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Letteratura di viaggio a sfondo religioso fra Occidente e Oriente: due testi a confronto

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Academic year: 2021

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CORSO DI LAUREA IN LETTERE

Tesi di laurea

Letteratura di viaggio a sfondo religioso fra

Occidente e Oriente: due testi a confronto

Candidata

Relatore

Federica Lottini

Prof. Mauro Ronzani

Correlatrice

Prof.ssa Cecilia Iannella

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INDICE

INTRODUZIONE ... pag. 4

CAPITOLO I

“PELLEGRINAGGIO ALLE CINQUE REGIONI DELL’INDIA” di

Hyech’o ... pag. 7

CAPITOLO II

“HISTORIA MONGALORUM” di Giovanni da Pian del Carpine .... pag. 30

CAPITOLO III

DUE TESTI A CONFRONTO ... pag. 47

CAPITOLO IV

ALLARGANDO LA PROSPETTIVA: LA LETTERATURA DI

VIAGGIO ... pag. 65

CONCLUSIONI ... pag. 81

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INTRODUZIONE

Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi orizzonti ma nell’avere nuovi occhi

Marcel Proust1

L’idea di questo mio studio nasce grazie alla passione per la lingua e la cultura coreana a cui mi sono avvicinata negli ultimi anni.

Sono sempre stata affascinata dalle culture orientali, così lontane e diverse dalla nostra. Decisa ad approfondire la conoscenza volevo frequentare un corso di lingua giapponese ma durante la presentazione ho avuto modo di conoscere l’insegnante di lingua coreana e per la prima volta ho sentito il suono dolce e

particolare della lingua 안글 (Hangul2). La curiosità verso questo

1 Aforisma di Marcel Proust, Parigi 1871 – Parigi 1922. 2 Alfabeto fonetico della lingua coreana.

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paese sconosciuto mi ha portato ad avvicinarmici, ad ascoltarne la musica, vedere film e drama3, e a leggere libri sulla loro storia.

Da qui l’incontro con il monaco Hyech’o, grazie alla traduzione del Professor Maurizio Riotto, di “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India”.

L’idea che un’impresa così importante fosse rimasta sconosciuta per tanto tempo mi ha spinto a voler scrivere questa tesi, confrontando il diario di viaggio del monaco coreano con l’occidentale “Historia Mongalorum”, scritta dal frate francescano Giovanni da Pian del Carpine.

Entrambi i testi sono stati scritti a seguito di un viaggio mosso da motivi religiosi e, seppur lontani temporalmente e geograficamente, presentano delle similitudini che volevo mettere in evidenza, così come delle differenze sostanziali.

Poter accostare il medioevo europeo al medioevo coreano, di cui, purtroppo, si è perso moltissimo a seguito delle guerre che negli anni hanno colpito il paese, era una sfida che ho provato ad accettare.

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Per il lavoro di ricerca sono partita dalle opere principali e ho continuato con manuali storici per poter contestualizzare temporalmente gli scritti.

La difficoltà maggiore di questo lavoro è stata la mancanza di testi sull’impresa di Hyech’o e, in generale sulla storia della Corea. Il testo del professor Riotto è stata la mia fonte principale per le informazioni sull’impresa del monaco.

L’elemento che unisce le due opere è il viaggio poiché entrambi gli autori si sono recati in terre lontane.

Entrambi hanno raccontato tutte le fasi del loro viaggio intrapreso a scopo religioso.

Entrambi hanno incontrato popoli e culture a loro sconosciute. Entrambi hanno parlato di esse.

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CAPITOLO I

“PELLEGRINAGGIO ALLE CINQUE REGIONI

DELL’INDIA” di Hyech’o

Nel marzo del 1908 il linguista ed esploratore francese Paul Pelliot4 scopre a Dunhuang5, in Cina, il frammento di un

manoscritto rimasto in quel luogo per molti secoli. Da quel momento il nome di Hyech’o esce dall’anonimato grazie alla sua opera: “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” in cui descrive il suo viaggio compiuto alla scoperta dei luoghi sacri del Buddhismo.

Si ritiene che il nome Hyech’o di Silla fosse il nome assunto da questo monaco buddhista dopo i voti, mentre non è noto il suo nome da laico.

Nato a Silla intorno al 700, Hyech’o vive nel periodo di tempo che prende il nome di “Silla unificato”, termine che indica il regno di Silla dopo il 668, anno in cui grazie all’appoggio della

4 Paul Pelliot, Parigi 1878 – Parigi 1945.

5 Dunhuang è una delle più famose città culturali e storiche della Cina. È

situata all’estremità occidentale della provincia del Gansu che si estende fra l'altopiano tibetano, la Mongolia e l'altopiano desertico del Loess.

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Cina, riesce ad unificare politicamente la penisola Coreana. Il regno quindi comprendeva il territorio della penisola oggi divisa in Corea del Nord e Repubblica di Corea ed era caratterizzato da una profonda identità culturale, cosa che gli ha permesso di non essere assorbito dalla vasta e prevaricante Cina e di essere considerato un regno autenticamente coreano. Infatti la posizione geografica a sud-est della penisola gli garantisce quel distacco necessario ad evitare una contaminazione culturale ed a mantenere i propri usi e costumi.

DAI TRE REGNI A SILLA UNIFICATO

Prima di diventare lo stato unificatore della penisola coreana, il regno di Silla (신라 新羅) era, assieme a Paekche (백제 百濟) e a Koguryŏ (고구려 高句麗), uno dei tre stati coreani che nei

primi secoli si combatterono per il dominio sul territorio della penisola.

Koguryŏ (37 a.C. - 668 d.C.) comprendeva la Manciuria meridionale e la Corea settentrionale, Paekche (18 a.C. - 660 d.C.) occupava il bacino del fiume Kŭm, nella parte sud occidentale

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della penisola, mentre Silla (57 a.C. - 935 d.C.) era situato nella parte sud orientale.

I tre regni nel 576, prima della conquista da parte di Silla.6

Con il termine “Silla antico” si indica lo stato prima della sua unificazione e come si comprende dalla cartina, la sua posizione risulta svantaggiata rispetto a quella più centrale e con un territorio più vasto di Koguryŏ, in quanto lontana dal continente e di piccole dimensioni. Col tempo però questo si rivelerà un vantaggio perché, come abbiamo detto, manterrà una sua unica identità culturale con poche contaminazioni derivanti dalla Cina

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che con le sue dimensioni e la sua influenza era capace di soffocare ed inglobare le civiltà vicine.

La società sillana rimase sempre sotto la guida di una oligarchia aristocratica ma dal 520 andò sempre più burocratizzandosi e da quell’anno istituì un codice delle leggi che indicava la suddivisione dei ruoli dei funzionari pubblici e la divisione degli appartenenti all’aristocrazia in “ossa sacre” ed “ossa autentiche”. Alle “ossa sacre” appartenevano i membri della famiglia reale che potevano diventare sovrani, mentre alle “ossa autentiche” appartenevano i membri del ramo cadetto della famiglia e, forse, i membri della famiglia reale in carica che però non avevano mansioni ufficiali o vivevano lontani dalla corte.

Il manoscritto scoperto da Pelliot era composto da nove fogli arrotolati sui quali si trovavano una serie di 227 righi verticali scritti in cinese classico e si presentava quindi sia scritto dall’alto verso il basso ma anche da destra a sinistra. In quel periodo il cinese classico era considerato la lingua dotta per eccellenza in quanto permetteva la comprensione delle opere al di fuori dei confini dello stesso paese.

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Paul Pelliot sottopose il manoscritto ad un esame della carta e della grafia e stabilì che esso risaliva al IX secolo, quindi non poteva essere un’opera autografa del suo autore.

Gli studiosi inizialmente si sono concentrati sulla linguistica, attribuendo a Hyech’o una scarsa abilità in questo senso. Ma considerando che il monaco non era di madrelingua cinese e che scrisse l’opera in giovane età, questa asserzione può essere considerata troppo severa. In più, come ho detto, l’opera non è autografa quindi, molto probabilmente, la parte di prosa può essere riportata non fedelmente. La parte di poesia, invece, che ovviamente non può essere modificata nella struttura, riporta un buon livello, dimostrando anche una buona padronanza della lingua.

