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Publisher: FeDOA Press - Centro di Ateneo per le Biblioteche dell’Università di Napoli Federico II Registered in Italy

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Le trasformazioni territoriali dell’area pontina nel XX secolo

La riconoscibilità storica dei luoghi nella iconografia tra Ottocento e Novecento: alcuni esempi

Maria Martone Università di Roma La Sapienza - Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura

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To cite this article: MARTONE, M. (2016). Le trasformazioni territoriali dell’area pontina nel XX secolo. La riconoscibilità storica dei luoghi nella

icono-grafia tra Ottocento e Novecento: alcuni esempi: Eikonocity, 2016, anno I, n. 1, 133-145, DOI: 10.6092/2499-1422/3751

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© Maria Martone

Corresponding author: maria.martone@uniroma1.it Received February 26, 2015; accepted May 24, 2015

Keywords: Trasformazioni territoriali, riconoscibilità storica, iconografia tra Otto e Novecento.

Territorial changes, the historical recognition, iconography between 19th and 20th centuries.

Introduzione

Una grande trasformazione territoriale, verificatasi nel XX secolo, ha coinvolto l’area della pianura pontina che si estende dal litorale meridionale del Lazio verso l’interno, in direzione dei monti Lepini e Ausoni. In seguito agli interventi delle bonifiche, eseguiti dalle epoche più remote fino ad arrivare ai primi decenni del Novecento, si è verificato un radicale mutamento del paesaggio da palude – in cui predominavano bacini lacustri, ampie zone boschive, piccoli villaggi e casali – a pianura abitata. Un denso sistema di canali costruiti per la irreggimentazione delle ac-que, una rete stradale realizzata con tracciati principali paralleli alla costa e centri urbani di nuova fondazione hanno rappresentato i segni di un radicale cambiamento.

Il contributo si propone di evidenziare le trasformazioni che hanno portato alla definizione di nuove identità territoriali con nuovi modelli iconografici urbani e di individuare, laddove possi-bile, i ‘distinguo’ per una riconoscibilità storica dei luoghi attraverso la lettura di alcuni esempi di produzione iconografica tra Ottocento e Novecento.

Le trasformazioni territoriali

Dopo l’Unità d’Italia e fino alla Seconda guerra mondiale numerosi sono stati gli interventi di bo-nifica integrale distribuiti sul territorio italiano che hanno destinato a usi produttivi diversi terreni prima contraddistinti da caratteristiche di tipo paludoso, determinando nuovi paesaggi e nuove identità territoriali. All’interno di questo fenomeno, particolare importanza e rilievo ha avuto l’ope-ra eseguita nell’Agro pontino, in cui ha preso forma e vita una terl’ope-ra nuova.

Le trasformazioni territoriali dell’area pontina nel XX secolo

La riconoscibilità storica dei luoghi nella iconografia tra Ottocento e Novecento: alcuni esempi

Maria Martone Università di Roma La Sapienza - Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura

Una grande trasformazione territoriale, verificatasi nel XX secolo in seguito ai lavori di una bonifica integrale, ha radicalmente trasformato il paesaggio pontino da palude a pianura abitata, con borghi e città di nuova fondazione.

Il contributo si propone di evidenziare le trasformazioni che hanno definito nuove identità territoriali e di individuare, laddove possibile, i ‘distinguo’ per una riconoscibilità storica dei luoghi attraverso alcuni esempi iconografici tra Ottocento e Novecento.

The territorial changes in pontine area in the 20th century. The historical recognition of the places in the iconography of the 19th and 20th centuries: some examples

A great territorial transformation that occurred in the 20th century, following the work of a complete land reclamation, has radically tran-sformed the Pontine landscape from marsh to inhabited plain, with villages and towns of new foundation.

The contribution aims to highlight the changes that have defined new territorial identities and to recognize, where possible, the ‘mark points’ for an historical recognition of the places through some iconographic examples between 19th and 20th centuries.

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Gli avvenimenti che hanno portato a delineare una nuova configurazione territoriale dell’area pon-tina sono riconducibili alla necessità di un utilizzo sociale di una zona ritenuta nel corso della storia improduttiva e ostile a ogni possibilità di insediamento umano. Posta ai margini della Campagna romana, la palude pontina divideva l’entroterra dal mare, fermandosi in una sottile duna da cui si staccava un lembo di spiaggia che si concludeva nel profilo del monte Circeo. Il territorio, vivibile solo per alcuni mesi all’anno per l’alto rischio di contrarre la malaria, non dava alcuna garanzia per grandi politiche di investimento. A quel tempo essa veniva indicata come un’area inaccessibile, seppure l’attività ittica costituisse la principale fonte di una produzione in alcuni periodi dell’anno anche cospicua. In tal senso, note erano le peschiere che si svilupparono dall’epoca romana fino al Settecento, descritte e rappresentate nella perizia dell’ingegnere Carlo Marchionni, compiuta per incarico del cardinale Alessandro Albani nel 1753 [Marchionni 1753].

