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Matrici liofilizzate per la somministrazione di farmaci nel segmento posteriore dell'occhio: preparazione e caratterizzazione.

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTO DI

F

ARMACIA

Corso di Laurea Magistrale a Ciclo Unico in Farmacia

Tesi di laurea:

Matrici liofilizzate per la somministrazione di

farmaci nel segmento posteriore dell'occhio:

preparazione e caratterizzazione.

Relatori: Candidato:

Prof.ssa Daniela Monti Vittorio Bichi

Prof.ssa Susi Burgalassi

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Riassunto

La presente tesi ha riguardato l’ottimizzazione di matrici polimeriche solide preparate mediante liofilizzazione per il rilascio di bevacizumab nel segmento posteriore dell’occhio. In studi precedenti erano state identificate le condizioni di liofilizzazione ottimali per mantenere l’integrità del farmaco durante la produzione ed era stata selezionata una formulazione che permetteva di avere una buon tempo di idratazione e un lento rilascio del farmaco. ma i risultati degli studi in vivo avevano portato a concludere che era necessario prolungare ulteriormente il rilascio. Il presente lavoro ha perseguito tale obiettivo modificando la composizione delle formulazioni polimeriche.

Lo studio si è articolato in due fasi: a) preparazione e caratterizzazione di matrici polimeriche liofilizzate b) studi di rilascio in vitro su matrici contenenti fluoresceina isotiocianato destrano (FITC-DX). Le dispersioni polimeriche impiegate sono state: alcol polivinilico (PVA) al 5%, alcol polivinilico e polivinilpirrolidone (PVA/PVP) in miscela 5:1, idrossipropilmetilcellulosa (HPMC) al 2% e idrossipropilmetilcellulosa e polivinilpirrolidone (HPMC/PVP) in miscela 2:1; ad ogni formulazione è stato aggiunto l’1% di trealosio come agente crioprotettore.

Le dispersioni sono state sottoposte al processo di liofilizzazione, producendo matrici di forma cilindrica e dimensioni adatte all’applicazione oculare, con una buona riproducibilità della metodica di produzione.

Le dispersioni polimeriche prima della liofilizzazione e dopo la loro ricostituzione con la quantità di acqua persa durante l’essiccamento sono state sottoposte ad analisi reologica osservando che tutte le formulazione mantenevano lo stesso comportamento reologico anche dopo la liofilizzazione e che anche se nel caso dei fluidi pseudoplastici c’era una tendenza alla riduzione della viscosità, questa non era tale da influenzare negativamente (accelerare) la velocità di rilascio del farmaco dalla matrice.

Per stimare il tempo di reidratazione delle matrici quando applicate in vivo, è stato determinato il valore TIM (tempo di idratazione), considerando come indice della completa idratazione l’ottenimento di una dispersione omogenea. Quest’ultima è stata ottenuta aggiungendo alla matrice liofilizzata un quantitativo di acqua pari a quella persa durante l’essicamento. I risultati ottenuti hanno mostrato che le formulazioni contenenti PVA si idratavano in meno di 1 ora, mentre le formulazioni

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contenenti HPMC necessitavano almeno 6 ore per definirsi completamente reidratate.

Altro parametro misurato è stato la resistenza alla compressione sotto l’effetto di un peso crescente per determinare l’influenza delle componenti polimeriche sulla durezza delle matrici liofilizzate. I valori ottenuti, riportati come indice di comprimibilità (IC), non hanno evidenziato differenze statisticamente significative tra le matrici di diversa composizione, ma hanno permesso di osservare un trend all’aumento della resistenza alla compressione quando alle matrici veniva addizionato PVP, in particolare nella formulazione HPMC/PVP. Questo ha mostrato come il PVP abbia un effetto positivo nell’incrementare la consistenza delle matrici, cosa molto positiva visto che potrebbe permettere una più facile applicazione della formulazione nel vitreo.

In seguito, sono state preparate matrici liofilizzate contenenti 0.625 mg di fluoresceina isotiocianato destrano (FITC-DX) usato come molecola modello per gli studi di rilascio visto che presenta un peso molecolare di 150 kDa, analogo a quello del bevacizumab per determinare la migliore matrice polimerica per la veicolazione del principio attivo. In questo lavoro di tesi, il test di rilascio in vitro è stato eseguito, in via preliminare, solo sulla formulazione PVA/PVPFITC-DX usando

FTC-DX come controllo e monitorando la quantità di FITC-DX rilasciata per 7 giorni. I risultati ottenuti hanno evidenziato il ruolo del veicolo polimerico che ha portato ad un notevole rallentamento del rilascio.

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INDICE

Parte introduttiva ... 3

1. ANATOMIA E FISIOLOGIA DELL’APPARATO VISIVO ... 4

1.1 Bulbo oculare ... 4 1.2 La cornea ... 5 1.3 La sclera ... 6 1.4 L’uvea ... 6 1.5 Il cristallino ... 7 1.6 La retina ... 7 1.7Umore acqueo ... 7 1.8 Il corpo vitreo ... 8 1.9 Le vie ottiche ... 10

1.10 L’ apparato protettore del bulbo oculare ... 10

2. PATOLOGIE OCULARI DEL SEGMENTO POSTERIORE ... 11

3.1. Degenerazione maculare senile ... 11

3.2. Retinopatia diabetica... 14

3. TERAPIA OFTALMICA NEL SEGMENTO POSTERIORE ... 16

3.1 La somministrazione topoica e sistemica ... 16

3.2 La somministrazione intravitreale e perioculare ... 18

3.3 Terapia Anti-VEGF ... 20

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Parte sperimentale ... 27

1. SCOPO DELLA TESI ... 28

2. MATERIALI ... 30

2.1 Alcol polivinilico ... 31

2.2 Polivinilipirrolidone ... 32

2.3 Idrossipropilmetilcellulosa ... 33

2.4 Trealosio ... 34

2.5 Fluoresceina isotiocianato destrano ... 35

3. METODI ... 36

3.1 Sviluppo e caratterizzazione di matrici polimeriche preparate per la liofilizzazione ... 36

3.1.1 Veicoli polimerici sottoposti a studio... 36

3.1.2 Preparazione delle matrici polimeriche liofilizzate ... 36

3.1.3 Analisi reologiche ... 37

3.1.4 Analisi statistica ... 38

3.1.5 Tempo idratazione delle matrici ... 38

3.1.6 Resistenza alla compressione ... 39

3.2 Matrici polimeriche contenenti FITC-DX ... 40

3.2.1 Preparazione di matrici polimeriche contententi FITC-DX ... 40

3.2.2 Studi di rilascio in vitro ... 40

3.2.3 Metodo analitico del FITC-DX ... 41

4. RISULTATI ... 42

BIBLIOGRAFIA ... 46

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1. ANATOMIA E FISIOLOGIA DELL’APPARATO

VISIVO

L’apparato visivo è costituito da organi pari e simmetrici. Di questi, il principale è l’occhio o bulbo oculare, mentre gli altri organi, denominati organi accessori dell’occhio, si possono raggruppare in un apparato motore e in apparato protettore.

I costituenti principali dell’apparato visivo sono:

Il bulbo oculare: organo pari e simmetrico situato all’interno della cavità orbitale, deputato alla ricezione degli stimoli luminosi;

Le vie ottiche: insieme di fibre nervose che si dipartono dal bulbo oculare per raggiungere la corteccia cerebrale;

Gli annessi oculari: composti da strutture accessorie di varia natura e funzione, situate intorno al bulbo oculare.

1.1. Il bulbo oculare

l bulbo oculare (Fig.1) è contenuto per cinque sesti all’interno della cavità orbitaria, formata da tessuto osseo. È un organo sferoidale, leggermente appiattito in senso verticale, la cui parete è formata da tre tonache concentriche:

Tonaca esterna o fibrosa, che protegge le strutture più interne e si

differenzia in sclera (posteriormente) ed in cornea (anteriormente);

Tonaca intermedia o vascolare, che prende il nome di uvea, rappresentata

posteriormente dalla coroide, medialmente dal corpo ciliare ed anteriormente dall’iride;

Tonaca interna o nervosa, formata interamente dalla retina.

Il globo oculare non è una sfera solida, ma contiene una grande cavità divisa in due parti, ovvero:

La cavità anteriore, costituita a sua volta da camera anteriore e camera posteriore, si trova davanti alla lente. La camera posteriore è delimitata dall’iride e dal cristallino, mentre la camera anteriore è delimitata dall’iride e dalla cornea. L’umore acqueo, liquido trasparente ed acquoso, riempie entrambe le camere. Non è ancora noto il meccanismo secondo il quale si forma l’umore acqueo: esso deriva principalmente dal sangue che circola

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nei capillari dei corpi ciliari. Inoltre, l’umore acqueo può derivare anche dalla secrezione attiva da parte dei capillari, che lo secernono all’interno della camera posteriore, oppure dalla filtrazione passiva del sangue papillare.