Tra le ipotesi da prendere in considerazione c’è anche quella che si tratti di una epitome7 ma non è possibile stabilire se questo

risponda a verità.

L’arco temporale tra il 680 e il 780, quello in cui è vissuto Hyech’o, viene considerato il secolo d’oro di Silla, che risulta essere in quel periodo una società aperta alle altre culture e, a sua

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volta, desiderosa di tramandare la propria per mezzo degli studiosi che da lì si recavano in luoghi anche lontani. Grazie a questo, Silla acquisì molte abilità nelle scienze e nelle arti ma purtroppo, a causa delle distruzioni che il territorio subì negli anni, ci rimane molto poco.

IL BUDDHISMO A SILLA

Nel territorio di Silla il culto del Buddhismo arriva molto tardi rispetto ai regni vicini. Mentre a Koguryo e a Paekche esso si sviluppa alla fine del IV secolo, Silla, geloso della sua identità, assume un atteggiamento di chiusura.

Sicuramente, data la vicinanza dei tre regni, il culto non era sconosciuto agli abitanti di Silla ma è la tradizione che ci indica l’anno della sua affermazione ufficiale, il 527, grazie al racconto di un fatto che ha come protagonista il funzionario Buddhista Ich’adon.

Per cercare di convincere i ministri del regno contrari alla diffusione della dottrina, Ich’adon chiede al re di condannarlo alla pena capitale ed afferma che, dopo la sua morte, si sarebbe verificato un miracolo che avrebbe potuto favorire l’affermazione

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del Buddhismo nel regno. Dopo la sua decapitazione, infatti, dal corpo di Ich’adon al posto del sangue uscì del latte, dal cielo caddero dei fiori e la terra cominciò a tremare. Questo evento incredibile spazzò via ogni reticenza e il culto del Buddhismo venne definitamente introdotto a Silla e vide la sua espansione durante il VII sec. con la costruzione di templi e la divisione in varie scuole.

Per far accettare il Dharma8 anche alle classi più povere, quelle

più legate ai culti locali, si cercò di trovare un legame tra Buddha e il territorio della Corea, indicando Silla come terra del Buddha sia precedente che futuro, donandole una fama di santità utile anche a tener lontani i nemici.

Tra le varie correnti si sviluppa anche quella del Buddhismo tantrico 9 , seguita da Hyech’o. Il successo che questo

insegnamento conobbe a Silla si deve principalmente all’uso delle pratiche tantriche usate soprattutto per curare il corpo e per

8 Il Dharma è la legge morale che stabilizza e governa l’universo, che indica

i doveri religiosi e sociali e quindi ciò che lo stesso Buddha ha insegnato.

9 Il Buddhismo tantrico, o vajirayana (veicolo di diamante) si afferma dopo

il secolo VII ed assorbe elementi culturali e manifestazioni ritualistiche originariamente estranee al Buddhismo. Fra queste la recitazione di mantra (formula quasi magica associata alla meditazione), la devozione a varie forme divine, tra cui anche quelle femminili, pratiche yoga e rituale iniziatico. Scomparso dall’India verso la fine del secolo XII a causa dell’invasione islamica, si affermò invece in Tibet, Cina, Corea e Giappone.

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praticare esorcismi. Questo rendeva i monaci del Buddhismo tantrico capaci di affrontare situazioni difficili, come le possessioni demoniache, che un semplice monaco non avrebbe saputo gestire.

L’opera di Hyech’o fa parte della grande produzione di testi religiosi scritti dai monaci di Silla (circa 350), come riportano i diversi cataloghi scritti successivamente.

La produzione letteraria di Silla non si ferma alle opere religiose ma spazia tra storia, letteratura, scienza e molto altro, sia in prosa che in poesia, di cui però è rimasto molto poco.

Come ho già detto, la lingua cinese era considerata la lingua dotta ma esistevano anche scritti in lingua coreana precedenti al 1443, anno della creazione dell’alfabeto nazionale, 한글

(Hangul).

Non avendo un alfabeto proprio, prima dell’Hangul, erano usati caratteri cinesi che venivano diversificati secondo il tipo di testo usando diversi tipi di scrittura. Per la prosa usavano l’idu: i caratteri cinesi venivano disposti seguendo la sintassi coreana, mentre per la filosofia era usato il kugyol: ideogrammi

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semplificati che venivano posti accanto al testo per una migliore comprensione quando l’argomento era particolarmente complesso.

Infine per la poesia che, oltre al contenuto doveva rispettare anche la metrica, era usato l’hyangch’al, metodo che consisteva nel dare ai caratteri cinesi valore ideografico o valore fonetico per rispettare le esigenze del ritmo.

Cartina con l’itinerario approssimativo di Hyech’o10.

Le poesie che ci sono rimaste sono un ulteriore esempio della multiculturalità del regno di Silla, cosa che si riscontra nei testi di ispirazione filosofica sia buddhista che confuciana, sottolineando

10 Da “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” a cura di Maurizio

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ancora di più l’apertura mentale alle diversità che ha caratterizzato questo paese.

Durante il mio corso di studio della lingua coreana (한국어), ho

avuto l’occasione di vedere vari drama prodotti nella Repubblica

di Corea (한국드라마) che, anche se dal punto di vista

dell’intreccio sono fantasiosi, quando trattano storie ambientate in epoche remote pongono molta attenzione ai dettagli storici: le scenografie e i costumi sono curati nei minimi dettagli così come le arti marziali e l’uso della spada. Una storia “di fantasia” si inserisce su uno sfondo pienamente corrispondente alla realtà storica.

I drama storici rivelano così un profondo attaccamento alle origini e alla cultura che, a mio parere, accomuna gli abitanti di Silla ai sud-coreani di oggi. In questi ultimi anni la crescita economica della Repubblica di Corea ricorda l’ascesa del regno di Silla verso il regno di Silla Unificato. Questa crescita, sia di Silla sia della Repubblica di Corea di oggi, potrebbe sembrare abbastanza imprevedibile se si pensa alla posizione geografica di entrambe: il piccolo Silla con la grande Cina incombente su di lui

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e la Corea del Sud, separata dal continente dall’ostile vicina di casa, l’omonima Corea del Nord.

Il posto di tutto rispetto conquistato nello scenario tecnologico internazionale va di pari passo alla diffusione della sua storia e della sua cultura: la musica k-pop (pop coreano) e il già citato mondo dei drama stanno catturando l’attenzione di giovani in tutto il mondo, generando curiosità intorno a tutto ciò che li riguarda. Oggi come allora il profondo attaccamento dei coreani alla propria identità culturale, la determinazione e la voglia di emergere sono stati ingredienti fondamentali al raggiungimento di una tale posizione. Oggi come allora la strategia coreana di puntare sull’istruzione si è rivelata una mossa vincente: oggi, fin dalla scuola primaria, viene unito un grande interesse per la tecnologia e per i media internazionali allo studio storico delle proprie origini; allora i monaci di Silla, anche quando varcavano i confini del proprio regno, erano molto ascoltati e il loro sapere era considerato sicuramente di livello superiore.

Hyech’o probabilmente non immaginava che il suo paese sarebbe riuscito ad occupare un posto accanto a potenze come la Cina ma, seppur fatto in un tempo così lontano, il suo pellegrinaggio è un

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esempio dell’apertura mentale coreana che è riuscita a far tesoro di tutto ciò che ha appreso dall’esterno, rafforzandosi sempre di più, pur mantenendo con orgoglio la propria identità culturale. Hyech’o parte via mare dalla Cina e sbarca nella zona del delta del Gange, luogo da cui ha inizio il suo pellegrinaggio. Nel corso di quattro anni percorre i luoghi sacri del Buddhismo dall’ India fino in Persia e fa ritorno in Cina lungo la Via della Seta11.

