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La Posilecheata, una still-life fiabesca

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Academic year: 2021

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ISBN 978-88-99200-65-7 9 7 8 8 8 9 9 2 0 0 6 5 7

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La forma breve e, all’interno di

que-sta categoria, la novella ebbero molto

a che vedere con la riformulazione

dell’enciclopedia europea tra il 1400

e il 1650. I meccanismi di riscrittura e

di diffusione sotterranea della materia

novellistica italiana, che si conserva,

perpetua e propaga attraverso le

lette-rature europee, sono proprio ciò cui

abbiamo voluto alludere nel titolo di

questa miscellanea di studi per mezzo

delle due metafore, già ben radicate

in ambito critico, poetico e

intertestua-le, del ‘rizoma’ e del ‘palinsesto’ che

vi campeggiano. Il primo sembra un

modello particolarmente adatto, per

le sue caratteristiche fisiche e spaziali,

a rappresentare sintagmaticamente

la diffusione di temi, motivi e trame,

come quella veicolata dalla novella,

una diffusione segreta nei suoi ricorsi,

che si presentano ai nostri occhi come

privi persino di una ragione logica a

guidarli, soggetti all’azzardo di un caso

che, qui, là, o in più luoghi

contempo-raneamente, permetta loro di trovare

terreno fertile in cui far spuntare

rigo-glioso un nuovo germoglio sotto

for-ma di una pièce teatrale, una novella

o anche solo un episodio all’interno

di un’opera più ampia. Il ‘palinsesto’,

proposto da Genette quale paradigma

di riscrittura sulla traccia di un testo

precedente, delinea una forma di

tran-stestualità, atta ad esemplificare questo

tipo di propagazione che caratterizzò

particolarmente la fortunata ricezione

della novella nell’Europa

rinascimen-tale e barocca.

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Questo volume riunisce in sé i

risul-tati di buona parte delle

comunica-zioni presentate al Convegno

Inter-nazionale di Studi “I novellieri italiani

e la loro presenza nella cultura

euro-pea del Rinascimento e del Barocco”

(Torino, 13-15 maggio 2015). Tale

in-contro scientifico si poneva a

con-clusione delle attività di ricerca di un

gruppo di studiosi dell’Università di

Torino (Dipartimenti di Studi

Umani-stici e di Lingue Straniere) che

nell’ar-co di tre anni, nell’ar-col patrocinio e il

so-stegno finanziario della Compagnia

di San Paolo, ha realizzato

un’appro-fondita indagine sulle modalità e le

caratteristiche della diffusione della

novella italiana rinascimentale nelle

varie culture dell’Europa occidentale.

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€ 34,00

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ccademia University Press

Novellieri italiani in Europa

testi e studi

collana diretta da

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I novellieri italiani e la loro presenza nella cultura europea: rizomi e palinsesti rinascimentali

IV

© 2015

Accademia University Press via Carlo Alberto 55 I-10123 Torino

Pubblicazione resa disponibile

nei termini della licenza Creative Commons

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

Possono applicarsi condizioni ulteriori contattando info@aAccademia.it

prima edizione dicembre 2015 isbn 978-88-99200-65-7

edizione digitale: www.aAccademia.it/novellieri4 book design boffetta.com

Questa miscellanea di studi si colloca tra i risultati del Progetto di Ricerca “Italian Novellieri and Their Influence on Renaissance and Baroque Eu-ropean Literature: Editions, Translations, Adaptations” dei Dipartimenti

di Studi Umanistici e di Lingue e Letterature Straniere e Culture Mo-derne dell’Università degli Studi di Torino, finanziato dalla Compagnia di San Paolo attraverso l’accordo con l’Università per lo sviluppo della

ricerca scientifica.

The articles included in this volume have been selected by means of a peer review process. Volume stampato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino

(3)

V

Indice Introduzione Guillermo Carrascón

Chiara Simbolotti XI

I novellieri italiani e la loro presenza nella cultura europea: rizomi e palinsesti rinascimentali

Francia e Germania Perrault et Basile:

Les Fées est-il un palimpseste? Patricia Eichel-Lojkine 5

La «Vie désordonnée» di Bianca Maria di Challant: dalla iv novella di Bandello all’histoire tragique

di Belleforest Monica Pavesio 28

L’Amour en son throne: appunti su una traduzione francese

secentesca delle Novelle Amorose

di Giovan Francesco Loredano Laura Rescia 40

La storia di Donna Francesca che umilia i suoi spasimanti (Dec. ix, 1) nelle versioni tedesche

di Arigo e Hans Sachs Maria Grazia Cammarota 56

Ammonire divertendo: Sachs, Boccaccio e un Decameron

(apparentemente) moralizzato Raffaele Cioffi 74

The King and the Countess, or:

Bandello at the Baltic Coast Manfred Pfister 87

La ricezione delle novelle del Boccaccio in Germania

nella seconda metà del xv secolo Maria Grazia Saibene 110

Il Calandrino tedesco di Arigo Chiara Simbolotti 126

Inghilterra

Ricezione europea del Cunto de li Cunti di Basile:

la traduzione inglese di John Edward Taylor Angela Albanese 143

«Fu già in Venezia un moro molto valoroso».

