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Intervento MBSR nel paziente fibromialgico come trattamento integrativo alla farmacoterapia

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Academic year: 2021

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Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

____________________________________________________________

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute

" Intervento MBSR nel paziente fibromialgico come trattamento

integrativo alla farmacoterapia "

RELATORE

Prof. Ciro Conversano

CANDIDATO

Rebecca Ciacchini

ANNO ACCADEMICO: 2016/2017

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Indice

PARTE I : Introduzione

1. Dolore e Fibromialgia... 1

1.1 Fibromialgia: etiopatogenesi, sintomi, criteri diagnostici e accenni sul trattamento ... 1

1.2 Il dolore... 5

1.2.1 Verso una definizione... 5

1.3 Fisiologia della nocicezione... 7

1.3.1 I nocicettori e fenomeni correlati... 7

1.3.2 Cellule del midollo spinale e vie di trasmissione... 9

1.3.3 Modulazione del dolore... 10

1.3.4 Accenno all dimensione affettiva e all'apprendimento del dolore... 12

1.3.5 Ipotesi riguardo il dimorfismo di genere... 12

1.4 Il dolore cronico... 14

1.4.1 Psicologia del dolore cronico e componente affettiva del dolore ... 17

1.4.2 La rabbia... 17

1.4.3 La paura... 18

1.4.4 Componente cognitiva del dolore... 19

1.4.5 Il comportamento di dolore... 21

2. Mindfulness e dintorni... 23

2.1 Mindfulness: le origini... 23

2.1.1 Il momento presente... 28

2.3 Meditazione e neuroplasticità... 29

2.4 Terapia mindfulness-based per la riduzione dello stress: MBSR... 32

2.4.1.La struttura del protocollo MBSR... 35

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PARTE II : Un protocollo di ricerca, fibromialgia e MBSR

1. Obiettivi e ipotesi... 41

2. Metodo... 42

2.1 Partecipanti... 42

2.1.1 Campione di persone fibromialgiche partecipante al trattamento... 42

2.1.2 Criteri di inclusione ed esclusione... 43

2.2 Procedura e strumenti... 43 2.3 Analisi statistiche... 48

3. Risultati... 49

3.1 Analisi descrittiva... 49 3.2 Test di significatività... 55

4. Discussione... 57

4.1 Limiti... 57 4.2 Conclusioni... 58 Bibliografia...

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RIASSUNTO

La Fibromialgia è una malattia reumatica a carattere cronico che causa dolore diffuso in tutto il corpo e ipersensibilità al tatto con andamento altalenante per intensità e localizzazione. Il dolore cronico è il sintomo principe della fibromialgia al quale si legano frequentemente affaticamento intenso, disturbi del sonno, disturbi cognitivi, mnestici ed emicrania con un notevole impatto sul livello di stress percepito. I pazienti affetti da fibromialgia sono prevalentemente di sesso femminile e presentano comorbilità con disturbi psichiatrici e psicologici di vario tipo, inclusi disturbi alimentari, d'ansia e disturbi del tono dell'umore (nello specifico, depressione). Intuitivamente possiamo comprendere che il dolore cronico influenza in modo negativo la qualità della vita dei pazienti, il sonno, le relazioni sociali e soprattutto la sfera lavorativa con un impatto quasi catastrofico sul senso di autoefficacia e sull'indipendenza. Il trattamento per la fibromialgia include sia terapie farmacologiche che non, allo scopo di mitigare i sintomi e migliorare la qualità della vita anche se la ricerca di una terapia efficace e standardizzata è ancora in corso. In questo contesto, negli ultimi anni, sono emerse delle psicoterapie mindfulness-based per il trattamento e la gestione dello stress che si sono dimostrate efficaci nell'ambito del dolore cronico. Questo studio ha riguardato N=9 pazienti affette da fibromialgia che sono state sottoposte ad un protocollo MBSR, della durata di due mesi circa. Le pazienti sono state testate a mezzo di reattivi in sei aree differenti (qualità del sonno, tono dell'umore, consapevolezza del momento presente, ansia di stato e di tratto, stress percepito e qualità della vita) prima e dopo il trattamento. Nell'interpretare i risultati è emerso un miglioramento statisticamente significativo di tutto il gruppo per quanto riguarda il tono dell'umore e gli stati affettivi, mentre N=6 partecipanti mostrano livelli inferiori di ansia e di stress percepito oltre che un'aumento della qualità del sonno. La presente ricerca mostra risultati incoraggianti che dovrebbero ispirare ricerche future sull'argomento, con l'indicazione di aumentare la numerosità del campione.

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1. Dolore e fibromialgia

1.1 Fibromialgia: Etiopatogenesi, sintomi, criteri diagnostici e accenni sul trattamento

Secondo la più recente classificazione dell' American college of Rheumatology (ACR) (2010), la Fibromialgia (FM) è una malattia reumatica a carattere cronico che causa dolore diffuso in tutto il corpo e ipersensibilità al tatto con andamento altalenante per intensità e localizzazione. Colpisce dall'1 al 5 % della popolazione adulta privilegiando il genere femminile.

Tra le sue caratteristiche sintomatologiche da sottolineare quelle riguardanti il sonno, la memoria e lo stato emotivo, oltre all' astenia persistente e all'emicrania. Non esiste ad oggi un test capace di individuare questa patologia con certezza, come non esiste una cura 'definitiva', sebbene alcuni farmaci possano ridurre l'impatto dei sintomi insieme ad altre terapie di natura non farmacologica (Wolfe et al., 2010).

Come accennato inizialmente, il criterio diagnostico per la FM ha subito delle variazioni significative nel corso degli anni, a partire dal 1990 (Wolfe, 2010). Fino al 2010 il criterio principale per la diagnosi all'esame obbiettivo, si basava sulla presenza della positività dei tender points. Dal 2011 L' ACR, per una diagnosi corretta di FM, prevede la valutazione della sintomatologia a mezzo di due scale (Widespread Pain Index ; Symptom Severity Scale) e una persistenza dei sintomi di almeno tre mesi consecutivi in assenza di comorbilità (Hauser & Wolfe., 2010). Questa modifica del criterio diagnostico ha di fatto ampliato la popolazione dei pazienti FM rendendo i campioni più eterogenei.

Sebbene in passato ci siano stati molti dubbi da parte della comunità scientifica riguardo alle caratteristiche biologiche della FM, oggi sappiamo con certezza, grazie anche alle tecniche di brain imaging, che questa patologia ha una forte componente biologica (Park et al., 2015). Malgrado la patogenesi della FM non sia stata ancora pienamente compresa, viene considerata come la risultante dell'interazione di componenti fisiche, psicologiche, genetiche, neurobiologiche e ambientali. La supposta familiarità della FM e l'ormai noto background genetico del dolore, potrebbero sostenere l'esistenza di una componente genetica.

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geni serotoninergici, dopaminergici e catecolaminergici potrebbero costituire un fattore di rischio per lo sviluppo della FM, con alcuni polimorfismi capaci di influenzare il livello di gravità dei sintomi (Maurel et al., 2011).

La sintomatologia della FM secondo le linee guida dell' American College of Rheumatology è costituita al primo posto dalla presenza di dolore cronico, che può essere diffuso in tutto il corpo e oscillare tra lieve-moderato e intenso. Ai fini della conoscenza della FM è importante indagare i costrutti legati al dolore maggiormente studiati in ambito medico e psicologico. Tra questi troviamo il:

Pain Catastrophizing: consiste nell'orientamento estremamente negativo nei confronti dello stimolo doloroso; si compone di tre elementi. La ruminazione (incapacità di evitare di pensarci), l'esagerazione dei sintomi e la sensazione di essere senza speranza se non si supera il dolore (Sullivan et al., 1995).

Pain Acceptance: espressione delle psicoterapie di terza generazione, è legato al concetto per cui una migliore accettazione porta un migliore adattamento . Piuttosto che concentrarsi sul dolore e sui tentativi falliti di controllarlo o diminuirlo, si propone di investire questa energia nel raggiungimento di obbiettivi rilevanti per l'individuo (Mc Cracken et al., 2004).

Infine, la Pain psychological inflexibility : l' ACT (acceptation and commitment therapy) ci rivela come osservare la realtà esterna senza essere influenzati dai nostri pensieri e pregiudizi sia essenziale per agire in accordo ai nostri valori e desideri. Non riuscirci significa avere inflessibilità psicologica (Hayes et al., 2006).