Il testo è composto da 40 paragrafi intitolati con il nome della città visitata, oltre a quelli delle cinque regioni dove ci offre indicazioni generali sugli usi e costumi del territorio affrontando temi come la geografia, l’antropologia, la politica e ovviamente la religione.

L’inizio del testo lasciato da Hyech’o è mancante e quindi l’identificazione della prima tappa non è certa. Si può supporre che si tratti della città di Vaishali. Hyech’o descrive con frasi che sono incomplete, e quindi poco comprensibili, alcune abitudini del luogo.

11 La via della seta attraversava l'Asia centrale e il Medio Oriente,

collegando la Cina all'Asia Minore e al Mediterraneo. Le sue diramazioni si estendevano a est sino alla Corea e al Giappone e a Sud fino all'India.

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Nella traduzione del professor Maurizio Riotto si trova la frase “Non hanno schiavi”; ma alcune traduzioni precedenti affermano l’esatto contrario cioè “possiedono schiavi”. Poiché una frase successiva “considerano la vendita di esseri umani al pari dell’omicidio” è abbastanza chiara, si può ragionevolmente affermare che la società in questione non fosse schiavista e quindi che l’affermazione valida sia “non hanno schiavi”.

La seconda tappa è la città di Kusinagara, luogo della morte del Buddha. Il monaco parla di una città in rovina dove trova solo un religioso che custodisce la Pagoda commemorativa del raggiungimento del Nirvana12 da parte del Buddha.

Ogni anno il giorno dell’evento, la cui data è incerta, la città è meta di pellegrinaggio e il Buddha viene onorato con una cerimonia durante la quale si viene a creare un’atmosfera molto coinvolgente tanto che Hyech’o scrive che: “non sono pochi

12 Nirvana (in sanscrito “estinzione”) è uno stato di perfetta beatitudine

considerato come l’ultimo stadio della perfezione a cui tende l’uomo. Con questo significato si trova nelle tre religioni indiane: Buddhismo, Giainismo e Induismo.

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coloro che, da non credenti, decidono di abbracciare la fede dell’Illuminato13”.

La terza tappa è la città di Varanasi. Questo paragrafo presenta alcuni “vuoti” che ne rendono difficile la lettura. Hyech’o parla di un territorio desolato e senza un capo che lo gestisse. Racconta di aver visto statue di terracotta di “quei cinque uomini che ascoltarono l’insegnamento del Buddha”, e si riferisce ai primi cinque seguaci dell’Illuminato14.

La quarta tappa è il regno di Magadha. Qui si trova una prima parte in prosa ed una seconda in poesia. Hyech’o cita re Harsha, che fu uno dei più importanti sovrani dell’India e che regnò dal 606 al 647 sulla parte settentrionale del paese.

Si afferma che in questo regno si trovino i quattro luoghi più cari al Buddha indicati dalle quattro grandi sacre pagode che commemorano le quattro fasi fondamentali della sua esistenza: la nascita, l’illuminazione, la predicazione e la morte.

13 “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” a cura di M. Riotto, O

barra O edizioni, Milano, 2010 (pag.85).

14 A questi cinque monaci, suoi antichi discepoli, si aggiunsero altri cinque

laici fra cui un ricco banchiere (Yasas) che si fece monaco, deluso dai piaceri del mondo.

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A proposito della religione Hyech’o specifica anche che qui “si seguono insieme le Dottrine del Grande Veicolo e del Piccolo Veicolo”.

Il Piccolo Veicolo o Hinayana è la versione originale del Buddhismo e ha come meta l’aspirazione personale del Buddha verso la santità. Durante questa fase si trova anche il culto delle reliquie e degli oggetti usati dall’Illuminato e le cerimonie religiose della comunità sono basate sulla recitazione dei testi, la predicazione e la penitenza.

Il Grande Veicolo o Mahayana ha come meta la salvezza diventata però collettiva in quanto tutti i fedeli possono raggiungere l’illuminazione. Questo nuovo indirizzo si ha dopo che il Buddhismo si è sviluppato in territori sempre più ampi. Hyech’o cita il Piccolo e Grande Veicolo anche parlando di altri luoghi da lui visitati, sicuramente per dare un’indicazione più precisa dello sviluppo del Buddhismo nelle zone di cui parla. Quando arriva al tempio di Mahabodhi15, dove il Buddha

raggiunse l’illuminazione, Hyech’o esprime la sua felicità per il traguardo dell’Illuminato con una poesia in versi pentasillabici in

15 Il tempio si trova nella città di Bodh Gaya situata nel distretto di Gaya,

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cui manifesta la sua aspirazione verso la salvezza ed esprime la speranza che ogni uomo possa essere in grado di arrivare a questo stadio di perfezione.

Devo dire che queste poesie mi hanno molto colpito in quanto, pur non essendo opera di un “rimatore professionista” ma di un religioso, esprimono in modo emozionante ed appassionato i sentimenti che egli provava.

Il quinto capitolo approfondisce la regione dell’India centrale. La città di Kanyagubja, l’odierna Kannauj, era una delle più ricche del tempo. Hyech’o ci spiega che, una volta persa la supremazia, per evitare guerre e mantenere la pace, la città pagava uno spontaneo tributo annuo ai regni vicini.

In seguito ci parla in generale degli usi e costumi delle regioni dell’India indicando aspetti comuni come l’abbigliamento e le pratiche giornaliere, ed elementi diversi fra cui la legislazione e la lingua. Tutto questo ci presenta uno spaccato generale della società indiana del tempo in modo oggettivo ma senza giudizi personali. Ci parla delle abitazioni e dell’economia sottolineando quanto la maggior parte della popolazione sia povera rispetto ad un ristretto numero di ricchi.

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Da nessuna parte esiste la pena di morte o l’applicazione di pene o punizioni corporali ma esistono sanzioni in base alla gravità del reato. La vita in generale ha un grande valore e la caccia non viene praticata a nessun livello sociale.

Nella parte centrale del paese sorgono quattro grandi pagode, una delle quali si erge nel luogo dove nacque il Buddha. È questa una meta ambita per i pellegrini, ma di difficile raggiungimento a causa della fitta vegetazione che la circonda, e che è spesso rifugio di gruppi di pericolosi banditi. Vicino ad ognuna delle altre pagode sorge un tempio, luogo di sosta e di preghiera. Il tempio della pagoda di Vaisali viene trovata da Hyech’o in rovina e quindi non abitata da monaci.

La regione dell’India meridionale presenta le stesse caratteristiche della regione centrale, Hyech’o annota solo piccole differenze nella lingua e un clima più caldo.

Durante questa tappa il monaco compone una poesia in versi pentasillabici che esprime una profonda nostalgia del monaco verso la sua patria, sottolineando la lontananza e l’impossibilità di comunicare con essa.

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Guardando la direzione di casa, in una notte di luna, Vedo le nubi che vi ritornano, seguendo il vento. A loro vorrei tanto affidare un messaggio,

Ma il vento passa rapido e non mi guarda neppure. Il mio Paese è a nord, dove finisce il cielo,

Dove mi trovo è a ovest, al suo limite estremo. In quest’area tropicale mancano le oche selvatiche: Nessun che mi porti dunque le mie notizie in patria. 16

Proseguendo nel suo cammino verso oriente Hyech’o lascia poche righe dove descrive brevemente le città che incontra: Suvarnagotra, Takshar.

Giunge poi a Sindugora, città non ancora identificata. In questo paragrafo Hyech’o sottolinea che in tutte le regioni indiane si fa pochissimo uso di bevande alcoliche e che mai gli è capitato, durante il suo viaggio, di vedere persone ubriache. Ci fa notare la poca propensione di questo popolo a verso il canto, la danza, il teatro o altre manifestazioni “rumorose”.

16 “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” a cura di Maurizio Riotto

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Durante la visita al tempio di Nagaradana apprende la storia di un monaco cinese dedito all’insegnamento delle Sacre Scritture che però si ammala e muore prima di poter far ritorno al suo paese. Commosso per la triste sorte del monaco compone una poesia malinconica che sottolinea la tristezza del morire lontano da casa ed è verosimile pensare che si sia immedesimato nella triste situazione del pellegrino cinese.