La cavità posteriore, è molto più grande di quella anteriore, poiché essa occupa tutto lo spazio che si trova dietro alla lente; contiene il corpo vitreo, sostanza di consistenza gelatinosa.

Figura 1. Anatomia dell'occhio

1.2. La cornea

La cornea è una membrana trasparente, priva di vasi, ma ricchissima di fibre nervose. Ha un’area superficiale di circa 1.3 cm2, in quanto occupa un sesto della

parte anteriore della tonaca fibrosa. Ha l’aspetto di calotta sferica, con raggio di curvatura inferiore a quello della sclera: la superficie anteriore è convessa ed è direttamente in rapporto con l’ambiente esterno, mentre la superficie posteriore è concava e delimita, in avanti, la camera anteriore dell’occhio.

La cornea è composta, dall’esterno verso l’interno, dai seguenti strati:

Epitelio pavimentoso: normalmente a contatto con l’aria; in condizioni di

chiusura delle palpebre, viene a trovarsi a contatto con la congiuntiva palpebrale, mediante la sola interposizione del film lacrimale. È costituito da cinque ad otto piani di cellule, ricche di tonofibrille ed unite da desmosoni;

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Stroma o sostanza propria: è lo stato fondamentale e prevalente. È formato

da circa cinquanta lamelle di sostanza amorfa glicoproteica, all’interno della quale si trovano fasci di fibre di collagene posti ortogonalmente tra loro, in modo da annullare la diffrazione della luce causata dai singoli piani. Negli spazi tra le lamelle si trovano le cellule corneali o cheratociti, di natura connettivale e di forma appiattita, provviste di prolungamenti lamellari;

Membrana di Descemet o lamina elastica posteriore: è prodotta dalle

cellule dell’endotelio corneale sottostante. Il suo spessore dipende dalla specie e dall’età dell’individuo.

Endotelio corneale: costituito da un singolo strato di cellule appiattite di

forma poligonale. Delimita anteriormente la camera anteriore.

La cornea è costituita principalmente da circa il 78% di acqua, da collageno (12-15%) e proteoglicani (1-3%). All’interno della cornea troviamo, in misura minore, proteine solubili, glicoproteine, lipidi, soluti a basso peso molecolare ed elettroliti. Il trasporto degli elettroliti (Na, Cl) a livello della cornea è fondamentale nel controllo dell’idratazione. Essendo la cornea un tessuto non vascolarizzato, i composti necessari per mantenerla vitale, quali ossigeno e glucosio, sono forniti rispettivamente dal film lacrimale e dall’umore acqueo.

1.3. La sclera

La sclera è una membrana compatta, di colore biancastro, dotata di marcata consistenza ed elasticità: confina anteriormente con la cornea e posteriormente con il nervo ottico. In realtà, il colore della sclera cambia col trascorrere degli anni, infatti risulta leggermente azzurra in età infantile, biancastra nell’adulto ed infine tendente al giallo in età senile.

La sclera ha funzione di contenimento, di mantenimento della pressione intraoculare, di protezione e di supporto per i muscoli extraoculari.

1.4. L’uvea

La tonaca vascolare dell’occhio, definita anche uvea, è situata tra la tonaca fibrosa e quella nervosa, ed è riccamente vascolarizzata. Ha la funzione di assicurare un adeguato apporto nutritivo alla retina, grazie alla presenza dell’arteria oftalmica. Si

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divide in tre parti, che da dietro in avanti, sono la coroide, il corpo ciliare e l’iride (parte colorata dell’occhio).

1.5. Il cristallino

Il cristallino è una struttura trasparente, dalla consistenza elastica e solida, e dalla forma a lente biconvessa di circa 10 mm. Esso è l’unico organo del sistema diottrico dell’occhio in grado di adattare la propria capacità rifrattiva al variare della distanza dell’oggetto, modificando il proprio raggio di curvatura. Il cristallino è situato tra l’iride e il corpo vitreo.

1.6. La retina

La tonaca nervosa dell’occhio, definita anche retina, è la parte più interna della membrana dell’occhio ed è incompleta, in quanto non è presente nella parte anteriore. È una membrana molto sottile e trasparente in condizioni normali. Nel complesso, essa è composta da due strati:

• Lo strato esterno, formato da uno strato di cellule pigmentate e separato dalla coroide per mezzo della membrana di Bruch;

• Lo strato interno, a struttura molto complessa, è formato principalmente da catene di neuroni a conduzione centripeta, quali neuroni fotorecettori, neuroni bipolari, e neuroni ganglionari.

L’apporto di sangue alla retina viene svolto dai capillari coroidali e dall’arteria retinica centrale, diramazione dell’arteria oftalmica.

1.7. Umore acqueo

L’umore acqueo è un liquido trasparente incolore, contenuto all’interno della camera anteriore e in quella posteriore dell’occhio. Esso si estende dalla cornea, attraverso il foro pupillare, fino al cristallino. Ha pH 7.3 ed una pressione osmotica superiore a quella del sangue; contiene alcuni elettroliti in concentrazione maggiore rispetto a quella del sangue, mentre proteine e glucosio sono presenti in concentrazione inferiore.

Ha funzioni nutritive nei confronti del cristallino e della cornea, e presenta funzione diottrica.

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1.8. Il corpo vitreo

Il corpo vitreo è un gel che occupa interamente la camera vitrea, ossia quello spazio compreso tra la faccia posteriore del cristallino e la retina. È una sostanza trasparente, di consistenza gelatinosa che pesa circa 4.0 g, ha una densità di 1,0053- 1,0089 g/cm³, un indice di rifrazione di 1,3345-1,3348 e un pH compreso tra 7,0 e 7,4 (Baino, 2011). La normale velocità di ricambio dell’umor vitreo è di 0,1 μl / min che seppur bassa può influenzare la distribuzione dei farmaci all'interno dell'occhio nel segmento posteriore. (Park et al., 2005). Di questa struttura sono state definite numerose regioni anatomiche tra cui il vitreo centrale, il vitreo basale, la corteccia vitreale, l'interfaccia vitreoretinale e le zonule.

Il vitreo centrale comprende la maggior parte del corpo vitreo. All'interno di esso le fibrille di collagene sono a bassa concentrazione e tendono a correre in una direzione anteriore-posteriore.

Il vitreo basale è caratterizzato da fasci densi di fibrille di collagene che sono aderenti alla retina e all'epitelio ciliare non pigmentato della pars plana. Questa adesione può essere dovuta alla fusione delle fibrille di collagene con la lamina limitante interna, una membrana basale sulla superficie interna della retina e sull'epitelio ciliare non pigmentato.

La corteccia vitreale è uno strato sottile (100–300 μm) di gel che circonda il vitreo centrale. Si distingue da quest’ultimo per l'orientamento delle fibrille di collagene e per la loro maggiore concentrazione.

Le zonule collegano la pars plana e la pars plicata alla membrana basale del cristallino, agendo così come un sistema sospensivo attraverso il quale il muscolo ciliare può alterare la curvatura del cristallino.

Il corpo vitreo può essere considerato acellulare poiché il 98% del suo peso è costituito da acqua. Fanno eccezione la corteccia vitrea e il vitreo basale poiché in entrambe le strutture è presente una bassa concentrazione di cellule mononucleari fagocitiche, chiamate ialociti.

Altri componenti del corpo vitreo, coinvolti nel suo mantenimento strutturale, sono:

• Glicosaminoglicani (GAG): polisaccaridi a matrice extracellulare che contengono unità disaccaridiche ripetute. Il GAG predominante nel vitreo è l’acido ialuronico che presenta una funzione lubrificante, forma reti di

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riempimento nello spazio della camera vitrea ed agisce da setaccio molecolare escludendo grandi molecole e cellule. La concentrazione complessiva di acido ialuronico nel vitreo umano adulto è stata stimata tra 65-400 μg/ml, con una distribuzione non uniforme. Si hanno concentrazioni più elevate nel vitreo posteriore e concentrazioni relativamente inferiori nel vitreo anteriore.