Come accennato inizialmente, la FM è una patologia che presenta un rischio molto alto di comorbilità. Ecco alcuni sintomi che si possono presentare associati al dolore :

• Ipersensibilità al tatto o alla pressione, a carico dei muscoli e talvolta della pelle o delle articolazioni

• Affaticamento intenso

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• Alterazioni dei processi mnesici e pensieri offuscati • Depressione o Ansia

• Emicrania

• Problemi digestivi come IBS e reflusso gastroesofageo • Vescica iperattiva [OAB]

• Dolore pelvico

• Alterazione dell'articolazione temporomandibolare [TMD]

I sintomi possono variare di intensità e avere un'andamento altalenante. Mentre sono stati fatti dei progressi nell'individuare e classificare i sintomi della FM, non altrettanto dicasi per la valutazione della risposta soggettiva al trattamento. La maggior parte dei pazienti presenta disturbi dell'umore, anomalie cognitive e disfunzioni sessuali che hanno un forte impatto sulla qualità della vita (Schmidt-Wilcke et al., 2011). Non sono dunque sorprendenti gli studi che dimostrano la tendenza dei pazienti FM ad essere poco in salute, assenteisti dal lavoro, disoccupati e disabili (Annemans et al., 2009).

Il trattamento per la sindrome FM include sia terapie farmacologiche che non, allo scopo di mitigare i sintomi e migliorare la qualità della vita dei pazienti. Il fine ultimo è quello di alleggerire il paziente FM dal dolore muscoloscheletrico e di accentuare le sue capacità psicologiche di risposta cognitiva, di autogestione e self-efficacy anche rispetto alle patologie che si presentano in comorbilità. Il trattamento farmacologico approvato dalla U.S. Food and Drug Administration (FDA) nel 2007, incude Pregabalin, Duloxetina e Milnacipran. In off label sappiamo che vengono utilizzati antidepressivi, analgesici, anti-infiammatori e miorilassanti (Terhorst et al., 2011).

Nei trattamenti non farmacologici, possiamo trovare un'ampia lista di terapie atte al miglioramento nella gestione del dolore e della resistenza psicofisica a breve e a lungo termine.

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La tabella che segue riassume i principali trattamenti:

Tipo Categoria Esempio

Psicologico Cognitivo

comportamentale , cognitivo

Sessioni di terapia cognitivo comportamentale , Mindfulness training Fisico Passivo Attivo Multimodale Massaggio/agopuntura Aerobica/yoga

Combinazione delle due (A/P) Multicomponenziale Varie Combinazione di più interventi

come farmacologico, psicologico, esercizio fisico

Modificazione dello stile di vita

Indipendente o con assistenza

Perdita di peso, cambiamenti nella dieta (come vegetariana o gluten free), abitudini del sonno migliorate etc.

Altre terapie Terpie mente-corpo Nutraceutica

Altro

Meditazione,ipnosi,tai chi..

S-adenosyl-methionine, coenzima Q10, omega 3, alghe

Terapia transcranica a stimolazione diretta

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1.2 Il dolore

La comunità scientifica ha ormai riconosciuto che con la parola "dolore" si identifica un'esperienza complessa in cui si intrecciano componenti di diverso tipo che appartengono sia alla realtà corporea che a quella psicologica (Molinari, 2010). Nonostante gli enormi progressi rispetto al passato, ancora oggi la medicina occidentale tende a considerare il dolore come un problema, spesso di natura tecnica, spogliandolo di fatto del suo profondo significato personale.

In generale quando si ha a che fare con l'essere umano è utile ricordarsi che la cosa più importante è osservare, ascoltare e imparare ciò che comunica o tenta di comunicare tramite il linguaggio multiforme e sempre nuovo del suo corpo; in questo senso dunque, è necessario lasciare da parte certezze e dogmi per guardare al dolore con una prospettiva nuova, frutto di una vera osservazione.

Come esseri umani l'esperienza del dolore è qualcosa che incontriamo spesso. Essa si presenta in modi molto diversi tra loro: possiamo trovarla durante eventi naturali (parto, cambio dei denti, crescita) ma anche nei rapporti intimi (di natura sessuale ad esempio), può assumere anche caratteristiche croniche, oppure raggiungere il massimo della sua espressione in occasione di patologie organiche gravi come quelle oncologiche (Ercolani e Pasquini, 2007). In ogni caso, è un fatto che nella vita incontreremo il dolore, che ne faremo esperienza, nelle sue molteplici forme. Se fino alla fine degli anni Cinquanta le ricerche si sono concentrate sulla dimensione anatomica e neurofisiologica del dolore, seguendo l'idea che questo fosse riducibile ad un'esperienza puramente sensoriale, oggi il dolore può essere considerato nel suo complesso, una realtà che interagisce con tutti gli aspetti (inclusi quelli cognitivi, motivazionali e affettivi) che ci caratterizzano come esseri umani (Minuzzo, 2004). In quest'ottica, l'individuo gioca un ruolo fondamentale nell'aumentare, mantere ed originare la sofferenza che deriva dal dolore e in alcuni casi, il dolore stesso.

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1.2.1 Verso una definizione

Definire il dolore non è cosa semplice: la difficoltà principale consiste nel riuscire a sintetizzare in qualche parola una realtà così complessa che viene costruita in maniera soggettiva dalla persona che la vive, la cui gestione richiede conoscenze flessibili ed in costante aggiornamento. Il dolore a cui si riferisce il paziente quando si rivolge al medico è spesso associato alla percezione di cambiamento che si presenta in modo inaspettato e inaccettabile che scaturisce paura nel paziente e rafforza allo stesso tempo la volontà di ritornare allo stato precedente (Notaro et al., 2009).

Sthepenson (2000) definisce il dolore il quinto segno vitale, proprio per la sua caratteristica funzionale di allarme, in quanto capace di indicare precocemente la presenza di un danno al pari di altri segni più conosciuti ( frequenza cardiaca, respiratoria, pressione arteriosa...etc).

Esso può anche trasformarsi e diventare una condizione cronica, perdendo il carattere funzionale e acquisendo le caratteristiche della cronicità in patologia (Bonica, 1969); ecco come da "sintomo" dolore, passiamo rapidamente al dolore come "malattia" (Portenoy, 2006).

L' International Association for the Study of Pain (IASP) definisce il dolore "un'esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata ad un danno reale o potenziale del tessuto, o descritta con riferimento a tale danno" (Turk & Melzack, 2001). Questa definizione, accolta di buon grado dall' OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) comprende la dimensione esperienziale somatopsichica unitaria che coinvolge il dolore. Questo fenomeno quindi si lega per natura all'intensità dello stimolo nocicettivo ma anche all'elaborazione soggettiva che il soggetto compie, alla sua capacità di gestire ed integrare elementi cognitivi, valutativi, affettivi ed emozionali dell'esperienza.

Guardando il dolore da una prospettiva storico-culturale possiamo osservare una dicotomia esistenziale verso quest'esperienza; se da un lato infatti, il dolore rappresenta il male da cui fuggire, in altri casi è considerato il giusto mezzo per pesare la vita. Agli albori della civiltà, dove magia e medicina erano strettamente collegate, il dolore era considerato come la malattia, una punizione divina (De Bernardo, 2002). La cultura giudaico cristiana, mille anni più tardi, attribuisce al dolore grande importanza poichè questo è il mezzo di espiazione dei peccati, il tramite per salvare l'anima (logica della pedagogia della

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sofferenza). Nella civiltà contemporanea osserviamo come da una parte si delinea la possibilità di togliere di scena il dolore mediante l'impresa tecnologica, mentre dall'altra si diffonde l'attitudine a ricercare il dolore stesso a mezzo di piercing, tatuaggi o altro. Questo forse perchè, l'individuo di oggi, abbandonato a se' stesso ed estraneo ad un universo incerto, vuole appropriarsi della propria dimensione di appartenenza tramite questo gesto (Agrò et al., 2006).

1.3 Fisiologia della nocicezione 1.3.1 I nocicettori e fenomeni correlati

Per nocicezione intendiamo quel processo sensoriale che ha la funzione di rilevare e convogliare al sistema nervoso centrale (SNC) i segnali e le sensazioni dolorifiche. Il sistema nocicettivo, nella sua concezione più ampia, si compone di:

1) un insieme di fibre nervose afferenti che trasportano lo stimolo dalla periferia al centro (SNC)

2) varie tipologie di neuroni distribuite nel midollo spinale, nel tronco dell'encefalo, nel diencefalo e nel telencefalo.

