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Strategie di internazionalizzazione per le imprese agroalimentari: i casi Ferrero e Mattoni.

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Sommario

INTRODUZIONE ... 3

I. LE CARATTERISTICHE DEL SETTORE AGROALIMENTARE ... 7

1. LA DEFINIZIONE DI “SETTORE AGROALIMENTARE” ... 7

2. LA DOMANDA E L’OFFERTA DI PRODOTTI ALIMENTARI A LIVELLO MONDIALE ... 10

3. L’ANALISI ECONOMICA DEI CONSUMI ALIMENTARI... 11

4. L’ANALISI ECONOMICA DEL SISTEMA AGROALIMENTARE ... 13

5. LE RECENTI TENDENZE DEL SETTORE AGROALIMENTARE ... 16

6. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA AGROALIMENTARE ... 18

7. ASPETTI ECONOMICI DELLA SOTTO-NUTRIZIONE E DELL’OBESITA’ MONDIALE ... 20

II. LA GRANDE DISTRIBUZIONE ALIMENTARE: CENNI STORICI E REALTA’ ATTUALE ... 23

1. LE PRIME FORME DI DISTRIBUZIONE NEL SETTORE ALIMENTARE ... 23

2. IL SETTORE ALIMENTARE: IL PRODOTTO COMMERCIALE ... 28

3. LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DELLE IMPRESE DI GRANDE DISTRIBUZIONE ... 35

III. PIANIFICAZIONE E CONTROLLO DI GESTIONE NELLE IMPRESE DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE ... 39

1. UN MODELLO DI SISTEMA DI CONTROLLO ... 39

2. LA CATENA DEL VALORE NEI PRODOTTI COMMERCIALI ... 40

3. ANALISI DEI COSTI DI PRODOTTO: IL DPP ... 43

4. IL REPORTING DI CONTABILITA’ ANALITICA ... 45

5. IL SISTEMA DI REPORTING PER I RESPONSABILI DELLE ATTIVA’ COMMERCIALI .... 48

IV. INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI BUSINESS ... 53

1. LE RAGIONI DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE ... 53

2. LE DETERMINANTI DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE NELLA DISTRIBUZIONE ... 55

3. LE MODALITA’ DI ESPANSIONE ... 58

4. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE NEL SISTEMA DISTRIBUTIVO ITALIANO ... 60

5. INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL MARCHIO E MARKETING COLLETTIVO ... 61

6. OPPORTUNITA’ DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE: NUOVE FIGURE PROFESSIONALI... ... 66

V.LA QUALITA’ NEL SETTORE AGROALIMENTARE ... 69

1. IL CONCETTO DI QUALITA’ ... 69

2. REALIZZARE UN PRODOTTO DI QUALITA’ ... 76

3. LE CERTIFICAZIONI NEL SETTORE AGROALIMENTARE: DOP E IGP ... 78

VI.LA LOGISTICA NELL’OTTICA DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE ... 81

1. IL CONCETTO DI LOGISTICA ... 81

2. INDICATORI DI PERFORMANCE DELLA LOGISTICA ... 82

3. LA GESTIONE DELLE SCORTE E DEI TRASPORTI………...84

VII. L’ EXPORT E LE MINACCE AL PRODOTTO ITALIANO ... 91

1. LE ESPORTAZIONI ITALIANE ... 91

2. LE ESPORTAZIONI NEL COMPARTO ALIMENTARE ... 92

3. IL FENOMENO DELL’ITALIAN SOUNDING ... 94

4. IL MADE IN ITALY VISTO DAL CONSUMATORE ... 97

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VIII. INVESTIRE IN REPUBBLICA CECA ... 103

1. OVERVIEW DELLA REPUBBLICA CECA ... 103

2. INVESTIRE IN REPUBBLICA CECA ... 105

3. IL SISTEMA DOGANALE CECO E INFRASTRUTTURA DEI TRASPORTI INTERNI ... 108

4. COME AVVIARE UN BUSINESS IN REPUBBLICA CECA ... 109

5. “DOING BUSINESS” IN REP. CECA ... 110

IX. OPERARE NEL SETTORE ALIMENTARE IN REP. CECA: I CASI “FERRERO” E “ACQUA MATTONI” ... 119

1. I RAPPORTI TRA ITALIA E REPUBBLICA CECA ... 119

2. EXPORT DEI PRODOTTI ALIMENTARI ITALIANI ... 121

3. I CONSUMI IN REPUBBLICA CECA ... 123

4. CASO: FERRERO S.P.A. ... 125

5. CASO: MATTONI ... 138

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3

INTRODUZIONE

Una qualsiasi impresa che, venti anni fa o più, avesse effettuato uno studio del fenomeno dell’internazionalizzazione dei business, sicuramente avrebbe classificato questa come un’attività di mera ricerca e di approfondimento, finalizzata esclusivamente a cogliere le opportunità e i nuovi spazi a cui le

dinamiche globali dell’epoca avrebbero potuto dar vita. Seppur i pionieri dell’internazionalizzazione abbiano mosso i loro primi passi

ben prima degli anni ’80-’90, questa tendenza nel XX secolo è stata circoscritta

alle sole aziende di grandi dimensioni. Oggi non è più così, o meglio: quella in questione non è più una problematica

che riguarda solo le imprese leader e affermate ma si estende a tutto il contesto socio-economico, così che sia le imprese con fatturati pluri-milionari che quelle di piccole dimensioni debbano prestare le stesse attenzioni a ciò che accade nel

panorama mondiale.

A maggior ragione ai giorni nostri che, causa gli strumenti tecnologici che hanno accelerato i tempi e moltiplicato il numero di cambiamenti, è possibile riscontrare, dando uno sguardo al recente passato, una molteplicità di esempi di prodotti e/o imprese che da un giorno all’altro hanno visto il loro valore deprezzarsi (o apprezzarsi) in seguito ad una globalizzazione dei gusti, degli stili

di vita e dei comportamenti di acquisto dei consumatori. Ed è così che nessun soggetto che operi in un mercato aperto possa esimersi dal

confronto con la nuova realtà mondiale che vede accorciate le distanze e

abbattuti i confini che separavano i paesi. Allo stesso modo, un operaio, un agricoltore e un imprenditore non possono non

tener conto di chi, magari a migliaia di chilometri di distanza, sta svolgendo una attività simile, forse con risultati migliori. La competizione non permette

disattenzioni e questa miopia, purtroppo, spesso è costata cara alle imprese. Le possibili soluzioni? A volte ampliare le proprie analisi di mercato e

interessarsi a quello che stanno producendo (e a come lo stanno producendo) oltre i confini nazionali non basta! Una strategia passiva potrebbe, al più,

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allungare i tempi di stagnazione e posticipare quella che potrebbe essere una crisi per l’impresa. E allora, come si deve comportare l’imprenditore? Da questo punto di vista sarebbe ideale, qualora ve ne sia l’opportunità, attuare politiche attive e competere, anche strutturalmente e logisticamente, nei paesi in cui si

trovano i clienti e/o i competitor. Un approfondimento delle dinamiche internazionali può senz’altro aiutare

l’imprenditore a prendere buone decisioni di breve e medio-lungo periodo e ad

adottare politiche di governo a sostegno delle attività aziendali. Si tenga presente che il processo di internazionalizzazione delle imprese ha a che

fare con la globalizzazione, ma non va confusa con quest’ultima che è un

fenomeno ben più complesso. La globalizzazione, infatti, è un processo sociale – fortemente influenzato dallo

sviluppo tecnologico, dalla crescente rapidità dei trasporti e dalla rivoluzione informatica – che ha assunto particolare consistenza negli ultimi tre decenni del ‘900 e ha dato vita ad una vera e propria rete mondiale di connessioni spaziali e

di interdipendenze funzionali.

