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Opere pubbliche e organizzazione del lavoro edile nel regno di Napoli (secoli XIII-XV)

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PER LA STORIA DELLE CITTÀ CAMPANE NEL MEDIOEVO Quaderni

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NEL MEZZOGIORNO MEDIEVALE

a cura di

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© 2016 by LAVEGLIACARLONE s.a.s. Via Guicciardini 31 – 84091 Battipaglia tel/fax 0828.342527; e-mail: info@lavegliacarlone.it

sito internet: www.lavegliacarlone.it

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Stampato nel mese di agosto 2016 da Printì - Manocalzati (AV)

territorio, occupazione del suolo e percezione dello spazio nel Mezzogiorno medievale (secoli XIII-XV). Sistemi informativi per una nuova cartografia

storica), coordinatore nazionale Giovanni Vitolo.

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di PIERLUIGI TERENZI

Questo intervento ha per obiettivo la verifica dello stato dell’arte e delle possi-bilità di ricerca sul tema del lavoro per le opere pubbliche del Mezzogiorno tardomedievale. L’intervento è di natura esplorativa e intende essere il primo pas-so per una futura ricerca1. Esso si pone sulla scia dello studio delle maestranze dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze, per il periodo di costruzione della cupola del Brunelleschi (1417-1436), che ho condotto nell’ambito del progetto Gli anni della Cupola2. Entrambi i contributi si riferiscono all’universo dei problemi storiografici tipici della storia dell’edilizia, in particolare quella pubblica. Le impli-cazioni connesse a questo argomento sono molteplici, a seconda del punto di vista che si assume. Un grande cantiere, specialmente se ben documentato, è un ogget-to di studio multidisciplinare: architettura, arte, tecniche, economia, società, istitu-zioni e politica si trovano insieme in un solo manufatto, che costituisce una sorta di rappresentazione materiale dell’interdisciplinarità. Qui affronteremo solo alcuni temi principali riguardanti il lavoro e la sua organizzazione nei cantieri pubblici, con un taglio politico-istituzionale e socio-economico. Oggetto di osservazione saranno le città e la monarchia nel periodo angioino e aragonese3.

1. Il lavoro nelle opere pubbliche: questioni basilari

Prima di entrare nel merito, è opportuno ricordare alcuni aspetti fondamentali trattati negli studi sui cantieri, per inquadrare ciò che si dirà sul Mezzogiorno4.

1 Ringrazio tutti gli intervenuti alla discussione sulla mia relazione, grazie ai quali ho

potuto sviluppare e migliorare diverse parti di questo contributo.

2 Il progetto, a cura di Margaret Haines, consiste nell’edizione digitale di tutte le fonti

amministrative prodotte e conservate dall’Opera per quegli anni. Si tratta di oltre 21.000 docu-menti trascritti e indicizzati, liberamente consultabili sul web all’indirizzo <http://archivio.opera duomo.fi.it/cupola/> (URL attivo il 31/5/15). Nello stesso sito sono pubblicate le immagini di tutti manoscritti interessati e alcuni saggi su temi fondamentali, tra cui TERENZI, Maestranze.

3 Per l’età normanno-sveva, con qualche considerazione su quella angioina: B

ELLI

D’ELIA, I grandi cantieri.

4 Per gli aspetti che vado a illustrare: B

ERNARDI, Bâtir; CORTONESI, Studi recenti; ID.,

Maestranze; FRANCHETTI PARDO, Il maestro; GAROFALO, I mestieri; GROHMANN,

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La gestione del cantiere

Un primo passo da compiere è l’analisi delle strutture di gestione del cantie-re, organizzate gerarchicamente in politico-amministrative ed esecutive. Al pri-mo livello appartengono le istituzioni e/o le persone cui faceva capo l’ammini-strazione del cantiere, dalle decisioni di carattere generale (progettazione, tempistica, fasi di costruzione etc.) a quelle più specifiche, come il reperimento delle risorse finanziarie, il rifornimento di materiali, l’impiego dei lavoranti, le retribuzioni e così via. Al secondo appartengono i soggetti su cui ricadeva la responsabilità dei lavori: i capomaestri, i supervisori, gli scrivani delle giornate, i tesorieri. Queste figure, con nomi diversi, si ritrovano in tutti i cantieri, come nessi fra la committenza e l’esecuzione dei lavori. Da un lato, essi valutavano le necessità pratiche, come i materiali, i lavoranti e gli interventi da farsi, e le co-municavano agli amministratori; dall’altro, essi davano applicazione alle scelte direttive, a loro volta condizionate dalle loro stesse valutazioni.

Il numero di lavoranti

Le caratteristiche della forza lavoro costituiscono il secondo aspetto fonda-mentale, che si articola in diversi temi interconnessi. Un punto di partenza può essere il totale di lavoranti impiegati in cantiere in un dato momento e le sue variazioni nel tempo. Queste ultime non erano legate solo alle diverse fasi costruttive, ma anche alla disponibilità finanziaria e ad altri fattori.

Le qualifiche

In seconda battuta si può analizzare la composizione per “qualifica” della forza lavoro, cioè capire di quali professionalità essa fosse composta e quale peso avesse ciascuna di esse, considerando anche qui le variazioni nel tempo. La prima distinzione è fra maestri e manovali, cioè fra manodopera qualificata e non. All’interno dei due gruppi vanno inoltre considerati gli apprendisti, giovani lavoranti al seguito di maestri (o anche manovali) esperti. Ogni cantiere richie-deva la soddisfazione di molte esigenze, come l’estrazione della materia prima, la sua trasformazione, la sua posa in opera, ma anche la predisposizione e la cura degli strumenti di lavoro e delle strutture di sostegno per la costruzione (impalcature, centine etc.). A queste esigenze rispondevano i maestri: cavapietre, muratori, scalpellini, carpentieri, fabbri e altri ancora. Sebbene sia ovvio che la

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costruzione di un edificio comportasse un impiego significativo di muratori, non è scontato che essi fossero la maggioranza dei lavoranti, perché gli altri processi lavorativi potevano richiedere il coinvolgimento di un numero maggiore di spe-cialisti in altri campi, come i cavapietre e gli scalpellini.