Il sistema nocicettivo ha inoltre relazioni con altre aree cerebrali che ci hanno permesso di associare proprietà di vario tipo allo stimolo algico, che affronteremo in seguito, come ad esempio la componente affettiva ed emozionale.

Il dolore che comunemente definiamo fisiologico è il risultato dell'attività recettoriale periferica a carico dei nocicettori. I nocicettori o noxicettori (dal latino noxa = danno) sono nervi afferenti primari le cui terminazioni periferiche rispondo in modo differenziato agli stimoli nocivi, sia che siano di tipo termico, meccanico e chimico.

In generale possiamo trovare nocicettori cutanei (meccanocettori e polimodali), muscolari, articolari e viscerali. In particolare possiamo dividerli in categorie in base alla qualità delle fibre, al diametro delle stesse e alla velocità di conduzione assonale (Ciaramella, 2015).

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Le fibre che compongono i nocicettori sono: 1) fibre Aδ :

(medio diametro 2-5 micron) dotate di un rivestimento mielinico, rispondo a stimoli meccanici e termici. La loro velocità media di conduzione è 15m/secondo.

2) fibre C:

(piccolo diametro 0,3-3 micron) non dotate di rivestimento mielinico, nella classe più ampia definita polimodale (C-PMN) rispondono a stimoli nocivi termici, meccanici e chimici che vengono applicati sulla cute. La loro velocità di conduzione è 1m/secondo.

Se sollecitiamo le regioni distali degli arti con stimoli brevi ed intensi, possiamo osservare due sensazioni distinte che prendono il nome di fenomeno del doppio dolore. La prima sensazione, detta primo dolore è di carattere puntorio, è precoce e acuta oltre che piuttosto breve, si avverte nei pressi della cute e non supera la durata dello stimolo. La seconda è detta secondo dolore, è tardiva, sorda e relativamente prolungata. Consiste di una sensazione diffusa e mal localizzata avvertita sia sulla cute che nei tessuti più profondi (Bowsher et al., 1996). Se si bloccano le fibre Aδ tramite pressione, vediamo scomparire il primo dolore; tramite anestetici locali invece, è possibile bloccare il secondo dolore (azione sulle fibre tipo C). Questi dati confermano l'ipotesi che entrambe le categorie di fibre sopracitate, collaborino indipendentemente alla percezione nocicettiva.

A proposito della fisiologia del dolore, è utile ricordare qualche fenomeno che può interessare le fibre nocicettive (Ciaramella, 2015):

1. Allodinia:

per allodinia si intende la situazione in cui stimoli categorizzati come innocui e non nocivi producono una percezione dolorosa significativa.

2. Iperalgesia:

l'iperalgesia consiste nell'aumento della percezione dell'intensità dello stimolo. Possiamo distinguere un' iperalgesia primaria (localizzata nella sede della lesione) ed una secondaria (localizzabile nelle zone circostanti).

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3. Sensibilizzazione:

questa proprietà è posseduta da entrambe le fibre Aδ e C. Può essere definita come un aumento di sensibilità e un abbassamento della soglia di attivazione del recettore in seguito alla stimolazione nociva continua e ripetuta. Nel caso delle fibre C, la stimolazione nocicettiva continua provoca liberazione di potassio (K+), sintesi di prostaglandine ( PG) e di bradichinina (BK). Le PG aumentano la sensibilità delle terminazioni alla BK e ad altre sostanze; inoltre stimolano la produzione di sostanza P e conseguentemente di istamina (H) da parte delle mastocellule e di serotonina (5HT) da parte delle piastrine che contribuiscono all'estensione dell'iperalgesia e iperstesia sensibilizzando i recettori.

1.3.2 Cellule del midollo spinale e vie di trasmissione

I nocicettori afferenti primari una volta rilevato lo stimolo nocicettivo dirigono il segnale alle cellule di proiezione delle corna dorsali del midollo spinale. Queste cellule bersaglio sono distinguibili in (Ciaramella, 2015):

1. Neuroni di proiezione:

la cui funzione è quella di trasmettere il segnale ai centri cerebrali superiori. È possibile raggrupparli a seconda della loro terminazione (spinotalamici, spinoreticolari, spinomesencefalici, spinocervicali, spinobulbari).

2. Interneuroni eccitatori:

hanno il compito di trasmettere lo stimolo ad altre categorie cellulari medianti i riflessi spinali.

3. Interneuroni inibitori:

neuroni specifici che contribuiscono a modulare la trasmissione.

Dal punto di vista anatomico, se il primo neurone è costituito dai nervi periferici (somatici e viscerali), il secondo neurone ha il corpo cellulare nella sostanza grigia midollare (margine, nucleo proprio o intermedio). Da questo neurone originano le fibre dei sistemi ascendenti che trasmettono l'informazione ai centri cerebrali superiori. Le vie ascendenti sono costituite da tre gruppi anatomicamente distinti:

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• Via nocicettiva lemnisco spinale:

anche detta afferente primaria, si costituisce di fasci spinotalamici laterali (neospinotalamico e paleospintalamico), spinomesencefalici (distinguono lo stimolo epicritico e protopatico) e spinoreticolari. Questi fasci procedono separatamente ma non possono essere distinti nel midollo dove si intrecciano; per comodità, vengono definiti nel loro insieme sistema anterolaterale.

• Sistema ascendente multisinaptico:

anche detto extralemniscale, si compone di fibre propriospinali e della formazione reticolare. È formato da una catena di brevi neuroni che ricevono l'input dai nocicettori profondi.

• Vie accessorie: possono contribuire alla percezione nocicettiva in alcune situazioni particolari. Due delle più importanti sono il fascio spino-cervicale e il tratto di Lissauer (rispettivamente utili nella conduzione del dolore epicritico e protopatico).

Secondo Melzack e Casey (1968) le vie afferenti nocicettive possono essere classificate funzionalmente in questo modo:

1) Via neospinotalamica:

comprende le afferenze che dal midollo vanno al talamo laterale nei nuclei del complesso ventrobasale (VB) e nel gruppo dei nuclei posteriori (PO) e da qui alla corteccia somatosensitiva. I target della via neospinotalamica sono: Corteccia Somatosensoriale Primaria (S1), secondaria (S2) e la Corteccia Cingolata Anteriore (ACC) (Almeida et al.,2004). Questa via sarebbe la responsabile dell'attribuzione sensoriale discriminativa della nocicezione.

2) Via paramediana:

si compone delle afferenze che dal midollo si dirigono al talamo mediale, in particolare ai nuclei CL e SM. Da qui, le fibre proiettano alla corteccia associativa. Questa via medierebbe l'aspetto affettivo del dolore.

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1.3.3 Modulazione del dolore

La modulazione del dolore passa in prima battuta dai neuroni del corno dorsale del midollo spinale, che hanno la funzione di sopprimere o stimolare positivamente la risposta nocicettiva. Melzack & Wall (1965) si sono basati su questo principio nella creazione della famosa teoria del cancello anche detta gate control of pain; il principio è che quando le fibre a grosso e piccolo diametro raggiungono il corno posteriore del midollo spinale, incontrano gli interneuroni inibitori che quindi diminuiscono la frequenza di trasmissione del segnale. Nello specifico, le fibre a piccolo diametro hanno la funzione di inibire gli interneuroni mentre quelle a grosso diametro quella di stimolarli; in questo modo possiamo capire come la pressione sulla cute (che è uno stimolo per le fibre a grosso diametro) se avviene in contemporanea ad una stimolazione per le fibre a piccolo diametro, provocherà una ridotta percezione del dolore.

I neuroni presenti nel corno dorsale del midollo spinale sono:

1) Neuroni nocicettivi specifici (NS) i quali rispondono in modo esclusivo a stimoli soprasoglia dolorosi

2) Neuroni non nocicettivi (N-NOC) i quali si attivano con stimolazione non nociva, di bassa intensità

3) Neuroni ad ampio range dinamico (WDR) ; questa categoria è molto importante nella modulazione del dolore. I WDR rispondono a stimoli nocicettivi e non, sia di natura meccanotermica che chimica.