Giraldi Cinzio e Shakespeare Massimo Colella 158

«This noble and godlye woman»:

Caterina d’Aragona e The Historye of Grisilde the Seconde

di William Forrest Omar Khalaf 173

Boccaccio e Shakespeare. La iv giornata del Decameron,

l’amore e il tragico sulla scena Chiara Lombardi 188

Barnabe Riche e la novella italiana. Traduzione e reinvenzione

(4)

VI

Indice ‘Scenari’ europei del Rinascimento italiano: dagl’inganni di Nicuola (già Lelia) a Viola

ne La dodicesima notte Eva Marinai 217

La moral filosofia di Doni:

l’iconografia della traduzione inglese Patrizia Pellizzari 234

Italia

La Posilecheata, una still life fiabesca Clara Allasia 255

Iter gratia itineris: il valore delle peripezie mediterranee

nel Decameron Marcello Bolpagni 268

Dalla novella alle scene: Giletta di Narbona

nella Virginia di Bernardo Accolti Matteo Bosisio 285

La transmisión de motivos novelescos a través de la comedia nueva: Don Gastone di Moncada

de Giacinto Andrea Cicognini Guillermo Carrascón 298

La funzione Alatiel. False vergini

in Pietro Fortini Nicolò M. Fracasso 312

La raccolta delle Cento novelle amorose

de’ Signori Accademici Incogniti Tiziana Giuggia 324

Indicazioni per curare la malinconia nella novellistica italiana.

Lezioni per il «ben vivere» Béatrice Jakobs 339

Riscrivere e rileggere Bandello.

Il destino del paratesto tra Histoires tragiques (1559)

ed edizione milanese (1560) Nicola Ignazio Loi 350

Griselda, tragicommedia del balì Galeotto Oddi,

un manoscritto torinese del sec. xvii Jean-Luc Nardone 364

«Bisogna scriver de’ romanzi, chi vuol encomi»: Francesco Pona e la costruzione

della «macchina meravigliosa» Laura Nay 381

La Griselda: recreaciones musicales de un argumento

boccacciano en el siglo xviii Juan José Pastor Comín 395

Spagna

Palabras en fuga o silencios en la Primera parte

de las novelas de Giraldi Cinzio Mireia Aldomà García 413

Bandello y Cervantes. Novelle, Histoires tragiques,

Historias trágicas exemplares: hacia La fuerza de la sangre

(5)

Indice

VII

Educare e divertire: La Zucca del Doni en Spañol

e la creazione di un nuovo destinatario Daniela Capra 444

Lorenzo Selva en el origen del Para algunos

de Matías de los Reyes Alba Gómez Moral 459

Materias deshonestas y de mal ejemplo:

programa ideológico y diseño retórico en la narrativa italiana del siglo xvi en España David González Ramírez 473

El motivo del marido celoso: de la novella italiana a la novela corta española del siglo xvii. Imitación y reescritura en Cervantes,

Castillo Solórzano y Juan de Piña Christelle Grouzis Demory 491

Teoria e pratica dell’utilità della novella. Bonciani, Bargagli,

Sansovino e Cervantes José Manuel Martín Morán 506

La teatralización del mito de Griselda en El ejemplo

de casadas y prueba de la paciencia: a propósito

de los personajes María Muñoz Benítez 522

La recepción literaria en el Siglo de Oro: hacia el Decamerón

de Lope de Vega Juan Ramón Muñoz Sánchez 539

De Italia a España: la búsqueda y la creación del marco en Los cigarrales de Toledo,

de Tirso de Molina Manuel Piqueras Flores 556

Política de la amistad en De la juventud,

de Francisco de Lugo y Dávila Carmen Rabell 569

Bandello frente a la comedia del Siglo de Oro:

el caso de Linajes hace el amor Ilaria Resta 585

La tradición griseldiana y las innovaciones en la segunda

patraña de Timoneda Francisco José Rodríguez Mesa 604

El Fabulario de Mey y los novellieri italianos Maria Rosso 619

Los novellieri en Mateo Alemán: las novelas en el

Guzmán de Alfarache (1599-1604) Marcial Rubio Árquez 633

Le novelle ‘italiane’ del Guzmán de Alfarache Edoardo Ventura 646

Europa

Del exemplum a la novella Carlos Alvar 657

Masuccio Salernitano en Europa Diana Berruezo-Sánchez 674

Sulla presenza del Decameron nella letteratura polacca: la novella di Zinevra (ii, 9) nelle traduzioni anonime

(6)

VIII

Indice Le rôle du Décaméron dans l’épanouissement

de la nouvelle roumaine Eleonora Hotineanu 705

Dalla prosa alla poesia. Le prime traduzioni ungheresi

del Decameron Norbert Mátyus 717

La novella italiana in Europa tra Bandello,

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I novellieri italiani e la loro presenza nella cultura europea: rizomi e palinsesti rinascimentali