I rapporti di lavoro

Un altro aspetto centrale è il tipo di rapporto di lavoro, cioè le sue forme contrattuali. La distinzione principale è fra lavoro salariato a giornata e lavoro a cottimo. Il primo era il più diffuso per l’attività costruttiva vera e propria ed era integrato dal secondo per altri tipi di attività (realizzazioni artigianali, trasporti non appaltati etc.). Il lavoro salariato comportava un rapporto diretto con la committenza, per un tempo definito, durante il quale il lavorante era a disposizio-ne del direttore dei lavori, che decideva se e come impiegarlo. Non era sicuro che, nel periodo di collaborazione stabilito, il lavorante fosse impiegato tutti i giorni, sia per una temporanea inutilità sia per le condizioni climatiche che co-stringevano a sospendere i lavori o a dedicarsi alle sole attività al coperto. Il lavorante era comunque tenuto a rimanere a disposizione e poteva lavorare al-trove solo se autorizzato. Laddove sono disponibili i libri contabili di cantiere, è possibile ricostruire nel dettaglio le giornate lavorate da ciascuno e quindi l’im-piego effettivo della forza lavoro per un dato periodo.

Le retribuzioni

L’analisi delle retribuzioni costituisce un ulteriore aspetto cruciale, sia nel microcosmo del cantiere sia nell’universo socio-economico in cui esso era im-merso. Per i salariati, la retribuzione era a opera, cioè a seconda delle giornate o porzioni di giornata lavorate, sulla base di una cifra giornaliera stabilita. Solo i responsabili di cantiere erano stipendiati indipendentemente dal lavoro effettivo, anche se potevano integrare il reddito con un salario a giornata. Chi lavorava a cottimo, ovviamente, veniva pagato al pezzo o a servizio effettuato.

Nello studio dei salari si osserva inoltre il rapporto fra qualifica e retribuzio-ne. Se in genere a un dato mestiere corrispondeva un dato salario, in molti casi le variazioni individuali lasciano intravvedere un mercato del lavoro molto dinami-co. La retribuzione può essere poi connessa al contesto socio-economico locale, cercando di cogliere i livelli di vita dei lavoranti e di collocarli nel panorama sociale.

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La provenienza

Un ultimo elemento che si può considerare è la provenienza dei lavoranti, che risulta tanto più interessante in un contesto geograficamente ampio come il Regno di Napoli, attraversato da movimenti interni e immigrazioni da aree ester-ne che fornivano operai specializzati, come i maestri lombardi o toscani.

2. I cantieri edili nell’Italia meridionale: città e monarchia

Queste questioni trovano risposte parziali per il Mezzogiorno tardomedievale, e quasi nessuna per le città. Il problema è la scarsità di fonti, particolarmente grave per le opere pubbliche promosse dalle comunità cittadine. L’indisponibilità documentaria non è frutto di mancata produzione, ma di mancata conservazio-ne. Come per altre scritture cittadine, quelle riguardanti le opere pubbliche han-no seguito percorsi a han-noi sfavorevoli5. Nel caso specifico, inoltre, l’uso di appaltare i lavori a gruppi di maestri ha costituito un ulteriore fattore di dispersione docu-mentaria, perché le scritture sull’organizzazione del lavoro non furono prodotte (e conservate) dalle istituzioni. Così, allo stato attuale, sono documentati quasi esclusivamente alcuni cantieri promossi dalla monarchia, sia in età angioina sia in età aragonese. Da qualche anno si riscontra una rinnovata attenzione per alcuni edifici cosicché, associando vecchi e nuovi studi, possiamo ora considera-re un insieme di opeconsidera-re pubbliche “monarchiche” come punti di partenza per una riflessione generale: Castelnuovo e il duomo di Napoli6, l’abbazia di Santa Maria di Realvalle7, la chiesa di Santa Maria della Vittoria in Abruzzo8, le mura di Melfi9, il castello di Gaeta10 e altre costruzioni11.

È chiaro che, essendo la monarchia promotrice di queste opere, non possia-mo estendere le loro caratteristiche ai cantieri gestiti dalle città. Tuttavia biso-gna considerare che quasi sempre un’opera pubblica vedeva coinvolti entrambi

5 Sulla produzione e la conservazione delle scritture nelle città meridionali SENATORE, Le scritture.

6 Su Castelnuovo FILANGIERI, Rassegna critica; PALMIERI, Il Castelnuovo; da ultimo

CHILÀ, Castelnuovo; sul duomo GAGLIONE, La cattedrale, e suoi riferimenti bibliografici.

7 FRANCABANDERA, L’abbazia; DE SANCTIS, L’Abbazia; PESCE, Santa Maria. 8 E

GIDI, Carlo I.

9 SMALL, The Crown. 10 C

OLESANTI, Appunti.

11 Aggiornamenti e discussioni su alcuni edifici di età angioina si trovano

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i soggetti: la Corona chiamava le città a collaborare con risorse finanziarie e umane, mentre i centri urbani potevano chiedere un aiuto economico alla monar-chia, specialmente per edifici religiosi di interesse sovralocale. Questo sistema ci porta a considerare alcune opere pubbliche come rappresentazione materiale del rapporto città-monarchia, soprattutto se intendiamo quest’ultimo secondo le linee interpretative affermatesi da qualche anno a questa parte. Esse hanno su-perato l’idea di una contrapposizione inevitabile fra due soggetti nettamente di-stinti e propongono l’immagine di un dialogo complesso, solo a volte conflittuale, fra i centri urbani e il potere monarchico12.