Proseguendo verso nord arriva a Kasommira, la quale, trovandosi in una zona montuosa e difficile da raggiungere, avendo inoltre un clima molto rigido, non subisce invasioni.

La parte finale del paragrafo ci racconta come ogni membro della società di rango elevato possa costruire templi separatamente, in quanto “le virtù sono del singolo”: questo modo di pensare dimostra il valore che viene dato alle capacità personali di uomini e donne e alla loro iniziativa personale, senza necessariamente seguire una linea comune a tutti.

Continuando verso nord-ovest Hyech’o arriva a Soballyul, paese che si trova sotto l’amministrazione cinese e successivamente a Gandhara, dove il sovrano della città celebra due volte l’anno la festa del Much’a: una grande assemblea durante la quale

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vengono confessate le proprie colpe e si insegnano la disciplina e la pratica della carità. In questa occasione il re offre al Buddha le sue cose più care, tra cui anche la moglie per poi riscattarla pagando una cifra stabilita dai sacerdoti.

Mentre continua la strada attraverso le montagne del nord Heych’o attraversa i paesi di Uddiyana, Chitral, Lampaka, Kapisa, Sayul, Bamiyan, Tocharistan fino ad arrivare in Persia dove non è conosciuta la religione dell’Illuminato ma è praticato il credo islamico. Da questo momento il monaco, allontanandosi sempre di più dalla penisola indiana, si confronta con comportamenti e abitudini diverse da quelle che ha incontrato fino a quel momento. Fra queste il modo di mangiare con le mani dallo stesso piatto, la promiscuità delle abitudini matrimoniali, che permettevano il matrimonio con la stessa madre o con le proprie sorelle, praticata dagli abitanti dell’Asia centrale che Hyech’o chiama “Ho” cioè barbari. In questi casi il monaco si permette di esprimere un giudizio definendo rispettivamente: “ripugnanti” i primi ed “immorali” gli altri. È la prima volta che Hyech’o commenta in questo modo le diverse abitudini dei popoli incontrati ed è plausibile pensare che l’enorme differenza,

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soprattutto nel campo delle pratiche matrimoniali, del Buddhismo dall’ Islam, sia la causa della sua severità.

In questa ultima parte Hyech’o si troverà spesso a ribadire la non conoscenza della religione Buddhista in questi luoghi barbari. Proseguendo verso oriente, a Wakhan, incontra l’ambasciatore cinese che viaggia in direzione contraria alla sua, ed a lui Hyech’o esterna la sua stanchezza e il suo sconforto per le avversità geografiche e la rigidità climatica dei luoghi che ha appena attraversato. Esprime questi sentimenti in una poesia in versi pentasillabici, usando un metro chiamato Koch’esi (poesia in stile antico). Questa antica tecnica era usata durante la dinastia cinese Tang (618-907) e permetteva al poeta di rimare in versi liberi, senza dover seguire schemi precisi.

Alla fine del componimento il monaco manifesta palesemente il suo senso di disagio:

Ed io che mai avevo pianto in vita mia,

Adesso verso lacrime come acqua di fontana.17

17 “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” a cura di Maurizio Riotto,

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Di seguito Hyech’o ci propone un’altra poesia, scritta mentre attraversava il Tocharistan, dopo aver affrontato una dura tempesta di neve. Anche qui il senso di impotenza verso la furia degli agenti atmosferici è predominante ma, mentre nell’altro componimento il sentimento che prevale è la tristezza, in questo è la paura, paura di non riuscire a sopravvivere:

Salgo pei monti intonando una canzone, Chiedendomi se mai potrò arrivare A superare l’altopiano del P’amil.18

Nelle ultime tappe del suo pellegrinaggio, proseguendo lungo la Via della Seta, Hyech’o ritrova luoghi in cui è seguita la religione Buddhista e un ambiente sempre meno ostile, sia dal punto di vista climatico, sia dal punto di vista geografico.

Poiché la parte finale è mancante, è impossibile sapere se il monaco aveva lasciato un commento sull’ultima parte del suo lungo viaggio.

18 “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” a cura di Maurizio Riotto,

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I luoghi del Buddha19.

19 Cartina dall’enciclopedia “Le grandi religioni del mondo.

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CAPITOLO II

“HISTORIA MONGALORUM” di Giovanni da Pian del

Carpine

Il XII secolo vive un fiorente sviluppo culturale, fioriscono scuole ed università: a Parigi troviamo l’università di filosofia e teologia, che resterà la più importante per tutto il medioevo, il diritto canonico e romano trova il suo centro a Bologna. Attorno a questi luoghi di eccellenza e nelle corti dei principi fiorisce la poesia e i trovatori risveglieranno la lirica e l’epica, l’invettiva, l’ironia e insieme la musica e la danza.

L’Europa si arricchisce di monasteri, chiese e cattedrali, adorne di pitture e sculture che ancor oggi attestano una forza d’arte davvero eccezionale.

Tra i giochi politici non mancarono fermenti sociali e, soprattutto, il fermento religioso dell’eresia: a loro si contrappose Francesco D’Assisi20, che nell’esaltazione del Cristo povero del Vangelo,

seppe dare una ragione di conforto e di speranza.

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Nel XIII secolo l’Europa viene unita dal sentimento della paura alla notizia che il popolo Tartaro aveva attaccato l’Ungheria e che quest’ultima aveva dovuto cedere alla loro potenza.

Gengis Khan (o Cingiz Qan, nato come Temujin), letteralmente “sovrano universale” è il nome del condottiero mongolo che riuscì a imporre il suo dominio su tutte le tribù nomadi della Mongolia, arrivando nel 1206 a farsi riconoscere come capo supremo. Nato nel 1167, Temujin, passa l’adolescenza sotto la tutela della madre, che lo temprò alle più dure fatiche e ne fortificò il carattere. Ben presto la sua forza, il suo coraggio e la sua astuzia lo segnalarono fra i Mongoli, i cui principi decisero di elevarlo alla dignità reale, già vacante da anni, con il nome, appunto, di Gengis Khan.

Gengis Khan non fu soltanto un geniale condottiero, aveva anche doti non comuni di uomo di stato e di amministratore, che mostrò non appena ebbe unificato la Mongolia. Conciliante con le religioni straniere, seppe però unificare saldamente le varie tribù mongole, che articolò in tre gruppi corrispondenti ad altrettante suddivisioni dell’esercito, divise a loro volta da miriarchie21 e

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chiliarchie (un'unità minore della falange22, composta da circa

mille uomini).

Una guardia del corpo di diecimila uomini, costituita interamente da nobili, forniva poi al Khan i generali per le sue numerose truppe. I principi reali furono affidati ad un dotto uiguro, (gli Uiguri sono un'etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina), prigioniero di guerra, perché insegnasse loro a scrivere in mongolo, fino ad allora soltanto parlato, in grafia uigurica.

Un tartaro fu incaricato di redigere delle ordinanze e delle sentenze, lo spirito delle nuove norme era sempre quello che regolava i rapporti tribali ma adesso c’era un diritto scritto che valeva per tutti e Gengis Khan lo faceva rispettare rigorosamente. La gerarchia sociale comprendeva, nell’ordine, la “famiglia d’oro” del Khan e dei principi reali, l’aristocrazia della steppa, i guerrieri, i plebei e i servi, questi ultimi per lo più stranieri.

Nel giro di pochi anni egli raggiunse la Manciuria e Pechino e si spinse fino all’Afghanistan e all’Iran.

22 In ambito militare indica uno schema di combattimento composto da

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La struttura dell’Orda mongola23, rigidamente gerarchizzata,

fortissima in battaglia, era sostenuta da un’economia di razzia. La sua organizzazione tattica impeccabile consisteva nell’attacco silenzioso che coglieva i nemici di sorpresa. Le risorse del nemico, il luogo e i tempi dell’attacco venivano studiate a tavolino e niente era lasciato all’improvvisazione, in modo tale che le forze disponibili erano sfruttate al massimo.