255 Partendo dalla grande tradizione inaugurata dal Cunto de li cunti di cui fu, nel 1674, editore infedele – Penzer arrivò a definirlo arrogante1 – ma di successo, Pompeo Sarnelli, po-ligrafo, dottore in utroque iure e vescovo di Bisceglie, oggetto di un elaborato «sproloquio»2 di Giacinto Gimma, si fece, nel 1684, autore in proprio di cinque sofisticate fiabe: La piatà remmonerata, La vajassa fedele, La ’ngannatrice ’ngannata, La gallenella e La capo e la coda. Le fiabe sono racchiuse in una cornice, preceduta da una prefazione dedicata A li virtuluse lejeture, e costituita da un’‘ntroduzzione de la Posilecheata e

com-1. G. Basile, The Pentamerone, Translated from Italian of B. Croce. Now Edited with a Preface,

Notes and Appendices by N.M. Penzer, John Lane the Bodley Head, London 1932, vol. ii,

p. 187.

2. V. Imbriani, A’ leggitori di questa sesta impressione della Posilecheata, in P. Sarnelli,

Posi-lecheata (1684), ristampa di 250 esemplari curata da V. Imbriani, D. Morano, Napoli 1885,

p. xi. Non proprio uno «sproloquio», ma certo parole di grande ammirazione gli dedica Imbriani, ivi, p. xii: «La posterità non è stata, sinora, giusta verso di lui. Appartenne, in-dubbiamente, a’ più colti ed operosi ingegni del suo secolo e del suo paese. Fu de’ migliori del suo tempo, sebbene né mente creatrice, né genio». L’elogio di Gimma si trova in Elogi

Accademici della Società degli Spensierati di Rossano, descritti dal dottor signor D. Giacinto Gimma

[…] pubblicati da Gaetano Tremigliozzi […] colle memorie storiche della Società Stessa aggiunte dal

Medesimo nella Seconda Parte, a spese di Carlo Troise Stampatore Accademico della Medesima Società,

Napoli 1703, vol. i, pp. 283-304.

La Posilecheata, una still life fiabesca Clara Allasia

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mito d’amicce fatto a Posileco e una Scompetura, entrambe scritte in prima persona dal narratore che si identifica con l’autore. Egli fornisce il resoconto di una giornata a Posillipo dove, ospite dell’amico Pietruccio insieme all’eccentrico dottor Marchionno, ascolta cinque fiabe dalla viva voce di cinque narratrici. Già oggetto degli studi di Vittorio Imbriani e di Benedetto Croce, la raccolta è stata offerta in edizione critica da Enrico Malato nel 1963 (Sansoni, Firenze) e poi nel 1986 (Il Tornese-G. e M. Benincasa, Roma).

Non credo sia molto difficile individuare gli elementi che legano la Posilecheata al Pentamerone (titolo di mano sarnellia-na) che si stava diffondendo in quegli anni in tutta Europa, proprio grazie all’opera del suo curatore e dello stampatore Antonio Bulifon, un francese da poco stabilitosi a Napoli di cui Sarnelli fu fortunato consigliere. Nell’elencare i punti di contatto, che sono davvero molti, si corre il rischio di dimen-ticare qualcosa. Per questo ritengo opportuno accogliere il suggerimento di Croce che definisce l’opera un’«imitazione intelligente ed elegante» per la modalità con cui Sarnelli se-guiva Basile «nella forma narrativa, nelle introduzioni – ma non, com’è noto, nelle rubriche – nei movimenti stilistici, negli scherzi e giochetti»3. Certo Sarnelli esibisce il suo mo-dello fin dalla citazione esplicita nella ‘ntroduzzione del «li-vro» che «no’ nc’è ommo, se bè frostiero e d’auto lenguag-gio, che no’ aggia gusto d’averelo»4, a cui aggiunge quella, doppia, del nome anagrammato del suo autore, proprio lui che aveva introdotto sul frontespizio del Cunto il vero nome di Basile: «l’Abbattuto scrivette pe trattenemiento sulo de li peccerille» e «nesciuno dapo’ Giannalesio Abbattuto ha scritto cunte»5.

Altrettanto immediato, ma di lettura più complessa, il ri-mando letterale nella Scompetura della Polisicheata («me reti-raje a la casa a pede co na cocchiarella de mèle»)6 che, non evocando l’«urzo»-Boccaccio, comparso nella dedica a Basile de Li travagliuse ammure di Cortese, rende quasi

incompren-3. B. Croce, Giambattista Basile e il Cunto de li cunti, in id., Saggi sulla letteratura italiana

del Seicento, Laterza, Bari 1948 [1a ed. 1911], p. 74.

4. P. Sarnelli, Posilecheata, E. Malato (a c. di), Il Tornese - G. e M. Benincasa, Roma 1986,

p. 32.

5. Ivi, pp. 8, 7. 6. Ivi, p. 214.

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La Posilecheata, una still life fiabesca

257 sibile, se non con la mediazione della Scompetura del Cunto: «ch’io me ne venne a pede a pede con na cocchiarella de mele»7, il riferimento all’archetipo decameroniano indivi-duato a suo tempo da Michelangelo Picone8.

