proteina fibrillare acida della glia (GFAP) e cambiamenti morfologici [124].

Microglia e astrociti sono la principale fonte sia di citochine, che producono e alle quali rispondono, e che potrebbero essere implicate nella disfunzione neuronale ancor prima dei cambiamenti strutturali dei neuroni, che di ossido nitrico, responsabile di stress ossidativo [125][126]. Tuttavia il ruolo di microglia e astrociti nella AD è ancora poco noto: in letteratura vi sono dati contrastanti, taluni a favore di un contributo al danno, altri a favore di una azione protettiva, il che potrebbe dipendere dal fatto che l’attività di queste cellule potrebbe essere influenzata sia dal background genetico (dati diversi si sono ottenuti in topi con diverso genotipo) che da fattori ambientali (infiammazione sistemica [127], obesità [128], trauma cranico [129][130]).

Il ruolo della microglia nella neurodegenerazione è stato sostenuto da diversi studi in cui si è osservato che nei pazienti con AD vi un aumento del rilascio di fattori immunitari pro-infiammatori da parte della microglia, come IL-1 [131][131][132] e i fattori del complemento [133], e che un aumento di molecole pro-infiammatorie ad azione neurotossica si verifica dopo stimolazione con Aβ in vitro [134][135][136]. I livelli di agenti pro-infiammatori sono stati associati alla progressione della demenza e

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23 al passaggio da MCI a demenza [137]. Più di recente si è anche osservato che riducendo la microglia con l’inibizione del recettore del CSF1, principale fattore di sostegno della microglia stessa in topi adulti 5xfAD, pur non avendo riduzione di Aβ aggregata, si ha nuovamente gemmazione delle spine dendritiche perse e prevenzione di ulteriore morte cellulare [138].

D’altro canto il ruolo protettivo della microglia nella neurodegenerazione è suggerito da studi in cui si evidenzia la funzione della microglia nell’eliminazione di Aβ, in vitro [139], e in vivo [140]. La microglia è implicata nella fagocitosi di Aβ, che risulta ridotta in seguito a mutazione di geni coinvolti nella fagocitosi, come TREM2, con aumentato rischio di AD [114]. La microglia produce peptidasi extracellulari, come la nepresilina e l’IDE, che degradano i peptidi solubili di Aβ [78]. La microglia attiva il complemento, che sembra avere un ruolo importante nella clearance di Aβ, dal momento che in topi transgenici per l’APP che sono carenti del fattore C3 del complemento, si osserva in una maggiore deposizione di placche amiloidi [141].

Il ruolo degli astrociti come fonte di danno è stato suggerito da studi nei quali in risposta ad una degli astrociti nei topi transgenici APP/PS1 si è osservata una riduzione del carico di placche e un miglioramento dell’aspetto cognitivo [142].

L’azione protettiva, invece, è stata ipotizzata da studi che dimostrano la capacità degli astrociti di internalizzare e degradare Aβ in vivo [143], e il coinvolgimento degli stessi nell’eliminazione di peptidi solubili di Aβ nel drenaggio paravenoso, attraverso l’acquaporina 4 [144].

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Figura 6: Meccanismi di attivazione della microglia. Le funzioni fisiologiche della microglia includono la

sorveglianza dei tessuti e il rimodellamento sinaptico, funzioni compromesse quando la microglia è attivata in modo esagerato. La risposta infiammatoria acuta ha un ruolo protettivo nel ristabilire l’omeostasi. Quando la risposta infiammatoria diventa cronica, però, la perpetua produzione di citochine pro-infiammatorie e la perdita delle funzioni fisiologiche della microglia possono causare degenerazione neuronale.

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25 1.6 L’ipotesi colinergica

Il principale sistema colinergico nel sistema nervoso centrale è quello del prosencefalo basale (basal forebrain). Esso sembra regolare funzioni quali l’attenzione [145][146], la memoria e l’apprendimento [147][148] che vengono gravemente compromesse in diverse patologie neurodegenerative quali l’AD [149][150][151]. Il prosencefalo basale si presenta come un insieme di diverse strutture situate sulle superfici mediali e ventrali degli emisferi cerebrali; ad esso appartengono il setto mediale (MS), le branche orizzontali (HDBB) e verticali (VDBB) della banda diagonale di Broca e il nucleo basale magnocellulare di Meynert (NBM).