Gli studiosi la inseriscono tra i cinque fattori chiave con i quali si devono confrontare le attuali e le future strategie delle imprese (oltre a convenience,

configurazione, innovazione, concentrazione). In parte essa è legata alla crescita del volume delle transazioni internazionali, ma

è sbagliato ridurre il fenomeno alla crescita degli scambi. Le economie nazionali sono interdipendenti non in virtù dei flussi di commercio

internazionale, ma soprattutto in virtù delle strategie delle grandi imprese multinazionali. Agli inizi degli anni Ottanta le dinamiche competitive interne a molti settori produttivi portarono ad una elevata concentrazione ed al conseguente bisogno delle imprese di espandere il proprio mercato di riferimento. La ricerca di nuovi mercati da colonizzare, il perseguimento di strategie di vantaggio di costo ottenuto con la delocalizzazione degli impianti in paesi a minor costo della manodopera e con ridotti standard ambientali, il processo di finanziarizzazione teso a sfruttare le opportunità di rendita offerte dalla riconfigurazione dei mercati

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finanziari su scala internazionale, hanno portato le grandi imprese ad operare, sia in termini di attività di vendita che di investimento e finanziamento, in qualsiasi

parte del mondo offrisse loro le migliori opportunità. Mano a mano che il raggio di azione delle grandi imprese transnazionali si è

diffuso oltre il paese di origine, queste hanno chiesto ed ottenuto dalle istituzioni nazionali e sopranazionali garanzie via via maggiori sulla propria libertà di azione. Per quanto riguarda i suoi contenuti, la globalizzazione presenta le caratteristiche tipiche della modernità. Come sostiene il sociologo inglese Anthony Giddins, la

interconnectdness che “globalizza” i fenomeni sociali ha come premessa la

rivoluzione tecnologica e informatica, ma a partire da questo nucleo originario

essa ha coinvolto ampi settori dell’economia e della politica internazionale. Ma com’è possibile dedurre, e come sarà già noto al lettore, se da un lato un

mondo globalizzato facilita molto la vita, sia essa di una persona o di un’impresa, dall’altro sarebbe fuorviante avere una visione di questo processo

esclusivamente, ed imprudentemente, ottimistica. Insiti nella globalizzazione vi sono anche aspetti negativi: innanzitutto la crescita

delle disuguaglianze economiche tra i paesi leader e i paesi poco o per nulla sviluppati; inoltre si segnala un maggiore stress in ambito lavorativo e non, figlio di una competizione che troppo spesso appare eccessiva e senza rispetto di alcuna regola. Un caso emblematico è quell’offshoring, ossia il trasferimento di una produzione all’estero, che sempre più cela uno scambio tra il lavoro di un buon livello, ma troppo costoso, con un prodotto scadente ma economicamente conveniente. Potremmo dire, in estrema sintesi, che mentre la globalizzazione è il processo in corso che approfondisce e amplia le relazioni e l'interdipendenza tra i paesi,

l’international business è un meccanismo per portare alla globalizzazione. Si è in grado, adesso, di tracciare un primo e approssimativo profilo della

multinational enterprise (MNE): un’impresa internazionale che adotta un

approccio globale riguardo i mercati e la produzioni; talvolta può operare sotto forma di società multinazionale (multinational company MNC) o di società

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transnazionale (transnational company TNC). I suoi dirigenti devono avere piena conoscenza di come guidare l’impresa in uno scenario più ampio e adottare abili strategie competitive prendendo in considerazione competitors fino a poco tempo

fa sconosciuti. Il presente lavoro si concentrerà, in particolar modo, sul settore agroalimentare.

La nostra ricerca volgerà in tutto e per tutto all’approfondimento del suddetto settore. Il mercato agroalimentare è stato in passato associato prevalentemente al settore agricolo. Poiché tale settore ha da sempre presentato, più di altri settori dell’economia, una struttura vicina a quella concorrenziale (la frammentazione della domanda e dell'offerta e la scarsa differenziazione della produzione sono stati da sempre i caratteri tipici riconosciuti per il settore agricolo), lo studio del mercato agroalimentare è risultato relativamente semplice, con la possibilità di costruzione di modelli che permettessero anche la valutazione delle politiche

rivolte al settore. In epoca recente la fisionomia del settore è cambiata radicalmente in rapporto ad

alcuni cambiamenti tecnologici e organizzativi che hanno investito la sfera della produzione, della distribuzione e del consumo dei prodotti agricoli e alimentari. Il settore agricolo ha acquisito una posizione marginale ed il mercato agroalimentare si è via via allontanato dalla struttura concorrenziale, rendendone

difficile l’analisi a livello sia descrittivo, che normativo e predittivo. Per concludere, nella parte finale del lavoro analizzeremo le possibilità di

investimento in Repubblica Ceca, dove ho condotto lo studio in questione e ho sostenuto gli esami del secondo anno del corso di laurea magistrale grazie al

progetto Erasmus.

Tuttavia, il mio percorso non è l’unica ragione per cui la scelta sia ricaduta su questo stato: infatti negli ultimi venti anni, la Repubblica Ceca, così come altri paesi dell’Europa dell’est sono ritenuti punti strategici per i vari vantaggi geo-politici ed economici che offrono e che successivamente tratteremo.

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Capitolo I

LE CARATTERISTICHE DEL SETTORE AGROALIMENTARE

1. LA DEFINIZIONE DI “SETTORE AGROALIMENTARE”

Il settore agroalimentare comprende tutti i settori dell’economia coinvolti nella produzione e distribuzione di prodotti alimentari. Ci si riferisce anche al “sistema agroalimentare”, come quella parte del sistema economico che espleta le funzioni

alimentari di un Paese. I principali settori economici che costituiscono il settore agroalimentare sono:

 Agricoltura;

 Industrie fornitrici di mezzi tecnici per l’agricoltura;  Industria della trasformazione alimentare;

 Settore del commercio (distribuzione alimentare).

Nei sistemi agroalimentari evoluti, al settore della distribuzione al dettaglio viene

attribuito un ruolo sempre più centrale. La struttura del settore agroalimentare ed il comportamento delle diverse imprese

che vi operano è influenzato dall’ambiente socio-culturale e istituzionale di riferimento. Storicamente il settore che ha risposto ai bisogni alimentari è stato l’agricoltura e solo recentemente si è sviluppato il ruolo dell’industria e della distribuzione alimentare. E’ possibile individuare, in sintesi, le seguenti fasi1

nell’evoluzione del comparto

alimentare: • una fase originaria dove la produzione e il consumo alimentare si presentavano

esclusivamente su base locale;

1

Si veda: V. Sodano, Analisi dei mercarti agroalimentari, Dipartimento di Economia e Politica Agraria dell'Università Federico II di Napoli.

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• una fase di apertura commerciale, che risale al medioevo, caratterizzata dal progressivo aumento degli scambi di derrate di base a livello territoriale ancora circoscritto ed, in seguito, dall’apertura degli scambi internazionali relativamente a derrate speciali (spezie e affini) a partire dallo sviluppo dei grandi traffici marittimi nel sedicesimo secolo;

• una fase di pre-industrializzazione del settore agroalimentare, che vede la progressiva specializzazione territoriale delle fasi di produzione e consumo alimentare, connessa ai primi stadi della rivoluzione industriale a partire dal diciottesimo secolo;

• una fase di allargamento degli scambi su base prevalentemente regionale che risponde all’affermarsi dell’assetto moderno del rapporto città-campagna e alle esigenze di divisione del lavoro e organizzazione socio-economica richiesti dalla fase di sviluppo industriale delle economie occidentali;

• una fase di modernizzazione caratterizzata dalla diffusione su larga scala delle tecniche industriali di conservazione e trasformazione degli alimenti; dalla spinta industrializzazione dell’agricoltura con l’introduzione della chimica e della meccanizzazione; da un progressivo aumento degli scambi internazionali e dall’affermazione dei consumi di massa;

• una fase di terziarizzazione e internazionalizzazione;

• l’attuale fase di transizione caratterizzata dalla coesistenza di fenomeni contraddittori quali: la globalizzazione dei consumi e la difesa dei prodotti tipici; la ricerca del basso costo e della differenziazione; la concentrazione della GDO e l’e-commerce2; l’estrema industrializzazione del settore agricolo e lo sviluppo

dell’agricoltura biologica.