La modulazione encefalica coinvolge principalmente il mesencefalo, il talamo, l'ipotalamo, i nuclei lentiforme e piriforme, l'amigdala e la corteccia somatosensoriale, insulare, prefrontale, del cingolo anteriore e parietale. La modulazione passa attraverso proiezioni a circuito delle regioni sopracitate verso il grigio periaqueddutale (PAG) fino alle corna dorsali spinali che regolano il traffico della sensazione di dolore cambiando di fatto la sua esperienza (Fields et al., 2005). Il ruolo del PAG è fondamentale per esplorare il concetto di analgesia endogena; la sua stimolazione infatti provoca analgesia al dolore grazie alla comunicazione con il tronco dell'encefalo e al rilascio sincronizzato di endorfine

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(Ossipov et al., 2010). Il circuito appena descritto risulta essere importante per molti altri contesti (esempio, il dolore cronico) ed è parte integrante del sistema modulatorio discendente e sensibile alle sostanze oppioidi.

La modulazione del dolore è il risultato dell'intreccio di circuiti inibitori, antinocicettivi e di circuiti facilitatori che si attivano in seguito alla stimolazione dolorosa (Ercolani & Pasquini, 2007).

1.3.4 Accenno all dimensione affettiva e all'apprendimento del dolore

Secondo Melzack e Casey (1968), l'esperienza del dolore è un costrutto multidimensionale. Tra le sue dimensioni possiamo trovare componenti sensoriali discriminative (come l'intensità dello stimolo, fattori spaziali e temporali) e la risposta avversativa che viene prodotta tramite elaborazione cognitiva (sensazione di spiacevolezza). La sensazione che il dolore è "spiacevole" riflette un tentativo del cervello di dare un senso al dolore. Wade e collaboratori (1996) hanno costruito un modello di apprendimento del dolore, anche detto processo-dolore, esattamnente su questi presupposti:

1) Primo stadio : componente sensoriale discriminativa, si riferisce alla valutazione immediata relativa al dolore. È lo stadio che tipicamente viene riconosciuto dal medico in una valutazione

2) Secondo stadio: fa riferimento all'immediata spiacevolezza che emerge dopo le prime manifestazioni sensoriali, autonomiche e della percezione del contesto. È una prima, limitata, elaborazione cognitiva e comprende il senso di fastidio legato all'intensità del dolore.

3) Terzo stadio: è un'elaborazione cognitiva a lungo termine, comprende la sofferenza vera e propria, la frustrazione, la rabbia e l'ansia. È associata al pain behaviour ovvero all'insieme di comportamenti lamentosi che si associano al dolore; questo comportamento spesso si associa psicologicamente con alcuni vantaggi (maggiore cura da parte degli altri, possibilità di evitare le responsabilità).

4) Quarto stadio: si riferisce a diversi livelli di elaborazione dell'esperienza dolore che comprendono varie vie spino-cerebrali.

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1.3.5 Ipotesi riguardo il dimorfismo di genere

Perchè uomini e donne mostrano differenze quando si misura il dolore e nell'analgesia? Sicuramente entrambi percepiscono il dolore e sono capaci di modulare il dolore in modo endogeno e tramite somministrazione di farmaci. D'altro canto, è difficile trovare un unica ragione che risponda al perchè esista questa differenza evolutiva.

Una spiegazione possibile è data dalla differenza di pressione ambientale sui due generi: osservando l'evoluzione umana, l'uomo come cacciatore e guerriero ha incontrato la possibilità di provare dolore di tipo traumatico e acuto più frequentemente della donna. In opposizione, le donne hanno sempre avuto esperienza di dolore viscerale a causa del sesso o della gravidanza, molto più frequentemente degli uomini (Unruh, 1996; Berkley, 1997). Forse i due generi hanno sviluppato circuiti modulatori del dolore in base a queste necessità. Sfortunatamente, questioni evoluzionistiche come queste sono difficili da dimostrare giuste o sbagliate: sembra chiaro però, che esistano delle differenze importanti nella processazione neurale del dolore e nella sua inibizione, nelle specie mammifere inclusi gli esseri umani.

Per rispondere al perchè il sesso femminile è considerato uno dei più importanti fattori predisponenti l'insorgenza del dolore sono state vagliate varie ipotesi tra cui l'influenza degli ormoni gonadici circolanti, il genotipo, alcune differenze dell'organizzazione del sistema nervoso (Fillingim & Maixner, 1995) e l'influenza di fattori psicologici.

Gli androgeni, componenti di natura steroidea che stimolano e controllano lo sviluppo ed il mantenimento delle caratteristiche maschili nei vertebrati, sono capaci di opporsi all'azione dei glucocorticoidi sull'ippocampo proteggendo i neuroni (Aloisi & Sorda, 2011). Alcuni studi sui ratti hanno confermato questa teoria, sottolinenando come i ratti trattati con estrogeni presentassero maggiori diramazioni dendritiche e maggiori sinapsi ippocampali rispetto a quelli non trattati. Inoltre, la quantità di estrogeni circolanti agisce sui meccanismi di apprendimento del dolore attraverso l'aumento di produzione di NMDA e l'aumento dell'attività colinergica (Ach) ippocampale. Questi dati suggeriscono che ci sia un dimorfismo causa del coinvolgimento ormonale nella soglia e nella tolleranza al dolore in soggetti normali.

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Anche il genotipo può influenzare la risposta al dolore (Mogil, 2000); a seguito di alcuni studi si è evidenziato come le donne trasmettano per via ereditaria predisposizioni a malattie con dolore cronico in misura maggiore degli uomini, oltre che reagire in modo meno efficace ad alcuni analgesici tra i più utilizzati (ad esempio la morfina) ed agli antagonisti per i recettori oppioidi.

Studi condotti tramite stimolazione termica (riscaldamento o raffreddamento della cute che stimolano i nocicettori) hanno concluso che le femmine rispetto ai maschi mostrano una maggiore capacità discriminativa degli stimoli, di natura sensoriale, ma anche un'attenzione elevata allo stimolo doloroso che potrebbe spiegare perchè le donne riferiscono più frequentemente di provare dolore e perchè cercano più cure rispetto agli uomini (Soetanto et al., 2004). Altri studi condotti con stimolazione di tipo elettrico, meccanico (pressure pain) e chimico (Meulders et al., 2012) sembrano confermare una differenza di genere nella risposta al dolore.

In una ricerca osservazionale condotta recentemente a Pisa (Ciaramella A., 2015, pp 305-306) è stata confermata la differenza nei due generi rispetto alla tolleranza al dolore, ma non quella relativa alla soglia.

1.4 Il dolore cronico

Il dolore cronico di per se' non si presenta improvvisamente: per natura infatti, appare dopo diversi mesi o settimane, svariati test clinici ed esami di approfondimento, fisioterapie o terapie di altra natura a cui si sono sottoposti i pazienti nella speranza di porre fine alla propria sofferenza. Questa situazione è indubbiamente stancante, e spesso le persone esprimono il proprio sconforto psicologico e la frustrazione fisica nella perdita di fiducia verso gli specialisti. Ci si sente incompresi, abbandonati e incapaci di migliorare.

Come per il dolore come esperienza, è utile pensare al dolore cronico come un sistema complesso e ambivalente che accoglie in se' aspetti spesso contrastanti. Da una parte abbiamo il paziente: il suo disagio può causare nervosismo, senso di colpa, rabbia e portare alla sospensione della cura (Turk et al, 2002). Lamenta spesso una modificazione del suo stile di vita: ha interrotto o cercato di ridurre il carico dell'attività lavorativa oppure vi ha rinunciato, gli è impossibile proseguire come "prima" nella gestione della casa e della

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famiglia, ha abbandonato l'amato sport o hobby tutto a causa del dolore. Dall'altra abbiamo il personale medico che, dopo molti tentativi si sente accusare di incompetenza e può cambiare atteggiamento (Ercolani, 1997): potrebbe mettersi in discussione dal punto di vista professionale, preoccuparsi della mancanza di efficacia delle cure, oppure pensare che il paziente stia fingendo o che voglia essere al centro dell'attenzione. Ecco come, un dolore che spesso viene visto come semplice sintomo, si rivela come un sistema dalle molte influenze, composto di molte persone e opinioni a cui spesso non prestiamo attenzione.

Nel panorama sopradescritto, manca forse l'aspetto più importante che caratterizza la componente cronica del dolore: la difficoltà nelle relazioni interpersonali. Può risultare difficile essere creduti nel proprio dolore quando è così forte da invalidare la quotidianità. Sembra complesso per i pazienti spiegare agli amici e ai parenti che quel dolore che inizialmente era comprensibile e atteso, adesso ha assunto connotati diversi che anche loro fanno fatica a comprendere (Shone, 1994).