La parte più rostrale di questo sistema proietta le sue fibre alla corteccia cingolata ed entorinale, zone ritenute fondamentali nei processi di memoria ed attenzione, e alle zone CA1 e CA3 e del giro dentato dell’ ippocampo tramite la via setto-ippocampale [152]; lesioni chirurgiche di tale via determinano, infatti, nel ratto performance deficitarie in vari test comportamentali [153].

I neuroni colinergici del NBM innervano in maniera diffusa la neocorteccia e l’amigdala [154].

L’ippocampo è una struttura cerebrale strettamente connessa al consolidamento della memoria. Come già accennato riceve input colinergici e gabergici dal MS attraverso la via setto-ippocampale ed è sede di importanti fenomeni legati all’apprendimento e alla memoria, il più noto dei quali è nominato Long Term Potentiation (LTP) [155].

Nei primi anni ottanta Bartus introdusse la cosiddetta “ipotesi colinergica nella disfunzione mnestica dell’anziano” [156]. Cruciale per la formulazione di questa ipotesi furono gli studi post mortem effettuati sui cervelli dei pazienti affetti da AD: in corteccia e ippocampo si riscontrò una perdita pari al 60-90% della Colina acetil-transferasi (CAT), l’enzima deputato alla sintesi della acetilcolina (ACh), e una riduzione altrettanto significativa (30-90%) dei neuroni colinergici del nucleo basale del Meynert [157][158]. Ancora più interessante fu scoprire che queste deplezioni correlavano positivamente col grado di severità del deficit cognitivo esibito dai pazienti in vita

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26 [159]. Sebbene l’importanza della funzione colinergica nei processi di apprendimento e memoria fosse nota fin dagli inizi degli anni settanta [160], studi successivi di carattere farmacologico dimostrarono, nei primati, come il blocco della trasmissione colinergica determinasse un calo delle capacità cognitive molto simile a quello osservato nelle persone colpite da demenza [161]. Ulteriori studi dimostrarono che la somministrazione di sostanze colino-mimetiche riduceva fortemente le difficoltà mnemoniche nei pazienti di AD [162][163].

Nonostante il ruolo del prosencefalo basale nella regolazione dei processi di memoria e apprendimento sia generalmente riconosciuto, tale concetto è tuttora oggetto di dibattito fra gli studiosi [164], probabilmente perché è difficile assegnare la piena responsabilità di processi cognitivi tanto complessi ad un unico sistema neurale o ad una singola area cerebrale. È attualmente noto che, sebbene il sistema colinergico del prosencefalo basale sia il primo a degenerare nella AD, la neurodegenerazione coinvolge successivamente altri sistemi neuronali [55][56].

1.7 Il dibattito sui meccanismi della malattia e l’ipotesi amiloide

La contrapposizione su quale fosse il primum movens della malattia, l’accumulo di amiloide extracellulare o la degenerazione neurofibrillare intracellulare, ha creato due campi distinti di studio, che sono rimasti separati per decenni, perché espressione di due teorie apparentemente inconciliabili: la prima attribuiva il ruolo causale ad una cascata di eventi originati dal peptide beta amiloide (Beta-Amyloid-Plaques o BAP, per cui i suoi sostenitori erano chiamati BAP-tists), la seconda alle alterazioni dovute alla iperfosforilazione della proteina tau (i sostenitori erano perciò detti Tau-ists).

Evidenze genetiche, però, hanno supportano l’idea che nella malattia di Alzheimer un ruolo fondamentale sia svolto dall’iperproduzione e dall’accumulo di Aβ. Con la scoperta che mutazioni di APP [165] e delle preseniline PS-1 e PS-2 (subunità della gamma-secretasi) [166][167], causano delle forme di Alzheimer precoci, mentre mutazioni di Tau, con iperfosforilazione della stessa, causano un altro tipo di demenza,

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27 la demenza fronto-temporale [168][169], è stata formulata “l’ipotesi amiloide”, secondo la cascata di eventi che si verifica nella AD sia imputabile al deposito di Aβ [170].

L’ipotesi amiloide [171] propone un modello in serie di causalità, in cui lo squilibrio tra la produzione e l’eliminazione di Aβ sarebbe il driver patogenetico primario che conduce a valle ad aggregazione di Aβ, iperfosforilazione di Tau e neurodegenerazione. In un primo momento si pensava che responsabili della cascata patogenetica fossero le fibrille di Aβ presenti a livello delle placche neuritiche. L’osservazione che i deficit cognitivi non correlano né temporalmente né quantitativamente con la formazione delle placche e quindi con l’accumulo di Aβ in forma fibrillare, ha portato a formulare una nuova versione dell’ipotesi nella quale il ruolo chiave della Aβ nella patogenesi della malattia sarebbe mantenuto, ma la forma patogena non sarebbe solo quella fibrillare insolubile, ma anche e soprattutto quella oligomerica solubile.