Rimane comunque fondamentale distinguere le funzioni e i poteri (formali e reali) dei due soggetti. Le città erano suddite e, come tali, erano tenute a prestare servizi alla monarchia, per quanto se ne potessero negoziare forme e limiti. Fra i servizi c’erano anche quelli riguardanti il campo edilizio, come dimostra il caso dell’Aquila, una delle città meglio documentate per la fine del medioevo. Durante il suo regno, Ferrante chiese più volte la partecipazione degli aquilani alla costru-zione delle mura di Cittareale, un presidio di confine13. Oltre ai contributi finanziari, il re chiese nel 1482 che la città si occupasse, insieme a un inviato regio, di reperire e organizzare la forza lavoro. Si trattò di un coinvolgimento pieno, con una respon-sabilità diretta della comunità, che doveva sobbarcarsi gli oneri finanziari, ma pote-va anche gestire la cosa in autonomia. I consigli deliberarono che una commissio-ne di cittadini doveva trattare direttamente con alcuni magistri per ottecommissio-nere il mi-glior prezzo possibile. Si dovette stabilire una cifra forfaitaria per la realizzazione dei lavori, senza impiego a salario, come dimostra anche l’anticipo offerto da un cittadino della somma pattuita, che sarebbe poi stata esatta ai forestieri14.

Quanto fosse diffuso nel regno questo tipo di coinvolgimento è difficile dire. Si può ricordare che due secoli prima, per le mura di Melfi, un’ottantina di comu-nità furono obbligate a contribuire attraverso la fornitura e il pagamento di ma-nodopera non qualificata e di alcuni materiali. D’altro canto, in età federiciana esisteva un vero e proprio sistema di attribuzione di responsabilità per la cura dei castelli, ciascuno dei quali era “affidato” a una comunità15. Casi come questi

12 Su questo punto CORRAO, Città; ID., Centri; VITOLO, Monarchia; TERENZI, Una città; ID., L’Aquila.

13 Per alcuni esempi degli anni sessanta BERARDI (a cura di), Liber reformationum,

pp. 8-19.

14 L’intera vicenda si trova nei verbali dei consigli cittadini: Archivio di Stato

del-l’Aquila, Archivio Civico Aquilano [d’ora in avanti ASA ACA], T 3, Liber reformationum 1482-1485, cc. 6r-7r (26 aprile 1482); 49r-50v (14 aprile 1483); 51r-54v (9 maggio 1483).

15 S

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mostrano un alto livello di integrazione fra monarchia e città, dove queste ultime erano consce dei loro obblighi di sudditanza, ma non rinunciavano a negoziarne diversi aspetti per ottenere condizioni vantaggiose e sottrarsi il più possibile agli oneri. Così nel 1467 L’Aquila, prima di soddisfare la richiesta regia per Cittareale, provò a resistere argomentando che i capitoli di sudditanza la esimevano dal contribuire16.

Ma l’impegno congiunto non era necessariamente frutto di una contrapposi-zione. Il duomo di Napoli è un bell’esempio di collaborazione positiva fra monar-chia e città per un’opera promossa dalla corte ma di interesse fortemente citta-dino. Nel 1299 la comunità deliberò di contribuire finanziariamente all’erigenda cattedrale, senza che Carlo II lo imponesse, a parte i richiami che avrebbe fatto in seguito perché la promessa fosse rispettata. Così, se la promozione dell’opera è ascrivibile al secondo sovrano angioino, essa può essere considerata a tutti gli effetti anche cittadina, senza dimenticare il ruolo giocato dall’arcivescovo17. È un peccato che per la cattedrale napoletana manchino fonti sulla forza lavoro, che ci avrebbero dato un’idea più articolata del rapporto fra città e monarchia nella realizzazione dell’edificio. Diamo allora uno sguardo agli altri cantieri monarchici, per farci un’idea.

3. La gestione dei cantieri

Per quanto concerne l’amministrazione dei cantieri, bisogna innanzitutto os-servare che nel Mezzogiorno continentale mancarono strutture di “governo” che fossero istituzioni permanenti, come le Opere o Fabbriche dell’Italia centro-set-tentrionale18. Mancò cioè un organismo durevole che traducesse le volontà poli-tiche di un ente collettivo, com’era ad esempio per le Arti fiorentine, di cui le Opere erano emanazione. Nel Regno di Napoli, quando esistettero, le Fabbriche furono strettamente legate alla realizzazione dei lavori, finiti i quali esse cessa-vano di esistere19. Questa mancata permanenza non deve essere intesa come una lacuna o come un difetto rispetto alle Fabbriche dell’Italia settentrionale. La stabilità di questi organismi non era affatto necessaria per la costruzione di un

16 B

ERARDI (a cura di), Liber reformationum, p. 19.

17 Su questi aspetti GAGLIONE, La cattedrale, pp. 214-216. 18 Sulle quali H

AINES-RICCETTI (a cura di), Opera.

19 Come ricorda GAGLIONE, La cattedrale, pp. 195-196. Per la Sicilia, va segnalata

l’esistenza delle maramme, che erano più simili – ma non uguali – alle Opere dell’Italia centro-settentrionale: si veda ad esempio BRESC-BAUTIER, La ‘Maramma’.

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edificio, né per la sua manutenzione, che poteva essere gestita in tanti modi diversi. La strutturazione e la continuità delle Fabbriche erano un portato delle culture politiche e sociali di alcune aree, mentre in altre zone non si sentì il bisogno di mettere in piedi organismi di questo tipo. Come accennato, l’inesi-stenza di Opere come istituzioni è però un limite per chi vuole studiare il lavoro e i cantieri meridionali, perché si sono drammaticamente ridotte le possibilità di avere a disposizione le fonti riguardanti l’attività edilizia gestita da queste strut-ture. Il ricorso al lavoro in appalto aggrava il quadro, perché quelle attività che venivano svolte con questa modalità contrattuale sono documentate molto più raramente. Ad ogni modo, quelle poche fonti che ci sono rimaste permettono di fare almeno qualche considerazione.