2

L'espressione commercio elettronico, in inglese e-commerce, può indicare diversi concetti:

1. può riferirsi all'insieme delle transazioni per la commercializzazione di beni e servizi tra produttore (offerta) e consumatore (domanda), realizzate tramite Internet;

2. nell'industria delle telecomunicazioni;

3. un'ulteriore definizione descrive il commercio elettronico come l'insieme della comunicazione e della gestione di attività commerciali attraverso modalità elettroniche, come l'EDI (Electronic

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L’ultima fase, denominata di transizione o di globalizzazione, è caratterizzata da un forte aumento della concentrazione sia nel settore industriale che della distribuzione. Le grandi imprese industriali operano ormai su scala globale mentre le maggiori catene della grande distribuzione iniziano la loro fase di

internazionalizzazione, investendo oltre i confini nazionali. L’ambiente competitivo è caratterizzato in questa fase dalle aggressive politiche

di marketing del grande dettaglio organizzato, in più, la massiccia diffusione delle marche commerciali riduce drasticamente il potere contrattuale dell’industria nei confronti dei propri clienti determinando il passaggio della

leadership della filiera al settore distributivo. Nel complesso si può affermare che i principali attori del settore alimentare sono

attualmente i dettaglianti ed il foodservice, mentre l’industria mostra poche potenzialità di crescita. Il consumer pull ha sostituito già da tempo il

manufacturer push nella guida delle dinamiche organizzative e strategiche della

food supply chain.

Nei prossimi anni il settore alimentare sperimenterà una sempre maggiore integrazione internazionale e le imprese del settore dovranno tener conto dei seguenti elementi:

 Il bisogno di una progettualità strategica ampia e di lungo periodo.

 Lo slancio verso i mercati dell’Est e dei paesi in via di sviluppo.

 Il cambiamento tecnologico e l’innovazione tanto nella distribuzione che nella preparazione degli alimenti.

L’impatto prorompente dello sviluppo del foodservice.

 L’entrata di nuovi importanti attori capaci di guidare le strategie dell’intero sistema, come ad esempio l’industria della scienza della vita. Nell’attuale fase di sviluppo il sistema agroalimentare sta cercando nuove forme di integrazione nell’ambito dell’intero sistema economico sperimentando una varietà di nuove forme organizzative al proprio interno. Dalle classiche politiche di integrazione orizzontale e verticale si è passati a politiche di coordinamento

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basati su accordi quasi informali, come alleanze strategiche e reti di impresa3. Gli elementi che guidano l’evoluzione organizzativa del sistema sono:

 Le innovazioni nel campo dell’informazione e della comunicazione.

 Le innovazioni in campo bioingegneristico.

 Le dinamiche del consumo alimentare. Alcuni dei trend che hanno caratterizzato il settore per un lungo periodo si stanno esaurendo ed è difficile prevedere le priorità del consumatore occidentale della prossima generazione. Via via le scoperte mediche e biomolecolari potrebbero indicare nuove proprietà nutrizionali e terapeutiche che influenzerebbero in modo drastico le abitudini alimentari dei consumatori.

2. LA DOMANDA E L’OFFERTA DI PRODOTTI ALIMENTARI A

LIVELLO MONDIALE

Vi è una profonda diversità nella connotazione e nella definizione stessa di un

bene alimentare che esiste tra paesi ricchi e paesi poveri. La teoria del marketing definisce un prodotto in base ai bisogni del consumatore

che il prodotto è in grado di soddisfare. Nei paesi a elevato livello di sviluppo il consumo di beni alimentari è oramai da tempo legato più al soddisfacimento dei bisogni cosiddetti secondari (quali quelli di convivialità, di status, edonistici) che

al soddisfacimento dei bisogni primari (di fame e sicurezza). Nei paesi poveri invece al primo posto vi è il soddisfacimento del fabbisogno

energetico giornaliero. In tali paesi l’assunzione di una dose sufficiente di calorie è un bisogno che ancora si antepone a quello dell’adeguatezza delle

caratteristiche nutrizionali degli alimenti. Il mondo si divide in due grandi blocchi anche per quanto concerne la

distribuzione geografica dei bacini di produzione e consumo di prodotti

3

Si veda: V. Sodano, Analisi dei mercarti agroalimentari, Dipartimento di Economia e Politica agraria dell'Università Federico II di Napoli.

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11

alimentari: da una parte i paesi ricchi, con un elevato grado di autosufficienza

alimentare, dall’altra i paesi poveri, fortemente dipendenti dall’esterno. Inoltre, c’è da segnalare il ruolo crescente di una istituzione come il WTO4 nella

regolazione del mercato agroalimentare mondiale. Tale istituzione nonostante le profonde differenze esistenti tra i paesi ricchi e poveri prevede per entrambi le stesse regole, in nome di un principio di liberalizzazione degli scambi che non tiene conto delle profonde asimmetrie esistenti. Ciò rappresenta un’ulteriore “zavorra” per lo sviluppo del settore alimentare dei paesi poveri.

3. L’ANALISI ECONOMICA DEI CONSUMI ALIMENTARI

La domanda aggregata di beni alimentari è funzione di almeno quattro fattori quali: domande individuali, incremento demografico, distribuzione del reddito

nella popolazione e la distribuzione della popolazione per classi d’età. Tra i beni alimentari possiamo individuare nei consumi domestici e in quelli

extradomestici le due principali categorie. I primi riguardano l’acquisto di prodotti alimentari per uso domestico, i secondi comprendono i consumi per la

ristorazione commerciale (canale Horeca5) e per la ristorazione collettiva. Il prodotto alimentare deve possedere attributi intrinseci di qualità come: la

sicurezza alimentare (vedi patogeni, pesticidi e residui medicinali, contaminanti di acque e terreni, additivi e conservanti), attributi nutrizionali (calorie, grassi e colesterolo, sodio, carboidrati, fibre, proteine, vitamine), attributi organolettici/sensoriali (gusto, colore, freschezza, morbidezza, odore, aroma), attributi di funzione (integrità della confezione, dimensione, stile, conservabilità) e attributi di processo (benessere degli animali, autenticità del processo/origine del prodotto, rintracciabilità, impatto ambientale/ecologico, sicurezza dei

4

World Trade Organization, o Organizzazione del Commercio Mondiale, nata nel 1994 con il trattato di Marrakech.

5

Horeca, acronimo di Hotellerie-Restaurant-Café, è un termine commerciale che si riferisce al settore dell'industria alberghiera e alle imprese che preparano e servono alimenti e bevande (ristoranti, bar, caffè).

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lavoratori). Ma i soli attributi intrinseci non bastano, infatti oggi sono sempre più importanti gli attributi estrinseci di qualità, vedi i sistemi di gestione della qualità, certificazione ed etichettatura, prezzo, marca, nome del produttore, nome del distributore, confezionamento, pubblicità, paese d’origine, assortimento, garanzie, reputazione, esperienze d’acquisto passate e altre informazioni disponibili. Una classificazione diffusa degli attributi del prodotto si basa sulle modalità di ricerca delle caratteristiche qualitative e delle informazioni e individua attributi

ricerca, attributi esperienza e attributi fiducia. Nei prodotti ricerca, le caratteristiche sono note ai consumatori prima della

decisione d’acquisto: i consumatori, dati i prezzi, scelgono la qualità che preferiscono. Nei prodotti esperienza, le caratteristiche del prodotto sono note ai consumatori solo dopo il consumo: se si tratta di acquisto ripetuto, le imprese hanno un incentivo ad offrire beni di buona qualità ad un prezzo adeguato alla qualità e a fornire ai consumatori informazioni corrette circa le caratteristiche del prodotto, poiché i consumatori, dopo il consumo, acquisiscono piena informazione e si può

creare una ”reputazione” del prodotto. I prodotti fiducia possiedono caratteristiche, riguardanti il prodotto stesso o il

processo di produzione, che non sono note ai consumatori neanche dopo il consumo. Esempi di caratteristiche qualitative dei prodotti agroalimentari che li rendono “beni fiducia” sono: prodotti a “denominazione di origine controllata e protetta”, prodotti che non contengono OGM; le caratteristiche di processo potrebbero essere: agricoltura biologica, rispetto della natura, senza l’impiego dei

bambini e il rispetto del benessere animale. Alcuni consumatori saranno disposti a pagare di più un prodotto che abbia una o

più di queste caratteristiche. Il mercato per un prodotto fiducia può svilupparsi: sulla base di un atto di fiducia del consumatore (nel produttore) oppure grazie ad una garanzia fornita da terzi sulle caratteristiche del prodotto o del processo che il consumatore non è in grado di verificare da sé.