Studi in vivo e in vitro hanno supportato l’ipotesi amiloide.

Studi in vitro hanno dimostrato che Aβ, accumulandosi all’interno e all’esterno delle cellule, è in grado di:

 produrre disfunzione e morte cellulare [83]  produrre placche amiloidi [58];

 attivare microglia e astrociti [91][92][93];

 attivare tirosin-chinasi MAPK che fosforilano la proteina Tau nei residui tipici della malattia di Alzheimer (Ser 262 e Thr 231) [172].

Studi su animali hanno contribuito a dare valore all’ipotesi amiloide: l’infusione intraventricolare di peptidi Aβ (Aβ1-42 e Aβ25-35) nel ratto provoca un progressivo danno neuronale nell’ippocampo e una significativa riduzione dell’attività dell’enzima CAT in ippocampo e striato [173]; l’iniezione di peptidi Aβ (Aβ1-40 e Aβ1-43) nel giro dorsale del ratto causa la comparsa di aggregati amiloidi extracellulari, astrocitosi reattiva, microgliosi, perdita cellulare, e deficit nel test working memory [174][175], animali transgenici portatori di mutazioni a carico di APP e preseniline, mostrano

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28 neurodegenerazione simili-AD. Le caratteristiche neurochimiche e strutturali mostrate da questi modelli sono molto simili a quelle che caratterizzano i pazienti con AD, prime fra tutte i depositi di peptide amiloide e le placche, la distrofia neuritica, l’ astrocitosi e la microgliosi reattiva [176][177], mentre è più difficile osservare in tali modelli la perdita di proteine sinaptiche e dendritiche o anomalie a carico dello stato di fosforilazione della proteina tau [178].

1.8 Il “fallimento” dell’ipotesi amiloide

Nonostante la forza dell’evidenza genetica, l’ipotesi amiloide, almeno nella sua forma attuale, risulta non pienamente esplicativa della patogenesi della malattia di Alzheimer: basti pensare che nessuna strategia terapeutica basata su tale ipotesi è risultata efficace nel trattamento della malattia, tra cui l’uso di anticorpi umani ricombinanti anti-Aβ [179] tramite immunizzazione attiva o passiva. Uno studio, tra i tanti, documenta gli effetti a lungo termine della vaccinazione attiva contro Aβ42 [180]: la sperimentazione clinica è stata interrotta per l’insorgenza di meningoencefalite letale in un piccolo numero di soggetti, ma sui pazienti che non hanno avuto gli effetti negativi, non ci sono stati significativi impatti sulla neurodegenerazione. Sono state date diverse spiegazioni a riguardo. Una di queste sostiene che Aβ agisca come un "trigger" iniziale di eventi a valle, e quindi, una volta avviata, la neurodegenerazione possa continuare a progredire anche se i livelli di Aβ vengono ridotti [181]. Un’altra sostiene che la ragione del fallimento dell’immunoterapia risieda nel fatto che le forme neurotossiche di Aβ sono gli oligomeri, e nel fatto che questi non vengono antagonizzati dagli anticorpi anti Aβ [182].

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29 2 IL FATTORE DI CRESCITA NEURONALE E I SUOI RECETTORI

2.1 Il fattore di crescita neuronale

Il fattore di crescita neuronale (NGF) appartiene alla famiglia delle neurotrofine insieme al fattore di derivazione cerebrale (BDNF), alla neurotrofina 3 (Nt3) e alla neurotrofina 4 (NT4), fattori in grado di influenzare lo sviluppo, il mantenimento delle funzioni biologiche e la rigenerazione dei neuroni. Le neurotrofine derivano da un gene ancestrale comune e sono simili per sequenza e struttura [183].