• Collagene: le principali fibrille del vitreo sono strutture simili a corde, con un’elevata resistenza alla trazione, composte da tre diversi tipi di collagene (II, V / XI e IX) definite, quindi, fibrille eterotipiche. Le fibrille eterotipiche di collagene del vitreo sono sottili, non ramificate, di diametro uniforme, tra 10-20 nm a seconda della specie. Il corpo vitreo contiene una bassa concentrazione di collagene che nell’uomo è stimata intorno ai 300 μg/ml. La concentrazione di collagene, inoltre, non è uniforme ma diminuisce verso la parte centrale e posteriore del vitreo ed aumenta nello strato corticale periferico del vitreo.

La viscosità intrinseca del corpo vitreo è di 4.2 cm3/g. La presenza di acido

ialuronico e collagene nell'architettura molecolare dell’umor vitreo è responsabile delle proprietà viscoelastiche, mostrando un comportamento sia solido che liquido. Inoltre, poiché la distribuzione della rete di fibre di collagene e della rete di acido ialuronico non è omogenea, il vitreo presenta differenti proprietà reologiche in relazione alla collocazione anatomica: maggiore nella porzione posteriore del vitreo per proteggere la retina e minore nella porzione anteriore (Swindele e Ravi, 2007; Silva et al., 2017).

Il corpo vitreo, grazie a queste componenti strutturali, esplica alcune funzioni fisiologiche: conservare una pressione intraoculare sufficiente a prevenire il collasso del globo oculare, proteggere l'occhio durante il trauma meccanico, consentire la circolazione di soluti e nutrienti nell'occhio ed escludere le macromolecole dalla cavità vitrea mantenendo la trasparenza per facilitare il passaggio di luce e la funzione diottrica (Bishop, 2000).

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1.9. Le vie ottiche

Le vie ottiche sono quell’insieme di strutture, che partendo dalla retina, collegano il bulbo oculare al cervello nella sua porzione occipitale. Rappresentano strutture sensoriali e percettive che permettono la visione delle immagini grazie alla ricezione di un impulso luminoso: quest’impulso viene convertito in impulso elettrico in modo tale da formare la sensazione visiva, con conseguente interpretazione.

Le fibre ottiche retiniche, in corrispondenza della papilla ottica, si raccolgono in fasci per costituire il nervo ottico, fondamentale per la trasmissione delle informazioni visive dalla retina al cervello.

Il nervo ottico rappresenta il II paio di nervi cranici, ed ha un andamento non rettilineo, in quanto presenta un’incurvatura ad S che consente all’occhio di svolgere i propri movimenti di rotazione, impendendone così il suo stiramento.

1.10. L’apparato protettore del bulbo oculare

L’apparato protettore del bulbo oculare è costituito da tutti gli annessi oculari dell’occhio tra cui la congiuntiva, gli organi dell’apparato lacrimale e le vie lacrimali.

La congiuntiva rappresenta una mucosa che riveste la porzione anteriore della sclera (congiuntiva bulbare) e, continuando posteriormente e ripiegandosi in avanti (fornice congiuntivale), riveste anche la superficie interna delle palpebre (congiuntiva palpebrale).

L’apparato lacrimale è costituito dalle ghiandole lacrimali e dalle vie lacrimali, mediante le quali il secreto lacrimale viene drenato nel sacco congiuntivale e versato nelle fosse nasali. Esso ha il compito di facilitare lo scorrimento delle palpebre sul bulbo oculare e può presentare una debole azione antibatterica, dovuta alla presenza di lisozima al suo interno.

Il film lacrimale è una pellicola trasparente e sottile, che bagna continuamente l’epitelio corneale e la congiuntiva. Le sue principali funzioni sono quelle di mantenere una superficie regolare per permettere la rifrazione della luce, di lubrificare le palpebre, la congiuntiva e la cornea, di trasportare nutrienti e globuli bianchi alla cornea e alla congiuntiva, di rimuovere materiali estranei e funzione antibatterica (Maurice et al., 1984).

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2.

PATOLOGIE

OCULARI

DEL

SEGMENTO

POSTERIORE

Le principali cause di disabilità visiva e cecità irreversibile sono le malattie correlate al segmento posteriore che comprendono, ad esempio, la degenerazione maculare legata all'età (AMD) e la retinopatia diabetica (DR). I processi infiammatori, angiogenici e fibrotici associati a tali malattie sono responsabili del danneggiamento dei tessuti oculari, della perdita della vista e, inoltre, hanno contribuito, in modo determinante, al fallimento degli attuali trattamenti terapeutici. Una maggiore conoscenza dei meccanismi molecolari delle malattie accecanti ha identificato il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF) come maggiore responsabile della progressione di tali patologie, permettendo lo sviluppo di nuove molecole terapeutiche come i medicinali a base di anticorpi. Quest'ultimi hanno notevolmente migliorato il trattamento della degenerazione maculare essudativa (AMD umida) e della DR. Nonostante ciò, una delle maggiori sfide durante lo sviluppo sia preclinico che clinico è determinare i tassi di clearance oculare dei nuovi medicinali.

Sebbene i farmaci a base di anticorpi anti-VEGF possano essere somministrati una volta al mese e in alcuni casi ogni due, molte ricerche si concentrano sullo sviluppo di sistemi che richiedano regimi posologici meno frequenti per evitare le numerose complicanze relative alla somministrazione intravitreale. Inoltre, un altro fattore per lo sviluppo di formulazioni ad azione prolungata è il costo dei farmaci e quello del trattamento, che è funzione della frequenza di dosaggio (Awwad et al., 2017).

2.1 Degenerazione Maculare Senile

La degenerazione maculare legata all’età o senile (Aged Releted

Degeneration, AMD) è una patologia degenerativa della macula (Fig.2) che

colpisce il 10% delle persone di età superiore ai 65 anni e oltre il 25% delle persone di età superiore ai 75 anni, classificandosi come una delle principali cause di perdita visiva nei paesi sviluppati. La patogenesi della AMD non è

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esattamente conosciuta; tale patologia sembra essere causata da numerosi fattori come:

• età: il rischio di AMD aumenta in maniera significativa all’aumentare dell’età;

• etnia: maggiormente espressa nei caucasici, seguiti dagli ispanici e dagli asiatici. Il tasso più basso è riportato negli afroamericani;

• fattori cardiovascolari: ipertensione sisto-diastolica, aterosclerosi;

• disfunzioni metaboliche: diabete, displipidemie;

• stile di vita e dieta: il fumo è il principale fattore di rischio influente. Un elevato apporto di alcuni grassi, come grassi saturi, è stato associato ad un aumento di AMD;

• fattori genetici (Al-Zamile e Yassin, 2017; Kijlstra e Berendschot, 2015). La AMD è classificabile in due forme: la forma secca o atrofica e la forma essudativa o umida.

La forma secca è la tipologia più comune ed ha peculiarità non neovascolari. È caratterizzata dalla presenza di depositi lipo-proteici (drunsen) a livello della zona maculare, da alterazioni pigmentarie e dalla perdita dei fotorecettori. Le emorragie sono assenti e non vi è formazione di edema, inoltre, la perdita della vista è di solito più lenta rispetto alla forma essudativa. Circa il 10% – 20% dei soggetti affetti da AMD secca avanza alla forma umida.

La forma essudativa, invece, presenta una neovascolarizzazione anomala nella parte posteriore dell’occhio. I vasi sanguigni si sviluppano dietro la retina, proliferano e sanguinano causando il sollevamento della macula dalla sua posizione normale e determinando una visione confusa e distorta. Il maggiore responsabile di questa angiogenesi non controllata è il fattore di crescita vascolare-endoteliale (Vascular-Endothelial Growth Factor, VEGF), un peptide di segnale che induce lo sviluppo della vascolarizzazione. Esso viene normalmente prodotto dal nostro organismo durante l’accrescimento dei vasi sanguigni nelle fasi fetali, nella guarigione delle ferite o nella crescita di nuovi vasi in tessuti con un carente apporto di sangue. In alcune condizioni particolari, l’eccessiva produzione

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di VEGF può scatenare processi patologici, come avviene nei pazienti affetti da AMD essudativa. La formazione di nuovi vasi sanguigni può indurre il blocco del passaggio di luce compromettendo l'acuità visiva oltre a causare edema, cicatrici corneali e infiammazione (Al-Debasi et al., 2017). La AMD umida è la forma maggiormente aggressiva e può progredire rapidamente fino a causare la perdita della vista centrale se non viene tempestivamente trattata. La gestione di tale patologia ha subito notevoli progressi negli ultimi anni; la fotocoagulazione laser non è stata considerata una procedura ideale per il trattamento delle lesioni extrafoveali nonostante i buoni risultati dal momento che presenta numerosi problemi come l’elevato tasso di recidiva, un rischio di produrre perdita della vista e un potenziale di miglioramento visivo limitato. L’introduzione della terapia fotodinamica, utilizzando il fotosensibilizzante verteporfina, ha aumentato la selettività nel rallentare o bloccare la crescita dei neovasi patologici senza danneggiare i tessuti circostanti ma generalmente viene usata in combinazione con un agente anti-VEGF e / o somministrazione di steroidi come seconda linea di terapia negli occhi che non rispondono alla monoterapia.