Inoltre la relazione con il partner può compromettersi in due o più direzioni. Da un lato il paziente potrebbe aver paura di affrontare la sessualità per paura del dolore, oppure pensare di non essere più capace; dall'altro il partner potrebbe evitare qualunque richiesta per paura di ricevere un rifiuto. La coppia può andare incontro a un momento in cui "le carezze, un tempo ricercate, diventano un elemento di fastidio e di preoccupazione" (Shone, 1994).

Chi soffre di dolore cronico spesso non si rende conto di non essere più libero di muoversi come vorrebbe o che vive ogni spostamento fisico con la paura di provare dolore e di aver dovuto riorganizzare la propria quotidianità e il proprio ruolo in tutti gli ambiti. Inoltre i pazienti tendono a sentirsi un peso oltre che per amici, parenti e medici anche per la società che non risponde al cambiamento in modo incoraggiante; è possibile infatti che sul lavoro questa condizione porti a licenziarsi e all'uscita dalla comunità lavorativa (esito che scatena un'ovvia sofferenza) che può farli sentire ancora più rassegnati.

Nel libro di E. Molinari & G. Castelnuovo (2010) , a cui si rimanda per un approfondimento, troviamo una lista di aspetti caratteristici delle persone che soffrono di dolore cronico :

• l’aspettativa del riposo: accade con frequenza che il medico prescriva ai pazienti il riposo assoluto. Questa indicazione delega al paziente la responsabilità di stabilire

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il giusto decorso della malattia. Se però le indicazioni non sono chiare, tale atteggiamento potrebbe portare a condotte iperprotettive da parte del paziente e della sua famiglia, incrementando lo sviluppo della cronicità, dell’invalidità e della sofferenza.

• l’efficacia della comunicazione: spesso l’uso di un linguaggio “troppo medico” è la causa principale delle difficoltà di comprensione tra medico e paziente. È necessario contenere le preoccupazioni del paziente e le sue ansie, anche perché lasciarlo andare a casa spaventato per la diagnosi appena ricevuta potrebbe essere pericoloso.

• il rifugio nei farmaci: il sogno di un paziente con dolore cronico è che qualcuno sperimenti un farmaco in grado di alleviare il dolore senza provocare i classici effetti che concorrono a diminuire la capacità di pensare in maniera lucida, prendere decisioni ed esercitare il controllo sulla propria vita.

• il dolore cronico che invade la persona: oltre al dolore che non abbandona mai l’individuo durante la giornata, c’è una parte di sé che viene quotidianamente ferita tramite la perdita di autorità nel mondo del lavoro e in famiglia, si fanno strada un’opinione negativa di sé stessi, preoccupazioni per la gravità del proprio stato di salute, la perdita di speranza nelle proprie capacità di ripresa, la convinzione di non essere più attraenti agli occhi degli altri, si realizza inoltre una compromissione di reddito, reputazione e relazioni, ma soprattutto un aumento del dolore.

• la famiglia: è vista come valido sostegno al quale appoggiarsi nei momenti felici, ma soprattutto in quelli di difficoltà. In questo contesto però la famiglia può rappresentare un ostacolo all'indipendenza del paziente. Paradossalmente, la famiglia potrebbe avere bisogno di un membro su cui concentrare l’attenzione per evitare di scontrarsi con qualche altro problema, e in questo senso il paziente potrebbe diventare il collante per una famiglia che altrimenti non riuscirebbe più a restare insieme.

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• le reazioni fisiologiche: la difficoltà nella deambulazione e nei movimenti può provocare problemi alla circolazione, aumentare la sudorazione, possono presentarsi problemi digestivi tipo pirosi gastrica. Il sonno è spesso agitato. È facile svegliarsi stanchi al mattino, aver passato la notte con continue interruzioni del sonno e tendere ad appisolarsi durante il giorno.

1.4.1 Psicologia del dolore cronico e componente affettiva del dolore

Nei pazienti che soffrono di dolore cronico è molto importante riuscire ad affrontare alcuni aspetti psicologici, cognitivi, comportamentali e affettivi. Per quanto riguarda la componente affettiva del dolore, volgiamo l'attenzione alle emozioni in quanto manifestazioni dinamiche create a partire da processi cerebrali di valutazione dei significati influenzate da fenomeni sociali (Siegel, 2001).

Le emozioni sono capaci di elicitare delle variazioni a livello somatico, vegetativo e psichico e rappresentano la prima grande valutazione che stabilisce soggettivamente la positività o negatività degli eventi permettendo di prepararsi all’azione. Nei pazienti con dolore cronico troviamo due emozioni principali: la rabbia e la paura.

1.4.2 La rabbia

La rabbia è un’emozione, un processo che si svolge attraverso alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

La rabbia secondo Novaco (1975) è una risposta emotiva ad uno stimolo considerato dall’individuo come provocatorio, si attiva quando egli valuta un evento come un ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo, oppure quando ritiene di aver subito immeritatamente un torto o un danno (D’Urso & Trentin, 1992).

La sua funzione è di avvisarci della presenza di una minaccia alla nostra autostima e alla possibilità di essere vittima di un’ingiustizia. L’intensità e la durata possono aumentare quando l’individuo si accorge di non avere controllo sull'origine di questa emozione o sugli eventi che l'hanno scatenata. La rabbia frequentemente si associa all'ostilità, la tendenza persona a percepire gli altri come non affidabili o meritevoli di

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fiducia. Questa si esprime con mancanza di collaborazione verso il personale sanitario (ritardi, silenzi o lamentosità) insieme alla comparsa di aggressività e frustrazione che diventano ulteriori ostacoli al raggiungimento dell'obbiettivo terapeutico. In qualunque forma la rabbia si mostri, costituisce uno dei fattori che caratterizzano la condizione psicologica dei pazienti che soffrono di dolore cronico, tanto da poterlo favorire ( Ercolani & Pasquini, 2007).

1.4.3 La paura

La paura serve a proteggere l'individuo da pericoli che vengono percepiti come imminenti e si rivolge principalmente alla percezione sensoriale dello stimolo. Possiamo descriverla attraverso tre componenti: cognitiva, fisiologica e comportamentale (Ercolani & Pasquini, 2007). La cognizione riguarda la presenza di pensieri sul pericolo o sulla morte e serve a mantenere l'attenzione verso le minacce per essere pronti all'azione in breve tempo. La dimensione fisiologica si esprime con l'attivazione autonomica simpatica e serve a prepararsi all'azione mentre quella comportamentale è atta a mettere in atto soluzioni per proteggere l'individuo. Secondo Molinari e collaboratori (2010), la paura nei pazienti con dolore cronico può riferirsi nello specifico a tre conseguenze possibili:

La paura che il dolore possa interrompere le azioni quotidiane. Visto che il dolore si presenta ormai puntuale, il paziente sviluppa una specie di ipervigilanza verso i sintomi e le sensazioni somatiche. Come conseguenza, può smettere di programmare qualsiasi evento perchè "tanto il dolore prima o poi arriverà" e vedere anche nella più piccola variazione di stato un possibile pericolo.

La paura che il dolore possa interferire. I pazienti passano tutto il giorno con il dolore che occupa tutti i loro pensieri e compromette cognizione, memoria e prestazioni in generale.

La paura che il dolore possa minacciare la propria identità . Il paziente che soffre di dolore cronico ha subito oltre che una diagnosi, anche una modifica dell'immagine di se'. Infatti di frequente si riferisce a se stesso come un vecchio

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oppure come se fosse ormai disabile: ha dovuto riprogrammare la sua vita e il futuro sembra avvicinarsi sempre troppo velocemente rispetto alla sensazione di avere gli strumenti necessari per fronteggiare gli imprevisti e purtroppo anche la quotidianità.

Altre paure dei pazienti con dolore cronico sono quelle di non essere accettati dagli altri oppure di non essere compresi fino in fondo, di non essere più efficenti e di perdere il controllo sulla propria vita. Tali conseguenze trovano il loro comune denominatore nella tendenza a mettere in atto comportamenti di evitamento (Asmundson et al. 2004) che alimentano la sensazione di non essere all’altezza della vita e nell'aspettativa negativa nelle proprie capacità di ripresa.