L’NGF è stato il primo di questi fattori ad essere caratterizzato, scoperto nel corso di una ricerca sui fattori di sopravvivenza [184] effettuata da Hamburger. Impiantando cellule di sarcoma murino 180 in embrioni di pollo, Hamburger notò che dopo cinque giorni dall’impianto i gangli sensitivi e simpatici adiacenti al tumore erano andati incontro ad un considerevole aumento di sviluppo [185]. Tali osservazioni indussero Rita Levi Montalcini ad ipotizzare che il tumore fosse in grado di rilasciare un fattore chimico, il futuro NGF, capace di indurre un’azione stimolante sulle cellule nervose sensitive e simpatiche dell’embrione di pollo, agendo per via umorale [185]. Grazie all’aiuto di Cohen, si scoprì che l’NGF è una proteina, presente nel veleno di cobra [186] e nelle ghiandole salivari del topo [187][188]. Cohen, isolando tale proteina, produsse un antisiero che iniettato in colture cellulari causava inibizione della crescita neuronale, e iniettato nel topo comportava atrofia e distruzione dei neuroni simpatici [187].

2.2. I recettori del fattore di crescita neuronale

Il fattore di crescita neuronale, come le altre neurotrofine, è sintetizzato come prepro-proteina [189], successivamente scissa nel reticolo endoplasmatico in pro-prepro-proteina e nell’apparato di Golgi in NGF maturo (26 Kda), ad opera dell’enzima furina. L’NGF maturo viene, quindi, secreto nello spazio extracellulare [190][191][192].

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30 Anche il pro-peptide può essere secreto nello spazio extracellulare e clivato a NGF maturo solo successivamente, ad opera della furina e di altre proteasi presenti nell’ambiente extra-cellulare, come la plasmina e le metallo-proteasi della matrice [193][194].

I recettori cui si lega l’NGF appartengono a due famiglie differenti.

Il recettore p75NTR, recettore storico per eccellenza dell’NGF, è il recettore a bassa affinità di legame dell’NGF, e appartiene alla famiglia dei recettori del tumor necrosis factor (TNF) [195]. Si tratta di un recettore non dotato di attività enzimatica, costituito da un dominio extracellulare ricco in cisteina coinvolto nel legame con le neurotrofine, una regione transmembrana, e un dominio intracellulare tipico della famiglia dei recettori del tumor necrosis factor, che contiene il cosiddetto dominio di morte [196]. Il recettore TrkA, scoperto in seguito e isolato nel 1986 come oncogene umano da un carcinoma al colon, è il recettore ad alta affinità di legame dell’NGF. Il gene che codifica per questo recettore è localizzato sul cromosoma 1 (1q21-22) e codifica per una famiglia di recettori tropomiosina-chinasi, di cui esistono 3 isoforme: TrkA, TrkB e TrkC, di cui TrkA è specifico per l’NGF [197][198]. Si tratta di un recettore ad attività tirosin-chinasica, costituito da una porzione extracellulare coinvolta nel legame con il ligando formata da 5 domini (d2 è ricco in leucina, d1 e d3 presentano cluster di cisteina, d4 e d5 presentano i domini immunoglobulinici), una porzione transmembrana costituita da una singola alfa-elica idrofobica, e una porzione intracellulare con attività tirosin chinasica, che possiede un sito di attacco per l’adenosina-trifosfato (ATP). Il legame con il ligando provoca un cambiamento conformazionale dell'N-terminale del recettore che, causando la dimerizzazione dei domini extracellulari, permette la diffusione laterale dei domini citoplasmatici, consentendo quindi il contatto tra i C-terminali e attivando l'attività chinasica [199]. L’attivazione dell’attività chinasica, produce fosforilazione in specifici siti amminoacidici che rappresentano la zona di ancoraggio per i trasduttori intracellulari [196].

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31 I meccanismi di trasduzione del segnale NGF/recettore sono stati in parte individuati [200][201].

L’NGF si lega sia ai singoli omodimeri del TrkA e del p75NTR, che al complesso formato dai due recettori (eterodimero) [197]. Dopo la scoperta del TrkA, dotato di attività tirosin-kinasica e di una trasduzione del segnale all’interno della cellula altamente complessa, al p75NTR è stato dato un ruolo secondario nel legame con l’NGF [202]. Solo recentemente si è giunti alla conclusione che il legame ad alta affinità dell’NGF con il suo TrkA richiede la coespressione di entrambi i recettori [203].