L’antico Pomptinus ager offriva un paesaggio unico per molti scrittori, viaggiatori, pittori di ogni epoca che al territorio pontino rivolsero la loro attenzione: da Orazio a D’Annunzio, da Goethe a Tito Berti. Dalle loro opere si delinea un’immagine articolata delle paludi: c’è chi, ad esempio, ha esaltato la ricchezza della selva, chi invece ha messo in evidenza gli aspetti cupi e tristi dell’ambiente lacustre. La trasformazione del paesaggio è stata così massiccia e forse anche anomala che l’opera degli artisti rappresenta oggi una testimonianza unica e un punto di riferimento geografico fedele per comprendere l’originalità dell’identità della palude ante-bonifica e per riconoscere gli elementi e i caratteri che tuttora permangono in alcune aree del territorio.

Prima dell’impaludamento – avvenuto secondo Livio dopo il 405 a.C., epoca in cui la palude si estendeva solo nei pressi di Terracina – l’agro pontino costituiva una florida pianura di mare. Gra-zie agli interventi ingegneristici dei Volsci, l’abbondanza d’acqua che scorreva in questo territorio era incanalata in un sistema idraulico che consentiva la presenza dell’uomo e lo sviluppo delle sue attività lavorative. In questo periodo sorsero piccoli centri abitati sulle pendici dei monti Lepini, di cui purtroppo solo di alcuni rimane ancora una traccia. Suessa Pometia, scomparsa completamen-te, era la città volsca più importante e forse da essa derivò il nome dell’intera pianura circostante. La conquista del territorio pontino da parte dei Romani e il conseguente, anche se involontario, abbandono delle strutture idrauliche costruite dai Volsci provocarono il ritorno alla palude e solo con le prime bonifiche parziali dei papi nel XV secolo il territorio iniziò a essere prosciugato. Con la denominazione di Paludi pontine si indicava un’area più a meridione della provincia di Roma, avente forma “irregolarmente sub-rettangolare” [Clerici 1935, p. 39], limitata per due lati contigui dal sistema vulcanico laziale e dalla catena dei monti Lepini e Ausoni e per gli altri due dal mare. Ai piedi dei monti si distingueva una zona con quote poco elevate sul livello del mare e in alcuni casi anche al di sotto, in cui si creavano aree di depressione permanentemente allagate per difficoltà di scolo delle acque delle numerose sorgenti presenti alle pendici delle montagne. Verso occidente, invece, una serie di lagune salmastre caratterizzava la zona più prossima alla costa che si sviluppava tra due dune: una litoranea di divisione con il mare e un’altra quaternaria di separazione con l’en-troterra. Una fitta boscaglia e numerosi ristagni, in cui marcivano tronchi di alberi o di arbusti, si presentavano nella fascia continentale del territorio pontino che, posta su un livello varabile dai 20 ai 40 metri, degradava verso l’interno. Il promontorio del Circeo, con quote tra i 300 e i 500 metri, rappresentava il punto dove la costa cambiava direzione, risalendo verso Terracina.

Il terreno di questa grande area per molti mesi all’anno restava allagato, creando un ambiente fa-vorevole allo sviluppo della zanzara anofele, portatrice della malaria. La scarsa pendenza del suolo verso il mare e la presenza di una duna costiera non consentivano un naturale deflusso delle acque, che in tal modo ristagnavano.

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Fig. 1: S. Salvati, Carta esprimente lo stato paludoso dell’Agro

Pontino come fu trovato nella visita dell’anno 1777 prima che si mettesse mano alla bonifica, 1795. Particolare. (Lazio

in CD dal XVI al XX secolo nelle mappe e nelle vedute della Biblioteca romana dell’Archivio Capitolino, s.d.).

La vegetazione e la flora erano ricche di specie anche particolari che fertilizzando il terreno favo-rivano la coltura del granturco. Numerosi erano gli animali da pascolo, come le bufale, che resero possibili le operazioni di spurgo dei fossi e degli alveoli dei fiumi, nutrendosi di tutte quelle erbe che ostacolavano il normale fluire di quei corsi. La viabilità principale nel territorio pontino era rap-presentata dalla via Appia, che veniva più volte dell’anno sommersa dalle acque e dalla quale par-tivano alcune diramazioni verso Norma, Sezze e Priverno. Alcuni sentieri si addentravano, invece, nella foresta per raggiungere le peschiere, come la stradella dei Picicaroli, rappresentata nella Carta delle Paludi Pontine delineate da Cornelio Meyer et novamente intagliate da Gio[van] Bat[tista] Falda, redatta nel 1678.

Dai Volsci, ai Romani, fino ai pontefici, la regione pontina ha subito notevoli modificazioni fino ad arrivare all’assetto attuale determinatosi con l’intervento dell’Opera Nazionale Combattenti nel primo Novecento.