Sin dal primo sguardo, risulta evidente la varietà di soluzioni di gestione, pra-ticate anche sotto lo stesso sovrano. Ci furono infatti cantieri ad amministrazio-ne interamente “pubblica”, attuata cioè tramite incaricati dipendenti e salariati dalle strutture monarchiche, così come cantieri la cui gestione fu affidata in appalto, almeno per alcuni aspetti fondamentali. Nella maggior parte dei casi venne praticata la prima opzione. Il livello gestionale più alto era affidato a un individuo incaricato direttamente dalla monarchia. Egli si occupava solitamente di organizzare la forza lavoro (numero di operai necessari e loro dislocazione nel cantiere), curare l’afflusso dei materiali costruttivi e seguire gli sviluppi della costruzione.

Su questo ruolo si deve sottolineare una peculiarità, almeno per l’età angioina: la natura “pubblica” di questo incarico direttivo non metteva al riparo da rischi il suo interprete. In caso di perdita o rottura del materiale, oppure quando la cifra stabilita per pagare le maestranze si rivelava inferiore a quella necessaria, il responsabile del cantiere poteva essere costretto a provvedere di tasca sua. Quanto alle retribuzioni e alle spese in genere, le stime previsionali erano fatte a corte da apposite commissioni: la monarchia angioina puntava alle migliori con-dizioni economiche possibili, facendo gravare i rischi sul responsabile20.

Il secondo tipo di gestione, quello in appalto, si riscontra nel primo periodo di lavori alle mura di Melfi, che furono affidate a un Francesco di Grusa melfitano21. Egli avrebbe ricevuto una somma una tantum e 28 tarì per ciascuna canna di mura realizzata22 ed era tenuto a reperire e pagare la manodopera non qualifica-ta, i trasportatori di materiali e il legno. Francesco doveva coprire un’esigenza che era stata richiesta anche alle universitates, cioè il reclutamento di

manova-20 Su questi aspetti, in sintesi, B

RUZELIUS, Le pietre, p. 54.

21 Su di lui SMALL, The Crown, pp. 334-335. 22 La canna corrispondeva a m 2,11 circa.

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li. C’è da supporre che le comunità non fossero in grado di soddisfare le richie-ste regie, oppure che riuscissero a farlo solo in parte, per cui si rese necessario affidare il compito all’appaltatore. Con questa impostazione, il rischio per Fran-cesco era connaturato al tipo di rapporto fra la committenza e l’esecutore, ma anche in questo caso incidevano pesantemente le previsioni fatte dalla corte. L’appaltatore aveva inoltre poca libertà di manovra, perché la monarchia inter-venne spesso su diversi aspetti della gestione, dal numero dei lavoranti alla tempistica dei lavori. Il risultato era la grande difficoltà per Francesco nel ri-spondere alle esigenze della corte, il che gli procurò l’arresto nel 1278.

Questa esperienza si rivelò fallimentare e la corte optò per la gestione “pub-blica” dei lavori, che caratterizzava gli altri cantieri23. Talora furono incaricati gli officiali regi ordinari, come ad esempio il giustiziere di Melfi che subentrò a Francesco di Grusa. Ma, come si diceva, nella maggior parte dei casi la gestione fu affidata a un responsabile con riconosciuta esperienza, come ad esempio il chierico Pierre de Chaules, che diresse i lavori di Santa Maria della Vittoria, Realvalle e Castelnuovo24. Questo modello di gestione, piuttosto comune pur nelle sue varie declinazioni, si riscontra anche in età aragonese. A Gaeta il can-tiere era gestito da un maestro maggiore, che doveva probabilmente occuparsi di organizzare il lavoro e reperire i materiali25.

Accanto a questi funzionari per così dire operativi, c’erano altre figure che collaboravano alla gestione, in particolare per gli aspetti amministrativi e finan-ziari. In ogni cantiere non potevano mancare uno scrivano delle giornate lavora-te e un lavora-tesoriere/ragioniere incaricato del pagamento dei salari. Ma su queslavora-te figure non ci soffermiamo, soprattutto perché sono simili a quelle di altri cantieri dell’epoca.

4. La forza lavoro: consistenza, salari, modalità di impiego

Passando alla forza lavoro vera e propria, si è detto che il numero dei lavo-ranti e la loro composizione per qualifica sono elementi rilevanti dello studio delle maestranze. Nel nostro caso, non occupandoci di una singola costruzione ma di fenomeni generali, evitiamo di considerare tutti i dati disponibili per i cantieri del

23 Si conosce solo un altro caso di appaltatore, Giacomo di Potenza, per lavori ad

Acerenza: SMALL, The Crown, p. 334.

24 Su di lui (e altri) B

RUZELIUS, Le pietre, p. 50; FRANCABANDERA, L’abbazia; EGIDI,

Carlo I, (XXXIV), pp. 265 ss. 25 C

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regno, anche perché sono stati già presentati e analizzati almeno a grandi linee26. Possiamo però ricordare che negli anni settanta del Duecento in alcuni dei 10-15 cantieri angioini contemporanei i lavoranti raggiunsero anche le 300-500 unità, cifre piuttosto rilevanti27. A Gaeta nella prima età aragonese, invece, la forza lavoro si componeva di una cinquantina di persone28. Ma è ovvio che le quantità di lavoranti variavano anche in base al tipo di edificio da costruire, oltre che per le diverse fasi costruttive.