Ad oggi, infatti, la terapia anti-VEGF è divenuta il principale approccio terapeutico per l'AMD umida dimostrando di essere un trattamento altamente efficace in grado di prevenire, con buoni risultati, la cecità nei pazienti affetti da tale patologia. Farmaci come Bevacizumab, Ranibizumab, Aflibercept riescono, attraverso l’inibizione del fattore VEGF, a bloccare la genesi vascolare della malattia (Al-Zamile e Yassin, 2017).

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2.2. Retinopatia Diabetica

La retinopatia diabetica (Diabetic Retinopathy, RD) è una vasculite retinica causata da complicanze del diabete mellito (Fig.3). Si manifesta sia nel diabete di tipo 1 (insulino-dipendente) che di tipo 2 (insulino-indipendente). Questa malattia colpisce fino al 80% delle persone che hanno avuto il diabete per più di 20 anni e rappresenta il 12% dei nuovi casi di cecità. A livello globale, è la principale causa di perdita della vista, che colpisce circa 285 milioni di persone in tutto il mondo (Ting et al., 2016). Studi recenti hanno determinato che circa una persona su tre con diabete presenta retinopatia diabetica. L’iperglicemia rappresenta il fattore fondamentale nella patogenesi di questa malattia, inducendo cambiamenti a livello della microvascolarizzazione retinica.

A livello dei vasi si verifica:

• danneggiamento delle cellule endoteliali;

• ispessimento della membrana basale dei capillari, restringimento del vaso e formazione di aree ischemiche;

• deformazione dei globuli rossi e aumento della viscosità.

Queste complicanze possono portare ad uno squilibrio dei meccanismi fisiologici che regolano il flusso sanguigno all’interno dell’occhio causando ipossia, formazione di edema e microemorragie. I fattori di rischio della DR possono essere ampiamente suddivisi in fattori modificabili e non modificabili. Quelli modificabili includono iperglicemia, ipertensione, iperlipidemia e obesità. Al contrario, la durata del diabete, la pubertà e la gravidanza sono i fattori di rischio non modificabili per lo sviluppo e la progressione della DR (Ting et al., 2016). La retinopatia diabetica può essere classificata in 2 forme che caratterizzano la progressione della patologia: la retinopatia diabetica non proliferante e la retinopatia diabetica proliferante. La prima corrisponde alla fase iniziale della malattia, contraddistinta da microaneurismi, emorragie retiniche e edemi che provocano perdita di sangue, fluidi e quindi il rigonfiamento della retina. La seconda è la forma avanzata e più grave dove si formano nuove arteriole al fine di portare ossigeno alla retina ipossica. Anche in questo caso, come nella AMD, il fattore VEGF assume un ruolo centrale nella progressione della patologia. Infatti, allo scopo di sostituire i capillari che non riescono più a trasportare la necessaria quantità di sangue, il fattore VEGF induce la proliferazione di nuovi vasi che però,

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essendo fragili, diventano causa di gravi emorragie nel corpo vitreo che possono evolvere fino a causare il distacco della retina (Gudla et al., 2018). Attualmente, il trattamento fotocoagulativo laser rimane l’approccio cardine per il trattamento della RD, anche se esso ha ormai mostrato limiti evidenti. Infatti, la terapia laser riduce il rischio di perdita visiva fino al 50% senza un rilevante miglioramento della funzione visiva (Bandello et al., 2011). Inoltre, può comportare una progressiva restrizione del campo visivo, una riduzione della sensibilità ai colori e della visione notturna (Cicinello et al., 2018).

Per tali ragioni, anche in questo caso, le molecole anti-VEGF sono divenute la prima linea terapeutica farmacologica somministrabile, permettendo di risparmiare ampie aree di retina che verrebbero distrutte dal trattamento laser (Bandello et al., 2011; Gudla et al., 2018).

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3. TERAPIA OFTALMICA NEL SEGMENTO

POSTERIORE

Il trattamento delle malattie del segmento posteriore dell’occhio, come la degenerazione maculare legata all’età e la retinopatia diabetica, ha attirato notevole attenzione visto il numero elevato di pazienti affetti da queste patologie: ad esempio è stato previsto che il numero di persone affette da degenerazione maculare legata all'età raggiungerà i 288 milioni nel 2040 a causa dell'invecchiamento della popolazione e si presume un aumento di complicanze retiniche diabetiche (del Amo et al., 2017). Il trattamento terapeutico di queste patologie è limitato dalle diverse barriere oculari da superare per raggiungere il sito d'azione, difficilmente permeabili ai farmaci somministrati per via topica. Anche la somministrazione sistemica non si è rivelata efficace per cui negli ultimi tempi l’attenzione è stata rivolta alle vie intravitreale e perioculare.

3.1. La somministrazione topica e sistemica

I farmaci somministrati per via topica, per penetrare nelle strutture più interne dell’occhio, devono superare delle barriere esterne che sono rappresentate dagli epiteli corneale e congiuntivale: l’attività dei farmaci attraverso questa via dipende dalla loro capacità di permeazione attraverso questi epiteli in quantità sufficiente a dare un effetto terapeutico. Si consideri però che le concentrazioni del farmaco nell’umor vitreo e nel cristallino in seguito a somministrazione topica sono molto basse. Ciò è stato attribuito a diversi fattori che impediscono l’assorbimento dei farmaci a livello oculare:

- turnover lacrimale: nell’uomo esiste una certa variabilità individuale nella velocità di formazione del fluido lacrimale che può influenzare l’assorbimento corneale dei farmaci. Inoltre, nei soggetti anziani, il flusso lacrimale è ridotto e questo può comportare un aumento dell’assorbimento corneale;

- drenaggio della soluzione instillata: l’area precorneale può trattenere al massimo 30 µl, film lacrimale compreso. Il volume instillato in eccesso viene riversato all’esterno o subisce rapidamente il drenaggio. Poiché una goccia di soluzione instillata ha un volume pari a 50 µl, al momento dell’applicazione vengono eliminati già circa 20 µl, che vengono drenati fuoriuscendo a livello del fornice congiuntivale

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o attraverso il sistema di drenaggio naso-lacrimale in cui parte del farmaco subisce assorbimento sistemico con possibile insorgenza di effetti collaterali;

-lacrimazione indotta: consiste nell’aumento del flusso lacrimale a causa di stimoli irritativi. La lacrimazione indotta può essere provocata, ad esempio, da variazioni di pH: alcune formulazioni oftalmiche presentano valori di pH diversi da quello fisiologico per ragioni di stabilità dei farmaci;

- legame con le proteine: solitamente il contenuto proteico del fluido lacrimale è

circa lo 0.7% a differenza del sangue in cui la parte proteica rappresenta il 9%. Inoltre, mentre nel sangue il complesso farmaco-proteine rimane in circolazione, le lacrime sono continuamente drenate portando con sé sia il farmaco legato che quello libero. È necessario tener presente che il turnover lacrimale è una fonte continua di proteine fresche che possono legarsi con il farmaco e renderlo meno disponibile. Nel caso dell’umor acqueo il contenuto proteico è ricambiato alla velocità dell’1% al minuto;

- degradazione enzimatica: qualora il farmaco non subisca il legame con le proteine, è potenzialmente soggetto ad una degradazione enzimatica all’interno del film lacrimale da parte degli enzimi in esso contenuti;

- assorbimento non produttivo: il farmaco può essere assorbito attraverso la congiuntiva palpebrale e sclerale ed il dotto nasolacrimale. Questo contribuisce alla riduzione della quantità di farmaco libero disponibile per l’assorbimento corneale (Patton e Francouer, 1978; Pitelka et al., 1973).