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4 . L’ANALISI ECONOMICA DEL SISTEMA AGROALIMENTARE

Il sistema agroalimentare (SAA) è costituito dall’insieme delle attività di produzione e distribuzione dei prodotti agro-alimentari fino al consumatore finale. E’ composto da: le industrie di mezzi tecnici (input) per l’agricoltura, il settore agricolo, l’industria alimentare, il settore distributivo, la ristorazione e il

consumo finale. Più generale, rispetto a quello di sistema agro-alimentare, è il concetto di sistema

agribusiness6, che comprende non solo le attività destinate alla produzione di

alimenti (food system) ma anche quelle che utilizzano materie prime agricole per

produzioni non alimentari (fiber system).

La filiera agroalimentare (si veda fig.1) individua gli itinerari seguiti dai prodotti agroalimentari nell’apparato di produzione, trasformazione, distribuzione e i differenti flussi che vi sono legati . Essa rappresenta una scomposizione del SAA in senso verticale, per categorie di prodotto. Esempi di filiere sono costituiti da

quelle dei cereali, del latte, della carne, del vino, etc. La filiera corta rappresenta un insieme di attività messe in atto dell’impresa che

consentono di raggiungere un rapporto più o meno diretto fra il produttore e il consumatore. In genere la filiera corta comprende più attività: vendita diretta aziendale, farmers market, vendita per corrispondenza, e-commerce, consegna a domicilio, trasformazione aziendale, raccolta diretta dei prodotti agricoli da parte del consumatore, fornitura di prodotti ai gruppi di acquisto, fornitura diretta dei

prodotti alla ristorazione, distributori automatici di latte e agriturismi. I benefici che la filiera corta offre sono: il disaccoppiamento, e quindi il recupero

del valore aggiunto che alternativamente va ad altri operatori della filiera, l’attenzione al mercato (contatto diretto e personalizzato, rapporto fiduciario) e il

6

L’agribusiness fu definito nel 1957 da Davis e Goldberg (USA) come sottosistema economico che aggrega tre branche del sistema economico:

- Settori ‘a monte’ dell’agricoltura (Farm supplies): industria chimica, meccanica, mangimistica, ecc. e le relative reti commerciali;

- Agricoltura in senso stretto (Farming);

- Settori ‘a valle’ dell’agricoltura (Processing and distribution);

- Industria agro-alimentare (food processing) ed industria tessile, energetica ecc. (fiber processing);

- Commercio all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti agro-alimentari, tessili, energetici (distribution).

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recupero della dimensione imprenditoriale. Anche il consumatore ha più motivi per preferire la filiera corta: minor numero di

passaggi dei prodotti attraverso intermediari, e quindi maggior freschezza, proprietà sensoriali e nutrizionali; maggior chiarezza sull’origine dei prodotti; rapporto fiduciario con il produttore; contenimento dei prezzi e la possibilità di

sostenere le piccole imprese locali. Fig.1 – Lo studio delle filiere agroalimentari.

Fonte: A. Banterle, L’evoluzione dell’industria alimentare, in Inea “Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2010”.

INPUT CHIMICI, BIOLOGICI E MECCANICI

AGRICOLTURA INDUSTRIA ALIMENTARE PRODOTTI FRESCHI DISTRIBUZIONE AL DETTAGLIO DISTRIBUZIONE ALL’INGROSSO RISTORAZIONE CONSUMI EXTRA-DOMESTICI CONSUMI DOMESTICI

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Partendo dalla definizione di distretto industriale marshalliano7 (DIM),

esploremo di seguito il concetto di distretto agro-industriale (DAI). Consideriamo il primo come la variabile spaziale nei sistemi produttivi e le piccole-medie imprese specializzate in un determinato prodotto. Marshall nel 1927 parlò di “concentramento di industrie specializzate in località particolari”. Più tardi, nel 1989, Becattini definì il DIM come un’entità socio-economica caratterizzata dalla compresenza attività in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di

una popolazione di imprese industriali8. Arriviamo così al distretto agro-alimentare che, pur derivando dal DIM,

considera la variabile spaziale nel sistema agroalimentare ed esamina sistemi

territoriali locali specializzati in un determinato prodotto agroalimentare. Gli elementi fondamentali del distretto agroindustriale sono:

 area territoriale delimitata e specializzata in una produzione agroalimentare;

 concentrazione territoriale di imprese piccole e medie dimensioni operanti nelle diverse fasi della filiera;

 scomposizione del processo produttivo e forti relazioni fra imprese operanti nelle diverse fasi della filiera;

 significativa quota produttiva dell’area mercato nazionale o internazionale e importanza dell’area nell’economia locale;

 particolare atmosfera sociale e disponibilità all’informazione. Esempi di DAI sono: parmigiano-reggiano, carni suine in provincia di Modena,

etc.

7

La definizione del distretto industriale si deve in larga parte all'economista inglese Alfred Marshall , il quale nei suoi Principles of Economics (1890) sottolineò il ruolo delle economie esterne quale elemento fondamentale grazie al quale piccole imprese possono conseguire i vantaggi tipici della produzione su grande scala, in virtù di una forte concentrazione in un'area geografica ben delimitata.

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Per valutare l’incidenza del sistema agro-alimentare nel sistema economico

nazionale si analizzano due variabili: valore aggiunto e occupazione.

Val. Aggiunto9 SAA = VA (input) + VA (agr.) + VA (i.a.) + VA (distr.) + VA

(ristor.)

Incidenza VA(SAA) = VA (SAA) / PIL * 100

Occupati10 del SAA = OC (input) + OC (agr) + OC (ia) + OC (distr) + OC (ristor) Incidenza OC(SAA) = OC (SAA) / OC TOTALI * 100.

5. LE RECENTI TENDENZE DEL SETTORE AGRO-ALIMENTARE

Alla funzione tradizionale dell’attività agricola, ossia la produzione di materie prime e prodotti finiti destinati all’alimentazione umana, si affiancano altre destinazioni “no food” dei prodotti quali: filiera del legno-arredo, filiera del tessile, filiera floro-vivaistica, filiera del tabacco, filiera dei mangimi e filiere

bioenergetiche. Caratteristica del settore agroalimentare è la multifunzionalità dell’attività

agricola che comprende i prodotti, ma anche la loro quantità, la qualità e poi i servizi annessi (es. turismo), l’ambiente, il territorio, il paesaggio ed il benessere

animale. L’industria alimentare si caratterizza per essere anticiclica e in essa si nota una

forte crescita dell’esportazioni. In Italia, questa industria presenta una struttura bipolare con la prevalenza di micro (<10 addetti) e piccole (tra 10 e 50 addetti)

imprese, da un lato, e di grandi (>250 addetti) imprese, dall’altro.

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In economia il valore aggiunto (anche abbreviato VA), o plusvalore, è la misura dell'incremento di valore che si verifica nell'ambito della produzione e distribuzione di beni e servizi finali grazie all'intervento dei fattori produttivi (capitale e lavoro) a partire da beni e risorse primarie iniziali.

La differenza tra il valore finale dei beni e servizi prodotti e il valore dei beni e servizi acquistati per essere impiegati nel processo produttivo è il valore aggiunto. Il VA del sistema agroalimentare si ottiene dalla somma dei VA di tutte le fasi della filiera agroalimentare.

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Il numero degli occupati del sistema agroalimentare è dato dalla somma degli occupati in ogni fase della filiera agroalimentare.