Un altro aspetto quantitativo da rilevare sono i salari. La parte di lavoranti retribuiti a giornata, che nei cantieri angioini costituiva il grosso della forza lavo-ro, riceveva salari uguali in tutto il regno, in base alla qualifica. La cifra era stabilita dalla corte ed era la stessa per ogni lavorante, senza alcun riconosci-mento delle qualità individuali. In questo caso è utile ricordare queste cifre, per farsi un’idea29: i responsabili di cantiere ricevevano 4 tarì al giorno; contabili e capomaestro 1 tarì; i supervisori 10 grani; muratori, cavapietre e carpentieri 15 grani d’estate e 12 d’inverno; i manovali 7 grani d’estate e 6 d’inverno30. La differenziazione stagionale era un tratto comune a tutti i cantieri dell’epoca ed era legata alle minori o maggiori possibilità di lavoro date dalle ore di sole e dalle condizioni climatiche delle stagioni.

Tornando alle retribuzioni, la situazione era simile in età aragonese. I salari per il castello di Gaeta nel 1449 e nel 1453 erano attribuiti in base al mestiere, anche se in questo caso si rileva qualche oscillazione individuale. Non sappiamo se queste cifre fossero applicate in tutti i cantieri regi, ma possiamo comunque assumerle come esempi: gli scalpellini e i muratori venivano pagati 1 tarì e 1 grano al giorno (cioè 21 grani); i due capisquadra (sobrestanti) 1 tarì (20 grani); i manovali avevano salari variabili, che si aggiravano intorno ai 10-12 grani gior-nalieri31. In poco più di un secolo e mezzo, dunque, i salari decisi dalla corte erano saliti di 6-9 grani per i maestri della pietra (+50-75%) e di 3-6 grani per i manovali (+40-60%). Più tardi troviamo salari un poco più bassi: nel 1488, per i lavori al molo e all’arsenale di Napoli, i muratori venivano pagati fra i 15 e i 18

26 Su Santa Maria della Vittoria e Realvalle B

RUZELIUS, Le pietre, pp. 51-52; su

Castelnuovo FILANGIERI, Rassegna, passim; su Melfi SMALL, The Crown, pp. 331-338;

su Gaeta COLESANTI, Appunti, passim.

27 BRUZELIUS, Le pietre, p. 52. 28 C

OLESANTI, Appunti, p. 204.

29 Ricordo anche i rapporti monetari del regno: 1 oncia = 6 ducati = 30 tarì = 600 grani;

1 ducato = 5 tarì = 100 grani; 1 tarì = 20 grani.

30 Cifre riassunte in BRUZELIUS, Le pietre, p. 53. 31 C

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grani, i manovali fra gli 8 e i 1032. Ma è chiaro che, nel considerare le differenze salariali, bisogna tenere presente anche il tipo di lavoro che si doveva eseguire. Quando si analizzano i salari, inoltre, bisognerebbe sempre rapportarli all’an-damento economico e finanziario del periodo e cercare di rintracciare i motivi degli aumenti e delle riduzioni. In altri termini, bisognerebbe collocare i valori nel contesto finanziario della committenza e in quello economico dell’area geografi-ca e politigeografi-ca in cui era posto il geografi-cantiere, come è stato fatto ad esempio da Richard Goldthwaite per la Firenze rinascimentale33. Ma per il Mezzogiorno non si può considerare la sola area economica su cui un dato cantiere era immerso, perché essa era a sua volta parte del contesto più ampio del regno e risentiva della pluralità di soggetti che vi esercitavano potere, influenza e attività: monarchia, comunità, gruppi sociali, attori economici regnicoli e forestieri.

Ad ogni modo, non è da escludersi la possibilità di rapportare, più o meno precisamente a seconda dei casi, i salari stabiliti ai prezzi correnti nella zona in cui si trovava il cantiere. Nunzio Federigo Faraglia raccolse nel 1878 le informa-zioni sul valore di mercato di alcuni prodotti nella Napoli del basso medioevo34. Sappiamo così che nella tarda età aragonese 1 kg di cacio costava 6 tarì, uno di carne in media 5 tarì, mentre con 1 grano era possibile acquistare quasi 1,2 kg di pane scuro “povero” e 750 g di pane bianco raffinato35.

Stabilire il potere di acquisto di un maestro è però un’operazione complessa. Bisognerebbe prendere in considerazione le giornate lavorate e la retribuzione effettivamente ottenuta, ma è raro avere queste informazioni, così come quelle sui prezzi in un dato luogo in un dato momento36. Inoltre il salario doveva soddi-sfare presumibilmente i bisogni di una famiglia e non di un singolo, senza contare che le spese da farsi non erano solo quelle alimentari. Infine, vanno tenute pre-senti anche le oscillazioni dei prezzi, cui certamente non corrispondevano rapidi adattamenti salariali37. Pertanto qui ci limitiamo a rilevare, per esempio, che i

32 FARAGLIA, Storia dei prezzi, p. 94. Per completezza di informazione: i falegnami

ricevevano fra i 10 e i 22 grani, i “tagliamonti” fra i 10 e i 15.

33 GOLDTHWAITE, La costruzione. 34 F

ARAGLIA, Storia dei prezzi.

35 I prezzi ricordati da Faraglia sono espressi in varie monete e misure che ho

rappor-tato, per i pesi, al sistema attuale e, per le monete, ai tarì e grani, in modo da rendere intelligibile il rapporto con i salari.

36 Segnalo che nei Libri reformationum e in altre fonti aquilane sono presenti

diver-si «assecti», cioè determinazioni pubbliche dei prezzi dei generi alimentari e di consumo, che offrono buone possibilità per lo studio di questi fenomeni in età aragonese. Per un esempio si veda ASA ACA, T 3, cc. 55r-56r (9 maggio 1483).

37 Come notato per Roma da A

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maestri muratori di Gaeta, all’inizio di febbraio 1449, guadagnarono 4 tarì e 6 grana per una settimana di lavoro (4 giorni e mezzo)38. Si tratta di un reddito che, probabilmente, garantiva loro l’acquisto di pane scuro per la famiglia, ma non certo quello di carne o formaggio. Se si fa la stessa verifica per i manovali, le possibilità risultano ovviamente più ristrette, e anche per l’età aragonese si può affermare che i loro redditi li ponevano appena al di sopra del livello di sussisten-za, come già calcolato per l’età angioina39.