Gli interventi dei Romani erano diretti a sistemare la zona pontina e a prosciugarla in relazione alla transitabilità della via Appia, che costituiva il collegamento principale con le terre a oriente. Con lo scopo di prosciugare il terreno alla longarum viarum Regina fu affiancato nel 160 a.C., per opera del console Cethego, un canale navigabile creando uno scolo delle acque verso il mare. Essendo limitato a una sola zona, l’intervento riuscì solo in parte a rallentare il fenomeno della palude che fu affrontato in seguito, in maniera più completa, dalla Chiesa Apostolica. Per incentivare l’agricol-tura nei territori dei propri domini, i pontefici fondarono, immediatamente ai margini della palude, numerose domus cultae, in cui confluivano attività agricole, residenziali e di culto con lo scopo di costituire anche un sostentamento sicuro per la città di Roma, che a causa delle invasioni barba-riche aveva rallentato i commerci nel Mediterraneo. Questi primi insediamenti resero necessario un intervento sul territorio più esteso per consentire un più idoneo utilizzo delle risorse. Leone X fu tra i primi a proporre un progetto di bonifica, incaricando Leonardo da Vinci attraverso il

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cardinale Giuliano de’ Medici. In questa occasione il grande ingegnere elaborò una Vista cartografica della pianura pontina e della costa a nord di Terracina, su cui disegnò il progetto di prosciugamento che prevedeva l’apertura di nuovi canali. Con Sisto V iniziarono i lavori di bonifica, che, progettati da Ascanio Fenizi, così come si evince dalla carta del Latium di Giovanni Antonio Magini del 1604, furono interrotti, poi, alla sua morte. Nella mappa si denota una documentazione approfondita dei luoghi, con l’ubicazione delle città e dei principali fiumi e laghi. Con Pio VI fu progettato, alla fine del Settecento, un risanamento idraulico, igienico e agrario della regione. Attraverso i rilievi e i progetti dell’ingegnere Gaetano Rappini si raggiunsero risultati importanti anche se transitori, che aprirono la strada agli interventi successivi [Rappini, 1777].

Per l’occasione furono redatte importanti carte, tra cui ricordiamo quella dello stesso Rappini, corredata di alcune sezioni (1777), quella di Giovan Battista Chigi (1778), quella di Gaetano Astolfi (1785) e, infine, quelle di Serafino Salvati, redatte prima e dopo i lavori di bonifica (1795).

Continuano nel XIX secolo gli studi, i rilievi e i progetti finalizzati al recupero della vasta area del territorio pontino. Gaspard Riche de Prony disegnò la Carte des Marais Pontins, pubblicata nel 1823, riproducente lo stato della palude nel 1811.

Sulla base di rilievi altimetrici, su incarico di Napoleone Bonaparte, fu redatta la mappa che si contraddistingueva per una rappresentazione, alquanto precisa per l’epoca, del sistema montuoso e dell’idrografia; la toponomastica era, invece, riferita ai luoghi principali. Soltanto dopo il 1870 si formulò un progetto cartografico unitario nazionale. Il governo del regno affidò nel 1872 all’Istitu-to Topografico Militare l’esecuzione del progetall’Istitu-to di rilevamenall’Istitu-to generale del terriall’Istitu-torio dello Staall’Istitu-to italiano e della formazione della nuova Carta Topografica d’Italia.

Un patrimonio ambientale scomparso rappresentato nella produzione artistica tra XIX e XX secolo

Le rappresentazioni cartografiche prodotte dal XVI ai primi anni del XX secolo sono numerose e accurate. Queste attestano le continue trasformazioni territoriali che si sono succedute nel tempo per realizzare progetti di prosciugamento e di bonifica nel territorio dell’agro pontino.

La conoscenza dei luoghi si fa sempre più approfondita fino a raggiungere nel Settecento livelli di maggiore precisione grazie ai primi rilevamenti che vengono eseguiti sul territorio, per poi arric-chirsi delle nuove tecniche e tecnologie dei secoli successivi.

Accanto ai disegni cartografici e alle vedute iconografiche prodotte a corredo delle carte o delle numerose perizie eseguite per conto della Camera Apostolica, esiste una consistente produzione artistica realizzata da pittori di diversa nazionalità che hanno rappresentato il paesaggio della palude pontina ritraendolo da differenti punti di vista e creando, in tal modo, nuovi modelli iconografici di riferimento.

Consapevoli che una rappresentazione pittorica esprima anche la sensibilità e la cultura dell’artista e che pertanto essa non è una rappresentazione scientifica, in quanto vengono messi in luce aspetti particolari della realtà filtrati dal modo di vedere e di osservare proprio di ciascun artista-composi-tore, si ritiene comunque il corpus di opere prodotto soprattutto nell’Ottocento una valida e forse unica opportunità per ricostruire l’immagine di un paesaggio fisico e umano trasformatosi in modo completo.

I primi artisti che hanno dedicato un’attenzione particolare al paesaggio, alla vita, all’ambiente e ai costumi della gente che viveva nella palude risalgono principalmente alla seconda metà del Sette-cento e all’OttoSette-cento e sono stati in prevalenza viaggiatori stranieri e italiani attenti nell’osservare un mondo selvaggio e incontaminato per conoscerlo e divulgarlo.

Fig. 2: C. Coleman, Spurgo del canale, 1849, particolare (Mammuccari, 1981).

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- Il paesaggio palustre

Le paludi pontine per anni hanno costituito un modello per una rappresentazione dal vero della natura, una tappa quasi obbligata per chi era diretto a Roma e completava il viaggio addentrandosi in questo ambiente selvaggio e ritenuto impenetrabile. L’agro pontino fu attraversato da numerosi artisti che, dai monti o lungo il litorale o addentrandosi all’interno della foresta, hanno messo in luce gli aspetti di una realtà sconosciuta e mai esplorata.