Alla luce di questa osservazione non va letta come una sor-ta di risarcimento sor-tardivo, che fra l’altro potrebbe scherzosa-mente suggerire la possibilità di una filiazione indipendente, la descrizione della peste che compare nella fiaba intitolata La gallenella, descrizione declinata in tono di barocca dance macabre e che merita una citazione estesa:

l’uommene a sellanta la vota sfrattavano da le case de lo cuorpo, senz’aspettare li quatto de maggio. E comme a peso-nante cacciate a forza, l’erano jettate le robbe pe le feneste: e la Morte, che aveva li secotorie, scagno da portare appresso li sbirre co chelle bocche de fuoco che fanno bú-bú, li facea le-gare da li bubune e mettere ’mpresone a no funno de lietto, co li cartielle: Banno e commannamiento che nesciuno s’accosta sotto pena de la vita: e mute che non bolevano stare a sti díco-me e dísseste, tutte nce ’ncappavano, pocca se lo miedeco toccava lo puzo a lo malato, l’era attaccato lo moccaturo a lo puzo da li sbirre de la Morte ed era portato presone dinto na sebbetura; se lo patre abbracciava lo figlio, la Morte, che stea vicina, co na botta de fauce faceva no viaggio e duje servizie, pocca ne le scervecchiava tutte duje. […] Perzò co li cruocche afferravano a li scurisse e le sbalanzavano mieze muorte e mieze vive ’ncoppa a li carrettune co li quale treon-fava la Morte, servennose pe Campoduoglio de la grotta de li sportegliune. Era deventata la cetate no campo d’ardiche, e addove scorrevano tanta carrozze non se vedevano che carra, varre varre de cuorpe muorte9.

7. G. Basile, Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de’ peccerille, C. Stromboli (a c. di),

Salerno Editrice, Roma 2013, vol. ii, p. 982.

8. M. Picone, La cornice novellistica dal Decameron al Pentamerone, in M. Picone e A.

Messerli (a c. di), Giovanni Battista Basile e l’invenzione della fiaba, Longo, Ravenna 2004, p. 120. Né si può estendere pienamente alla Posilecheata quanto Davide Conrieri scriveva a proposito del Cunto definito: «un’antistrofe, un controcanto, fiabesco e popolaresco, ri-spetto alle strofe, al canto realistico e borghese, costituito dal Decameron: nessuna imitazio-ne agonistica e imitazio-nessuna contrapposizioimitazio-ne polemica, dunque, lega l’opera di Basile a quella del Boccaccio, ma una serie di richiami e di echi intonati con piena libertà su un diverso registro», D. Conrieri, Introduzione a Novelle italiane. Il Seicento. Il Settecento, Garzanti, Mi-lano 1982, p. xxxi.

9. ‘Gli uomini a migliaia per volta sfrattavano dalle case del corpo, senza aspettare il

quattro maggio. E come a pigionanti cacciati a forza, la roba loro gli era gettata per le fine-stre: e la Morte, che aveva gli esecutori, a scanso di portarsi appresso gli sbirri con quelle bocche da fuoco che fanno bú-bú, li faceva legare dai bubboni e mettere in prigione in un

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E se anche allarghiamo il discorso alla struttura di questo «li-vreciello», dopo il quale Sarnelli si proponeva di scrivere un «livruo grosso» se il primo saggio non fosse stato «sgrato»10 al pubblico, notiamo come essa rimandi immediatamente, sep-pure in misura ridotta, al modello basiliano anche se, come aveva già osservato Charles Speroni nel 195311, mentre Basile fa concludere ogni cunto con un proverbio, Sarnelli costrui-sce le fiabe in modo tale che fungano a commento ognuna di un proverbio. Così «fa bene e scordatene» è illustrato da La piatà remmonerata, mentre la smentita di una massima di San-nazzaro (contenuta nell’viii egloga dell’Arcadia: «Nell’onda solca e nell’arena semina / e i vaghi venti cerca in rete acco-gliere / chi sue speranze fonda in cor di femina») è affidata a La vajassa fedele. O, ancora, La ’ngannatrice ’ngannata confer-ma il detto «tutte le desgrazie songo degne de compassejone, fore de chelle che l’ommo da se stisso se procaccia», mentre quello «l’ommo comme nasce accossì pasce» è inverato da La gallenella. Infine La capo e la coda sancisce la veridicità di «sempre che so’ lupe, malannaggia lo meglio»12. Anche qui dunque, una somiglianza confermata da un ribaltamento: al «fuori-testo nel testo»13 di Basile, Sarnelli sostituisce un “fuori-testo pretesto”, riallacciandosi alla tradizione novelli-stica ma, contestualmente, segnando uno scarto rispetto al modello dichiarato.