Il fattore economico si lega poi alle modalità di impiego e richiama un feno-meno attestato negli anni settanta del Duecento: la fuga dei lavoranti dai cantie-ri. In età angioina, a quanto sembra, almeno una parte delle maestranze veniva reclutata con la forza e sottratta quindi ad altre attività economiche, quelle agri-cole in particolare. Le condizioni di lavoro e i salari determinavano così la ten-denza ad abbandonare il cantiere, come scopriamo dai provvedimenti presi dal re per arginare il fenomeno. Abbiamo infatti diversi documenti che stabiliscono punizioni severe contro i fuggiaschi, che andavano ricondotti in catene sul posto di lavoro40.

Il sovrano doveva intendere l’impegno in cantiere come servizio alla monar-chia e, di conseguenza, prendeva provvedimenti così duri nei confronti di chi vi si sottraeva. Ma la logica dell’inviolabilità del rapporto di lavoro era una caratteri-stica di tutti i cantieri, non solo di quelli del Regno di Napoli. Ai maestri e ai manovali salariati, anche se non impiegati effettivamente tutti i giorni del periodo concordato, era vietato andare a lavorare altrove senza autorizzazione: la committenza o l’istituto di gestione dovevano essere certi della forza lavoro di-sponibile. Questo era un aspetto tanto più delicato nel Regno di Napoli nella prima età angioina, quando a fronte dei 10-15 grandi cantieri contemporanei l’offerta di manodopera era scarsa. La durezza dei provvedimenti regi era spe-culare all’urgenza e alla difficoltà di reperimento dei lavoranti, per cui anche i responsabili di cantiere versavano in difficoltà.

Nulla di simile sembra riscontrarsi in età aragonese. I salari attestati a Gaeta non sembrano offrire a maestri e manovali livelli di vita molto diversi da quelli dell’età angioina. Certo, potrebbe darsi che provvedimenti punitivi non ci siano pervenuti e dunque siamo costretti a sospendere il giudizio. Quello che si può fare è considerare i modelli di organizzazione della forza lavoro dal punto di vista delle modalità di impiego. È stato osservato che il modello di Gaeta è simile a quello di altri cantieri della Corona d’Aragona, il che «induce a pensare

all’af-38 C

OLESANTI, Appunti, p. 216.

39 SMALL, The Crown, p. 328. 40 In sintesi B

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fermarsi di un programma edilizio del re che interessa tutte le regioni da Valenza alla Sicilia»41.

Bisogna tuttavia notare un’eccezione significativa, che apre un altro fronte di riflessione. Nel 1451 Alfonso d’Aragona commissionò a quattro maestri la realizzazione di alcuni interventi a Castelnuovo. Non si trattava, come spesso accadeva, di realizzare pezzi di artigianato o decorativi, pagati a cottimo. Erano invece interventi in muratura che rientravano nella «radicale trasformazione della reggia» di quegli anni42.

È utile illustrare alcuni contenuti dei capitoli stipulati il 19 aprile 1451 fra il re e i maestri43. I quattro ricevevano 40.000 ducati a rate per 30 mesi di lavoro (fine aprile 1451-fine ottobre 1453). Essi dovevano realizzare opere in pietra (il piperno) per completare torri, porte e finestre, ma anche alzare diverse mura, secondo le descrizioni minuziose fatte nei capitoli stessi, che comprendevano anche l’autorizzazione ad abbattere quelle parti che ostacolavano le nuove rea-lizzazioni. Una clausola ci svela che la preparazione professionale dei quattro non comprendeva opere artigianali-artistiche, visto che i maestri ottennero di essere esentati dalla lavorazione del marmo e del legno. Più in generale, essi furono autorizzati a utilizzare strumenti, mezzi di trasporto e calce pagati dalla monarchia. Inoltre essi erano indipendenti nel procurarsi il piperno e le «petre rustiche» dalle cave, dalle zone intorno al castello e da «altre parte deserte», ed erano esentati da ogni dazio, compresi quelli per l’acquisto di alimenti per gli animali che avrebbero utilizzato. Infine, per il nostro discorso è di particolare importanza l’ultimo capitolo. Se la monarchia avesse tardato i pagamenti rateali o la fornitura di calce, i maestri non avrebbero dovuto essere considerati colpe-voli dei ritardi e il termine di 30 mesi avrebbe dovuto essere prolungato; se al contrario si fossero verificati ritardi nonostante la puntualità della corte, i mae-stri sarebbero stati puniti secondo quanto avrebbe stabilito Alfonso.

Come nel caso melfitano di Francesco di Grusa, questo patto non può essere considerato un appalto in senso stretto, perché i maestri non dovevano anticipa-re il denaro necessario a svolgeanticipa-re i lavori, che erano legati al pagamento delle rate. Tuttavia essi dovevano organizzare la forza lavoro autonomamente: è im-pensabile che solo quattro persone gestissero tutti i lavori richiesti ed è presumi-bile che nelle spese da fare con i 40.000 ducati rientrasse anche il pagamento di uomini e materiali per l’impresa. Tuttavia dei primi non si fa menzione, mentre dei secondi si specificano solo le clausole fiscali vantaggiose per i maestri.

41 C

OLESANTI, Appunti, p. 216; si vedano anche i riferimenti bibliografici ivi, nota 84.