La somministrazione sistemica dei farmaci, invece, non consente di raggiungere concentrazioni terapeutiche nell’occhio a causa della presenza di un complesso di barriere, definito emato-oculare, composte da una barriera emato-retinica e da una barriera emato-acquosa, che impediscono la penetrazione di xenobiotici all’interno del corpo vitreo. Le due barriere manifestano una diversa selettività dipendente dalla liposolubilità dei farmaci: quelli con liposolubilità media o elevata attraversano entrambe le barriere, mentre i farmaci scarsamente liposolubili trovano un maggiore ostacolo alla permeazione nella barriera emato-retinica. Inoltre, anche il grado di legame con le proteine plasmatiche può influenzare il passaggio attraverso le barriere: quanto maggiore sarà questo legame, tanto minore sarà la concentrazione ematica di farmaco libero e, di conseguenza, tanto minore sarà la velocità di penetrazione nell’occhio. Altro fattore da tenere in considerazione è la velocità di metabolizzazione o di eliminazione del farmaco

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che, se è elevata, causa una rapida diminuzione della sua concentrazione congiuntivale e determina, quindi, un minore assorbimento di farmaco a livello oculare (Drago, 2006). Di conseguenza sarebbe necessario somministrare i farmaci a dosi elevate, ciò però aumenterebbe gli effetti collaterali sistemici (Lee et al., 2011).

Tutti questi fattori rendono sia la via topica che quella sistemica non efficienti nel fornire concentrazioni terapeutiche di farmaco nel sito di azione (segmento posteriore) (Thrimawithana et al., 2011).

3.2. La somministrazione intravitreale e perioculare

La somministrazione intravitreale (Fig.4) è il principale approccio per la distribuzione di farmaci diretti alla retina e all’umor vitreo. Questa metodica rimane la scelta principale nella terapia intraoculare acuta in quanto fornisce maggiori concentrazioni di farmaco e riduce al minimo gli effetti collaterali sistemici (Thrimawithana et al., 2011). Una singola iniezione assicura la permanenza del farmaco nel sito di azione/somministrazione per molte ore poiché l’eliminazione dall’umor vitreo è generalmente un processo lento. Il farmaco viene eliminato sia attraverso il segmento anteriore che posteriore. L'eliminazione anteriore avviene per diffusione dal vitreo alla camera posteriore e successivamente tramite il ricambio lacrimale e la circolazione uveale. L'eliminazione posteriore, invece, avviene mediante un meccanismo di diffusione passiva attraverso la barriera emato-retinica oppure mediante trasporto attivo mediato da carrier (Nirmal e Jain, 2016). Ad oggi la via di somministrazione intravitreale per raggiungere la retina è ampiamente utilizzata anche se il frequente uso può portare a notevoli complicazioni che includono non solo il dolore oculare, infiammazione, infezione e disturbi della visione ma anche effetti collaterali più importanti e invasivi (distacco della retina, glaucoma, endoftalmiti e aumento della pressione intraoculare) (Wong e Wong, 2019). La necessità di ripetere la somministrazione, anche in tempi brevi, aumenta notevolmente il rischio di effetti collaterali.

Una buona alternativa può essere rappresentata dalla via perioculare (Fig.5) visto che la sclera presenta una più ampia area, una maggiore permeabilità ed una più bassa attività proteasica rispetto alla cornea. Il farmaco, per raggiungere il segmento posteriore (umor vitreo e retina) dell’occhio, deve attraversare

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l’episclera, la sclera, la coroide, la membrana di Bruch e l'epitelio pigmentato della retina (Nirmal e Jain, 2016). Inoltre, il farmaco viene applicato direttamente sulla superficie esterna della sclera, minimizzando così il rischio di endoftalmite e danni alla retina associati alla via di somministrazione intravitreale.

Tuttavia, solo piccole quantità di farmaco raggiungono il corpo vitreo attraverso la sclera probabilmente a causa dei fattori di perdita fisiologica nei vari compartimenti (spazio perioculare, BRB, circolazione coroidale e legame con le proteine dei tessuti e con trasportatori di efflusso) (Thrimawithana et al., 2011). I fattori di crescita endoteliale anti-vascolare (anti-VEGF) sono in prima linea nel trattamento di diverse patologie della parte posteriore dell’occhio e farmaci come aflibercept, ranibizumab e bevacizumab sono oggi ampiamente utilizzati per la terapia di pazienti che soffrono della forma umida di AMD, retinopatia diabetica e altre patologie correlate al segmento posteriore dell’occhio (Wong e Wong, 2019). I farmaci macromolecolari presentano numerose limitazioni in termini di assorbimento / permeabilità attraverso le membrane biologiche, scarsa biodisponibilità e stabilità. Inoltre, la loro breve emivita in vivo implica somministrazioni frequenti che riducono la compliance del paziente. Un approccio per superare il problema della rapida eliminazione di queste molecole dal sito di somministrazione e per diminuire il numero di iniezioni intravitreali potrebbe essere lo sviluppo di una forma di dosaggio solida in grado di fornire un rilascio prolungato di farmaco applicabile anche alla terapia anti-VEGF (Burgalassi et al., 2018).

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3.3. Terapia anti-VEGF

Il VEGF è un fattore di crescita pluripotente e uno specifico mitogeno per le cellule endoteliali, riveste un ruolo critico nei fenomeni di angiogenesi incrementando la permeabilità vascolare. L’azione mitogena indotta sulle cellule endoteliali conduce alla proliferazione vascolare retinica negli stadi avanzati della retinopatia diabetica e nella forma umida della degenerazione maculare senile. Questo evidenzia come l’approccio terapeutico basato sull’utilizzo di farmaci inibenti l’attività del VEGF possa risultare determinante nella gestione di tali patologie. La classe delle molecole VEGF include 5 membri: il fattore di crescita placentare, VEGF-A, VEGF-B, VEGF-C e VEGF-D10. Tra loro il VEGF-A riveste un ruolo principale nell’angiogenesi e nel controllo della permeabilità vascolare. Per il VEGF-A esistono nove isoforme di cui il VEGF165 sembra essere il mediatore maggiormente coinvolto nei processi di neoangiogenesi patologica retinica (Bandello et al., 2011).

I più comuni anti-VEGF utilizzati in campo oftalmico sono:

• Pegaptanib (Macugen ®): un aptamero di 28 nucleotidi che lega con elevata affinità solo l’isoforma VEGF 165. Questa, come precedentemente detto, è l’isoforma patologica più importante nell'angiogenesi retinica. Un vantaggio di questo farmaco è che risparmia la vascolarizzazione sana. Il dosaggio normale è di 0,3 mg o 90 μL (Bandello et al., 2011; Gudla et al., 2018).

Ranibizumab (Lucentis ®): un frammento di anticorpo ingegnerizzato,

umanizzato, ricombinante (Fab) e attivo contro tutte le isoforme di VEGF-A. Manca del dominio Fc e ha un’emivita più breve rispetto ad altri agenti anti-VEGF. Il ranibizumab ha dimostrato di essere efficace nel trattamento dell’EMD, con un rapido e significativo miglioramento dell’acuità visiva. Nell’aprile 2017, il ranibizumab è stato approvato dalla FDA per il trattamento di tutte le forme di retinopatia diabetica (Cicinelli et al., 2018). Il dosaggio standard è di 0.3 – 0.5 mg per singola iniezione (Gudla et al., 2018);

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• Bevacizumab (Avastin ®): un anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato, approvato dalla Food and Drug Administration per il trattamento del cancro del colon-retto. È una molecola di grandi dimensioni (peso molecolare: 148kDa) che ha il doppio dell’emivita rispetto al ranibizumab (Cicinelli et al.,2018). È attivo contro tutte le isoforme VEGF-A ma, attualmente, non ha un’approvazione per l’uso intraoculare. Viene ampiamente utilizzato come off-label nel trattamento dei neovasi coroideali associati a degenerazione maculare senile o all’edema maculare associato alle occlusioni venose (Bandello et al., 2011). Il dosaggio previsto per ogni somministrazione è di 1 – 1.25 mg o 0.05 mL (Gudla et al., 2018);

Aflibercept (Eylea ®): detto anche VEGF Trap-Eye, una proteina

ricombinante di 115kDa nata dalla fusione del recettore del VEGF con la regione costante delle IgG1 umane. La molecola è dotata di un’emivita più lunga rispetto agli altri anti-VEGF ed è in grado di legare anche agli altri membri della famiglia del VEGF (Cicinelli et al., 2018).