Dal punto di vista psicologico è necessario sottolineare che anche la depressione (spesso trovata in comorbilità con il dolore cronico) e l'ansia giocano un ruolo fondamentale nella gestione delle risorse personali (Ercolani & Pasquini, 2007).

1.4.4 Componente cognitiva del dolore

Possiamo suddividere gli aspetti cognitivi che influenzano il dolore in:

Interpretazioni: è possibile che il paziente cerchi di trovare una spiegazione al proprio dolore, rintracciando le possibili cause e i possibili trattamenti. Bonezzi (2002) sostiene che l'interpretazione si basi su conoscenze ottenute tramite i comuni mezzi di informazione (riviste specialistiche oppure articoli online).

Attenzione: una dimensione importante e da non sottovalutare. Se da una parte infatti alcuni autori osservano che un’attenzione selettiva verso lo stimolo doloroso può aumentarne l’intensità e la percezione e al contrario la distrazione può diminuirla (Antonelli, 2003), altri ipotizzano che prestando attenzione nel modo giusto si possa ridurre la sofferenza che deriva dal dolore e anche la percezione stessa dell'intensità.

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che nasce in situazioni che mettono fortemente alla prova le risorse di un soggetto. Consiste della valutazione cognitiva di tali eventi da parte della persona, le eventuali reazioni di disagio, il tipo di risorse personali e sociali, gli sforzi propriamente detti e gli esiti a breve e a lungo termine di tali sforzi". In questo modo viene messa in risalto la natura ciclica e cumulativa del processo, con una influenza reciproca tra gli elementi coinvolti (Lazarus, 1996). Nel caso dei pazienti con dolore cronico, "si tratta di mettere in atto strategie finalizzate ad aumentare la sopportazione al dolore come per esempio ignorare il disagio, impegnarsi in attività alternative, chiedere aiuto o informarsi autonomamente" (Antonelli, 2003).

Credenze sul dolore: si tratta di un insieme di idee relative all’esperienza dolorosa che si sviluppano in base al confronto tra pensieri prima e dopo l'esperienza. Per meglio dire, i preconcetti riguardo al dolore che di solito si presenta in questa o quella forma si integrano con quelli attuali una volta che il dolore si è già presentato. Tali credenze sono in grado di "influenzare la percezione del dolore, il livello della soglia nocicettiva e le reazioni fisiologiche agli stimoli dolorosi" (Antonelli, 2003).

Locus of control: indica comunemente la modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti da suoi comportamenti o azioni, oppure da cause esterne alla sua volontà. È stato suddiviso in locus interno e locus esterno. Quello interno è posseduto da quegli individui che credono nella propria capacità di controllare gli eventi e attribuiscono i loro successi o insuccessi a fattori direttamente collegati all'esercizio delle proprie abilità, volontà e capacità. Solitamente si tratta di pazienti attivi e positivamente orientati alle terapie. Quello esterno si esplicita in quei pazienti che invece credono che gli eventi della vita, come premi o punizioni, non sono il risultato dell'esercizio diretto di capacità personali, quanto piuttosto il frutto di fattori esterni imprevedibili quali il caso, la fortuna o il destino. I pazienti con locus of control esterno che soffrono di dolore cronico hanno scarsa fiducia nelle proprie risorse, hanno difficoltà a reagire agli impedimenti causati dalla malattia e sostengono il ruolo di malato, sono più depressi e adottano facilmente strategie di coping disfunzionali (Antonelli, 2003).

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1.4.5 Il comportamento di dolore

Molti comportamenti vengono espressi da coloro che soffrono di dolore, in particolare chi soffre di dolore cronico; "tra questi troviamo le espressioni del volto, i movimenti rallentati o zoppicanti, le richieste di aiuto più o meno esplicite (Ercolani, 1997), [...] anche pianti, lamentele, passività, vocalizzi, comportamenti dipendenti, comportamenti di sfida, di rifiuto e lunghi silenzi (Antonelli, 2003) o una postura o mimica facciale inadeguata al contesto" (Molinari & Castelnuovo, 2010, pp 45).

È facile che i pazienti con dolore cronico cerchino di interpellare il maggior numero di specialisti per risolvere la situazione gravosa (Bonezzi, 2002). Allo stesso tempo è possibile che soffrano di depressione e isolamento sociale o che siano scoraggiati e portino con sé convinzioni catastrofiche verso il proprio stato di salute; possono anche, in preda alla paura, manifestare un comportamento abnorme di malattia (che consiste nell'incongruenza tra la valutazione medica e la sofferenza lamentata dal malato). Non è raro che emerga anche una tendenza ipocondriaca (Ercolani, 2007). Come vedremo, chi soffre da tempo e crede di dover sopportare ancora tanto, apprende un vero e proprio modello comportamentale legato al dolore, in lingua anglosassone, il pain behaviour.

Turk & Rudy (1988) hanno studiato come le diverse modalità di coping possano aiutare e non aiutare il paziente nella gestione del dolore: con il termine coping si intende il modo con cui il soggetto fronteggia e gestisce situazioni stressanti e si indica l’insieme di strategie cognitive e comportamentali che sono messe in atto per fronteggiare una certa situazione. I medesimi autori hanno evidenziato come il comportamento di dolore possa evocare risposte nelle persone vicine al paziente (membri della famiglia, colleghi, operatori sanitari) volte a rinforzare e mantenere il comportamento stesso: ad esempio, una persona che zoppica può suscitare compassione e spingere gli amici a prestargli più attenzione. Questa condotta potrebbe portare la persona ad associare il fatto che comportandosi in quel modo, riceverà attenzioni indipendentemente dall'intensità dello stimolo.

Il pain behaviour può essere "innato (retrazione, lamenti, smorfie, contrattura muscolare, sfregamento della parte dolente) e appreso (procurarsi le cure mediche, assumere analgesici, rimanere a casa dal lavoro) " (Ciaramella, 2015). C'è però differenza tra pain behaviour destinato alla comunicazione agli altri il dolore e quello finalizzato alla protezione del corpo dai sintomi o da ulteriori lesioni (Sullivan, 2003).

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Quando un individuo si esprime con il comportamento di dolore non finalizzato alla sola comunicazione, si intuisce che c'è qualcosa di più del semplice stimolo doloroso, anche dal fatto che questo atteggiamento persiste quando la causa del dolore è svanita. Il dolore può lentamente perdere il collegamento con la ferita del corpo e con la sua stessa percezione sensoriale per diventare un mezzo tramite il quale assolvere certi compiti nella propria famiglia o nelle relazioni sociali. In qualche modo dunque le espressioni di dolore possono essere apprese ed esplicitate più o meno sotto il controllo dell'individuo.

C'è da sottolineare che nel caso del dolore acuto, i comportamenti elencati in precedenza sono da considerarsi perfettamente normali; infatti la loro funzione è quella di comunicare il disagio e l'urgenza della situazione. Ma quando il paziente è continuamente a riposo, assume analgesici quotidianamente, chiede aiuto a parenti e ha espressioni del volto doloranti (Fordyce, 1973) nonostante il dolore acuto non sia presente in quel momento allora il pain behaviour diventa inadeguato al contesto e disfunzionale. In questo caso, comportarsi così può risultare in un peggioramento della sofferenza ed è con frequenza controproducente. Come vuol ricordarci Waddel (1989) però, ogni comportamento che scaturisce da un'alterazione dello stato di salute fa parte della patologia umana e quindi non esiste giusto e sbagliato in materia di sofferenza e di comportamento. Esso infatti è uno spettro dinamico e rispecchia in ogni momento del vivere dalla profondità alla superfice del nostro essere.

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2. Mindfulness e dintori

2.1 Mindfulness, le origini

Il termine mindfulness si rifà ad alcune teorie buddiste tradizionali, nello specifico al nobile ottuplice sentiero verso l'illuminazione, il risveglio e la consapevolezza. Il termine è stato adottato da Jon Kabat-Zinn per i suoi programmi terapeutici con l'intenzione di indicare la capacità di "prestare attezione in modo intenzionale, non giudicante, al momento presente". Inizialmente, i suoi protocolli si incentravano sulla diminuzione dello stress e sul rilassamento, ma furono modificati in base alle nuove scoperte scientifiche in favore della capacità di prestare attezione, andando a delineare un nuovo sentiero per la ricerca. A conferma di questo, Bishop et al. (2004) hanno presentato una definizione più operativa della mindfulness che si compone di due elementi: attenzione sostenuta e orientamento verso l'esperienza del momento presente.