Figura 7. Descrizione delle principali vie di segnalazione intracellulare attivate dai recettori Trk e

p75NTR. Il recettore p75NTR regola tre principali vie di segnalazione: 1) la via del fattore NF-kB, implicata nella trascrizione di geni multipli, tra cui alcuni che promuovono la sopravvivenza neuronale; 2) la via della chinasi c-jun, che controlla la trascrizione di diversi geni, alcuni dei quali promuovono l'apoptosi neuronale; 3) via del fattore RhoA, che controlla la crescita del cono motilità. Le azioni pro-apoptotiche di p75NTR sembrano richiedere la presenza del corecettore sortilina, che funziona come un co-recettore per le neurotrofine, e che nella figura non è rappresentato. Anche il recettore Trk controlla tre importanti vie di segnalazione: 1) la via di Ras/MAP chinasi, che promuove la differenziazione neuronale; 2) la via della fosfatil inositolo-3-chinasi/Akt, che promuove la sopravvivenza e la crescita di neuroni e altre cellule; 3) la via della fosfolipasi C (PLC-γ1), che promuove la plasticità sinaptica. Ciascuna di queste vie di segnalazione regola anche la trascrizione genica. Le interazioni tra i recettori Trk e p75NTR non sono rappresentate in questa figura.

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32 Oggi si sa che il legame dell’NGF al recettore TrkA attiva la trasduzione di segnali di sopravvivenza e differenziativi, mentre il legame al recettore p75NTR modula l'affinità e la selettività del recettore TrkA [204]. Il legame del pro-NGF al p75NTR col co-recettore sortilina [205], invece, avvia segnali che si traducono nella neuro-degenerazione e nella morte cellulare [206], in particolare attraverso l’attivazione della cascata di c-jun. Tuttavia le cose sono più complesse, in quanto è stato dimostrato che il co-recettore sortilina può anche associarsi al TrkA. Questa interazione faciliterebbe il trasporto assonale anterogrado del TrkA e la sua esposizione sulla membrana plasmatica, con il risultato di aumentare il segnale di maturazione indotto dall’NGF [207]. L’azione biologica dell’NGF, inoltre, si esplica attraverso il flusso retrogrado assonale, mediante il quale l’NGF, captato dalle terminazioni nervose, raggiunge il corpo cellulare muovendosi con una velocità di 2,5 mm/ora lungo l’assone [208].

2.3 Il signaling NGF/TrkA

Il legame dell’NGF al recettore TrkA media segnali di sopravvivenza e differenziazione attivando almeno 3 vie di trasduzione del segnale attraverso il suo dominio tirosin-chinasico [204] (Fig. 7):

 RAS/MAP chinasi/ERK

 fosfatidil inositolo-3-chinasi (PI3K)/Akt

 fosfolipasi C (PLC-γ1)/inositolo-3-fosfato (IP3)/diacilglicerolo.

L’azione nella sopravvivenza e nella maturazione neuronale dell’NGF è evidente soprattutto durante lo sviluppo embrionale, e si esplica su popolazioni neuronali che esprimono TrkA e p75NTR: nel sistema nervoso periferico (SNP) neuroni sensitivi e simpatici [209][199][210], e nel sistema nervoso centrale (SNC) neuroni colinergici del proencefalo basale e, in minor parte, dello striato [211].

Topi omozigoti knockout per TrkA (TrkA /) e topi omozigoti Knockout per NGF (NGF -/-) mostrano gravi neuropatie sensoriali e simpatiche, per perdita di neuroni nei gangli

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33 del trigemino, simpatici e delle radici dorsali, [212], e deficit cognitivi per perdita di neuroni nel sistema colinergico del proencefalo basale [213][214].

Questo a dimostrazione del fatto che TrkA è il mediatore primario delle azioni trofiche dell’NGF in vivo e che questa via di segnalazione svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo sia del SNP che del SNC [212].

Topi eterozigoti Knockout per TrkA (TrkA +/-) non hanno mostrato significativi deficit [214]. Tuttavia il loro studio andrebbe approfondito.

Il signaling NGF/TrkA, inoltre, media la germinazione dell’assone e l’avanzamento del cono di crescita [215][216].

Una volta maturi, la maggior parte dei neuroni perde la dipendenza dai fattori di crescita per la sopravvivenza in acuto e, l’NGF in età adulta ha azioni pleiotropiche, su varie cellule. Risulta, infatti, implicato nel mantenere il fenotipo dei neuroni colinergici del prosencefalo basale [217], nel modulare la funzione dei neuroni sensitivi [218], nella plasticità sinaptica dei neuroni NGF-responsivi (in particolare dei neuroni nocicettivi) [219][220] e nella neuroprotezione [215][216]. Studi più recenti indicano anche un ruolo immunitario e infiammatorio [221][217].