Carlo Coleman, venuto in Italia per studiare Michelangelo e Raffaello, si dedicò a riprodurre la campagna romana spingendosi fino alle paludi pontine. Nei suoi dipinti vengono ritratte scene della vita quotidiana che si svolgevano nella palude; nelle vedute si riconoscono i luoghi per la cura di alcuni particolari. È il caso dello Spurgo del canale del 1849, dove si individua sullo sfondo l’altura su cui sorge Sermoneta. In primo piano sono riprese alcune bufale che, vigilate da due mandriani a cavallo denominati dalle genti della palude ‘buttari’ e guidate da uomini in battello, attraversano un canale eseguendone la pulitura. Nella litografia del 1850 Bufali nella palude pontina, Coleman raffigu-ra alcuni bovini duraffigu-rante il pascolo, mentre sulla destraffigu-ra disegna una torre costieraffigu-ra e sullo sfondo il promontorio del Circeo.

I temi trattati nelle tele ottocentesche propongono il paesaggio pontino lungo la costa e all’interno e numerose sono anche le rappresentazioni di architetture o di centri urbani. Si riconosce nella litografia Norma nelle vicinanze delle paludi Pontine di Edward Lear del 1841 il costone roccioso su cui sorge Norma e ai suoi piedi la pianura coperta quasi completamente da acque e da una fitta vege-tazione. In una litografia del 1837 Sermoneta è ripresa dall’altura del convento di San Francesco: qui il realismo di Edward Lear si coglie appieno nella rappresentazione grafica del centro urbano dominato dall’imponente castello dei Caetani e da un’attenta raffigurazione del paesaggio circostan-te. Icona principale di tutta la produzione artistica della terra pontina è il profilo del promontorio del Circeo. Questo, ripreso sia dalla campagna di Terracina sia dal litorale latino, fa da sfondo in numerose opere in cui viene raffigurata la palude e la sua gente. Ciò che rimane oggi di questo paesaggio scomparso in seguito alle operazioni della bonifica pontina degli anni trenta del Nove-cento è costituito da alcune zone di estensione molto limitata che, grazie alla sensibilità culturale di alcune personalità, furono sottratte alle operazioni di disboscamento e di prosciugamento dei suoli. Si tratta di zone protette di interesse internazionale che rientrano nel territorio del Parco nazionale del Circeo. Nelle zone umide dei laghi costieri e della foresta demaniale si conservano ancora alcu-ne aree acquitrinose e pantani, che rappresentano l’unica testimonianza di un territorio un tempo palustre e ricoperto da una densa vegetazione.

- La gente della palude, usi e costumi

La palude per le sue caratteristiche geomorfologiche si presentava come un ambiente ostile alla vita dell’uomo, pericoloso per la presenza della troppa acqua che in sovrabbondanza inondava il terri-torio rendendolo non edificabile e attirando insetti pericolosi alla vita umana. Tuttavia, ricca di no-tevoli risorse come pesce, legname e animali da caccia, la palude pontina ha sempre attirato l’uomo per le molteplici attività che vi si potevano svolgere. Particolari manufatti come, ad esempio, i san-dali e le lestre furono creati a supporto di alcuni mestieri che, pur essendo rischiosi per l’ambiente in cui venivano svolti, risultarono molto redditizi per coloro che misero a repentaglio la propria vita rischiando di contrarre febbri palustri e malariche. Questa secolare attività lavorativa trova la sua più immediata testimonianza nei dipinti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, alcuni dei quali sono andati purtroppo anche trafugati e dispersi, mentre altri sono ora conservati lontano dalle terre d’origine [Cencelli 1934, 297].

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Il pittore Amedeo Bocchi si è interessato alle paludi pontine e alla loro gente ritraendo dal vero in alcuni suoi dipinti brani di una vita condizionata dalle asperità dei luoghi. Nella tela a olio I pescatori delle paludi pontine del 1920 l’artista rappresenta una famiglia di pescatori riunita intorno a un tavolo sotto un provvisorio riparo, tra le cui frasche penetra la luce che illumina la scena creando un gioco di luci e ombre sui personaggi. La famiglia dall’aspetto pacato è ritratta dal vero in atteggiamenti di rassegnata malinconia. Chi osserva il quadro ha un contatto diretto con i personaggi dovuto pro-babilmente al fatto che le tre figure centrali sono raffigurate con lo sguardo diretto verso l’artista che li riprende sulla sua tela. L’interno della capanna occupa tutto il quadro, ma ciò nonostante si percepisce ugualmente la profondità dell’ambiente circostante attraverso il disegno dell’orizzonte appena accennato nella parte centrale della tela.