42 FILANGIERI, Rassegna (LXII), p. 271. 43 Editi ivi (LXIII), doc. IV, pp. 333-336.

(17)

Ci troviamo dunque di fronte a un sistema diverso di organizzazione del lavo-ro. Essa non si imperniava su un gruppo di lavoranti salariati direttamente, ma veniva delegata a maestri incaricati sulla base di un patto dettagliato. In questo modo la monarchia sapeva esattamente quanto avrebbe speso, senza doversi preoccupare delle variazioni dipendenti dal lavoro svolto effettivamente dai sin-goli. Di questo versante erano responsabili i maestri incaricati, che dovevano avere l’abilità di far rientrare nella cifra pattuita tutte le spese e ricavarne gua-dagno. Questo sistema avrà sicuramente comportato un controllo da parte della monarchia, oltre alla periodica valutazione dei risultati sulla quale basare l’erogazione delle rate. Ma in questo modo la corte alleggeriva la gestione del cantiere, rendendola più snella e meno costosa senza la struttura amministrativa che era necessaria con il lavoro salariato “diretto”. Questo dovette essere alme-no ualme-no dei motivi per i quali si praticò questa opzione, che troviamo anche a L’Aquila qualche anno dopo.

5. Uno sguardo alle città: il caso di San Bernardino a L’Aquila

Nel panorama documentario sconfortante per le città, qualche traccia sul-le opere pubbliche si trova a L’Aquila. Il grosso delsul-le attestazioni è costituito da deliberazioni consiliari riguardanti le mura, gli acquedotti, le fontane e così via. In queste fonti, però, mancano in genere indicazioni sulla realizzazione dei lavori, perché i meccanismi istituzionali locali prevedevano quasi sempre l’affidamento degli aspetti esecutivi a commissioni ad hoc composte da pochi cittadini, oppure al governo. Di questi organismi ristretti non sono rimaste scritture, il che ci impedisce di seguire l’iter istituzionale oltre le deliberazioni consiliari44.

Qualche informazione sul lavoro è invece disponibile per la basilica di San Bernardino da Siena. Com’è noto, il frate osservante morì proprio a L’Aquila nel 1444 e fu santificato nel 145045. La città decise di onorare il santo attraverso l’erezione di una basilica a suo nome, che ne contenesse le spoglie. Dietro que-sta scelta c’erano «esigenze religiose ed egemonie politiche», com’è que-stato

44 Su questo sistema istituzionale T

ERENZI, L’Aquila, cap. I, par. 3.2. Bisogna rilevare

la possibilità che nel consistente fondo notarile cittadino possano trovarsi tracce degli aspetti esecutivi delle decisioni prese, perché ogni delibera richiedeva un atto notarile per assumere valore legale.

45 Per un profilo biografico M

ANSELLI, Bernardino. Sull’Osservanza in Abruzzo PEL -LEGRINI-DEL FUOCO, Ricerche.

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lucidamente messo a fuoco da Maria Rita Berardi46. L’opera fu avviata nel 1454 e fu finanziata sia con proventi locali47, sia con un cospicuo aiuto da parte della Corona, che versò 5.000 ducati48. A queste, si aggiungevano le risorse derivanti dalle molte donazioni di fedeli, da ogni zona d’Italia e anche da fuori49.

Il cantiere era gestito dai cittadini in collaborazione con un frate francescano. La città eleggeva quattro procuratores che dovevano seguire il cantiere sugli aspetti amministrativi e finanziari, mentre il frate pare più impegnato sul fronte organizzativo. Dei procuratori di San Bernardino non rimangono scritture, men-tre il frate “fabbriciere” Francesco (1459-1488) ci ha lasciato un manoscritto in cui annotò diverse informazioni sulla costruzione, chiamato Libro della fabbri-ca di San Bernardino50. In esso il frate scrisse i suoi ricordi su diversi aspetti della fabbrica, dai nomi dei procuratori alle donazioni ricevute, alle spese effet-tuate. Non trattandosi di un vero e proprio registro, i dati vanno considerati con cautela, ma per il nostro discorso c’è una piccola parte del manoscritto che è comunque molto interessante.

Si tratta di 5 ricordi compresi fra il 1454 e il 1469, nei quali Francesco riportò i contratti stipulati fra la città e alcuni maestri51. Ciascun patto riguarda un nu-mero diverso di maestri, che venivano ingaggiati perché realizzassero alcune opere specifiche, proprio come si era fatto per Castelnuovo nel 1451. Diversa-mente da questo, però, a L’Aquila i maestri non ricevettero un forfait ma ven-nero pagati un tot a canna realizzata, a seconda dell’opera. Come a Napoli, invece, essi ricevevano dalla committenza il materiale e gli strumenti da usare. Anche i tipi di lavoro sono simili a quelli di Castelnuovo: costruzione di mura, archi, finestre, colonne, ma anche i gradini di una cappella. In pratica, il modello che abbiamo visto a Castelnuovo nel 1451 fu applicato anche a San Bernardino nei due decenni seguenti, con la variante importante della modalità di pagamen-to, più vicina alla retribuzione a cottimo ma ugualmente lontana da quella a gior-nata.

46 BERARDI, Esigenze, anche per la ricostruzione dei fatti e per le informazioni che

seguono. Sul rapporto fra società politica e Osservanza si veda anche COLAPIETRA,

Spiritualità, pp. 97-221.

47 Si tratta della gabella dello zafferano, per 2.000 ducati annui, fino al 1476, quando

fu ripresa dalla città: BERARDI, Esigenze, pp. 197-198.

48 Tramite dell’offerta fu Giovanni da Capestrano, deciso fautore dell’edificazione

insieme a Giacomo della Marca: ivi, pp. 186-191.

49 Le donazioni e le altre fonti di finanziamento sono state puntualmente ricostruite

da Maria Rita Berardi ivi, passim.

50 ASA ACA, S 52. Se ne attende l’edizione a cura di Maria Rita Berardi, Vincenzina

Celli e Maurizio D’Antonio.

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Com’è evidente, dunque, in età aragonese si praticavano nel regno diversi tipi di organizzazione della forza lavoro. Ci si augura che altri studi – con altre fonti – permettano di capire quanto fossero diffusi questi modelli, nei cantieri monarchici così come in quelli cittadini52. C’è poi un ultimo elemento, difficil-mente quantificabile, che è la partecipazione diretta degli abitanti alla costruzio-ne. Sempre a San Bernardino, infatti, è attestato l’impegno di alcuni uomini del contado aquilano nel trasporto delle pietre per il completamento della cupola53.