2.4 Il signaling NGF/p75NTR

Il legame dell’NGF al recettore p75NTR, attiva almeno tre pattern di segnalazione intracellulare [204] (fig. 7):

 la via del fattore nucleare NF-kB  la via della chinasi c-Jun

 la via del fattore RhoA.

Il segnale di p75NTR è, anzitutto, importante per modulare l'affinità e la selettività del recettore TrkA [204]. Mentre l’interruzione della via di segnale NGF/TrkA induce morte dei neuroni [212][214], l’interruzione del gene per p75NTR ha mostrato effetto scarso o nullo sul numero dei neuroni: in topi transgenici in cui è interrotto il gene per p75NTR è stato osservato, anzi, un aumento del numero di neuroni simpatici. Tale

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34 evento potrebbe avere due possibili spiegazioni: una è che il segnale NGF/p75NTR agisce come un freno sullo sviluppo dei neuroni simpatici; l’altra è che l'alterazione del gene per p75NTR consente il signaling NT-3/TrkA che promuove lo sviluppo dei neuroni simpatici. La sostituzione dell’NGF con NT3 suggerisce che p75NTR ha un ruolo nella selettività dell’attivazione di TrkA [199].

E’ stato dimostrato, inoltre, che p75NTR può indurre l’apoptosi di numerose tipi cellulari: neuroni sensitivi, neuroni simpatici, neuroni colinergici del proencefalo basale, cellule della retina, oligodendrociti [77]. Tale azione si esplica quando il proNGF lega il p75NTR e il co-recettore sortilina [222], allorquando vengono avviati segnali che si traducono nella neurodegenerazione e nella morte cellulare [206].

Sui neuroni sensitivi è stato visto che p75NTR è richiesto durante l’embriogenesi, probabilmente insieme a TrkA, per garantire la sopravvivenza neuronale in presenza dell’NGF, ma nel periodo postnatale agisce come un segnale di morte costitutiva in assenza dell’NGF [223][224].

Sui neuroni simpatici la morte cellulare è innescata da una mancata attività della via di segnale NGF/TrkA e dalla presenza della via di segnale di p75NTR [215].

Sui neuroni colinergici del proencefalo basale il recettore p75NTR può indurre la morte cellulare, e infatti la sua assenza determina un aumento del numero e delle dimensioni di questi neuroni [225][220].

Oligodendrociti che esprimono p75NTR vanno incontro a morte programmata, in seguito all’attivazione della via di segnale della kinasi c-jun [226][227].

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35 3 NGF E MALATTIA DI ALZHEIMER

3.1 Lo squilibrio proNGF/NGF e TrkA/p75NTR nella AD

I risultati negativi sul trattamento anti-Aβ hanno spinto a rivedere l’ipotesi amiloide e a ricercare un nuovo modello patogenetico che possa giustificare i vari eventi che accorrono nella malattia di Alzheimer, in particolare nella sua forma sporadica, dal momento in cui l’ipotesi amiloide, basata su dati genetici della forma familiare di AD, è stata estesa alla forma sporadica perché caratterizzate dallo stesso fenotipo clinico e neuropatologico.

In questa ottica è stato considerato il possibile ruolo delle neurotrofine, in particolare dell’NGF, nella patogenesi della malattia, ipotizzando che alterazioni nella processazione o nel signaling della neurotrofina attraverso i suoi recettori potrebbe essere il trigger a monte responsabile a valle del deficit colinergico, della formazione delle placche di β-amiloide e dell’iperfosforilazione di Tau, eventi che si verificherebbero in parallelo piuttosto che in serie, ognuno con un ruolo importante nella perdita sinaptica e neuronale: è questo il cosiddetto “modello neurotrofico” [228] (fig. 8).

Figura 8. La figura schematizza la cosiddetta “Tripla ipotesi”: il deficit di NGF potrebbe essere il trigger a

monte dei diversi eventi che si verificano a valle nella malattia di Alzheimer.