Una scena di intensa desolazione è rappresentata da Bocchi nel quadro La malaria (1919), in cui una giovane donna, raffigurata in un costume nero e bianco con le braccia in alto, si dispera per la morte dell’uomo che sta disteso ai suoi piedi, pianto anche da altre donne. Attraverso il gesto delle braccia alzate l’autore esprime una forte tensione drammatica che viene ulteriormente sottolineata dal movimento dei corpi delle altre donne di cui una è completamente genuflessa e l’altra è piegata sulle gambe accanto all’uomo colpito dalla terribile malattia della palude: la malaria. Ai margini del-la scena una fanciuldel-la racchiusa in una coperta si protegge forse dai primi sintomi del madel-lanno. Aldel-la Galleria Ricci Oddi di Piacenza si conserva un bozzetto preparatorio dell’opera, un tempo situata negli ambienti del Comune di Sabaudia e poi trafugata durante la Seconda guerra mondiale. Conservati presso la National Gallery of Art di Washington sono due dipinti gemelli di Horace Vernet del 1833 con scene di caccia all’interno della fitta selva incontaminata della palude ponti-na. Nella Partenza per la caccia nelle paludi pontine l’autore mette in risalto con dettagli molto realistici l’impenetrabile foresta pontina. Sullo sfondo sono raffigurati, dietro un possente albero caduto, due cacciatori fermi a parlare, mentre alcuni cani da caccia si confondono con altri animali rappre-sentati tra gli alberi selvatici e specchi di acqua palustre. La luce penetra dal vuoto provocato dalla caduta dell’albero illuminando solo una parte della scena, che assume un’atmosfera quasi surreale. Sulla destra della tela, in lontananza si intravedono il mare e parte del profilo del promontorio del Circeo. La scena prosegue nel quadro gemello dal titolo La posizione di partenza per la caccia nelle Paludi Pontine. Qui è ritratto un altro angolo di ambiente palustre. In primo piano è raffigurato un grande albero divelto, caratterizzato da una bianca corteccia sotto cui scivola sull’acqua lacustre un’imbar-cazione in cui è ritratto seduto un cacciatore nell’atto di mirare con il suo fucile alla preda. Il bat-tello, del tipo ‘sandalo’, è manovrato da un sandalaro che, in piedi, spinge l’imbarcazione puntando una pertica sul fondale. Questa tipica imbarcazione della palude è ampiamente descritta nell’opera di Gaspard Riche de Prony in materia di idraulica [de Prony 1822]. Di forma rettangolare e con scafo a carena piatta, il battello poteva essere sia ‘di carico che di tragitto’.

Un’altra attività che si svolgeva nella palude era la ‘ceppatura’, ovvero la tecnica con cui venivano estratte dal terreno le radici degli alberi tagliati. Il pittore Nino Costa nel dipinto Donne sulla spiaggia di Anzio (1852), conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, ritrae alcune donne sulle dune bianche vicino al mare che trasportavano sul capo grandi ceppi da imbarcare dalla spiaggia di An-zio. In primo piano una rappresentazione molto accurata del ‘tumoleto’, costituito da un cordone di duna con monticelli sabbiosi ricoperti di bassa vegetazione; in lontananza l’artista rappresenta il promontorio del Circeo che segna il paesaggio con la sua inconfondibile sagoma.

Ancora un sandalo pontino di dimensioni maggiori rispetto a quello dipinto da Vernet è ritratto nel quadro Sul Mortaccino (1927) di Dante Ricci e conservato al Circolo cittadino di Terracina. L’imbar-cazione, di grandi dimensioni, è trainata da un cavallo, ritratto con accanto un giovane, che dalle Fig. 3: (pagina precedente) C. Coleman, Bufali nella palude

pontina, 1850, particolare (Mammuccari, 1981).

Fig. 4: (pagina precedente) E. Lear, Norma nelle vicinanze

del-le paludi Pontine, particolare (Mammuccari, 1981).

Fig. 5: (pagina precedente) A. Bocchi, La malaria, 1919 (www.museobocchi.it).

Fig. 6: H. Vernet, Partenza per la caccia nelle paludi pontine, 1833 (http://www.pontiniaweb.it/2010/10/18/con-i-pittori-nelle-paludi-pontine-5/).

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Fig. 7: H. Vernet, La posizione di partenza per la caccia nelle

Paludi Pontine, 1833, particolare

(http://www.associazione-arbit.org/2013/03/sandalopontino.html).

sponde del canale Mortaccino trascina sulle acque un sandalo sovraccarico con a bordo una donna con bambino e un sandalaro.

Del 1870 è il dipinto Carro nelle paludi pontine di Pietro Barucci, in cui viene documentato l’attraver-samento della palude e delle sue acque pestilenziali da parte di alcune persone attraverso un carro trainato da possenti bufale. Solitamente utilizzato nel trasporto di materiali, il carro nel dipinto è sormontato da un gruppo di uomini e donne che trova posto tra i filari del fieno. Un uomo a caval-lo completa la scena caratterizzata da cocaval-lori forti, luminosi e vivaci che rappresenta uno stralcio di pianura paludosa lontana dai colori cupi della foresta.

Un acquarello su carta del 1860 dal titolo Ritorno all’ovile di Filippo Anvitti rappresenta una lestra, rifugio provvisorio dei pastori che popolavano la palude solo in un periodo particolare dell’anno. Le lestre furono costruite in molte zone della palude, in quanto rappresentavano l’unico tipo di costruzione che si adattava al particolare ambiente paludoso .