C’è poi un altro rapporto, a mio avviso evidente, con il Cunto, rapporto che passa attraverso costanti riferimenti onomastici, talvolta esplicitamente forzati. Per fare un esem-pio si pensi ancora alla Gallenella dove i protagonisti, presto fondo di letto, con i cartelli “Bando e comandamento che nessuno si accosti sotto pena della vita”: e molti che non volevano stare a questi discorsi, tutti ci restavano presi, perché se il medico toccava il polso al malato gli era attaccato il fazzoletto al polso dagli sbirri della morte ed era portato in carcere dentro a una sepoltura; se il padre abbracciava il figlio, la morte, che stava vicino, con un colpo di falce faceva un solo viaggio e due servizi, perché li stroncava tutti e due. […] Perciò con gli uncini afferravano quei poveretti e li sbattevano mezzo morti e mezzo vivi sopra ai carrettoni coi quali trionfava la Morte, servendosi per Campidoglio della grotta dei pipistrelli. La città era diventata un campo di ortiche e dove correvano tante carrozze non si vedevano che carri pieni fino all’orlo di corpi morti’, Sar-nelli, Posilecheata cit., pp. 143-144.

10. Ivi, p. 8.

11. C. Speroni, I proverbi della Posilecheata, «Folklore», 8 (1953-1954), pp. 3-22. 12. Sarnelli, Posilecheata cit., pp. 35, 63, 95, 141, 177.

13. A. Albanese, Metamorfosi del Cunto di Basile. Traduzioni, riscritture, adattamenti, P.

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La Posilecheata, una still life fiabesca

259 ribattezzati con i nomi di Cecca e Menico, in realtà si chiama-no Sole e Luna, come i fratelli della fiaba basiliana Sole, Luna e Talia (v, 5), versione partenopea della Bella addormentata. Nell’altrettanto ricco repertorio di allusioni indirette, colpi-sce quella che riguarda le «case vecchie, cchiù antiche de la ‘mmidia, che parevano le case de lo Tiempo»14, trasparente allusione alla casa del tempo – «meditatio mortis et vanitas» – e alla grandiosa «pittura di parole» sul tempo che costituisce gran parte della basiliana Li Sette palommielle (iv, 8), di cui si è occupato Salvatore Nigro15.

Non solo: se Malato ha pienamente ragione nel rilevare la corrispondenza fra la materia fiabesca trattata e il Motif-Index del Thompson16, corrispondenza rilevabile e rilevata anche in Basile, bisogna constatare che in Sarnelli si assiste a quella che potremmo chiamare una “deflagrazione di motivi”. Di solito a un primo danno, subito dal protagonista e presto apparentemente sanato, ne subentra un secondo che non è detto riguardi lo stesso personaggio. Infatti, se le strutture de La piatà remmonerata, de La vajassa e de La Capo e la coda sono relativamente lineari, molto meno lo sono quelle de La ’ngannatrice ’ngannata e de La gallenella. Nella prima le nozze regali, strumento privilegiato per «annienta[re] ogni forma di isolamento sociale»17, sono l’inizio di un lungo calvario, molto simile a quello della fanciulla reclusa nel basiliano Lo dragone (iv, 5) che, non a caso non sposata ma stuprata dal re, ne diventerà la moglie solo nel, si fa per dire, lieto fine. Inoltre nella ‘Ngannatrice si assiste a un vero e proprio cam-bio di protagonista fra la prima e la seconda parte, con un avvicendarsi fra Jannuzzo e Ninella e un sovraffollamento di aiutanti. Non così ne La gallenella dove però, come nella precedente, al danno iniziale riparato (la perdita dei geni-14. Sarnelli, Posilecheata cit., p. 42.

15. S.S. Nigro, Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile, in Letteratura Italiana. Le Opere.

Volume secondo. Dal Cinquecento al Settecento, diretta da A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1993,

pp. 867-891.

16. Malato allega un Indice dei motivi delle fiabe della Posilecheata che trovano corrispondenza nel

Motif-index del Thompson, alle pp. 227-229 della Posilecheata. A questo proposito cfr. anche R.

Giglio, Il cunto “dotto” di Pompeo Sarnelli, in C. De Caprio (a c. di), La tradizione del “cunto”

da Giovan Battista Basile a Domenico Rea, Edizioni Libreria Dante & Descartes, Napoli 2007,

p. 143.

17. P. Guaragnella, Vecchiezza, riso e metamorfosi (La fiaba de La vecchia scortecata), in id.,

Le maschere di Democrito e di Eraclito. Scritture e malinconie tra Cinque e Seicento, Schena, Fasano

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Clara Allasia

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tori a causa della peste e l’estrema povertà dei due fratelli orfani) subentra un altro danno (le uova di serpente fatte inghiottire all’ignara protagonista dalla perfida cognata) che permette alla vicenda di rimettersi in moto. Nonostante la complessità strutturale delle fiabe, Sarnelli non ribalta mai l’esito atteso e, per verificarlo, basta osservare come un tema simile venga trattato nel Cunto e nella Posilecheata. Tocca a Cianna, la madre delle quattro narratrici e narratrice essa stessa, riproporre, attraverso il personaggio di Rosica-chiodi ne La capo e la coda, l’equazione, individuata da Guaragnella per la basiliana Vecchia scortecata (i, 10), «vetula quasi strix», naturalmente senza il complesso gioco erotico da parte del re che giunge a «una perversione che quasi sconfina in una forma oscura di masochismo»18. Ciò che qui interessa è l’as-senza della liberatoria metamorfosi finale, che là trasformava la vecchia malinconica e immonda in una splendida giovane e che qui avviene, anch’essa per mano di una fata, ma con-dannando Rosica-chiodi a diventare un animale demoniaco per eccellenza, un «ruospo ch’ancora abbotta»19 su cui si chiude la fiaba.