Gengis Khan riuscì ad affrontare le ribellioni di molti popoli anche se molti altri furono sottomessi quasi senza colpo ferire. Era un imperatore sicuramente consapevole della diversità delle popolazioni che aveva conquistato e riconosceva la superiorità culturale delle società sedentarie rispetto alla tradizione nomade mongola. Per questa ragione affidò ai cinesi e ai persiani il compito di creare una struttura statale unitaria e centralizzata. Alla sua morte, nel 1227, l’impero si estendeva dal Mar Cinese al Mar Caspio, dal Golfo Persico alla Siberia meridionale.

23 Orda, dal tartaro ordu, che significa tribù. L’orda mongola era composta

da clan e tribù di diversa provenienza e lingua che ubbidiva ad un unico capo militare.

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Impero Mongolo alla morte di Gengis Khan.24

All’apertura del Concilio di Lione del 1245, Papa Innocenzo IV affrontò la questione chiamata “Remedium contra Tartaros”, dal momento che, nonostante la morte di Gengis Khan, l’impero Mongolo stava avvicinandosi sempre più all’occidente cristiano. Il Papa, molto preoccupato per questa situazione, decise di inviare una legazione in Mongolia con lo scopo di consegnare una lettera al Gran Khan.

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La missiva del Papa aveva certamente scopi non palesi, poiché sembra impossibile che Innocenzo IV si potesse rivolgere al Gran Khan con delle richieste così manifestatamente paradossali: la conversione di tutto il popolo mongolo al Cristianesimo, la rinuncia alla conquista dell’Europa, lasciando intuire la possibilità di un’alleanza con il Gran Khan contro l’Islam. È chiaro che il Papa sapeva perfettamente di non avere alcuna possibilità che queste sue richieste potessero avere una risposta positiva. Quale era dunque il suo vero scopo?

Bisogna ricordare che in quel periodo l’Europa era completamente all’oscuro delle abitudini e della mentalità dei popoli asiatici, è quindi lecito pensare che la legazione del Papa avesse soprattutto lo scopo di avere notizie certe sulla situazione alla corte del Gran Khan e di conseguenza conoscere, per via diretta, le intenzioni dello stesso. Non è escluso che il Pontefice sperasse di indicare molto velatamente un possibile conflitto tra mongoli e islamici: la Cristianità avrebbe avuto sicuramente un vantaggio indipendentemente dall’esito che ne sarebbe derivato.

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Questa iniziativa di Innocenzo IV fu poi seguita anche da Gregorio X25 che mandò all’imperatore mongolo della Cina

Kubilay Khan un’ambasceria per mezzo dei fratelli Niccolò e Matteo Polo. Essi stessi, al ritorno di un secondo viaggio fatto con Marco, riportarono al Papa un messaggio dell’imperatore. La delegazione verso oriente fu guidata da frate Giovanni da Pian del Carpine.

Frate Giovanni nacque a Pian del Carpine, l’attuale Magione in provincia di Perugia, verso la fine del XII secolo e fu uno fra primi discepoli di San Francesco. Nel corso della sua vita viaggiò molto poiché inviato dallo stesso Francesco a diffondere l’ordine dei frati minori in Europa centrale, dove si distinse per l’energia e l’efficacia della sua predicazione. Ebbe modo così di sviluppare abilità diplomatiche che sicuramente influenzarono il Papa nella sua scelta, nonostante frate Giovanni fosse in età già avanzata e avesse un fisico robusto, apparentemente non adatto a sopportare un viaggio di quel genere. Nonostante questo Fra Giovanni è spinto dalla forte determinazione di portare a termine la volontà di Dio e del Papa ed è con questo stato d’animo che inizia il suo

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viaggio e il suo diario di viaggio “Historia Mongalorum”: un vero trattato storico-geografico sul paese e sul popolo Tartaro, il più antico documento scritto da un europeo sulla geografia dell’Asia centrale.

Ci sono due versioni dell’opera, nella seconda, oltre a molte giunte parziali, troviamo un nono capitolo con la descrizione dell’itinerario.

Il testo è composto di nove capitoli in cui l’autore ci presenta il popolo dei Tartari descrivendo dettagliatamente il loro territorio, il clima, la religione, gli usi e costumi, la loro strategia di guerra. Per la prima volta questo popolo lontano e misterioso viene conosciuto e descritto, attraverso l’occhio curioso e attento di un frate viaggiatore che ne analizza gli aspetti negativi ma riconosce anche quelli positivi riuscendo così ad adeguarsi in maniera intelligente alle loro regole e leggi.

Gli argomenti sono trattati da Frate Giovanni in modo organizzato ed ordinato a scapito dello stile letterario e questo rende la lettura non sempre scorrevole o piacevole. Ma frate Giovanni dichiara di avere ricercato la chiarezza e la precisione con lo scopo di istruire e non di dilettare. Probabilmente questa è

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la ragione per cui l’opera di Frate Giovanni non ebbe molto successo, soprattutto nel Medioevo e agli inizi dell’età moderna. La scarsa diffusione rispetto ad altre relazioni di viaggio si può giustificare dalla totale assenza di racconti di avventure inventate ad hoc, per attirare l’attenzione del lettore.

Il merito di frate Giovanni è certamente quello di aver riportato notizie con sufficiente esattezza, di grande valore storico è l’elenco dei principi e generali mongoli e che con le genealogie cinesi rimane una delle fonti più attendibili. Cade spesso in errore quando vuole fare l’erudito perché perde l’obiettività e cede all’influsso di idee, opinioni e dottrine generalmente divulgate nel medioevo.

Fra Giovanni fa prima una descrizione del territorio e del clima, quindi prosegue esponendo la fisionomia che contraddistingue la popolazione mongola, il loro abbigliamento, le abitazioni e le abitudini coniugali.

La religione era sicuramente monoteista ma erano presenti anche idoli antropomorfi che erano venerati come protettori del popolo; parallelamente a questi venivano venerati e omaggiati con offerte

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di cibo e bevande tre elementi primordiali come il fuoco, l’acqua e la terra unitamente al sole e alla luna.

In questo capitolo si trova un primo commento di Fra Giovanni con queste parole: “…si presume tuttavia che se avessero il dominio del mondo – cosa che Dio allontani – obbligherebbero tutti a inchinarsi a quell’idolo.26

La posizione del Frate è ferma e indica chiaramente che la vittoria mongola sull’occidente segnerebbe la fine della religione cattolica.

Sebbene Fra Giovanni sottolinei che l’elenco delle “cattive abitudini” dei tartari sia talmente lungo da non poterlo scrivere per intero, riferisce anche alcune qualità che li contraddistinguono e, da questo, si può capire la sua grande onestà intellettuale.

Afferma che i tartari sono molto devoti ai loro superiori e molto leali fra loro, contemporaneamente però rileva la loro forte avversione per gli stranieri che non rispettano e di cui non si fidano.

26 “Storia dei mongoli” di Giovanni da Pian del Carpine, a cura di P.Daffinà,

C. Leonardi, M.C. Lungarotti, E. Menestò, L.Petech, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 1989, (pag. 343-344).

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A questo proposito rileva come il giuramento fatto a uno straniero non necessariamente deve essere rispettato, in quanto lo straniero è, per loro, “nessuno”.

Giovanni descrive anche l’enorme potere di Gengis Khan, che ha avuto il merito di riunire l’impero, e che ha un controllo capillare dell’enorme territorio unificato attraverso una fitta rete gerarchica.

Il sesto capitolo “dell’Historia Mongalorum”, affronta uno dei temi che stanno più a cuore ai viaggiatori occidentali. Se diamo per scontato che Innocenzo IV abbia mandato questa delegazione per poter capire il comportamento e la volontà di conquista dell’Impero Tartaro, si può pensare che queste notizie siano veramente importanti per un Papa che cerca di salvare la Cristianità. È forse per questo che Giovanni registra abbastanza dettagliatamente il comportamento dei tartari in guerra e le loro strategie, il trattamento dei prigionieri e le armi usate.