Ricca è la produzione artistica, di cui in questo paragrafo si è fatto solo un breve cenno, che tra Ottocento e Novecento documenta la vita che si svolgeva nella zona pontina ai tempi della palude ritraendo non solo paesaggi cancellati poi dalle bonifiche, ma anche mestieri perduti.

Un altro importante strumento di documentazione del territorio pontino è costituito dal Fondo fotografico Bortolotti che testimonia in più di duemila foto lo stato dei luoghi prima, durante e dopo il grande intervento di bonifica in un arco temporale che va dal 1928 al 1939.

L’iconografia, quindi, in tutte le sue diverse rappresentazioni costituisce uno strumento di cono-scenza insostituibile che può consolidare la memoria storica di un patrimonio ambientale ormai scomparso e, allo stesso tempo, valorizzare la storia del territorio per comprendere le sue trasfor-mazioni e le nuove identità urbane che vi si sono formate.

I fenomeni legati ai grandi eventi della storia moderna

Il territorio pontino ante-bonifica si presentava diviso in due comprensori consortili: il primo è quello della Bonificazione pontina, costituito nel 1862, che si estendeva a sinistra del fiume Ninfa-Sisto e comprendeva la parte più depressa e famosa per l’estensione della palude; il secondo detto di Piscinara, fondato nel 1918, si estendeva alla destra del Ninfa-Sisto fino alla costa,

compren-Fig. 8: F. Anvitti, Ritorno all’ovile, 1860, particolare (Mam-muccari, 1981).

Fig. 9: N. Costa, Donne sulla spiaggia di Anzio, 1852 (Contri-buto per un catalogo dei pittori della Palude Pontina, 1980).

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dendo un territorio cosparso di avvallamenti detti piscine, dai quali è derivato il nome. Nel 1900, in seguito al Testo unico sulla bonificazione delle terre paludose, furono elaborate nuove opere per il completamento di una bonifica già avviata nelle epoche precedenti. Nel comprensorio della Boni-ficazione pontina furono costruiti nuovi impianti per il risanamento della zona, ma gli effetti non furono duraturi. Mancava una visione totalitaria del problema; le opere, infatti, non furono mai inserite in un disegno complessivo di risanamento. La Piscinara è stata, invece, sempre caratteriz-zata da una fitta boscaglia denominata selva o macchia e dalla presenza dei laghi litoranei. Impra-ticabile per la sua vasta estensione, attraversata da strisce di palude, la foresta ospitava in capanne, denominate lestre, alcuni lavoratori che si dedicavano al taglio dei boschi e a lavori agricoli nei piccoli appezzamenti di terreno presenti. In questo comprensorio, sulla base del progetto Pancini-Prampolini, fu realizzato il canale denominato delle Acque Alte.

Molte furono le cause del decadimento degli interventi. Era sempre stato difficile il mantenimen-to delle opere idrauliche eseguite per il prosciugamenmantenimen-to: i canali debordavano per la presenza delle erbe palustri, che grazie alla temperatura e al clima crescevano rigogliose ostruendo il deflusso na-turale delle acque. Solo il pascolo delle bufale riusciva a fare opera di diserbamento. Inoltre, anche la mancata stabilizzazione dei coloni determinò un impoverimento del territorio, essendo questi costretti a vivere ai margini della palude per allontanarsi dal pericolo di contrarre la febbre malarica. La causa principale dei molti insuccessi delle opere di bonifica fu dovuta anche alla mancanza di rilievi altimetrici precisi dei terreni. Molte zone depresse non si conoscevano, ignota era la natura del suolo e del sottosuolo e sconosciuta era la rete idrografica complessiva. Per tale motivo il Consorzio della Bonifica di Piscinara affidò all’Istituto Geografico Militare il compito di realizzare una rappresentazione orografica con curve di livello in scala grafica 1:5.000 del territorio pontino appartenente a entrambi i consorzi. Sulla base di un’indagine accurata e completa della morfologia del terreno e sulla base anche degli studi eseguiti sull’intensità delle piogge e sulla portata delle sorgenti presenti lungo le pendici dei monti Lepini, fu progettato per i due comprensori un piano esecutivo delle opere necessarie per il completamento dei lavori di bonifica già da tempo avviati. In seguito all’evoluzione del concetto di bonifica e alle forti incentivazioni predisposte dal gover-no italiagover-no, furogover-no revisionati e aggiornati i programmi, consolidandosi il principio di bonifica integrale che si basava principalmente sulla contemporanea realizzazione di una bonifica sanitaria, idraulica e agraria. Parteciparono a questa grande opera di risanamento la Croce Rossa Italiana, i due consorzi di bonifica operanti nel territorio pontino e l’Opera Nazionale Combattenti. Negli stessi anni vengono creati consorzi anche in altre vaste zone del territorio italiano inte-ressate ai lavori di bonifica, come ad esempio in Emilia Romagna, Veneto e Friuli dove furono intrapresi lavori di risanamento ambientale di ampie zone indicate come paludose e malariche [Visentin, 2011].