Non so se, data la cospicua polemica nei confronti di co-loro che «co sta lengua toscana hanno frusciato lo tafanario a miezo munno»20 il verbo abbottare sia posto lì a richiamare per assonanza al lettore colto la ben più toscana botta di Dec. iv, 7; certo di Rosica-chiodi si evoca, fin dall’apertura, lo «fie-to de lo scia«fie-to» che, se da un la«fie-to ricorda lo «shiauro de la vocca» della Vecchia scorticata, dall’altro ben può competere con il «venenifero fiato»21 della botta che uccide Pasquino e la Simona. Se la strada appena intravista è percorribile, ci troviamo di fronte allora a un piccolo esempio di lingua ela-boratissima e dotata, secondo Giorgio Fulco, di una «grazia un po’ demodée»22. A detta di Malato si tratta di una lingua organizzata in un periodo «piano, scorrevole, non privo di 18. Ivi, pp. 350, 361.

19. Sarnelli, Posilecheata cit., p. 206. 20. Ivi, p. 5.

21. Ivi, p. 178; Basile, Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de’ peccerille cit., vol. i, p. 208;

G. Boccaccio, Decameron, A. Quondam, M. Fiorilla, G. Alfano (a c. di), BUR, Milano 2013, p. 768.

22. G. Fulco, La letteratura dialettale napoletana. Giulio Cesare Cortese e Giovan Battista Basile,

Pompeo Sarnelli, in E. Malato (dir.), Storia della letteratura italiana. Volume v. La fine del

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La Posilecheata, una still life fiabesca

261 eleganze», spesso «superiore al modello basiliano» di cui però non possiede la freschezza lessicale e stilistica, per-ché Sarnelli trova «l’indagine già compiuta, i materiali già raccolti ed elaborati da chi lo ha preceduto»23. Tuttavia, a differenza di Basile, Sarnelli non riesce ad assecondare il gioco di metafore disposte nella consueta, calviniana, «mappa»24 ispirata al Cunto e che Malato dice «ripresa sen-za significative variazioni nella Posilecheata», osservando però che «la ripetizione del modulo stilistico non significa mai […] ripresa dell’immagine, che si rinnova di volta in volta»25. Insomma, la scelta linguistica non si combina or-ganicamente con il fluire del racconto e non permette di raggiungere l’effetto, largamente praticato da Basile, secon-do cui, per usare le parole di Maria Luisa Doglio, «i dati tradizionali lievitano, si trasformano, entrano in continua metamorfosi, senza mai irrigidirsi negli schemi e nelle linee precostituite»26. Così al reale basiliano sottoposto, secondo Giovanni Getto, a una «perpetua condizione metaforica e metamorfica»27 si oppone il reale di Sarnelli, un reale greve nella sua materialità, che costringe una fata a uccidere un cane e cospargersi del suo sangue per trasformarsi in vec-chia mendicante28.

La chiave di un tradimento tanto fedelmente perseguito si trova in un elemento centrale della costruzione novellistica, ovvero nella cornice, dove al «Dice ch’era na vota», viatico fia-besco per eccellenza di Basile, Sarnelli contrappone un luogo e una data ben precisi: 26 luglio 1684, data di una giornata trascorsa a Posillipo e conclusa con la festa pirotecnica offerta dal viceré Don Gaspar Haro y Guzman davanti a Mergellina. 23. E. Malato, Introduzione a Sarnelli, Posilecheata cit., p. xvii.

24. I. Calvino, La mappa delle metafore, in G. Basile, Il Pentamerone, B. Croce (trad. e intr.),

Laterza, Bari 1974, vol. i, pp. v-xlviii, poi in id., Sulla fiaba, M. Lavagetto (intr.), Monda-dori, Milano 2009 [1a ed. 1996], pp. 135-150.

25. Malato, Introduzione cit., p. xxi.

26. M.L. Doglio, Basile, Giambattista, in V. Branca (dir.), Dizionario critico della letteratura

italiana, UTET, Torino 1986, ad vocem, p. 237.

27. G. Getto, La fiaba di Giambattista Basile [1964], in id., Il Barocco letterario in Italia,

pre-messa di M. Guglielminetti, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 303.