Questo è forse il contributo più importante che Giovanni porta con la sua missione perché grazie a lui la paura dell’ignoto che rendeva un attacco tartaro molto difficile da combattere veniva arginata grazie alla conoscenza.

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Continua descrivendo il comportamento in caso di trattative di pace e spiega come gli accordi di non belligeranza vengano messi in atto soltanto dopo la completa resa e sottomissione del popolo vinto; in questo caso ritorna il loro sentimento di disprezzo verso gli stranieri in quanto spesso le promesse fatte non vengono rispettate: i prigionieri sono fatti schiavi e trattati con estrema crudeltà, la loro vita non ha nessun valore.

A questo punto Frate Giovanni è completamente convinto che l’obiettivo dell’Impero mongolo sia di allargarsi fino alla conquista del mondo conosciuto e ribadisce che le paure del Papa avevano sicuramente un fondamento.

Questo convincimento è sempre più evidente quando tutta la delegazione assiste all’elezione di Cuyuc a imperatore ed è testimone della volontà del nuovo capo di attaccare ed assoggettare tutti i popoli di fede cristiana. Giovanni fa qui una riflessione e, con amarezza, valuta che un’eventuale fine della Cristianità per mano di un popolo tanto barbaro, è tutt’altro che un paradosso.

Ridimensiona anche l’importanza delle sue informazioni, specificando che non è sua intenzione sostituirsi agli esperti di

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tattiche di guerra ma porre le sue conoscenze nelle mani di coloro che ne potrebbero fare buon uso; a proposito di questo scrive: “Il saggio che ascolta diventerà più saggio e capendo avrà le redini del governo27”.

In questo modo Giovanni sembra voler prendere le distanze dall’obiettivo politico della sua spedizione, che, in realtà, non è mai stato apertamente dichiarato e sembra essere convinto che i mongoli non avrebbero mai accettato diplomatici con fini politici, data l’alta considerazione che avevano di sé stessi e, di conseguenza, la bassissima considerazione degli altri.

Il Frate ha presto l’occasione di dimostrare le sue doti diplomatiche e si serve delle elemosine raccolte durante il viaggio per comprare doni da offrire ai vari capi mongoli. La prima occasione che gli si presenta è al suo arrivo in territorio tartaro, quando deve incontrare un capo, Corenza, incaricato di proteggere i confini dell’impero da possibili attacchi. Corenza manda i suoi uomini ad istruire la delegazione sulle norme da seguire prima di essere ammessi al suo cospetto: solo in cambio

27 “Historia Mongalorum” di Giovanni da Pian del Carpine. Citazione

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di doni adeguati Giovanni e i suoi avrebbero avuto una guida leale come salvacondotto all’interno dell’impero mongolo.

Gli uomini di Papa Innocenzo seguono scrupolosamente le indicazioni date non volendo indispettire in alcun modo i tartari. In questa occasione Giovanni consegna a Corenza la lettera del Papa indirizzata all’imperatore ma, non essendo l’interprete della missione in grado di tradurla in modo perfetto, tutta la delegazione viene accompagnata ad incontrare il più importante principe tartaro, secondo solo all’imperatore, Batu. Il viaggio per raggiungere l’accampamento di Batu fu molto lungo ma, all’arrivo della delegazione il principe era già stato informato della loro venuta e del perché si erano rivolti a lui.

La lettera di Papa Innocenzo venne finalmente tradotta e Batu informò Giovanni che avrebbe presto incontrato l’imperatore Cuyuc.

I messaggeri del Papa ebbero quindi l’occasione di assistere alla cerimonia di elezione di Cuyuc ad imperatore di tutto il popolo mongolo. Secondo la descrizione di Giovanni più di quattromila ambasciatori vennero per assistere alla cerimonia che si svolse nell’accampamento imperiale chiamato Sira Orda. Cuyuc e il suo

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seguito entrano poi in una tenda chiamata “Orda D’oro28” dove

l’imperatore fu fatto sedere sul trono. È in questo momento che Giovanni viene ammesso al cospetto del nuovo capo e può quindi assistere da vicino a tutte le fasi dei festeggiamenti.

Questo “grande onore” non fu però di aiuto ai messaggeri del Papa: Cuyuc fece mettere per iscritto le richieste e i termini della trattativa e li fece attendere ancora molti giorni prima di riammetterli alla sua presenza. Anche questa è una dimostrazione del fatto che i tartari non lasciassero mai niente all’improvvisazione ma studiassero accuratamente ogni loro decisione.

Dopo aver consegnato la lettera dell’imperatore, gli uomini di Cuyuc vollero accertarsi che la traduzione della missiva rispettasse l’originale parola per parola in modo tale che il Papa non potesse avere nessun margine di fraintendimento.

I delegati cristiani rifiutarono l’accompagnamento, nel viaggio di ritorno, di ambasciatori tartari: il “diplomatico” Giovanni volle impedire che i mongoli si potessero rendere conto di quanto

28 Letteralmente campo aureo. Qui non si parla della formazione

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fossero vulnerabili i loro territori, occupati in guerre intestine e continue discordie, convincendoli definitivamente all’attacco. Durante il viaggio di ritorno il frate si preoccupa anche di prender nota dei posti visitati e delle persone incontrate, i cui nomi sono citati come testimoni dell’impresa da lui compiuta. Nella conclusione Giovanni da Pian del Carpine fa un appello a tutti i futuri lettori del suo diario di viaggio affinché non siano in nessun modo modificate o alterate le informazioni in esso contenute in quanto, egli afferma, scritte “con assoluta veridicità”.

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Itinerario di Giovanni da pian del Carpine. Tavola da “Storia dei mongoli”, a cura di P.Daffinà, M.C. Lungarotti, E. Menestò, L. Petech. Centro Italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 1989.

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CAPITOLO IIII

DUE TESTI A CONFRONTO

Entrambe le opere analizzate “Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” del monaco coreano Hyech’o e “Historia Mongalorum” di frate Giovanni da Pian del Carpine, raccontano il viaggio a scopo religioso dei rispettivi autori.

La distanza temporale tra le due imprese è importante e il momento storico che i due religiosi vivono è profondamente diverso.

Hyech’o è vissuto tra il 680 e il 780, momento conosciuto come il secolo d’oro di Silla, dove la futura Repubblica di Corea costruisce le fondamenta di una civiltà aperta e culturalmente avanzata. I monaci buddhisti di Silla si confrontano con i confratelli cinesi, giapponesi, indiani e centroasiatici ed è in un clima di grande apertura che vive Hyech’o. Con questo spirito positivo il monaco coreano affronta la sua avventura, spinto solamente dalla sua sete di conoscenza.

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Tutt’altra situazione vive frate Giovanni: l’Europa del XIII secolo è minacciata da un possibile attacco da parte dell’impero Tartaro ed è proprio a causa di questo pericolo che Papa Innocenzo IV organizza la spedizione di Giovanni verso la Mongolia.

In questo caso lo scopo dell’impresa è politico, anche se mascherato da scopo religioso: cercare informazioni sul misterioso e pericoloso popolo tartaro e portare loro il messaggio del Papa che chiedeva la sua completa conversione al cattolicesimo.

Giovanni ha fatto da tramite tra occidente e oriente cercando un punto d’incontro e un dialogo con un popolo sconosciuto e profondamente diverso da quello occidentale.

Gli scopi che spingono i due religiosi a compiere questi viaggi, quindi, sono molto diversi: Hyech’o parte per scoprire i luoghi vicini alla vita dell’Illuminato e per avvicinarsi di più a lui; frate Giovanni, obbedendo alla richiesta del Papa che lo sceglie come capo della sua delegazione diplomatica, parte per fini di stato. Oltre alle indubbie doti diplomatiche di Giovanni, anche la sua fisicità rassicurante e il suo status di frate francescano sono stati

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determinanti per l’incarico ricevuto di capo delegazione in un’impresa così delicata e piena di incognite. Per un popolo come quello tartaro, che prima usava la spada e poi la parola, mettere al posto del frate una figura che potesse apparire una minaccia, un cavaliere armato o un nobile con propri soldati al seguito, sarebbe stato un grande errore.

“Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India” è un diario di viaggio che racconta le varie tappe di Hyech’o durante la sua visita ai luoghi sacri del buddhismo; “Historia Mongalorum”, invece viene scritto alla fine dell’esperienza e organizzato in capitoli che suddividono gli argomenti trattati, così da rendere più chiara la comprensione per il lettore.

Pur avendo entrambi delle motivazioni ben precise, riescono a vivere appieno tutti gli aspetti del viaggio intrapreso; ed è per questo che troviamo nelle loro descrizioni aspetti di antropologia, di geografia e di politica.

Il modo di descrivere le loro esperienze sottolinea l’approccio diverso che hanno i due autori. Hyech’o dimostra un’apertura mentale che gli deriva dal vivere “nell’epoca d’oro” di Silla, ed è per questo che le sue descrizioni sono il più possibile oggettive,

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astenendosi da giudizi tranne in un caso, quando valuta come “immorale” la promiscuità incestuosa che era abitudine in un popolo da lui incontrato29.

Molto diverso è l’atteggiamento di frate Giovanni il quale descrive ciò che incontra ponendosi sul piedistallo di chi è convinto di essere dalla “parte giusta”. In quel periodo la mentalità occidentale e cattolica considerava barbare le diversità.

STORIOGRAFI E STORICI DEL VIAGGIO

Sia Hyech’o sia Giovanni sono stati entrambi storiografi e storici, poiché sono stati protagonisti delle vicende che hanno poi rielaborato e scritto.

I due autori, seppur con le differenze oggettive che caratterizzano le loro opere, hanno lasciato una testimonianza storica di grande importanza. Hyech’o ci apre una finestra su una civiltà di cui, purtroppo, è rimasto molto poco, mentre frate Giovanni ci

29 “… Seguendo usanze bizzarre e immorali, poi, nel matrimonio si pratica

la promiscuità più assoluta. Vengono infatti prese in moglie sorelle e madri e questa usanza riguarda anche il P’asa dove si può sposare la propria genitrice…” Cap. 29 “Ho” di Pellegrinaggio alle cinque regioni dell’India, a cura di M. Riotto, O barra O edizioni, Milano, 2010.

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presenta per primo un popolo, in quel tempo ancora completamente sconosciuto, come quello Mongolo.

La storiografia ha inizio nella Ionia30 durante il XI secolo a.C. quando l’uomo si accorge del contrasto fra il mondo mitico e la vita reale. Per cercare di appaiare questa dicotomia era necessario osservare i fatti contemporanei uniti ad altre esperienze ritenute accertate.

Con Erodoto (V sec.) l’oggetto dell’indagine si sposta e si determina in senso propriamente storiografico e senza l’intrusione di miti o leggende. Il tema fondamentale della «ricerca» (῾ιστορία) è una guerra, vista nelle sue origini e nel suo minuto svolgimento, che coinvolge Greci e Barbari con le loro caratteristiche etiche e politiche.

La ricerca della verità distinta dal mito è esigenza primaria in Tucidide (V sec.). La sua opera ha come oggetto la guerra del Peloponneso e cioè l’epocale scontro tra Atene e Sparta, valutando in maniera equilibrata ed oggettiva le cause del

30 La Ionia (in greco antico: Ἰωνίς) è un'antica regione costiera dell'Asia

Minore (comprendente anche alcune isole), così denominata in onore degli Ioni, suoi conquistatori di stirpe ellenica, che la sottrassero a Pelasgi, Lidi, Lelegi ed altre popolazioni originarie. I suoi confini sono stati oggetto di variazioni nel corso dei secoli, poiché gli Ioni si erano insediati anche in Attica, Eubea e sull'isola di Lemno. Dal sito di Wikipedia.

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conflitto. Egli infatti cerca di spiegare gli avvenimenti in maniera razionale, basandosi su documenti certi esaminati in maniera critica. La sua volontà primaria è il capire la tragedia che ha portato la sua patria, maestra di civiltà, ad una sconfitta, e comprendere le responsabilità, sia morali che colpose, che hanno provocato tutto questo.

Tra il V e il IV secolo la storiografia, centrata di solito su eventi bellici, cerca anche di porre l’attenzione alla biografia di grandi individui che furono protagonisti di quei fatti.

Dal III secolo a.C. gli storiografi greci rivolgono la loro attenzione all’occidente ma anche ai popoli barbari più conosciuti, i Celti31.

L’attenzione è rivolta al mondo romano, ed è proprio dal confronto tra il mondo greco e quello romano che nasce la più grande opera storiografica dell’età imperiale le “Vitae” di Plutarco.

31 Celti furono un insieme di popoli indoeuropei che, nel periodo di

massimo splendore (IV-III secolo a.C.), erano estesi in un'ampia area dell'Europa, dalle Isole britanniche fino al bacino del Danubio, oltre ad alcuni insediamenti isolati più a sud, frutto dell'espansione verso le penisole iberica, italica e anatolica. Dal sito di Wikipedia.

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Sempre nel III secolo a.C. gli storici romani scrivono sotto forma di annali, ma poiché il loro scopo è di offrire ai greci una presentazione attraente della storia di Roma, essi scrivono in greco. Questo modo di scrivere in lingua straniera, per stranieri, provocò un’ampia reazione guidata da Catone il Censore (I sec.), il quale riteneva che le origini e la storia contemporanea di Roma dovessero essere scritte in lingua latina.

Nella storiografia romana l’autore si presenta non come storico illuminato ma come cittadino che rivive la vicenda di cui parla riconoscendo negli altri le virtù e i vizi della pratica quotidiana. I “Commentarii” di Cesare fondono in sé esperienze storiografiche diverse: la descrizione geografica dei luoghi e la volontà di rendere i fatti nel modo più oggettivo possibile.

Nella storiografia romana rientra anche la vasta attività memorialistica degli imperatori, e quindi il passaggio in biografia della storia romana.

L’opera che domina la storiografia medievale è il “De civitate Dei” di S. Agostino (V sec.), che risolve il problema nuovo sorto dalla dissoluzione del mondo politico antico: quello dei rapporti tra la “civitas terrena” e la “civitas caelestis”. Con ciò si precisa il

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nuovo compito dello storico e cioè considerare la storia non solo analizzando questa o quella situazione politica ma analizzando l’umanità, viva e operante attraverso i tempi e gli imperi, e continuamente scissa tra bene e male.

L’opera di Agostino porta nella storiografia del medioevo alcune caratteristiche che rimarranno per secoli: l’elemento morale-religioso nel giudizio storico; il mito della pax come il bene maggiore concesso agli uomini; “rex iustus” contrapposto al “tyrannus”.

Con la fine dell’Impero carolingio32, il contrasto agostiniano fra città terrena e città celeste si configura come contrasto fra Impero e Chiesa, e quindi fra regnum e sacerdotium, e diventa metodo d’interpretazione della storia.

Nel XIII sec. gli storiografi cominciano ad avvertire un senso nazionale che porterà al tramonto delle idee universalistiche. Nel XIV sec. il carattere nazionale diventa più esplicito nella storiografia italiana, anche aiutato dell’uso del volgare.

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Analogamente nella storiografia di altri paesi l’adozione dei volgari accentua il tono politico-nazionale, specialmente in quella francese.

La storiografia italiana tra il XV sec. e i primi del XVI segna un momento di rottura aprendo la via alla storiografia moderna. Si afferma intanto il carattere artistico dell’opera storica: lo storico deve conciliare la veridicità con lo stile della narrazione, deve essere contemporaneamente testimone degno di fede ma anche letterato. La historia comincia ad avere una sua dignità nei confronti delle altre arti e la sua forza è soprattutto nella ricerca di fonti e materiale documentario.

I primi due grandi storici del mondo moderno, Machiavelli (1469-1527) e Guicciardini (1483-1540), affermano che il compito dello storico non è più raccontare la storia dell’umanità dal giorno della creazione, bensì spiegare un determinato periodo analizzando gli uomini, le cose e le circostanze che lo hanno determinato. Nei primi anni del cinquecento, con l’avvento dei comuni e delle corporazioni delle arti, il fattore economico diventa sempre più importante nella vita dei popoli.