Nuove identità urbane

È noto che le bonifiche romane in età imperiale e quelle dei pontefici erano mirate essenzial-mente a risolvere il problema dell’allagamento circoscritto a una zona, senza considerare la molteplicità di altri interventi necessari per creare quelle condizioni ambientali favorevoli alla vita dell’uomo. La palude e la macchia boschiva avevano alimentato per secoli il fenomeno del nomadismo, allontanando l’uomo dal territorio. Invece, il recupero dell’agro pontino nel piano di bonifica redatto nei primi anni del Novecento costruì il suo successo, creando le condizioni per un ripopolamento del territorio con il pieno uso delle risorse locali. In seguito al vasto progetto di prosciugamento dei terreni paludosi, grazie al lavoro di operai e di braccianti, trasformatisi

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poi in coloni, furono realizzati nuovi insediamenti abitativi che portarono al costituirsi di nuove realtà urbane. Costruiti con richiami di elementi di architettura rurale dei vicini centri agricoli, sorsero nell’agro pontino numerosi borghi e città di nuova fondazione. Negli anni trenta furono costruite Littoria, Sabaudia, Pontinia e Aprilia, ma anche la stessa Pomezia nell’agro romano. Ispirate a un nuovo modello urbano che in Italia e in Europa si stava realizzando in contrapposi-zione a quello dell’Ottocento, le nuove città pontine nascono in un periodo in cui si configurano le ‘città giardino’ in Inghilterra e in Francia, le ‘città industriali’ in Germania e quelle ‘lineari’ in Spagna e in Russia. Sulla base di un modello di pianificazione razionale e innovativo, espressio-ne del ciclo produttivo agricolo e delle esigenze sociali, come lavoro, residenza e aggregazioespressio-ne collettiva, i nuovi centri furono concepiti come sistema aperto verso la campagna. In funzione quasi anti-urbana, ‘non per attrarre, ma per servire la gente’, le nuove città diedero ai contadini la possibilità di partecipare alla vita civile senza abbandonare i campi. Il nucleo urbano delle nuove città si sviluppava in genere intorno a una piazza principale attraversata da assi stradali che pro-seguivano verso la campagna legando la città al territorio. Progettata come polo urbano, la piazza era caratterizzata dalla presenza dei principali edifici pubblici come il municipio, la chiesa, la casa del fascio, la caserma, espressione del nuovo linguaggio dell’architettura di regime. Condizionato dalla piccola scala urbana e da una stretta interdipendenza con i luoghi, la nuova corrente archi-tettonica assunse nelle città pontine caratteri strettamente locali. Scelte tipologiche che garanti-vano una continuità tra il lavoro e la residenza erano realizzate attraverso l’uso dei materiali da costruzione e di rivestimento in situ come la muratura di pietrame tufaceo o calcareo, il listato di mattoni o il travertino.

Nuovi elementi furono così introdotti nel paesaggio, che subì una profonda trasformazione strutturale e sociale. Un territorio non più riconoscibile, come scrisse Natale Prampolini [Pram-polini 1935, p. 144] da chi percorreva la via Appia da Cisterna a Terracina che esterrefatto in luogo di una terra allagata per tanti mesi all’anno, visibile fino all’anno prima, vedeva una serie di case coloniche presso cui molti contadini, provenienti da regioni del nord d’Italia, vivevano e lavoravano una terra ritornata fertile. Lo stupore aumentava per chi si trovava di fronte all’odier-na città di Latiall’odier-na e per chi si spingeva fino al Circeo, un tempo accessibile solo da Terraciall’odier-na, addentrandosi lungo una strada aperta tra acquitrini e foreste per raggiungere Sabaudia, la città che sorse sulle sponde del lago di Paola.

Una fitta rete stradale percorreva la pianura bonificata, al tempo della palude attraversata dalla sola via Appia, l’unica strada ghiaiata che esisteva nell’agro pontino. Il nuovo sistema viario, che presentava le sue arterie principali disposte parallelamente alla via Appia, come la Litoranea e la Mediana, consentì in un primo momento il trasporto dei materiali da costruzione per poi successivamente garantire il collegamento delle nuove città con il territorio circostante e con Roma. I primi insediamenti ospitarono gli operai impegnati nei cantieri dei canali di drenaggio delle acque e i casolari esistenti diventarono punti di riferimento per le nuove costruzioni e per i lavori da eseguire. In località Quadrato, ad esempio, dove poi sorse Littoria, per consentire i lavori del canale delle Acque Alte, furono costruiti i primi fabbricati del consorzio. Borgo Grappa e Borgo Sabotino furono invece edificati per costruire la strada Litoranea, per eseguire lo scavo di Rio Martino e per prosciugare i pantani di Foceverde. Nei borghi definiti ‘di servizio’, gli edifici principali, quali la chiesa, la scuola, la caserma, la dispensa, l’infermeria, sorsero sulla base di preesistenti tracciati stradali successivamente completati. Altri borghi, invece, denominati ‘residenziali’ furono espressione di un nuovo progetto urbano unitario, in cui accanto a una zona centrale con la chiesa e gli edifici rappresentativi principali furono progettate anche zone