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36 Il fattore di crescita neuronale (NGF) inizialmente è stato collegato alla malattia di Alzheimer [229] su base puramente correlativa, dal momento in cui nella malattia di Alzheimer si ha una degenerazione dei neuroni colinergici del prosencefalo basale, neuroni che proiettano alla corteccia e all’ippocampo, implicati nelle funzioni cognitive, e l’NGF è fondamentale per lo sviluppo, la sopravvivenza e l’attività biologica di questa popolazione cellulare [230]. L’NGF promuove la differenziazione dei neuroni colinergici del prosencefalo basale[231], migliora le lesioni indotte su queste cellule [215], inverte l'atrofia delle stesse [232] e il deficit di memoria spaziale in ratti anziani [233].

In seguito alla connessione correlativa tra l’NGF e la AD, diverse evidenze hanno supportano il possibile ruolo dello squilibrio NGF/proNGF e TrkA/p75 nella malattia di Alzheimer.

L’NGF viene prodotto a livello della corteccia e dell’ippocampo e viene trasportato in maniera retrograda ai neuroni colinergici del prosencefalo basale. Nella malattia di Alzheimer non è alterata l’espressione di NGF, ma nel cervello di soggetti morti con Alzheimer sono riscontrati aumentati livelli di NGF e proNGF nella corteccia e nell’ippocampo, ridotti livelli di NGF nel prosencefalo basale [234], e ridotti livelli di TrkA ma non di p75NTR nella corteccia [235]. Si pensa, dunque, che nella AD ci sia un ridotto supporto trofico da parte dell’NGF sui neuroni del prosencefalo basale a causa del ridotto trasporto retrogrado dell’NGF stesso. Di fatto questa riduzione del trasporto retrogrado dell’NGF, TrkA-dipendente, può spiegare la perdita dei neuroni colinergici del prosencefalo basale che si osserva nella malattia.

Nei soggetti con malattia di Alzheimer, utilizzando il Western blotting, è stato dimostrato un aumento del proNGF nella corteccia parietale, rispetto ai controlli, indicando che questa forma della neurotrofina si accumula nella malattia di Alzheimer [236][237]. Il proNGF ha una maggiore affinità per il recettore p75NTR e una più bassa affinità per il recettore TrkA rispetto a NGF maturo, per cui nella AD potrebbe prevalere il signaling proNGF/p75NTR con successivi segnali di morte cellulare [238].

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37 L’immunoblotting quantitativo di cinque regioni corticali (cingolo anteriore, frontale superiore, superiore temporale, parietale inferiore, e la corteccia visiva) in soggetti senza deterioramento cognitivo (NCI), con decadimento cognitivo lieve (MCI), e con malattia di Alzheimer lieve-moderata-grave, ha dimostrato livelli di p75NTR stabili in tutti i gruppi, e livelli di TrkA ridotti di circa il 50% nei soggetti con malattia di Alzheimer lieve-moderata-grave rispetto ai soggetti senza deterioramento cognitivo o con decadimento cognitivo lieve. La riduzione dei livelli corticali di TrkA rispetto al p75NTR può avere conseguenze importanti per la funzione colinergica [222].

3.2 Modelli murini che supportano lo squilibrio proNGF/NGF e TrkA/p75NTR nella AD

Che lo squilibrio proNGF/NGF e TrkA/p75NTR possa avere un ruolo nella patogenesi della malattia di Alzheimer è stato evidenziato da diversi modelli murini caratterizzati da inibizione o soppressione della funzione dell’NGF e dei suoi recettori.

3.2.1 I topi AD11

I topi AD11 sono topi transgenici che esprimono anticorpi neutralizzanti anti-NGF, gli anticorpi mAbaD11, nel cervello, e sono la prima dimostrazione che il deficit dell’NGF potrebbe avere un ruolo nella AD [239][240]. Questi topi esprimono gli anticorpi anti-NGF principalmente in età adulta, dopo un normale sviluppo del cervello, per cui rappresentano un ottimo modello per lo studio di una patologia cronica come la malattia di Alzheimer, a differenza dei topi NGF knockout omozigoti che muiono precocemente [241]. I topi AD11 mostrano: compromissione della memoria [239][242][240]; degenerazione dei neuroni colinergici del prosencefalo basale, che parte da 2 mesi di età, progredisce fino a 6 mesi di età, e rimane stabile successivamente [239][243][244]; iperfosforilazione di Tau con formazione di aggregati, a partire da due mesi di età, che comincia dalla corteccia entorinale [50][245], e al microscopio elettronico appaiano morfologicamente simili a quelli che si

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38 trovano nel cervello di soggetti con la AD [245]; accumuli di Aβ, a partire da 6 mesi di età, innanzitutto intracellulari, localizzati nei neuriti distrofici dell'ippocampo [245], nei topi più anziani anche extracellulari, sotto forma di placche senili [246].