La meditazione buddista della mindfulness, nasce originariamente come mezzo per combattere la ruminazione eccessiva tramite il cambiamento e la riduzione dell'attaccamento, riconoscendo ciò che non è il se', o in inglese il nonself. Questa meditazione permette di apprezzare e scoprire intimamente la dualità di cui solitamente facciamo esperienza (la mente e il corpo), per capirne invero la profonda e indiscutibile unità. Infatti, tutti i fenomeni di cui facciamo esperienza (e l'esperienza stessa) sono interconessi tra loro, impermanenti, soggettivi e soggetti a cambiamento.

La meditazione Vipassana è la meditazione principale che viene utilizzata nei protocolli mindfulness-based e paradossalmente rappresenta una delle tecniche psicologiche più antiche e nello stesso momento più contemporanee. La traduzione inglese della parola sati in lingua pali mindfulness è ricordare. Ricordare nel senso di tenere bene a mente qualcosa, ma cosa? È necessario ricordarsi di prestare l'attenzione al momento presente. Il tipo di attenzione richiesta è speciale, è un'attenzione che non vuole giudicare o valutare ma semplicemente osservare.

L'aspetto del non giudizio è critico nella distinzione concettuale dell'attenzione per come la conosciamo rispetto a quella che serve per meditare. Noi siamo abituati fin da piccoli ad applicare etichette e giudizi alle cose che ci circondano come alle persone; qualcosa è buono o cattivo, giusto o sbagliato, normale e folle e via così. Nell'attenzione

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mindful ci si impegna volontariamente a lasciar andare il giudizio, ad aprirsi a quello che c'è senza decidere subito come è ma prestando attenzione a cosa è. L'attenzione è pura, si concentra sulla percezione del momento nell'istante in cui lo osserviamo.

Intuitivamente possiamo capire quali siano i benefici di questo tipo di esercizio, come espone Pietro Spagnulo nel suo libro (2012):

– Liberarsi dall'ingolfamento nel passato o nel futuro:

Questo tipo di pratica infatti riduce al minimo le approssimazioni e le anticipazioni o i ricordi che pervadono la nostra mente, facendoci spesso perdere il contatto con la realtà o etichettando i contesti non per quello che sono ma per come ci sembrano. Non significa non pensare, anzi, significa prendere distacco dal pensiero come se noi fossimo i padroni e non il cane portato al guinzaglio.

– Riconoscere l'esperienza mentale in quanto tale:

I pensieri assumono una nuova valutazione perchè vengono visti come tali, le emozioni in quanto emozioni etc. È molto frequente che in patologie psichiatriche e psicologiche come un disturbo d'ansia o la depressione maggiore i pazienti confondano la propria esperienza interiore con la realtà. Il pensiero "sono una persona inadeguata" può risultare in una convinzione personale e quindi diventare un dato identitario. Dirigere l'attenzione al presente dipende strettamente dalla capacità di riconoscere l'esperienza mentale.

– Conoscere se' stessi in modo approfondito:

Va da sé che esplorare il funzionamento della nostra mente ed esercitarsi ad osservarla risveglia curiosità e voglia di ingaggiarsi nella vita.

Inoltre può risultare utile guardare la mindfulness attraverso alcune abilità specifiche che, se praticate, possono renderci mindful. Lienan (1993) ha ben descritto le abilità in questione nominandole come le what skills. Queste sono:

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1. Osservare 2. Descrivere 3. Partecipare

1) Osservare si riferisce alla capacità di notare e sentire l'esperienza che accade in questo momento, senza cercare di cambiarla o di fuggire da essa. I bersagli dell'osservazione possono includere l'esperienza interna come pensieri, sensazioni corporee, stati emozionali oppure stimoli ambientali come suoni e odori. Quest'abilità viene incoraggiata in quanto riuscire ad osservare è diverso dall'evento in se': osservare una cosa è distinguibile dal pensiero che la riguarda. Osservare di sentirsi tristi è differente dal sentirsi tristi: durante i gruppi mindfulness-based si invitano i partecipanti a sperimentare diverse pratiche ed esercizi, come mettere una mano su di una superfice e osservare le sensazioni che provengono da questo gesto. Ogni cosa viene osservata per come appare, ogni cosa che entra nel campo della consapevolezza può essere vista, notata, anche la mente che vaga da un pensiero all'altro.

2) Descrivere si riferisce alla capacità di connotare la propria osservazione con le parole, nominando le diverse qualità che si incontrano. È un'abilità particolarmente utile quando si pone attenzione ai pensieri; uno degli scopi di essere mindful è proprio quello di vivere gli eventi interni per quello che sono, senza etichettarli con significati che non necessariamente sono veri o rilevanti. Ad esempio pensare "non ce la faccio a farlo" non è lo stesso che essere realmente incapace di agire. Riconoscere la presenza di questi pensieri può ridurre la tendenza a crederci o ad agire con una reazione automatica o in modo maladattivo. Lo stesso principio si applica alle emozioni: ad esempio, un partecipante alla meditazione di gruppo potrebbe sentirsi annoiato mentre pratica e voler smettere. Riuscire a descrivere questa emozione per mezzo di parole appropiate (" mi sento annoiato e vorrei smettere questo esercizio") potrebbe permettergli/le di realizzare che questa emozione non ha il controllo effettivo del suo comportamento. In altri termini,

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ognuno può scegliere di comportarsi come vuole indipendentemente da quelle che sono le sue emozioni e i suoi pensieri.

3) Infine l'aspetto della partecipazione; partecipare pienamente in quello che si sta facendo non è così semplice come sembra. Sembra che le persone agiscano quotidianamente ascoltando consciamente i propri pensieri (10%), inconsciamente i propri pensieri (70%) e solo per un 20 % in modo consapevole con presenza al momento. Uno scopo importante della meditazione è proprio quello di sviluppare un modello generale di partecipazione con consapevolezza che porta all'azione ragionata, alla risposta piuttosto che alla reazione.

Lo stesso autore ha descritto le abilità che fornisce la pratica mindfulness al riguardo della regolazione emozionale e alla tolleranza allo stress cronico. Per quanto riguarda la regolazione emozionale, il principio è quello di identificare e nominare le emozioni. Questo richiede un'applicazione costante della mindfulness soprattutto nella veste dell'osservatore. Durante le classi mindfulness-based si addestrano i partecipanti a descrivere i vari aspetti della reazione emotiva, incluso l'evento scatenante e la sua interpretazione soggettiva, l'esperienza dell'emozione in quanto tale (le sensazioni corporee), la tendenza a sentirsi pronti all'azione, i comportamenti che questo ha scatenato oppure l' aftereffect . Ciò si rivela molto utile quando si desidera ridurre la sofferenza associata all'emozione negativa, che per sua natura è una parte normale della vita che può essere semplicemente osservata e accettata per quello che è senza necessariamente sviluppare una sofferenza psicologica. Ecco un esempio a scopo illustrativo di step per l'analisi dell'emozione durante un esercizio di mindfulness:

• Ogni volta che sento affiorare un emozione, la osservo per quello che è

• Osserviamo come essa si riflette nel corpo, forse il mio battito cardiaco è accelerato? Forse è aumentata o diminuita la salivazione? Ho i palmi delle mani sudati o freddi? Sento dei brividi, e se si, dove di preciso?

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rispetto a questa attivazione/non attivazione del corpo?

• Adesso guardo ancora alle sensazioni del corpo come se fossi un investigatore in cerca di indizi. Provo a nominare mentalmente quello che sta accadendo, e noto se ci sono differenze dalla fase acuta dell'emozione a ora e se si, quali sono.

• Ora che sento che la reazione sta diminuendo, cosa provo? Quali sono i miei pensieri al riguardo?

• Osservo gli eventi interni che l'emozione ha scatenato in modo non giudicante verso me stesso e verso gli altri, e riporto l'attenzione alle sensazioni fisiche del corpo.

Accettare l'emozione che inevitabilmente occorrerà durante una pratica meditativa, osservarla mentre arriva e se ne va, aiuta a ridurre gli effetti secondari che questa porta con se'. Spesso l'emozione (etichettata come negativa) scatena il senso di colpa, la vergogna, il panico o la rabbia. Queste reazioni secondarie purtroppo causano molta sofferenza, molta di più che l'emozione iniziale.