28. La metamorfosi della fata è, a tutti gli effetti, un travestimento: «Subbeto la Fata se

fenze d’essere pezzente, e acciso no cane tutta se ’nzangueneaje, e puostose de cchiù no ‘nchiasto a n’uocchio», ‘Subito la fata si camuffò da pezzente, ucciso un cane si imbrattò tutta di sangue, e postosi per di più un impiastro in un occhio’, Sarnelli, Posilecheata cit., p. 195.

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Una cornice, dunque, esplicitamente realistica – «una del-le parti più originali e più fresche dell’operetta»29 secondo Malato – che parrebbe volersi allontanare decisamente dal modello, sebbene con abbondanti concessioni alla tradizione comica. Tutto questo a patto che non si voglia vedere nel dot-tor Marchionno, personaggio apparentemente afunzionale all’economia della vicenda narrata, un orco fuggito dalle fia-be basiliane che non trova ricetto nelle sofisticate riscritture di Sarnelli in cui, in effetti, gli orchi, sia pure senza tutte le contraddizioni di Basile messe in luce da Michele Rak30, non esistono. La descrizione del dottore ci porterebbe in questa direzione: «no ciert’ommo, co na sottanella nfi’ a lo denuc-chio tutta sbottonata pe la gran panza c’aveva: teneva no paro de spalle che parea vastaso de la Doana, aveva una vocca cossì larga che parea de lupo, e no naso apierto comm’a cavallo»31. Il sospetto si fa tanto più legittimo se si pone mente al fatto che quando Masillo Reppone da Gnanopoli – psedonimo con cui Sarnelli firma la Posilecheata – si abbandona nella prefazione a un dialogo immaginario con il «pennarulo», le sue cinque fiabe sono definite «cunte dell’uorco»32, che è esattamente il titolo della fiaba con cui si apre la prima gior-nata del Cunto, fiaba che mette in scena un orco ben presto riconosciuto come «filtro sagace di una saggezza che rend[e] la sopravvivenza […] plausibile e non più conculcata dalle insidie e dai trabocchetti che la assediano»33.

29. Malato, Introduzione cit., p. xxii.

30. Gli «orchi stanno […] fermi ai crocevia degli intrecci e regolano i destini dei

viaggiato-ri. Tutti hanno più o meno evidenti legami con gli altri mondi del vegetale, dell’animale e delle materie», M. Rak, Il racconto fiabesco, in G. Basile, Lo cunto de li cunti, M. Rak (a c. di), Garzanti, Milano 2007 (19861), p. xlv.

31. ‘[…] un omaccione, con una sottanella tutta sbottonata fino al ginocchio per la gran

pancia che aveva. Aveva un paio di spalle che sembrava un facchino della Dogana, aveva una bocca così larga che pareva un lupo, e un naso aperto come [quello di un] cavallo’, Sarnelli, Posilecheata cit., p. 12.

32. Ivi, p. 4. «Nel lessico di Cortese e Basile “lo cunto dell’uerco” è un ballo; e anche una

tiritera o un elenco (un catalogo, una lagna) interminabile; e ancora (e importa molto), una sfilza di falsità e di speciose artificiosità […]. Né manca, sempre restando nell’ambito della quantità e dell’accumulazione, un gioco linguistico tra il napoletano cunte e lo spa-gnolo cuento ‘un milione’. […] La fiaba è un “cunto dell’uerco”. Ostenta ricchezza lessicale del dialetto napoletano; e ne inscena, iperbolicamente a cuento e a millanta, la rappresen-tazione narrativa», Nigro, Lo cunto de li cunti cit., p. 874.

33. D. Della Terza, Il Barocco e la fiaba: il caso Basile, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi

del Barocco. Atti del Convegno (Lecce, 23-26 ottobre 2000), Salerno Editrice, Roma 2002, p. 283.

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263 Ma è ponendo attenzione alle narratrici che ci si rende conto pienamente della profonda differenza che separa le due cornici: non c’è traccia qui della tensione che permea il cunto-cornice basiliano, né si stabilisce alcuna gerarchia fra le narratrici (dell’importanza, in particolare, di Ciom-metella per Basile mi sono occupata altrove)34 che pure so-no tutte donne: Cecca, Tolla, Poppa e Ciulletella, oltre alla madre Cianna, «na vecchiarella […] nativa de la montagna e mogliere de n’ortolano ricco» che «serveva» Pietruccio, l’amico del narratore, «no’ pe besuogno ma ped essere bona vecina»35.

Tre su cinque delle narratrici hanno nomi identici a quel-le basiliane, di cui tuttavia non conservano né quel-le mostruose caratteristiche fisiche – «autentiche caricature» delle regine boccaccesche le ha definite Marziano Guglielminetti36 – né le corrispondenti implicazioni metaforiche relative alla loro incapacità di tacere o di mentire. Se una tensione si crea è semmai ancora una volta con il modello a cui consapevol-mente non l’autore ma le narratrici guardano, perché Cian-na ribadisce chiaramente che a differenza di «chille de lo livro, che songo cose stodiate», lei e le sue figlie narreranno «a la foretana», come le hanno sentite raccontare «da l’ante-cestune nuoste»37. È appena il caso di notare, per smentire questa affermazione, quanto gli astanti apprezzino, del rac-conto di Cianna, «la mammoria co la quale s’allecordava […] de ch’elle ‘ciuriate fatte da li pagge a la Fata, e da Nunziella a li pagge ed a li gentel’uommene suoje»38, con riferimento trasparente allo scambio di insolenze fra la vecchia e il «pag-gio de corte» che apre il Cunto. Manca invece l’occasione goria di un movimento di contrazione fra la “bestialità” e la “saggezza”: […] Antuono, l’infante, rivela ancora gli umori della bestia, e l’orco è invece rappresentato in una sua eccezionalità magica fatta di saggia vecchiezza», P. Guaragnella, «Comme… n’autro Eracleto