I biofarmaci, come gli anti-VEGF, hanno mostrato grandi promesse come nuove terapie nel trattamento delle malattie oculari. I prodotti biologici, infatti, hanno un'elevata potenza e attività, un basso legame non specifico, nonché una minore tossicità e interazione farmaco-farmaco. Tuttavia, la compliance del paziente alle iniezioni intravitreali mensili è stata un grande ostacolo per questi trattamenti. C'è quindi un'urgente necessità di sviluppare adeguati sistemi di rilascio oculare per i prodotti biologici in modo tale da risolvere i problemi di aderenza terapeutica del paziente. La maggiore sfida è la messa a punto di opportune formulazioni che

veicolano i prodotti biologici nel sito di azione dato che tali prodotti possiedono un

alto peso molecolare, una elevata idrofilia, sono soggetti a fenomeni di degradazione, hanno una breve emivita e scarsa permeabilità attraverso le barriere oculari. Pertanto, sono necessari nuovi sistemi di rilascio per consentire la consegna di prodotti biologici ai tessuti oculari (Cao et al., 2019).

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4. OCULAR DRUG DELIVERY SISTEMS NEL

MERCATO ATTUALE

Negli ultimi anni, i sistemi di somministrazione del farmaco e gli impianti hanno acquisito molta importanza a causa della loro capacità di rilasciare il principio attivo in modo controllato sia per il segmento anteriore, ma in particolare per quello posteriore dell'occhio. Le esigenze mediche in questo campo, però, rimangono insoddisfatte poiché la maggior parte dei farmaci viene somministrata mediante iniezioni intravitreali con i relativi effetti collaterali. Lo sviluppo di nuovi sistemi di somministrazione permetterebbe di ridurre gli effetti collaterali mantenendo le proprietà farmacodinamiche, farmacocinetiche e immunologiche intatte ed evitando una rapida eliminazione (Del Amo e Urtti, 2008; Nagaray et al., 2019). Una delle possibilità attualmente in commercio e in fase di sperimentazione è l’utilizzo di impianti e sistemi intraoculari capaci di liberare il farmaco in modo graduale e prolungato nel sito di azione. Questo tipo di sistemi richiede sempre un piccolo intervento chirurgico. In generale, sono posizionati a livello intravitreale, presso il pars plana dell'occhio. In base alle caratteristiche chimico fisiche possono essere classificati come non biodegradabili e biodegradabili. Gli impianti non biodegradabili possono fornire un controllo più accurato e prolungato nel tempo del rilascio del farmaco rispetto a quelli biodegradabili, tuttavia questi sistemi richiedono la rimozione chirurgica dell'impianto al termine del periodo di attività (Lee et al., 2011; Thrimawithana et al., 2011).

Tra i prodotti non biodegradabili commercialmente disponibili possono essere ricordati:

Retisert ® (Fig.6) è un impianto intravitreale non biodegradabile prodotto

da Bausch & Lomb, USA ed utilizzato per il trattamento dell'uveite posteriore non infettiva cronica. Le dimensioni di tale impianto sono di circa 3 mm × 2 mm x 5 mm. Contiene 0,59 mg di fluocinolone acetonide fornito sotto forma di compresse in un contenitore di silicone elastomerico con orifizio di rilascio. Tra la compressa e l'orifizio vi è una membrana di alcool polivinilico che funge da barriera per controllare il rilascio del farmaco che

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avviene ad una velocità di 0,6 μg / giorno coprendo un intervallo terapeutico di circa 2,5 anni. Il rilascio del farmaco avviene per diffusione quando l'acqua dall'esterno entra nell'impianto e dissolve il farmaco, L’applicazione di questo dispositivo richiede un'incisione chirurgica attraverso pars plana per posizionarlo nella regione sclerale. Gli effetti avversi segnalati più frequentemente dai pazienti includono la formazione di cataratta, il distacco della coroide, l'aumento della pressione intraoculare, l'infiammazione, il distacco della retina, l'emorragia e il dolore.

Fig.6 - Retisert ®

Iluvien™ (Fig.7) è un impianto intravitreale di fluocinolone acetonide per il

trattamento dell'edema maculare approvato dalla FDA, prodotto e commercializzato da Alimera Sciences, USA. È un impianto non biodegradabile costituito da poliimmide, di dimensioni 3,5 mm × 0,37 mm che rilascia 0,19 mg di fluocinolone acetonide alla velocità di 0,25 μg / die fino a 36 mesi. L'impianto viene introdotto nell'umor vitreo dell'occhio vicino alla retina usando un ago da 25 G in un modo simile all'iniezione intravitreale. Iluvien ha dimostrato di ridurre l'edema maculare con cataratta, endoftalmite, aumento della pressione intraoculare e anche migrazione dell’impianto.

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Fig.7 - Iluvien™

Vitrasert™ (Fig.8) è un impianto intra-vitreale non biodegradabile di Baush

& Lomb, USA, caricato con 4,5 mg di ganciclovir che è un farmaco antivirale impiegato per il trattamento della retinite da citomegalovirus (CMV). Il farmaco è incapsulato in un polimero

biocompatibile PVA/EVA, con una composizione simile a Retisert ®. Viene

impiantato nella regione sclerale e può rilasciare il farmaco fino a 2 mesi. Alcune delle complicanze osservate sono state infiammazione, aumento della PIO e perdita dell'acuità visiva.

Fig.8 - Vitrasert™

I-vation™ (Fig.9) è un impianto intravitreale non biodegradabile a rilascio

prolungato sviluppato da SurModics Inc, USA. Viene utilizzato per il trattamento di patologie del segmento posteriore e anteriore come retinopatia diabetica, AMD e glaucoma. Viene impiantato con l'aiuto di un ago da 25 G che si fissa alla sclera. Il particolare design a spirale elicoidale

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aiuta un migliore fissaggio dell'impianto e aumenta la superficie per una consegna efficiente del farmaco. È in grado di fornire un rilascio del principio attivo per un massimo di 2 anni. L'impianto ha terminato la sperimentazione clinica di Fase I per la valutazione della sicurezza dell'impianto e i rapporti hanno dimostrato che può migliorare l'acuità visiva. Il dispositivo, però, può anche causare potenziali complicazioni come un aumento della PIO e la formazione di cataratta.

Fig.9 - I-vation™

Tra i prodotti biodegradabili commercialmente disponibili possono essere ricordati:

Ozurdex™ (Fig.10.a e 10.b) è un sistema di somministrazione di farmaci

intravitreali contenente desametasone e sviluppato da Allergan. È il primo sistema biodegradabile approvato dalla Food and Drug Administration comunemente usato per il trattamento dell'edema maculare e dell'uveite infettiva posteriore. Il sistema di erogazione, infatti, è costituito da polimero biodegradabile PLGA (acido polilattico-glicolico). Il dispositivo è precaricato su un applicatore 22G appositamente progettato per fornire l'impianto cilindrico nella cavità vitrea, fornendo corticosteroidi per un massimo di sei mesi senza la necessità di ripetute iniezioni intravitreali. Non rimane traccia dell’’impianto all’interno della cavità intra-vitreale. Anche in questo caso gli effetti collaterali sono rappresentati dalla formazione di cataratta, aumento della PIO, infiammazione e gonfiore della congiuntiva, dolore e mal di testa (Nagaray et al., 2019).

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Fig.10.a - Sistema di somministrazione Ozurdex™

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1. SCOPO DELLA TESI

Lo scopo del presente lavoro è stata l’ottimizzazione di matrici solide preparate mediante liofilizzazione per il rilascio di bevacizumab al segmento posteriore dell’occhio. In studi precedenti erano state identificate le condizioni di liofilizzazione ottimali per mantenere l’integrità del farmaco durante la produzione ed era stata selezionata una formulazione che permetteva di avere una buon tempo di idratazione e un lento rilascio del farmaco. I risultati degli studi in vivo avevano però portato a concludere che era necessario prolungare ulteriormente il rilascio. Alla luce di queste considerazioni, il presente lavoro ha perseguito questo obiettivo modificando la formulazione con l’inserimento di differenti materiali polimerici. Le nuove formulazioni sono state sottoposte a caratterizzazione tecnologica in termini di comportamento reologico delle dispersioni polimeriche prima e alla fine del processo di liofilizzazione dopo reintegrazione dell’acqua persa, tempo di idratazione e rilascio in vitro.

Il lavoro si è articolato nelle seguenti fasi:

1- Preparazione delle matrici polimeriche a base di PVA, PVA/PVP (5:1) e HPMC, HPMC/PVP (2:1) sottoponendo le relative dispersioni polimeriche ad un processo di liofilizzazione in condizioni controllate;

2- Valutazione delle proprietà reologiche sia delle dispersioni di partenza che di quelle ottenute dopo aver disperso le matrici nella quantità di acqua persa durante l’essiccamento;

3- Determinazione del tempo di idratazione delle matrici liofilizzate;

4- Misura della resistenza alla compressione delle matrici preparate;

5- Preparazione delle matrici contenenti fluoresceina isotiocianato destrano (FITC-DX), usato come molecola modello con caratteristiche simili al bevacizumab dal punto di vista del PM;

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6- Determinazione della velocità di rilascio in vitro del FITC-DX attraverso una membrana sintetica;

7- Messa a punto di una appropriata metodica analitica utilizzando un fluorimetro per la determinazione quantitativa del prodotto fluorescente FITC-DX.