Riguardo alla capacità di gestire in modo efficace lo stress cronico, la mindfulness ci spiega come il dolore sia una cosa inevitabile della vita ed enfatizza l'importanza dell'apprendere strategie per sopportarlo. Alcune di queste strategie sono l'accettazione della realtà (anche quella indesiderata o spiacevole) e la volontà di fare esperienza della vita momento dopo momento. Queste strategie permettono di sopravvivere alle situazioni che non possono essere volontariamente modificate perchè immutabili senza ingaggiarsi in comportamenti maladattivi che creeranno problemi aggiunti o renderanno l' outcome ancora peggiore. Riguardo all'accettazione della realtà alcuni strumenti utili sono la consapevolezza del respiro (contare i respiri senza cercare di modificarli), nominare mentalmente l'inspirazione e l'espirazione, contare i respiri durante una camminata oppure seguirli mentre si ascolta la musica. Un'altro modo potrebbe essere quello di <entrare> con consapevolezza e presenza in un'azione banale come fare il tè oppure lavare i piatti (meditazione informale) notando tutto momento dopo momento (Wilson et al., 2014).

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2.1.1 Il momento presente

Prima di illustrare la tecnica MBSR utilizzata per questo studio, è utile focalizzarsi un momento su quello che significa essere realmente presenti. Edo Shonin e William Van Gordon hanno scritto un articolo al riguardo, pubblicato nel 2013 sul giornale Mindfulness

in practice e poco prima su di una piattaforma online.

Come abbiamo visto la pratica della mindfulness ha lo scopo di rendere più consapevoli del momento presente; le tecniche utilizzate come l'osservazione del respiro, la meditazione camminata, quella formale e del cibo e il Body Scan sono state create per coltivare il "qui ed ora". In effetti, queste tecniche rappresentano delle ancore per la nostra mente al momento presente e forniscono un punto di riferimento per mantenere un flusso costante di consapevolezza durante il giorno.

Anche se sembrerebbe controintuitivo, tutta la fatica che si fa per meditare e osservare il momento presente serve per ricordarsi di lasciarlo andare. Anche se inizialmente può confondere e addirittura allarmare il praticante, è vero che tutti gli sforzi fatti per seguire le indicazioni dell'istruttore e per descrivere e osservare il presente servono a renderci capaci di lasciarlo fluire e non attaccarci ad esso (Shonin & Gordon, 2013).

Ma di cosa è fatto realmente il momento presente ? Esiste davvero ? Se una persona vuole diventare esperta di pratica mindfulness deve osservare la vera e assoluta natura e il modo in cui il presente esiste. Molti insegnanti di mindfulness spiegano che il momento presente è quel momento nel tempo che esiste tra passato e futuro e visto che il futuro non arriva mai e il passato è storia, l'unico momento in cui sperimentare la vita è questo, il presente. Se, come molti, permettiamo alla mente di ruminare costantemente sul passato o fantasticare sul futuro, prima di accorgercene le nostre vite saranno scivolate via. Gli autori portano questo interessante esempio per chiarire meglio il concetto: immaginate di aver deciso di fare una gita in campagna e di organizzare un pic-nic nel vostro posto preferito vicino al fiume. Dal momento del vostro arrivo al momento in cui prenderete le cose per tornare a casa, tutto intorno a voi è già cambiato. Avrete osservato un fenomeno dinamico e in continuo mutamento; pensate al fiume che scorre e muta nei due diversi istanti presi ad esempio. Il motivo è che il tempo è un concetto relativo: è un costrutto dell'uomo per rendere questo mondo strutturato e in ordine; la verità è che ogni istante può essere diviso in moltissimi altri e questa divisione è infinita. Quindi per tornare all'analogia del fiume,

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nemmeno per un minuscolo momento potremmo dire che esso sta fermo. E questo concetto non riguarda solo il fiume, ma tutti i fenomeni di cui facciamo esperienza. Il momento presente contiene un enorme fiume che scorre: "un flusso aggraziato di mente e materia che scorre e non va da nessuna parte" (Shonin & Gordon, 2013). Dunque anche il momento presente è soltanto un concetto. Non esiste nel modo in cui ci siamo abituati a pensare e a credere. Il presente esiste in relazione ad un passato e ad un futuro, ma il futuro è una fantasia che non giunge mai (perchè ora è sempre il presente) e il passato esiste soltanto nelle memorie che di fatto non hanno sostanza.

Per provare la validità di queste antichissime teorie possiamo rivolgere l'attenzione a quello che è successo nel mondo scientifico della fisica quantistica in questi ultimi decenni. Nel 2010, un gruppo di ricerca di fisici (O'Connel et al., 2010) ha dimostrato come una piccola lama di metallo fatta di materiale semiconduttore (visibile soltanto all'occhio umano) possa vibrare simultaneamente in due diversi stati di energia. In termini cinestetici questo è paragonabile all'essere nello stesso momento in due posti differenti. Questo esempio non vuol essere frutto di presunzione, vuole solo evidenziare che forse non è così difficile conciliare la scienza moderna con quelle che sono le tradizioni alla base della meditazione mindfulness. Forse nei prossimi decenni, le scoperte della meccanica quantistica dimostreranno che esistono molti universi all'interno di molte dimensioni: in ogni caso, queste scoperte ci aiuterebbero a trascendere l'idea che ci siano un'inizio e una fine prefissati. Senza inzio e senza fine, tutto il costrutto del tempo si disgrega. Per adesso, può aiutarci pensare che esistono approssimativamente sette miliardi di persone nel mondo, ognuna con il proprio unico momento presente, che accade simultaneamente qui e ora (Shonin & Gordon, 2013). Forse dovremmo avere un modo di affrontare le cose meno rigido, così da rivelare tutte le possibilità oltre quel limite. E questo è possibile soltanto lasciando andare l'attaccamento che abbiamo nei confronti di questi modelli e schemi prefissati.

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2.3 Meditazione e neuroplasticità

Da una prospettiva neuroscientifica il primo principio buddista degno di nota riguarda le tradizioni contemplative; esse infatti impongono che l'esperienza non sia un'entità rigida e predefinita ma bensì un processo flessibile in continuo cambiamento. Da questo punto di vista le emozioni, l'attenzione e l'introspezione diventano dimensioni in divenire che necessitano di essere comprese e studiate come abilità che possono essere esercitate al pari di altre come la matematica, lo sport o la musica. Il principio che la mente è malleabile, fondante della tradizione buddista, risuona con gli ormai noti modelli evoluzionistici di sviluppo alla base dei processi cognitivi. Infatti secondo questi modelli le funzioni cognitive sono abilità che dipendono particolarmente dagli input ambientali (Mc Clelland & Rogers, 2003).

Interessante in questo contesto è il ruolo della neuroplasticità, un concetto che ha dato il via ad un'esplosione di studi sull'argomento negli ultimi due decenni. Il termine neuroplasticità viene utilizzato per descrivere i cambiamenti cerebrali che avvengono in risposta all'esperienza: esistono molti meccanismi diversi di neuroplasticità che spaziano dalla crescita di nuove connessioni alla creazione di nuovi neuroni (Davidson et al., 2008). Come risultato abbiamo oggi una comprensione accurata dei cambiamenti molecolari e sistemici prodotti da particolari tipi di input esperienziali. Ad esempio, roditori neonati esposti a variabili livelli di cure materne (tra cui la frequenza del tocco e del leccare) sviluppano differenti fenotipi comportamentali da adulti; i roditori che ricevono frequentemente il grooming e il licking dalla madre mostrano più avanti comportamenti adattivi migliori e crescono più rilassati di quelli che invece non ne ricevono o ne ricevono meno (Meaney, 2001). I risultati di questo studio mostrano come l'espressione del gene che codifica per i recettori glucocorticoidi venga modificata da questa esperienza negativa o positiva di cura materna, il che fa sperare nell'esistenza di un meccanismo simile anche nell'essere umano. Sulla ricerca umana non abbiamo dati certi a causa della complessità della misurazione; senza dubbio però abbiamo osservato come il cervello di un "esperto", come un giocatore di scacchi, un tassista o un musicista (Maguire et al., 2000) sia strutturato e funzioni in maniera diversa da quello di un non-esperto. Se esaminiamo l'ippocampo di un tassista londinese, osservermo come questo si presenti significativamente più sviluppato dei controlli, come risultato dell'esperienza e

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