6. Provenienza e circolazione dei maestri

In quanto detto sinora si sono tenuti un po’ in ombra i protagonisti dei cantie-ri, i maestri nominati individualmente nelle fonti. Per concludere questo contri-buto esplorativo, prendiamoli in considerazione esaminandone la provenienza e la circolazione.

Come accennato, la disponibilità di manodopera qualificata non era elevata nel regno, soprattutto in età angioina54. Questo chiama in causa il noto fenomeno dell’afflusso di maestri da fuori, in particolare dall’Italia settentrionale. Qui si parla – sia chiaro – di maestri muratori e simili, e non di artigiani le cui attività possono essere considerate artistiche, sui quali le fonti e la storiografia sono prodighe di informazioni e di interpretazioni. A questo proposito il problema si pone perché in gran parte delle fonti si fanno i nomi dei lavoranti solo quando si affidavano loro realizzazioni particolari, oppure quando si trattava di architetti o organizzatori di opere.

Per l’età aragonese, invece, i due libri contabili di Gaeta ci permettono di conoscere i nomi dei maestri e dei manovali salariati. Le loro provenienze non sono specificate, ma il fatto stesso che non se ne segnali l’origine extraregnicola indica che erano perlomeno del regno, se non della zona – come del resto con-fermano alcuni patronimici o nomi evidentemente napoletani.

Del «mestre mayor» Francesco di Luca conosciamo invece la provenienza perché impegnato in altre opere dell’epoca. Egli era uno dei maestri di Cava [dei Tirreni], luogo da cui provenivano maestranze specializzate utilizzate in tutto il regno e che costituiva così uno dei serbatoi principali di manodopera qualificata55.

52 Per esempio due contratti napoletani del 1465 e 1466, fra un gruppo di maestri e un

monastero, sono editi in PATRONI GRIFFI, «Ad uso de bono maestro».

53 B

ERARDI, Esigenze, p. 195.

54 BRUZELIUS, Le pietre, p. 53. 55 Su di loro P

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Maestri di Cava erano i quattro incaricati da Alfonso a Castelnuovo, alcuni dei maestri dei patti di San Bernardino e quelli impegnati in diversi altri cantieri56. Fra questi si possono segnalare quelli dell’ospedale maggiore e di una casa del condottiero Antonuccio Camponeschi, entrambi all’Aquila, perché il cronista Alessandro De Ritiis ci offre un particolare molto interessante riguardante i maestri di Cava impegnati in quei cantieri. Nel 1446, nel contesto di alcuni festeggiamenti, «magistri et alij artifices dictorum de Cava fecerunt et faciebant bella inter ipsos per modum centaurj [...]; et omnes erant bene doctj in tenendo ensem et scutum in pugna, unde erat mirabile jocum ad videndum»57.

Questo aspetto “teatrale” dei maestri di Cava, a parte la sua originalità, chia-ma in causa gli aspetti associativi legati al mestiere. La specializzazione profes-sionale di un luogo favoriva infatti l’aggregazione in corporazione. A Capua, ad esempio, i fabbricatori videro riconosciuto da Ferrante uno statuto nel 148858, così come a Napoli nel 150859. L’organizzazione in corporazione sancì una situa-zione già sviluppata e nei casi citati essa sembra relazionarsi più con la tradizio-ne dei regni orientali iberici che con quella dell’Italia settentrionale60. La profes-sionalità organizzata impostava regole e procurava privilegi per gli appartenenti alla corporazione, ma costituiva anche un riconoscimento spendibile nel mercato del lavoro sul piano regnicolo. Così la circolazione di questi maestri va a costitu-ire un altro aspetto della collaborazione delle città alla realizzazione delle opere pubbliche del regno, sia monarchiche sia cittadine.

Com’è stato osservato, la provenienza da città “specializzate” – e dunque l’esperienza e la qualità delle realizzazioni – costituiva una garanzia per il com-mittente61. Si tratta della stessa logica che sottostava all’afflusso di maestri stra-nieri. Al netto dei contatti preesistenti – come per gli angioini con i maestri fran-cesi – anche le aree di specializzazione extraregnicole costituivano serbatoi dai quali attingere manodopera specializzata. I flussi dipendevano dalla mobilità de-gli stessi lavoranti, più che da politiche programmatiche operate dalla committenza. Così, si può immaginare che i maestri di Como, di Lombardia, di Orvieto e di Cortona che sono nominati nei contratti di San Bernardino si fossero proposti alla città. Ma il loro arrivo nel centro abruzzese avrà avuto qualche connessione

56 Si vedano le indicazioni bibliografiche di P

ATRONI GRIFFI, «Ad uso de bono

mae-stro», p. 60, nota 1. 57 [A

LESSANDRO DE RITIIS], La Chronica (XXVII), p. 200.

58 BROCCOLI, Le corporazioni; CARILLO, Un documento. 59 G

AROFALO, I mestieri.

60 EAD., Introduzione. 61 C

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con la presenza di toscani e lombardi a L’Aquila, un approfondimento della quale potrà forse offrire ulteriori elementi sulla questione.

Quel che è certo, al termine di queste note sul lavoro nelle opere pubbliche meridionali, è che esso pare caratterizzato soprattutto dal dinamismo e dalla varietà di soluzioni. Sono caratteristici l’alta mobilità di lavoranti all’interno e dall’esterno del regno, i diversi tipi di organizzazione dei cantieri, praticati anche dal medesimo committente, e la pluralità di livelli e soggetti coinvolti nelle opere. Ma c’è da fare ancora molto su questo tema, che soprattutto sulle città aspetta ancora di poter essere trattato adeguatamente, con la speranza che qualche altra fonte possa supportare le ricerche future.

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