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2. MATERIALI

Sono stati utilizzati i seguenti prodotti:

• Polivinil alcool (PVA) (Emprove® 4-88, Merck, Germania)

• Polivinil pyrrolidone (PVP) (Kollidon® 90F, Basf, Germania)

• Idrossipropilmetilcellulosa (HPMC) (Methocel® K4M Premium EP, Colorcon, Italia)

• Trealosio (SG, Hayashibara Co. Giappone)

• Fluoresceina isotiocianato destrano 150 kDa (FITC-DX) (Sigma-Aldrich, Svezia)

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2.1 Alcool Polivinilico

Fig.1 Struttura chimica dell’ alcool polivinilico.

L' alcool polivinilico (PVA) (Fig.1) è un composto chimico ottenuto per idrolisi di polivinilacetato. Grazie alle sue proprietà di biocompatibilità e idrofilia, è utilizzato per varie applicazioni industriali, in campo medico e alimentare. La completa dissoluzione del PVA in acqua è legata alle sue proprietà intrinseche, agevolata da alte temperature (100 ° C) e tempi prolungati (30 minuti). Il PVA ha un‘alta resistenza e plasticità, presenta una buona capacità viscosizzante ma soprattutto idratante. Queste caratteristiche vengono sfruttate per conferire proprietà filmogene alle soluzioni oftalmiche con conseguente stabilizzazione del film lacrimale. Il PVA, infatti, viene utilizzato in lacrime artificiali, lenti a contatto, soluzioni per scopi di lubrificazione ed in formulazioni a rilascio prolungato. (Rowe et al. 2003; Gaaz et al. 2015).

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2.2 Polivinilpirrolidone

Fig.2 Struttura chimica del polivinilpirrolidone.

Il polivinilpirrolidone (PVP) (Fig.2) è un polimero sintetico costituito da gruppi lineari di 1-vinil-2-pirrolidone, solubile in acqua, non tossico e biocompatibile, chimicamente inerte e resistente alle variazioni di temperatura. Il PVP, inoltre, grazie alla presenza di gruppi funzionali idrofili e idrofobici, interagisce con vari solventi tra cui acqua, alcoli, alcuni composti clorurati come cloroformio, cloruro di metilene e cloruro di etilene, nitroparaffine e ammine. Il PVP, polvere fine di colore bianco, quando messo in contatto con acqua è in grado di assorbirla fino al 40% del suo peso ed in soluzione ha eccellenti proprietà bagnanti e filmogene Questo polimero ha trovato numerose applicazioni in campo biomedico e farmaceutico, ad esempio come viscosizzante nelle preparazioni oftalmiche allo scopo di aumentare il tempo di ritenzione del formulato a livello corneale e conferire al prodotto maggiori proprietà idratanti e lubrificanti (Teodorescu e Bercea, 2015).

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2.3 Idrossipropilmetilcellulosa

Fig.3 Struttura chimica della idrossipropilmetilcellulosa

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L’idrossipropilmetilcellulosa, (HPMC) (Fig.3) è un estere misto di alchil e idroalchil derivati che si ottiene da una modifica sintetica della cellulosa. L’HPMC risulta solubile in acqua e in alcuni solventi organici. In campo farmaceutico è utilizzata come colloide protettivo, agente viscosizzante, stabilizzante di emulsioni, filmogeno nel rivestimento di compresse, come legante nella granulazione ad umido a basse concentrazioni e nella preparazione di formulazioni a rilascio prolungato. In campo oftalmico i derivati della cellulosa sono stati i primi sostituti lacrimali con proprietà emollienti e viscoelastiche, utilizzati sia nei deficit della componente acquosa che in formulazioni mucomimetiche per il trattamento dell’alterazione dello strato lipidico-mucinico; inoltre l’HPMC è utilizzata da diversi decenni nella produzione di lenti a contatto (Burdock G. A., 2007).

Una delle sue caratteristiche più importanti è l'elevata capacità di swelling, influenzando significativamente la cinetica di rilascio del farmaco (Siepmann e Peppas, 2012).

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2.4 Trealosio

Fig.4 Struttura chimica del trealosio.

Il trealosio (Fig.4) è un disaccaride non riducente in cui le due unità di glucosio sono collegate da un legame α, α-1,1-glicosidico. Si trova in un’ampia varietà di organismi tra cui batteri, lieviti, funghi, insetti, invertebrati e piante inferiori e superiori, dove può servire come fonte di energia e di carbonio. È stato dimostrato che il trealosio può proteggere le proteine e le membrane cellulari dall'inattivazione o dalla denaturazione causate da variazioni di temperatura (caldo, freddo) eda processi di ossidazione (Elbein et al. 2003). Questo zucchero, infatti, viene impiegato come crioprotettore durante il processo di liofilizzazione che permette di eliminare l’acqua per sublimazione, usato per la conservazione di campioni biologici, ma che, allo stesso tempo, può provocare cambiamenti nello stato fisico dei lipidi di membrana e alterazioni nella struttura delle proteine sensibili. Il trealosio, quindi, riesce a impedire la denaturazione delle proteine isolate grazie alla formazione di legami idrogeno tra lo zucchero e i protidi quando l'acqua viene rimossa durante l'essiccazione (Patist e Zoerb. 2005).

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2.5 Fluoresceina isotiocianato destrano 150 KDa

Fig.5 Struttura chimica del FITC-DX.

La fluoresceina isotiocianato destrano è un complesso particolarmente impiegato nella ricerca, sia in vitro che in vivo, grazie alle sue proprietà di tracciante molecolare. In particolare, la fluoresceina si lega al destrano mediante un legame tiocarbamoil (Fig.5) e grazie alla sua forte fluorescenza, rende il destrano analizzabile mediante analisi fluorimetriche (Schröder et al. 1976). La fluoresceina è coniugata in modo random a gruppi ossidrilici di destrano con una frequenza compresa tra 0,003 e 0,02 moli di fluoresceina isotiocianato per mole di glucosio. È un composto che si solubilizza facilmente in acqua a concentrazioni pari o superiori di 25 mg / ml. L’eccitazione massima del FITC-DX è 490 nm, mentre l’eccitazione minima è di 520 nm. Il FITC-DX con un peso molecolare di 150kDa analogo a quello del bevacizumab (BVZ) è stato utilizzato in questo lavoro di tesi come modello molecolare negli studi preliminari di rilascio del prodotto da matrici polimeriche liofilizzate, al fine di selezionare la formulazione migliore da impiegare per la veicolazione di BVZ (Burgalassi et al. 2018).

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3. METODI

3.1. Sviluppo e caratterizzazione di matrici polimeriche

preparate per la liofilizzazione

3.1.1. Veicoli polimerici sottoposti a studio

Le dispersioni polimeriche impiegate per la preparazione delle matrici sono state preparate come segue: i polimeri PVA, HPMC e PVP venivano idratati in acqua MilliQ e sottoposti ad agitazione magnetica per 24 ore a temperatura ambiente; la dispersione colloidale di PVA veniva preparata in autoclave ad una temperatura di 120 °C per 20 minuti. Successivamente le dispersioni polimeriche sono state lasciate a riposo in frigo per 48 ore, in modo tale da eliminare l’aria incorporata durante il processo di agitazione. A tutte le formulazioni è stato addizionato trealosio come crioprotettore. La composizione delle dispersioni polimeriche utilizzate è riportata in Tab. 1 in % p/p.

Tab. 1 – Composizione delle dispersioni polimeriche acquose (% p/p).

Formulazione HPMC PVA PVP TREA

PVA - 5.0 - 1.0

PVA/PVP - 5.0 1.0 1.0

HPMC 2.0 - - 1.0

HPMC/PVP 2.0 - 1.0 1.0

3.1.2. Preparazione di matrici polimeriche liofilizzate

Le matrici liofilizzate sono state preparate introducendo 50 µl di ogni dispersione polimerica all’interno di stampi cilindrici in silicone (diametro 3 mm) in modo tale da ottenere 10 matrici per ciascuna formulazione. Inoltre, 20.0 g delle medesime formulazioni polimeriche sono stati inseriti in piastre di Petri (diametro 8.6 cm) per effettuare gli studi in bulk. I preparati sono stati sottoposti al processo di

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liofilizzazione (VirTis Wizard 2.0) utilizzando le seguenti condizioni (Burgalassi et al. 2018):

1. Fase di congelamento: pressione 400 torr, temperatura -38 °C (rate 0.6 °C/h); extra freeze per 120 min.

2. Essiccamento primario: pressione 100 torr, temperatura da -38 °C a 0 °C (rate 2.1 °C/h).

3. Essiccamento secondario: pressione 50 torr, temperatura da 0 °C a 25°C (rate 5.0 °C/h); extra freeze a 27 °C per 60 min.