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Le strategie dalle imprese operanti nel settore sono influenzate dalle dimensioni aziendali e per linee generali possiamo riassumere:

Strategia delle piccole e medie imprese:

 mercati locali (opportunità interstiziali),

 prodotti di pregio, differenziazione sulla qualità, processi artigianali,

 private label e dual branding,

 primi prezzi,

 distretti industriali.

Strategie delle grandi imprese:

 economie di scala,

 differenziazione sul branding, grandi marche,

 processi di concentrazione,

 diversificazione attività,

 dual branding.

Negli ultimi anni si registra una forte contrazione del numero dei punti vendita al dettaglio tradizionali. La diminuzione del piccolo dettaglio e la crescita della

grande distribuzione organizzata GDO evidenziano la forte competizione

inter-tipo nel settore e la mancanza di un equilibrio strutturale, così che le piccole

imprese per sopravvivere devono riformulare le loro strategie. Altro fenomeno da mettere in evidenza è quello della crescita delle private label,

che consiste nell’offerta dei prodotti con il marchio del distributore tramite accordi contrattuali e disciplinari di produzioni con le imprese industriali e permette di aumentare i margini di redditività per via dell’annullamento dei costi

di ricerca e sviluppo, marketing e pubblicità. Allo stesso tempo acquista valore il concetto di qualità tanto che le grandi catene

distributive tendono sempre più a garantire la sicurezza e la qualità dei prodotti e si stanno diffondendo a livello internazionale degli standard che disciplinano le caratteristiche qualitative dei prodotti finiti.

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6. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA AGROALIMENTARE

Si è già accennato nell’introduzione come i mercati mondiali, e quindi anche il mercato agroalimentare, siano caratterizzati da una accentuata spinta alla globalizzazione, vale a dire che le imprese che vi operano si confrontano sempre

più in un’arena competitiva che travalica i confini del singolo paese. L’internazionalizzazione del settore agro-alimentare è un fenomeno

relativamente recente, se inteso a livello di tutte le sue componenti. Fino agli anni ’80, infatti, lo sviluppo delle imprese nazionali della produzione si

è perlopiù indirizzato al mercato interno: è solo a partire da quegli anni che si assiste ad una reale e progressiva internazionalizzazione delle produzioni e dei consumi, tendenza rafforzata da un parallelo processo di acquisizioni internazionali e concentrazioni nell’industria alimentare, che rappresentano a sua volta un forte stimolo alla crescita oltre i confini nazionali anche del settore distributivo. Per internazionalizzazione delle imprese si intende, quindi, che l’ambito di azione dell’impresa non si limita a una sola realtà nazionale, ma si estende a più paesi. Un’impresa può essere presente all’estero offrendo i propri prodotti,

mediante investimenti e altre modalità. Tab 1. - Modalità di internazionalizzazione

COMMERCIO INTERNAZIONALE C.I. Presenza estera limitata al prodotto, flussi di import – export.

INVESTIMENTO DIRETTO ESTERO I.D.E.

Filiali commerciali e filiali produttive: crescita interna; acquisizioni: crescita esterna.

ACCORDI AC

Mentre il commercio internazionale ha come sole finalità l’espansione dell’area di mercato e l’approvvigionamento di materia prima, effettuare un investimento

(19)

19

alle suddette finalità, la riduzione dei costi di lavoro, la riduzione dei costi di trasporto, la possibilità di evitare politiche protezionistiche e le fluttuazioni

monetarie, la conoscenza degli aspetti istituzionali, sociali, ecc. Gli accordi vengono raggiunti al fine di ridurre i costi di approvvigionamento, di

distribuzione, di R&S, logistici, ecc. Con internazionalizzazione del mercato, invece, si intende un sistema economico

aperto in cui tra i paesi si realizzano scambi internazionali, in entrata e in uscita,

di beni e di capitali, con barriere commerciali nulle o molto ridotte. Il modello di Heckscher-Ohlin11 individua nell’export la soluzione ideale nei casi

in cui si operi in mercati concorrenziali con prodotti non differenziati. Ogni paese avrà una dotazione di fattori produttivi che saranno costosi o meno a seconda dell’abbondanza delle risorse in questione. Si avrà così un costo comparato da confrontare con il vantaggio comparato che un paese otterrebbe specializzandosi

in un tipo di produzione, in modo tale da incentivare così l’export. In genere una nazione esporta i prodotti realizzati con i fattori più abbondanti ed

importa i prodotti che devono essere realizzati con i fattori più scarsi e quindi più costosi. Nel complesso il saldo assoluto dello scambio commerciale di un prodotto o di un settore è dato dalla differenza tra export e import, mentre le formule per comprendere l’incidenza12

dell’import e dell’export sul valore della produzione sono:

Incidenza(imp)= IMP / VdP *100; Incidenza(exp)= EXP / VdP *100.

11

Il modello di Heckscher-Ohlin (HO), chiamato anche modello della proporzione dei fattori, è un modello matematico di equilibrio economico generale sviluppato nell'ambito della teoria del commercio internazionale.

12 L’espressione “valore della produzione” deve intendersi, in senso lato, “produzione economica”.

Pertanto, la stessa è riferita, oltreché alle imprese industriali, a quelle mercantili e di servizi. L’incidenza dell’import e dell’export è data quindi dal rapporto dei valori import ed export sul valore

(20)

20

7.

ASPETTI

ECONOMICI

DELLA

SOTTO-NUTRIZIONE

E

DELL’OBESITA’ MONDIALE

Due problematiche legate al settore agroalimentare meritevoli di un approfondimento sono la sotto-nutrizione e l’obesità. Quasi tutti i Paesi del mondo devono affrontare questi diversi tipi di malnutrizione con costi elevati:

più di 3500 miliardi di dollari all’anno fra costi diretti e indiretti. La malnutrizione è “uno stato di squilibrio, a livello cellulare, fra il rifornimento

di nutrienti e di energia (troppo scarso o eccessivo) e il fabbisogno del corpo per

assicurare il mantenimento, le funzione, la crescita e la riproduzione13”. E’ necessario sapere che sono diversi e complessi i fattori che concorrono alla

malnutrizione in generale. Oltre alla carenza o all’eccesso di cibo, bisogna

prendere in considerazione l’ambiente economico, sociale, politico e culturale. Di seguito alcuni esempi di fattori legati allo stile di vita:

 basso livello di educazione alimentare e incapacità di scegliere regimi alimentari equilibrati;

 disponibilità di prodotti alimentari privi di zucchero e grassi a basso prezzo;

 ampio consumo di snack, dolci e salati, bevande zuccherate, cibo “spazzatura”;

 minor tempo a disposizione per la preparazione dei pasti, scarsa attività fisica e vita sedentaria.

Altri fattori sono invece legati alla produzione di cibo e allo spreco alimentare: - Circa il 60% degli ecosistemi terrestri è degradato o utilizzato in modo

non sostenibile.

- Solo pochi Paesi in via di sviluppo sono in grado di produrre una quantità di frutta e verdura sufficiente a garantire il consumo pro-capite raccomandato dall’OMS.

(21)

21

- La distribuzione del cibo non è ripartita in modo equo: il 12,5% della popolazione non dispone delle calorie necessarie per condurre una vita sana.

- Costi relativamente elevati di frutta, verdura, pesce e cereali.

- Ogni anno 1/3 del cibo prodotto viene sprecato: sarebbe sufficiente a cancellare il problema della fame nel mondo.

- Nei Paesi in via di sviluppo il 40% dei raccolti va perso a causa della mancanza di impianti di stoccaggio.

- In Europa ogni cittadino spreca circa 180 kg di cibo l’anno.