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La Riforma e la Controriforma 33offrirono motivo di reintrodurre,

accanto all’elemento politico, il fattore spirituale. Ben presto però l’elemento politico riprenderà il sopravvento anche quando si trattano questioni religiose: i criteri di valutazione instaurati dalla storiografia fiorentina furono applicati anche alla “Istoria del concilio Tridentino”34 (1619).

33 Il 31 ottobre 1517 un frate tedesco di nome Martin Lutero attaccò alla

porta della Cattedrale di Wittenberg un lungo foglio dove erano elencati 95 tesi contro la Chiesa Cattolica e contro la vendita di indulgenze. L’appello di Lutero contro l’usanza di vendere il perdono per i peccati si diffuse rapidamente e infiammò la protesta religiosa. Le proteste causarono divisioni in seno alla Chiesa e portarono ad anni di guerra. Ciò a cui Lutero aveva dato inizio era la Riforma. Le prime fasi della Riforma avvennero in Germania e in Svizzera. Da lì si diffuse in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Scandinavia. Mentre la Riforma si diffondeva in tutta Europa, e tra cattolici e protestanti scoppiavano guerre sanguinose, la Chiesa Cattolica capì che era giunto il momento di reagire. Era necessario cercare di arginare il diffondersi del protestantesimo e salvaguardare l’unità dei cristiani, o almeno quel che ne rimaneva dopo la predicazione di Lutero e di Calvino. Questo movimento prese il nome di Controriforma, cioè “Riforma contro la Riforma protestante”. Il primo papa a impegnarsi nella Riforma fu Paolo III, eletto nel 1534. Egli decise la formazione di nuovi ordini religiosi, ad esempio i gesuiti, per rendere più efficace la predicazione e l’insegnamento della dottrina cattolica. Nel 1542 istituì l’Inquisizione romana, un tribunale che doveva combattere il diffondersi del protestantesimo e dell’eresia. Infine, nel 1545 convocò il Concilio di Trento, un’assemblea di tutti i vescovi della Chiesa che durò fino al 1564 e che prese importanti decisioni sia sui punti della fede cattolica sia sull’organizzazione della Chiesa stessa. (Prof. G. Galati).

34 Paolo Sarpi (1552-1623), fu uno storico, un teologo e un giurista

veneziano. Nel 1605 esplode un grandissimo contrasto tra la Repubblica di Venezia e il papato in conseguenza dell’arresto, autorizzato dal governo veneziano, di due preti colpevoli di reati comuni. La Santa Sede, ritenendo più che mai valido il principio confermato dal Concilio di Trento secondo il quale la Chiesa gode di autonomia giuridica rispetto allo Stato (che non può quindi punire gli ecclesiastici), reagisce con estremo vigore: il pontefice Paolo V emana contro Venezia l’interdetto, in base al quale nessuna

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Alla metà del XVII sec. l’Europa fu sconvolta da varie rivoluzioni che ebbero un fortissimo impatto sulla storiografia poiché furono aperti archivi pubblici e furono diffusi documenti secretati fino a quel momento.

Alla fine del XVII sec. la storiografia si dedica a raccogliere un materiale sterminato di notizie, risalendo alle fonti documentarie e ordinandole secondo precise regole cronologiche, con l’intento di diffondere vite e storie segrete di particolari personaggi.

Durante l’Illuminismo la congregazione benedettina di S. Mauro, in Francia, scrisse in ordine cronologico una quantità di notizie che fu ordinata sotto il nome di Annales ordinis s. Benedicti. Questo modus operandi uscì presto dal campo della storia ecclesiastica e fu applicato alla storia politica; la Bibbia continuava ad essere fonte della storia antica dell’umanità ma riletta con metodo critico e verificata da precisi richiami storici.

cerimonia religiosa può più essere celebrata nel territorio della Repubblica. La Repubblica di Venezia si avvale allora di Paolo Sarpi per sostenere le ragioni della libertà giurisdizionale dello Stato. Paolo Sarpi interviene con il peso della sua autorità giuridica e con la forza della propria personalità, rivendicando i diritti dello Stato contro la Chiesa e appellandosi, contro il pontefice Paolo V, all’autorità del Concilio. Viene perciò scomunicato. L’Istoria del Concilio Tridentino, in otto libri, racconta gli avvenimenti intercorsi fra il papato di Leone X (1513-1521) e il 1564. Si analizzano quindi i fatti che precedettero e poi quelli che caratterizzano il Concilio di Trento; questi ultimi sono minuziosamente raccontati in forma di diario. Da Enciclopedia Treccani.

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La storia non appariva più opera solo dei potenti ma risultavano chiare le motivazioni politiche, sociali, culturali, morali e religiose che l’avevano determinata.

Voltaire (1694-1778) rompe la tradizione degli Annales ordinando gli eventi secondo la loro interna connessione e dando così una visione d’insieme della vita di uno stato: nasce la prima opera storica moderna, poiché è il primo tentativo in senso laico e critico di una «storia dello spirito umano». In Inghilterra Hume (1711-1776) inserisce qualcosa di più poiché considera l’entusiasmo religioso dei puritani come causa della libertà politica degli inglesi.

All’inizio del XIX sec. Hegel propone la nuova concezione dialettica della storia. Ogni fase di essa è un momento necessario che nega il precedente, ma contemporaneamente afferma la sua antitesi. Questo modo di interpretare la storia giustifica coloro che affermavano la ripetizione nei secoli delle fasi storiche. L’uomo difficilmente ha la saggezza di prendere quello che c’era di buono nel periodo storico vissuto precedentemente e servirsene per creare il suo futuro. In questo modo spesso i periodi storici sono uno la reazione all’altro.

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Alla fine del ‘700 in Italia iniziò la discussione sui grandi problemi della storia nazionale e la storiografia contribuì a trovare le radici di quella unità che si intendeva costituire. Indubbiamente le idee del romanticismo tedesco e del liberalismo francese furono da stimolo per questa coscienza civile che gli intellettuali italiani cercavano di creare.

La storiografia della seconda metà del secolo è dominata dal problema sociale: il fattore economico diventa modo di interpretazione della storia. Il primato dell’economia sulla politica diventa primato della società sullo stato e nasce quindi una ricerca delle leggi che regolano la vita sociale: la sociologia. Nei primi anni del ‘900 alcuni intellettuali cercarono di conciliare la storiografia con la sociologia e, nel momento della crisi del protestantesimo liberale, la storia con la religione. In questo schema però fu necessario inserire l’economia, che aveva sempre più importanza e che influenzò talmente tanto la vita quotidiana, da dover essere connessa strutturalmente sia con la vita politica sia con la vita spirituale.

Contemporaneamente la storiografia valutava in maniera autonoma lo svolgimento della storia, cercando di rimanere il più

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possibile indipendente dalle scuole filosofiche, sociologiche e politiche del periodo.

Nel secondo dopoguerra gli storiografi avevano il grosso problema di valutare in modo distaccato la storia degli anni più recenti. Naturalmente i regimi totalitari che erano stati sconfitti nella guerra appena finita, influenzavano moltissimo la capacità di leggere gli avvenimenti appena trascorsi.

Negli anni cinquanta Parigi divenne la capitale della “nuova storia”, chiamata così perché si occupava principalmente di analizzare le situazioni economiche e sociali. L’interesse per le classi popolari, dei contadini e degli operai risentì sicuramente anche del fatto che in Europa rimaneva un regime totalitario frutto della rivoluzione sovietica del 1917.

Negli anni sessanta la Germania Est era completamente assorbita delle regole del regime sovietico mentre la Germania Ovest cercava un’identità nazionale ritornando ai valori culturali del medioevo, in cui era stata più che protagonista. Nel resto d’Europa si cercava un’antropologia storica che avesse delle basi ben definite nelle tradizioni europee. Questa ricerca, anche se riuscì a produrre una letteratura storica abbondante, ma poco

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