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La riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: osservazioni d’insieme e recenti sviluppi su un tema di sicuro interesse per la politica estera italiana

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Osservatorio sulle attività delle organizzazioni internazionali e sovranazionali, universali e regionali, sui temi di interesse della politica estera italiana - www.osorin.it - comint@sioi.org

SIOI - Palazzetto di Venezia - Piazza di San Marco, 51 - 00186 - ROMA La riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite:

osservazioni d’insieme e recenti sviluppi su un tema di sicuro interesse per la politica estera italiana

Giuseppe Nesi

Professore ordinario di Diritto internazionale, Università degli Studi di Trento

È ormai da più di un quarto di secolo che il tema della riforma del Consiglio di sicurezza è all’ordine del giorno dei lavori delle Nazioni Unite. La divergenza delle posizioni e l’inconciliabilità su alcuni punti hanno reso sterili i tentativi di pervenire a una proposta condivisa dagli Stati membri o almeno dai due terzi di essi, maggioranza indispensabile dall’autunno del 1998 per adottare risoluzioni o decisioni dell’Assemblea generale in merito alla riforma (A/RES/53/30).

Tutti gli Stati si dicono favorevoli a una riforma del Consiglio di sicurezza. Ma occorre riconoscere che si è nella realtà molto lontani non soltanto da una conclusione del negoziato ma anche da un adeguato approfondimento degli argomenti che formano la sostanza di una possibile riforma.

All’attuale situazione, che con un eufemismo si potrebbe definire paludosa, hanno contribuito diversi fattori, dalla rigidità delle posizioni negoziali dei diversi schiera-menti alla solo apparente disponibilità di alcuni membri permanenti del Consiglio ad ac-cogliere, almeno sulla carta e soltanto su questioni particolari, le istanze di rinno-vamento.

Dopo quindici anni (1993-2008) di negoziati all’interno dell’Open-ended Working Group on the Question of Equitable Representation on and Increase in the Membership of the Security Council and Other Matters related to the Security Council (d’ora in poi, OEWG), dal 2008 la formula dell’Inter-Governmental Negotiations (IGN) in Assem-blea generale regola il dibattito che si trascina, di sessione in sessione, avendo ad oggetto i cinque “pilastri” del negoziato: la categoria della membership del Consiglio, la questione del veto, la rappresentanza regionale, la dimensione complessiva del Consi-glio allargato e i suoi metodi di lavoro e, infine, i rapporti tra ConsiConsi-glio di sicurezza e Assemblea generale (decisione 62/557 dell’Assemblea generale del 15 settembre 2008, confermata dalla decisione dell’Assemblea generale 72/557 del 29 giugno 2018) *.

Anche nel corso della 73ma sessione dell’Assemblea generale, tra il 2018 e il 2019, il dibattito nell’IGN ha riguardato questi punti. Ritenendo che il negoziato potrebbe svolgersi in maniera più rapida in presenza di un testo consolidato, gli Stati favorevoli a un ampliamento della componente permanente del Consiglio, e cioè i G4

* L’IGN da un punto di vista procedurale è una sorta di passo del gambero dei negoziati dal momento che questi negoziati, pur rimanendo informali (“no vote, no record, single undertaking…”) dovranno comunque ritornare all’OEWG, altro foro informale.

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(Brasile, Germania, Giappone e India), hanno fatto pressione per l’adozione di un testo che raccolga le principali posizioni degli Stati. Nonostante non si tratti di un’idea nuova dal momento che già nel 2015 – dopo lunghe e inutili trattative e momenti di alta tensione – venne fatto circolare un Framework Document che non ebbe successo, i coordinatori del negoziato hanno nuovamente provveduto anche nel corso di questa sessione a presentare dei testi, sui quali tuttavia si sono registrate posizioni negative proprio in ragione della natura delle riunioni e in particolare la loro informalità. Con il risultato, ovviamente, di rallentare il negoziato e di alzarne i toni.

In realtà, nell’ultima sessione dell’Assemblea generale l’unica novità è stata la presentazione da parte della Rappresentante permanente d’Italia all’ONU di un docu-mento che ha formalizzato e precisato, a nome di Uniting for Consensus (d’ora in poi, UfC), soprattutto due aspetti della riforma: la categoria di membership e la dimensione complessiva del Consiglio allargato. Nel suo discorso del 20 novembre 2018 l’Amba-sciatrice Zappia ha chiaramente esposto, con numeri, riferimenti a gruppi geografici e a categorie di Stati, la sostanza della proposta di UfC, risultato di diversi “adjustments made over the years in response to feedback from the different rounds of negotiations”.