Le persone sottonutrite sono più di 840 milioni. In termini economici, i costi diretti e indiretti della sotto-nutrizione mondiale

ammontano a 2100 miliardi di dollari all’anno. Quali sono, quindi, le cause dell’emergenza alimentare? La siccità e i fenomeni

naturali, i conflitti e le guerre civili, ma non solo. Nonostante il forte aumento della popolazione nei paesi in via di sviluppo, la

disponibilità di alimenti pro capite è cresciuta nel tempo. Ciò si è verificato perché la produzione agricola mondiale è cresciuta ad una velocità maggiore di quella alla quale è cresciuta la popolazione, il vero problema sta nei vincoli che

impediscono l’accesso agli alimenti. La principale causa della cronica insufficiente disponibilità di cibo della

maggioranza della popolazione mondiale non risiede nei limiti delle risorse e della capacità produttiva agricole, bensì nel basso potere d’acquisto di tale

popolazione che si traduce nell’impossibilità di accesso alle risorse alimentari. L’economista indiano Amartya Sen è stato tra gli studiosi che tra i primi ed in

modo particolarmente incisivo ha cercato di spiegare la fame nel mondo in termini di impossibilità di accesso alle risorse, e non più in termini di dotazioni di risorse naturali di un paese. Tutto il suo lavoro è ruotato intorno al concetto di

entitlements, vale a dire di quei titoli (diritti di proprietà, diritti politici, diritti

informali e formali basati su leggi e convenzioni nazionali e locali) che permettono al singolo individuo l’accesso ai generi di consumo di prima necessità. Ad esempio in molti Paesi in via di sviluppo i limitati diritti civile

(22)

22

concessi alle donne le rendono particolarmente esposte alla povertà ed alla

sottoalimentazione e con loro i bambini e le bambine in primo luogo. La produzione di derrate alimentari è concentrata nei paesi sviluppati il che vuol

dire che i paesi poveri devono acquistare parte del cibo necessario da questi

ultimi. Per quanto riguarda il fenomeno dell’obesità, esso è in rapida ed enorme

espansione in tutto il mondo e, dopo il fumo, rappresenta probabilmente il

secondo grande fattore di rischio per la salute nell’era moderna. Oggi 1,4 miliardi di persone sono in sovrappeso, di cui 500 milioni rientrano allo

stesso tempo nella categoria degli obesi. Il sovrappeso gravo è uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di molte

patologie, tant’è che nel 2012, per la prima volta nella storia, il peso di queste patologie legate alla cattiva alimentazione ha superato quello delle malattie

determinate da un insufficiente apporto calorico. L’obesità influenza pesantemente anche lo sviluppo economico e sociale, e per

capire l’entità del fenomeno basta dire che il 65% della popolazione mondiale vive in Paesi dove sovrappeso e obesità sono responsabili di un numero di

decessi maggiore rispetto a quelli correlati alla mancanza di cibo. Ciò comporta costi diretti (che gravano sulla società e sono connessi alle risorse

necessarie per il trattamento dell’obesità) e costi indiretti ( gravano sul paziente e riguardano prevalentemente le spese per le terapie), quantificabili in 1400 miliardi di dollari.

(23)

23

Capitolo II

LA GRANDE DISTRIBUZIONE ALIMENTARE: CENNI

STORICI E REALTA’ ATTUALE

1. LE PRIME FORME DI DISTRIBUZIONE NEL SETTORE

ALIMENTARE

Quella della distribuzione alimentare è una storia lunga quasi un secolo e mezzo, iniziata nel 1870, e che dura fino ad oggi evolvendosi continuamente. I primi

chain stores, meglio conosciuti come i negozi a catena, hanno origine alla fine

dell’Ottocento. Negli stessi anni si diffondono i magazzini centrali che costituiscono il sistema irrinunciabile che permette il ricevimento di carichi completi dai fornitori, la gestione dell’inventario e del pronto rifornimento dei negozi, consentendo di

evitare le rotture di stock.

Potremmo identificare in due periodi distinti, la nascita dei negozi a catena e l’avvento del supermarket, le più grandi rivoluzioni nella storia del commercio. Sappiamo, però, che l’evoluzione del commercio passa anche da invenzioni e dallo sviluppo di processi e strumenti che hanno segnato gli anni avvenire: su tutte la lampadina ad incandescenza che Edison brevettò nel 1880 e la catena di

montaggio ideata da Ford, che diede una spinta decisiva alla motorizzazione.

Senza dimenticare poi, anche passaggi storici meno conosciuti quali il packaging, l’imballaggio, ovvero il confezionamento del prodotto, la refrigerazione ed i

trasporti. Uno strumento centrale nella vendita al dettaglio fino all’avvento dell’elettronica

fu il cash register, un calcolatore di contante inventato da James Ritty nel 1880. Altrettanto importante fu l’introduzione nei negozi degli espositori per i prodotti deperibili, in Italia chiamati “freschi” (carni, latticini ecc.), che devono essere conservati refrigerati. Dapprima furono semplici ghiacciaie, ma sarà soltanto nel 1939 che Harry Hussmann, la cui omonima azienda è ancora oggi il più grande

(24)

24

fabbricante americano di questa tipologia di attrezzature, inventerà il refrigerated

open-case, cioè il “banco refrigerato aperto”.

Quando parliamo di commercio dobbiamo essere consapevoli che i primi grandi passi vennero fatti principalmente negli Stati Uniti d’America e, in secondo

luogo, in Gran Bretagna.

Caso emblematico è quello dei due fratelli Hartford che condussero un’azienda di vendita di tè per corrispondenza, la Great Atlantic and Pacific Tea, nota come A&P. Intorno al 1870 pensarono di sviluppare l’impresa con la vendita al dettaglio ed aprono i primi negozi di drogheria, grocery. Via via vi aggiungeranno dei banchi di vendita di prodotti deperibili, dando spazi in affitto ad operatori terzi, macellai, fruttivendoli, per poi, più tardi, gestirli direttamente.

Danno inizio così alla Chain Store Revolution14.

Essi cambiarono l’economia di scala, introdussero la standardizzazione dei negozi, affinarono la logistica e crearono la centralizzazione; infatti, gestendo numerosi negozi, non poterono più affidarsi per il rifornimento ad una congerie di grossisti e di mediatori, e divennero i grossisti di se stessi. Già nel 1890 disponevano di vari centri di immagazzinamento e distribuzione. Tutto ciò portò, nel tempo, ad acquisti su larga scala, ad una direzione

centralizzata: acquisti, progettazione, contabilità, ecc.

La rete di magazzini centrali consentì un miglior controllo degli inventari, una miglior previsione delle vendite e dunque dei rifornimenti a monte; e, a valle, un eccellente servizio ai propri negozi, onde evitare l’out-of-stock, ovvero la

mancanza degli articoli sullo scaffale. Il conseguente taglio dei costi fu trasferito alla clientela sotto forma di una

progressiva discesa dei prezzi.

Il ricarico, la differenza tra il prezzo di acquisto e il prezzo alla vendita, tradizionalmente del 50-60%, scese progressivamente verso il 20%. La “produttività”, cioè l’output per man hour, il prodotto per uomo/ora, crebbe vertiginosamente.

14

Oggi, a livello accademico, si arriva ad affermare che la A&P è stata per il commercio al dettaglio ciò che Henry Ford è stato per l’automobile

(25)

25

A&P non fu sola di là dell’Atlantico: altre aziende si unirono a tale sistema, ad

esempio Safeway’s e Kroger, ancora oggi presenti sul mercato. Negli anni successivi la potenza delle catene di negozi prevalse, il che diede

luogo ad una battaglia mediatica e politica furibonda.

Molti Stati dell’Unione tassarono le chain stores, ad esempio chiesero una somma per ogni punto vendita sopra i cinque negozi, o altre tasse volte a colpire

questo nuovo fenomeno15.

I grossisti, raggruppati nella USWGA16, furono i nemici più accaniti di questo modello di commercio. A livello legislativo, la faccenda sfociò, nella primavera del 1936, nel tanto dibattuto e combattuto Robinson-Patman Act17, che mise un freno al potere contrattuale delle catene, consentendone, però, la sopravvivenza. Il Robinson-Patman Act segnò un cambiamento e un turning point definitivo

nella storia del commercio. Una seconda chiave di volta nella storia del commercio è rappresentata dalla

vendita self-service. Tale idea trovò affermazione dopo la spinta della terribile

crisi del 1929. Michael Cullen, non trovando l’appoggio di A&P e Kroger, di cui era stato dirigente, si adoperò per conto proprio aprendo il primo a Long Island,

fuori New York:

- ubicazione periferica assai accessibile, parcheggio gratuito relativamente grande;

- un capannone a buon mercato con un affitto bassissimo;

- una superficie di vendita più grande ed un ampio assortimento; - molti prodotti “di marca”, che le catene, coi loro marchi privati, avevano assai trascurato;

- nessun credito, nessuna consegna a domicilio;

- self-service e tanta pubblicità (via giornali e radio).