È interessante notare che nei topi AD11 la deposizione di Aβ si verifica in seguito ad un alterata processazione dell’APP endogena. Questa osservazione permette di definire i topi AD11 come un modello per la forma sporadica della AD, in opposizione ad altri topi transgenici che sovra-esprimono forme mutate di APP umana [247].

Iniezioni intranasali di NGF nei topi AD11, eseguite nelle fasi lievi e moderate della neurodegenerazione, caratterizzate da perdita di neuroni colinergici, accumulo intracellulare di Tau iperfosforilato, aggregazione di Aβ e deficit comportamentali, revertono il deficit colinergico, la sovraespressione di Tau iperfosforilato, gli accumuli di Aβ [248] e i deficit comportamentali [242].

I topi AD11 dimostrano che alterazioni nella segnalazione dell’NGF comportano neurodegenerazione simil-AD.

La neurodegenerazione sarebbe legata al fatto che gli anticorpi usati, gli anti-NGF mAbαD11, legano preferenzialmente l’NGF maturo, comportando una riduzione dell’NGF maturo e un aumento del proNGF, il quale interagendo con il complesso recettoriale p75NTR/sortilina, attiverebbe i meccanismi di neurodegerazione e amiloidogenesi [247].

In aggiunta a tale meccanismo, la neurodegenerazione potrebbe essere legata anche all’espressione di un anticorpo nel cervello, che potrebbe indurre neuroinflammazione e squilibrio immuno-trofico [249].

3.2.2. I Topi MNAC13

L’anticorpo monoclonale mAbMNAC13, primo anticorpo anti TrkA con dimostrate proprietà antagoniste nei sistemi biologici, è un anticorpo diretto contro il recettore TrkA, che inibisce efficacemente il legame dell’NGF a cellule che esprimono il recettore TrkA umano o di ratto [250], legandosi al dominio extracellulare di TrKA, in vitro e in

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39 vivo [251] [252]. Si tratta di anticorpi estremamente specifici, che legano solo TrkA, mentre non legano TrkB e TrKC, né p75NTR [250][253]. Partendo dagli anticorpi MNAC13, sono stati realizzati topi transgenici che esprimo anticorpi neutralizzanti anti-TrkA mAbMNAC13 [251] con l’approccio del “neuro-antibody” [254][255]. A differenza dei topi omozigoti per TrkA knockout [212], i topi MNAC13 nascono normalmente e si sviluppano fino all’età adulta, in quanto esprimono gli anticorpi anti-TrkA principalmente in età adulta, nel cervello e anche in altri tessuti come la milza [255]. I topi MNAC13 mostrano [255]: compromissione della memoria visiva e di lavoro più precoce rispetto ai topi AD11; degenerazione dei neuroni colinergici del prosencefalo basale, a partire da due mesi d’età, con una perdita di neuroni superiore rispetto a quella osservata nei topi AD11 della stessa età; accumuli di Aβ nell’ippocampo, a partire da 14 mesi, sia intra che extracellulari, più tardivi e in numero inferiore rispetto ai topi AD 11 della stessa età; assenza di iperfosforilazione e localizzazione anomale di Tau.

I topi MNAC13 dimostrano che l’assenza del segnale di TrkA comporta neurodegenerazione simil-AD, e suggeriscono che la riduzione del segnale NGF/TrkA [255] ha un ruolo nella amiloidogenesi.

3.2.3 I topi AD12

I topi AD12 sono topi ottenuti dall’incrocio dei topi AD10, che esprimono anticorpi anti--NGF (esprimono anticorpi anti-NGF a livello sistemico, hanno un fenotipo che può essere sovrapposto a quello osservato nei topi AD11 [256], ma sono allevati più facilmente rispetto ai topi AD11 e quindi sono più adatti per esperimenti di incrocio), con i topi omozigoti per la mutazione p75NTR exon III, mutazione che annulla la funzione del gene [257]. Si tratta, dunque, di topi omozigoti per una mutazione annullante di p75NRT e che esprimono anticorpi anti-NGF a livello sistemico.

I topi AD12 mostrano [255]: ripresa dei neuroni colinergici rispetto agli AD11, a partire dai sei mesi di età; presenza di deficit della memoria visiva e di lavoro, nonostante la

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