Le formulazioni per gli studi in bulk e le matrici venivano mantenute in essiccatore fino al momento dell’utilizzo.

Le matrici ottenute (Fig. 16), di forma cilindrica, avevano un diametro e una lunghezza di 3.0 mm e 8.7 mm, rispettivamente, misurate usando un microscopio digitale (Dino-lite Pro, ANMO, Taiwan) ottenendo (Fig.6).

Fig.6 – Dimensioni della matrice liofilizzata: D (diametro), L (lunghezza).

3.1.3. Analisi reologiche

Il comportamento reologico delle dispersioni polimeriche prima ed alla fine del processo di liofilizzazione dopo ridispersione della formulazione è stato determinato a 25 °C usando un viscosimetro Rheostress 1 (Haake, Germania) equipaggiato con cilindri coassiali (Z40 e Z41) per le formulazioni contenenti HPMC o con piastra cono (C60 e 4-P61) nel caso delle dispersioni a base di PVA a valori di shear rate (D) compresi tra 0 e 200 s−1. I dati ottenuti sono stati elaborati con il software RheoWin Manager (Versione 4.61 Haake, Germania). Le

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dispersioni con un comportamento pseudoplastico sono state analizzate sfruttando la legge di potenza di Ostwald-de-Waele:

𝜏 = ɳ𝐷N Dove:

𝜏 è lo sforzo di taglio, ɳ è la viscosità apparente, N è l’indice di flusso e D è lo

shear rate.  ed N sono < 1 nei fluidi pseudoplastici.

Il valore di ɳ è stato calcolato linearizzando i valori di 𝜏 e D secondo la seguente equazione:

𝑙𝑜𝑔τ = 𝑙𝑜𝑔ɳ + N𝑙𝑜𝑔D

dove per D = 1 s−1 abbiamo 𝑙𝑜𝑔τ = 𝑙𝑜𝑔ɳ

La viscosità apparente ɳ è stata calcolata ponendo D = 1 s−1, effettuando le

misurazioni per ogni formulazione in triplicato.

3.1.4. Analisi statistica

Le differenze statisticamente significative tra i valori di viscosità, ottenuti pre e post liofilizzazione per ogni formulazione, sono state verificate mediante il t-test a due code per dati non appaiati (GraphPad Software, San Diego, CA). I dati riportati sono la media di tre determinazioni ± l’errore standard (S.E.). Le differenze sono considerate statisticamente significative per valori di p <0.05.

3.1.5. Tempo di idratazione delle matrici

Il tempo richiesto per ottenere la completa ridispersione delle matrici era determinato e riportato come TIM (tempo di idratazione delle matrici). TIM era qualitativamente monitorato mediante il microscopio digitale (Dino-lite Pro). Le matrici liofilizzate, 4 per ciascuna formulazione, sono state pesate e successivamente inserite all’interno di un pesa filtro, posto su carta millimetrata. La quantità di acqua sublimata durante il processo di liofilizzazione era addizionata alla matrice per riportarla al peso originale. Come punto finale, indice della completa idratazione, è stato considerato l’ottenimento di una dispersione omogenea tale da far rendere visibili le linee di carta millimetrata (Burgalassi et al.

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39

2018). Le matrici sono state fotografate ad intervalli di tempo determinati con il microscopio digitale. Le immagini così ottenute sono state analizzate tramite il Software Dino Capture 2.0 (ANMO, Taiwan). L’esperimento era eseguito a temperatura controllata di 20°C.

3.1.6. Resistenza alla compressione

Le proprietà meccaniche delle matrici venivano determinate misurando la forza necessaria a comprimere il campione da analizzare in un determinato tempo. L’apparecchiatura era composta da due supporti cilindrici (Fig.7.a), uno superiore ed uno inferiore, collegata, in serie ad una bilancia digitale, un trasduttore di segnale, ed un computer dotato di un software di acquisizione (Handyscope2 software, TiePie Engineering, Olanda). Le matrici sono state poste sul supporto inferiore che, posizionato al di sopra di una piattaforma mobile, veniva lentamente alzato fino a permettere il contatto con il supporto superiore e quindi la compressione degli inserti polimerici (Fig.7.b). I dati ottenuti sono stati riportati su una scala arbitraria considerando lo schiacciamento indotto dall’applicazione di un peso crescente e la riduzione dello spessore della matrice ed è stato calcolato un indice di comprimibilità (IC).

Fig.7.a – Apparecchiatura impiegata Fig.7.b – Compressione

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3.2. Matrici polimeriche contenenti FITC-DX

3.2.1 Preparazione di matrici polimeriche contenenti

FITC-DX

Dopo gli studi preliminari alcune formulazioni venivano scelte per la realizzazione di matrici liofilizzate contenenti FITC-DX. Per ottenere 10 matrici, venivano addizionati 250 µL di una soluzione acquosa di FITC-DX (25 mg/ml, 0.625 mg/compressa) a 250 mg della dispersione polimerica con composizione riportata in Tab.2. Le dispersioni così ottenute sono state sottoposte ad agitazione magnetica per 24 ore a temperatura ambiente e successivamente lasciate in frigo per 48 ore in modo tale da eliminare l’aria incorporata. Le formulazioni, quindi, sono state inserite in tubi di silicone dal diametro di 3 mm e liofilizzate secondo il metodo descritto in precedenza (¶ 7.1.2.). I composti venivano protetti dalla luce per impedire il decadimento in termini di fluorescenza di FITC-DX. Le matrici venivano lasciate nell’essiccatore fino al momento del loro utilizzo.

Tab. 2 – Composizione delle matrici liofilizzate (mg) contenenti FITC-DX.

Formulazione HPMC PVA PVP TREA FITC-DX

PVAFITC-DX - 2.5 - 0.50 0.625

PVA/PVPFITC-DX - 2.5 0.50 0.50 0.625

HPMCFITC-DX 1.00 - - 0.50 0.625

HPMC/PVPFITC-DX 1.00 - 0.50 0.50 0.625

3.2.2. Studi di rilascio in vitro

Le matrici liofilizzate contenenti FITC-DX sono state sottoposte a studi di rilascio in vitro impiegando membrane di dialisi di cellulosa con MWCO 300 kDa (Spectrum Laboratories Inc., Olanda) e celle a diffusione verticale (Hanson, Chatworth, CA)

(Fig.8) con un’area di 0,64 cm². La fase donatrice era costituita dalla matrice

oppure dal prodotto fluorescente (FITC-DX), usato come controllo; sia la matrice che il FITC-DX, esattamente pesati, sono stati idratati con 10 µl di PBS isotonico

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pH 7.4. Il compartimento ricevente conteneva 4,0 ml di PBS isotonico mantenuto sotto agitazione a 350 giri/mm ad una temperatura di 37 °C. Il sistema di rilascio è stato sigillato per impedire l’evaporazione della fase donatrice e per proteggerla dalla luce.

Ad intervalli di tempo predeterminati, la fase ricevente veniva interamente prelevata per essere analizzata e sostituiti con mezzo fresco.La concentrazione di FITC-DX nel campione incognito veniva determinata mediante analisi fluorimetrica.

Fig.8 – Rappresentazione di celle a perfusione verticale Hanson.

3.2.3. Metodo analitico del FITC-Destrano

La fluorescenza del FITC-DX (150 kDa) nelle matrici in esame e nei campioni ottenuti dal test di rilascio è stata misurata a 520 nm (eccitazione 490 nm) mediante un fluorimetro (RF-551 Fluorimetro, Shimadzu) dotato di una pompa LC-6A, un iniettore Rheodyne da 20-µl (Shimadzu) e un sistema di integrazione informatica (Software Cromatoplus). Come fase mobile è stata utilizzata acqua Milli-Q flussata a 0,5ml/min. La quantità di prodotto fluorescente in ciascun campione era determinata usando appropriate curve standard ottenute riportando la concentrazione di soluzioni note versus l’area dello spettro relativo.

Riferimenti

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