Da qui, bassi costi, bassi margini, alti volumi.

15

In un recente incontro all'Accademia de Georgofili dal titolo "Dai prodotti agricoli primari ai consumatori. I percorsi della storia", Bernardo Caprotti, proprietario della catena Esselunga, ha presentato una relazione sulla nascita e sviluppo della distribuzione alimentare moderna.

16

U.S. Wholesale Grocers' Association.

17

Il Robinson–Patman Act del 1936 è una legge federale degli Stati Uniti che vieta le pratiche anticoncorrenziali da parte dei produttori, in particolare la discriminazione di prezzo.

(26)

26

Quando, nel 1936, Michael Cullen morì, aveva aperto quindici negozi con

l’insegna King Kullen e creato la prima catena di supermercati18. Era nata una nuova era, quella del supermarket. Il supermarket non suscitò tutte

quelle contestazioni e quelle battaglie politiche dell’era delle “catene”, tuttavia il suo sviluppo non fu così prorompente. L’opinione allora diffusa fu che

si trattasse di un qualcosa di provvisorio, una risposta occasionale alla crisi

incombente, alla mancanza di denaro delle famiglie. La maggior parte non capì, nemmeno in America, che il supermarket era la

logica evoluzione dei negozi a catena. Solo verso il 1940 le catene di negozi esistenti iniziarono a sperimentare la

riconversione. Cioè la chiusura di 4 o 5 negozi per rilocalizzarsi in spazi più grandi e a self-service. Negozi che offrivano tutte le merceologie, anche tutti i

deperibili, gestite direttamente.

In Europa il supermarketing inizierà solo dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1950 Sainsbury’s, una grande catena di negozi inglese, apre il suo primo

self-service, trasformando un negozio di circa 300 metri quadrati, già esistente, a

Croydon in London Road. In Italia l’Esselunga aprì a Milano, in un garage, il suo primo supermarket nel

1957, 480 metri quadrati e 2.500 articoli. Fig.1 – Uno dei primi supermarket esselunga.

18

Dall’intervento di Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, presso l’Accademia dei Georgofili di Firenze. “Nascita e sviluppo della distribuzione alimentare moderna” - 12/02/2014, www.georgofili.it.

(27)

27

Nel nostro Paese tre leggi sul commercio hanno segnato il XX secolo: - La prima, quella sui “magazzini a prezzo unico” del 1938, assoggettava

l’ottenimento della licenza per un supermercato alle Prefetture, su parere vincolante delle Camere di Commercio. Questa legge prescriveva che “ogni singolo pezzo posto in vendita” fosse pre-imballato e pre-prezzato. Fortunatamente, negli Usa, nel 1940, era stato inventato il film termoretraibile, oltre al sacchetto di cellophane. Questo consentì la vendita dei deperibili, carni, frutta ecc. propriamente confezionati. Servire il cliente, tagliargli un pezzo di

carne, era severamente vietato. - La seconda, la legge n.426 del 197119, liberò i supermarket almeno dall’obbligo

del pre-imballaggio e della pre-prezzatura dei prodotti in vendita. Fu l’inizio delle nostre gastronomie e della frutta e verdura sfuse. Portò, inoltre, il limite di superficie massima consentita dai Comuni a 1.500 metri e limitava drasticamente

gli orari di apertura. - La terza, la legge Bersani del 1998, classificò le superfici in “medie superfici di

vendita” fino a 2.500 metri, autorizzabili dai Comuni; e oltre tale soglia, “grandi”

di competenza regionale. Altre liberalizzazioni minori nel corso degli anni hanno reso più moderno il

commercio italiano. Nel 1969 il sale fu liberato dal tabacco. Prima di allora il sale si poteva acquistare solo nelle rivendite di Sale & Tabacchi. Nel 1975 venne eliminato l’obbligo di acquistare tutti i deperibili esclusivamente nei cosiddetti Mercati Generali, si ebbe così la facoltà di acquistare direttamente dai produttori, quindi anche di “centralizzare” i prodotti deperibili. Nel 1982 il Ministro Marcora liberalizzò gli orari di apertura, che in precedenza erano rigorosamente limitati ad un massimo di 8 ore giornaliere e 44 ore alla settimana, con mezza

giornata di chiusura obbligatoria. Infine il Ministro Bersani nel 2006 spinse ed ottenne la liberalizzazione del pane,

la cui produzione era tassativamente “concessionata” e “contingentata”. E così, piano piano, l’Italia in qualche modo è progredita, ma con una lentezza

19

(28)

28

tale da impedire la formazione tempestiva di grandi aziende di distribuzione

performanti, delle quali ora lamenta la mancanza. Doveroso è un accenno alle alternative europee discount e ipermercato. La prima

sorse in Germania dove, nel 1945, i fratelli Albrecht furono gli inventori dell’hard discount. Una formula rigorosissima e vincente che da poco ha dovuto cedere a qualche apertura assortimentale e di servizio per soddisfare la domanda di un mercato più ricco ed esigente, perdendo un po’ della sua purezza. I discount

offrono soprattutto prodotti a marchio privato. Quella dell’ipermercato, invece, è stata una formula formidabile e ancora lo è nei

mercati emergenti, non serviti. Tre francesi, i due fratelli Denis e Jacques Defforey e Marcel Fournier, aprirono il primo ipermercato nel 1963. Per decenni è stato un boom. L’alimentare di base a bassissimo prezzo per attirare la clientela, poi, in vastissime superfici, l’offerta di tutto il resto: frigoriferi,

televisori, jeans, biciclette, gomme per le automobili. Infine, chiudiamo questa parentesi doverosa riguardo ai principali step della

grande distribuzione alimentare facendo presente, che da qui in avanti, sempre più il commercio alimentare dovrà confrontarsi con il web, vedi la sempre più diffusa spesa on-line.

2. IL SETTORE ALIMENTARE: IL PRODOTTO COMMERCIALE

Dopo aver fatto riferimento, nel precedente paragrafo, a quanto accaduto nel XIX e nel XX secolo nel settore alimentare, ed in particolare nel settore della distribuzione alimentare, è giunto il momento di porre la nostra attenzione al

settore per come si presenta oggi. La grande distribuzione alimentare rappresenta, nel panorama economico italiano

dei giorni nostri, uno dei settori più dinamici e dal maggior peso economico. Dopo un periodo di grande crescita, sia localizzativa che di fatturato, dagli anni

(29)

29

imprese. Questo perché si è raggiunta un’alta presenza di punti di vendita moderni e, inoltre, per via del fatto che il nostro paese è da sempre considerato un mercato con ottime prospettive da parte di molte società estere operanti a

livello europeo. Di fatto, i tempi di sviluppo facile, che hanno caratterizzato per decenni il settore

alimentare, si sono conclusi, tant’è che non è più sufficiente aprire un nuovo

punto vendita per aumentare il fatturato, o meglio ancora, la redditività. Bisogna prestare sempre più attenzione alle problematiche di efficienza e di

efficacia dell’impresa e, quindi, alle gestione razionale delle risorse. E’ così che l’analisi dei costi viene riconosciuta come possibile arma competitiva e come

strumento direzionale. Ma cerchiamo di far chiarezza riportando qui alcune delle informazioni, molte

delle quali sicuramente già note al lettore, necessarie a capire la struttura del settore. Innanzitutto il concetto di azienda commerciale: essa è una tipica azienda di servizi20. Le principali funzioni commerciali, ovvero i servizi che danno giustificazione economica al commercio al dettaglio, possono essere ricondotte a:

 il frazionamento dei beni omogeni;

 l’assortimento dei beni eterogeni;

 il deposito;

 l’assunzione del rischio commerciale;

 la determinazione del prezzo;

 l’informazione sul prodotto e la promozione delle vendite;

 la prossimità al mercato del consumo.