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denziali e zone destinate alle attività economiche e produttive, come ad esempio si è verificato nei borghi Hermada, Vodice e Montenero. La scelta del linguaggio architettonico utilizzato nella progettazione degli edifici determinò l’immagine urbana dell’area pontina. In alcuni centri, come ad esempio a Borgo San Michele e Borgo Bainsizza, era evidente un forte richiamo alla tradizio-ne architettonica del passato con un recupero tradizio-nelle nuove costruzioni di elementi architettonici tipici dell’arte romanica. Una tendenza, invece, più vicina al nuovo stile architettonico dell’Italia di quegli anni, ma con forti accenti locali, si riscontrava in altri borghi, come ad esempio a San Donato e nel villaggio Littoria-Stazione, poi denominato Latina Scalo, tendenza che troverà una maggiore applicazione nelle aree urbane più estese come nelle città di nuova fondazione. Inoltre, nuovi paesaggi agricoli si delinearono con il prosciugamento e l’irrigazione dei terreni. Nei poderi furono costruite case coloniche per la lavorazione dei campi, realizzate secondo tipologie e sistemi costruttivi, che tenevano conto sia delle caratteristiche geologiche del terreno sia delle esigenze lavorative del fondo.

Nelle zone di origine palustre furono realizzati edifici di uno o due livelli, sviluppati princi-palmente in larghezza, mentre in zone ventose furono realizzati edifici con coperture piane. L’ubicazione della casa colonica all’interno del podere fu condizionata dalla presenza della rete stradale e dei canali. Per consentire un più facile accesso e una maggiore comunicazione si prefe-rì, in genere, una disposizione lungo le strade interpoderali [Martone 2012].

Le trasformazioni del territorio da palude a pianura bonificata trovano espressione nell’impo-nente trittico murale La redenzione dell’Agro pontino disegnato da Duilio Cambellotti nel 1934 sulle pareti della Sala del Palazzo del Governo di Latina. Con un grande effetto scenografico e con forti contrasti cromatici sono rappresentati L’agro bonificato e Le paludi pontine in 24 pannelli di 2.60 x 1.20 metri. Il dipinto centrale raffigura la pianura prosciugata; si riconoscono sullo sfondo il monte Circeo e i Colli Albani mentre in primo piano sono disegnati i coloni alla conquista del-la terra. Littoria è rappresentata in una vista dall’alto: si individuano i principali edifici di nuova costruzione, il sistema viario e soprattutto gli appezzamenti di terreno circostanti la città. Nelle pareti laterali sono dipinte scene che documentano la vita che si svolgeva all’interno della palude. A sinistra è raffigurato uno scorcio di palude in cui è ritratto un boscaiolo mentre taglia la legna, alle cui spalle è raffigurata una lestra, mentre sulla parete di destra una folta mandria di bufale, guidata da un buttero a cavallo, irrompe nella pianura pontina delimitata dalla catena montuosa dei Monti Lepini che chiudono la scena. L’opera di Cambellotti è particolare non solo per le sue dimensioni che consentono una piena immersione nella terra pontina, ma soprattutto perché rappresenta lo stato dei luoghi prima e dopo la bonifica disegnati in una naturale continuità che sorprende l’osservatore.

Conclusioni

A causa di uno sviluppo edilizio incondizionato, il territorio soprattutto durante gli ultimi anni del XX secolo ha perso i suoi caratteri originari e di post-bonifica. Accanto, infatti, agli edifici storici delle città del primo Novecento, depurati da ogni apparato decorativo che potesse evocare il fascismo, sono sorte costruzioni di edilizia speculativa che hanno dato vita a nuovi scenari urbani anche disordinati.

Trasformazioni sempre più incalzanti e inarrestabili minacciano oggi il territorio e i suoi centri edilizi. A fatica, si riconoscono ancora gli edifici di nuova fondazione nel disegno del tessuto urbano modificatosi e ampliatosi. Sopraffatti da altre strutture e dal traffico urbano, cambiata la destinazione d’uso, alteratosi il rapporto con lo spazio esterno, gli edifici storici rischiano di

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dere la propria identità e soprattutto il valore di testimonianza di un’epoca passata, importante per conoscere e comprendere l’evoluzione della cultura architettonica e urbanistica del territorio pontino e del nostro paese.

La capacità di riconoscere i caratteri e l’unitarietà originaria intorno a cui il territorio stesso si è sviluppato anche in seguito agli ampliamenti del tessuto edilizio e viario, che si sono verificati nel corso dei decenni, è l’unica garanzia affinché il territorio possa guardare al futuro con la consapevolezza della propria storia. L’analisi documentata della realtà può essere l’inizio di un processo conoscitivo in base al quale un’identità consolidata, può continuare a essere la spinta necessaria per attivare la tutela e la salvaguardia del territorio pontino, portatore di un ricco pa-trimonio culturale. I dipinti, i disegni, le incisioni assumono un valore di documento sia artistico che storico; aprono alla riscoperta di ambienti ormai scomparsi, consentendo di ricostruire la storia di un paesaggio e di un territorio, e riconoscere gli elementi caratterizzanti che permango-no anche dopo le più radicali trasformazioni.

Fig. 10: Interno della Sala del Consiglio del Palazzo del Governo a Latina. Alle pareti: D. Cambellotti, La redenzione

dell’Agro pontino, 1934. Parte centrale del dipinto: L’agro bonificato. Lateralmente: particolare de Le paludi pontine

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Fonti archivistiche

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Sitografia

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Riferimenti

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