La proposta mira a creare nuovi seggi non permanenti di più lunga durata, insieme a una più equa distribuzione tra i gruppi regionali. In quest’ottica, il Consiglio riformato dovrebbe essere composto da ventisei seggi, ventuno dei quali non permanenti, così distribuiti: sei seggi agli Stati africani, di cui tre di più lunga durata; cinque seggi al gruppo asiatico-pacifico, di cui tre di più lunga durata; quattro seggi ai Paesi latino-americani e caraibici, di cui due di più lunga durata; tre seggi al gruppo degli Stati occidentali, di cui uno di più lunga durata; due seggi ai Paesi dell’Europa orientale e un seggio riservato ai piccoli Stati e alle piccole isole, che non perdono comunque il diritto di competere anche sui seggi assegnati ai gruppi geografici ai quali appartengono.

Dall’ultimo scorcio del secolo scorso ad oggi molto è cambiato nei rapporti tra Stati e all’interno delle stesse Nazioni Unite. Basti pensare a un semplice dato: nel 1993 la quota di finanziamento ordinario a carico della Repubblica popolare cinese, membro permanente del Consiglio, era lo 0,77 per cento del bilancio ordinario dell’ONU, facen-done così uno dei più modesti contribuenti. Oggi, con il 12,005, è il secondo con-tribuente, dopo gli Stati Uniti. Per non parlare delle straordinarie, e in alcuni casi diffi-cilmente immaginabili, novità introdotte nelle competenze del Consiglio di sicurezza dalla prassi, con la nascita (e la fine delle attività) dei tribunali penali internazionali ad hoc, il proliferare dei comitati sanzioni, l’evoluzione delle caratteristiche essenziali delle operazioni di mantenimento della pace, la continua revisione dei metodi di lavoro del Consiglio e dei suoi organi sussidiari etc.

Non può dirsi che il negoziato sulla riforma del Consiglio di sicurezza abbia conosciuto analoghi sviluppi. Occorre tuttavia riconoscere al negoziato il merito di avere obbligato gli Stati membri ad impegnarsi in un confronto serrato di idee e di posizioni sul ruolo e sulle modalità di azione dell’organo principale dell’ONU con competenza primaria nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. E il dibattito e lo scambio di idee hanno certamente permesso un confronto costruttivo su alcune questioni e, in alcuni casi, il raggiungimento di risultati tangibili da parte

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dell’intero sistema ONU. Ci riferiamo, ad esempio, nel primo caso all’approfondimento del dibattito sulla questione del veto; nel secondo alla risistemazione dell’intera, delicatissima tematica dei metodi di lavoro del Consiglio e dei suoi organi sussidiari. Quanto alla questione del veto, ormai ritenuta non più rinviabile da parte della stragrande maggioranza degli Stati membri, è significativo che sull’onda delle pressioni di piccoli Stati uno dei membri permanenti abbia avanzato la proposta di limitare il ricorso al potere di veto e addirittura di escluderlo in alcune circostanze. Il dibattito sul punto sembra per il momento essersi arenato ma non è da escludere che esso venga ripreso, anche approfittando delle prossime riunioni dell’IGN. Sull’annosa questione dei metodi di lavoro del Consiglio si è invece pervenuti a risultati “pratici” con l’adozione di un documento che, pur essendo allegato a una nota del Presidente del Consiglio di sicurezza, costituisce una reale risistemazione di una tema cruciale in relazione alla riforma del Consiglio (S/2017/507).

Il raggiungimento di questi risultati dovrebbe comunque essere considerato positivamente, soprattutto in un momento storico nel quale il multilateralismo appare in crisi profonda specialmente in alcuni dei Paesi che ne hanno tradizionalmente fatto la base della loro politica estera. In tale quadro, mentre appare difficile immaginare imme-diati, reali progressi nel negoziato sulla riforma del Consiglio di sicurezza, gli Stati che davvero hanno a cuore la riforma dovrebbero preservare l’acquis e, realisticamente, restringere i termini del negoziato ai temi sui quali, come si è dimostrato, possono raggiungersi risultati condivisibili dall’intera membership.

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