In base a parametri come le dimensioni del punto di vendita, l’ampiezza e la profondità dell’assortimento, la localizzazione del punto vendita, le

20

Non tutti in dottrina concordano con questa affermazione. Amodeo, ad esempio, parla delle aziende commerciali come di “aziende di produzione indiretta”. Si veda: D. Amodeo, Ragioneria generale delle

(30)

30

caratteristiche fondamentali del servizio (self-service, vendita assistita o tecnica mista), si possono individuare, limitandosi a quelli tipicamente presenti nel portafoglio delle imprese della grande grocery21, i seguenti prodotti22:

MINIMARKET

Piccole dimensioni (tra i 200 e i 400 mq). Assortimento relativamente modesto, composto da prodotti e marche ad alta rotazione:

- prodotto dry;

-vendita assistita al banco per salumeria e prodotti freschi.

Generalmente localizzato nelle aree urbane e privo di parcheggio.

SUPERMARKET

Dimensioni medio-grandi, con superficie di vendita

superiore a 400 mq. Assortimento ampio, con prodotti di largo consumo ed

in massima parte preconfezionanti nonché con articoli non alimentari di uso domestico corrente. Tecnica di vendita mista: al self-service per il dry grocery si

accompagna la vendita al banco per i prodotti freschi. Sono situati in aree urbane periferiche e

semiperiferiche, sempre dotati di ampi parcheggi.

IPERMERCATO Enormi dimensioni, non minore di 2.500 mq. Assortimento ampissimo (generi alimentari, ma anche giocattoli, abbigliamento, arredamento, articoli da regalo, ecc.). La tecnica di vendita, che era essenzialmente a libero servizio, è ora, per molti reparti (elettrodomestici, impianti radio, TV), assistita.

21

Storicamente grocery indicava i prodotti di drogheria ma ha finito per essere estesa a tutti i prodotti che via via si aggiungevano a quelli originari, fino a comprendere tutti i beni inclusi nell’assortimento tipico di un supermercato (beni alimentari ed altri beni di uso comune di largo e generale consumo).

22

Si veda: P. Stampacchia, La tipologia delle forme di distribuzione al dettaglio, Salerno, Centro Stampa dell’Università degli Studi di Salerno, 1975.

(31)

31 DISCOUNT

Dimensioni medie, superficie che varia dai 200 ai 400 mq. Assortimento relativamente modesto, limitato a

prodotti alimentari non deperibili e ad alta rotazione. Politiche dei prezzi estremamente concorrenziali

(basso coefficiente di servizio offerto). Localizzati nelle aree urbane e di solito non offrono un

servizio di parcheggio ai loro clienti.

Fonte: S. Pozzoli, Le imprese di grande distibuzione alimentare. Criteri di analisi di costi, Padova, CEDAM, 1993

Questa classificazione di tipo strutturale soddisfa l’esigenza di tracciare un inquadramento di carattere generale. Il prodotto dell’impresa commerciale, dunque, consiste nel servizio fornito dall’azienda di intermediazione più che nel

bene intermediato.

Per quanto riguarda il ciclo di vita dei prodotti commerciali, questo può essere in breve descritto nel seguente modo23, in linea con l’impostazione del wheel of

retailing24: inizialmente essi attraversano una fase di introduzione sul mercato, nel corso del quale il prodotto inizia ad essere conosciuto ed apprezzato dai potenziali clienti. Spesso in questo periodo, per soddisfare il bisogno di merci a prezzo basso e per incentivarne il consumo, vengono effettuate politiche di forte discount. In questo periodo vi è inoltre una bassa redditività, dovuto ad un livello

di vendita ancora insufficiente e la difficoltà nel coprire gli investimenti iniziali. In un secondo momento, quando il nuovo canale di vendita incontra il favore dei

consumatori, vi è la fase di rapido sviluppo che si concretizza in una espansione localizzativa dei punti vendita che rispondono alle caratteristiche del nuovo prodotto commerciale e di un aumento della sua quota di mercato, conquistata a spese delle altre forme distributive (è la cosiddetta inter-trade competition). Fase

23

Si veda: S. Pozzoli, Le imprese di grande distribuzione alimentare. Criteri di analisi dei costi, Padova, CEDAM, 1993, p.19.

24

Si veda: W.R. Davidson – A.D. Bates – S.J. Bass, The retail life cycle, in <<Harvard Business Review>>, November-December 1976. Si veda, inoltre: J.B. Mason – M.L. Mayer, Modern retailing.Theory and

(32)

32

contrassegnata dall’aumento dei punti vendita che ha luogo sia per l’impulso dei pionieri sia per imitazione da parte dei concorrenti, operazione molto agevole nel settore distributivo poiché i prodotti offerti sono in genere facilmente ripetibili. La competizione inter-trade accompagna il prodotto per tutta la fase di sviluppo fino alla sua maturità, quando oltre a manovrare la leva del discount, le aziende devono aumentare il coefficiente di servizio del prodotto, il che è essenziale per accentuare gli elementi di differenziazione. Ne consegue una riduzione dei margini. Segue, infine, il declino, periodo in cui il prodotto cade egli stesso vittima di una inter-trade competition a vantaggio delle nuove formule commerciali che

vengono lanciate sul mercato. Dopo aver visto i quattro modelli a cui sono riconducibili le imprese che operano

oggi nel settore alimentare e le fasi del ciclo di vita del prodotto commerciale, dobbiamo chiederci adesso, quando un’impresa operante nel vasto comparto del commercio alimentare al dettaglio può essere definita “impresa di grande distribuzione”. Affinché ciò accada è necessario che l’azienda soddisfi alcune condizioni25:

- l’utilizzo di un canale di vendita, o almeno una parte, di prodotti commerciali;

- un’organizzazione in “catena” che consenta di governare una pluralità di

punti di vendita, siano essi della stessa tipologia o di diverse categorie. Questa classificazione è molto generica e sono molte le aziende che rispondono a

questi requisiti; per questo motivo in dottrina sono stati studiati più modelli di classificazioni per dare più evidenza alle caratteristiche distintive delle aziende di

grande distribuzione.

Proponiamo nella tabella 1 il modello di Cuomo che costruisce una matrice i cui parametri principali sono i gradi di integrazione istituzionale e funzionale.

25

Si veda: S. Pozzoli, Le imprese di grande distribuzione alimentare. Criteri di analisi dei costi, Padova, CEDAM, 1993, p.28.

(33)

33

Tab.1 – I gruppi strategici nel settore distributivo sulla base delle forme di integrazione aziendale. INTEGRAZ. FUNZIONALE ORIZZONTALE VERTICALE INTEGRAZ. ISTITUZIONALE GIURIDICA Imprese e succursali Gruppi Aziend.; Catene societarie OPERATIVA Gruppi d’acquisto; Cooperative di consumo; Negozi a plurigestione; Supergruppi; Unioni volontarie; CONTRATTUALE Franchising distributivo; Shopping centers Franchising produttore-distributore; Franchising grossista - distributore Fonte: G.Cuomo, Funzioni, strutture, strategie delle imprese commerciali complesse,

Padova, CEDAM, 1984.

Uno studio del comportamento delle varie imprese in relazione a un set di parametri, come la struttura organizzativa, il portafoglio prodotti/canali e la presenza territoriale nei mercati, la cultura di marketing, le modalità di sviluppo della marca commerciale e i gradi di internazionalizzazione e di diversificazione,

permette un’ulteriore classificazione del fenomeno del grande dettaglio26. Ultimo criterio che prendiamo in considerazione è quello proposto da Stanton e

Varaldo27, secondo cui la ripartizione migliore delle imprese di grande

26

Si veda: D. Fornari, Struttura e strategie di sviluppo del sistema distributivo, Milano, SDA Bocconi, 1991.

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