non se vedeva maie ridere» (Malinconie e follie allo specchio ne Lo cunto de li cunti), in id., Le maschere di Democrito e di Eraclito cit., p. 294.

34. C. Allasia, «Giorgetiello acciaccare»: il corpo femminile e il disvelamento della verità nel Cunto

de li cunti, «Levia Gravia», xv-xvi (2013-2014), pp. 209-221.

35. Sarnelli, Posilecheata cit., p. 11.

36. M. Guglielminetti, Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile e la parodia della fiaba

popolare, in Manierismo e Barocco, in G. Bàrberi Squarotti (a c. di), Storia della civiltà letteraria italiana; UTET, Torino 1990, p. 441.

37. Sarnelli, Posilecheata cit., p. 33.

38. ‘La memoria, con la quale si ricordava, se non altro, di quelle ingiuriate fatte dai paggi

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del confronto sulla parte in versi, perché alle quattro egroche realistiche e dense di intenzioni morali di Basile, Sarnelli contrappone una serie di canti popolari che, teste l’Imbriani, erano diffusissimi a Napoli e la richiesta di raccontare fiabe si pone come alternativa a questo primo passatempo, «perché lo suono de li tammorielle e de le castagnelle era troppo strepetuso»39.

L’importanza della narrazione è dunque di molto sminu-ita e la stessa narrazione non avviene in un clima sempre più carico di tensione dove, non solo metaforicamente, dall’arte del racconto e dal suo intrecciarsi con la realtà fiabesca del cunto-cornice dipendono la vita e il destino dei personaggi. Sembra perciò un’allusione fine a se stessa quella che Sarnelli lascia cadere, ovvero d’aver «’ntiso dicere da no cierto stu-diante che Posileco è parola greca e che vene a spalafecare a lengua nostra Cojeta-malenconia»40, cosa che l’autore conferma anche nella sua celebre e fortunata Guida de’ forestieri curiosi di vedere e d’intendere le cose più notabili della Regal città di Napoli e del suo amenissimo distretto (presso Giuseppe Boselli a spese di Antonio Bulifon, in Napoli 1685, 1688, 1697, 1713).

D’altro canto non fa mai la sua comparsa nelle pagine della Posilecheata quello spirito onnipresente e malinconico che permea di sé tutto il Cunto e informa tanti personaggi ba-siliani, a partire dalla protagonista della cornice, Zoza. Se di amore fatale e sfortunato si parla nella Posilecheata è in quella sorta di Metamorfosi partenopea contenuta ne La ’ngannatrice ’ngannata, dove Sarnelli raccoglie alcune favole eziologiche, tutte a lui precedenti e quindi non originali, sull’origine dei luoghi naturali più celebri del Golfo41. Forse solo la Vajassa fedele, la più bizzarra e sottilmente erotica delle cinque fiabe, mette in scena un ménage à trois parzialmente inconsapevole e mai realizzato ma sempre sul punto di consumarsi, fino a che un provvidenziale fratello del marito risolve la situazio-ne interrompendo anche l’adombrata relaziosituazio-ne lesbica fra Pietruccia e Pomponiella. Per il resto, i matrimoni che si consumano nella Posilecheata, e sono molti, non vanno al di là della convenzione sociale, non sono governati dal desiderio e 39. Ivi, p. 32.

40. ‘[...] sentito dire da un certo uomo di studio che Posillipo è parola greca e viene a

significare, nella nostra lingua, Rimedio alla malinconia’, ivi, p. 10.

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265 non si pongono al termine di alcun tipo di quête. Ne La piatà remmonerata il principe sposa Pacecca per ordine del re, ne La ’ngannatrice ’ngannata Cicia sposa il re per un capriccio del medesimo, ne La gallenella il matrimonio fra Cecca e Renzo è un quieto matrimonio borghese con il miraggio dei «quin-nece milia ducate» e ne La capo e la coda il mercante sposa Nunziella pensando fin da subito all’«aredetate», in realtà inesistente, e quando questa tarda ad arrivare minaccia di riportare Nunziella «addove t’aggio asciato»42.

Non c’è dunque, nelle pagine di Sarnelli, desiderio ero-tico da soddisfare o umor nero da curare con l’arte del rac-conto, non vi sono verità da svelare e inganni da scoprire né, tantomeno, come nell’archetipo boccacciano, il rischio di una morte reale e sociale da esorcizzare. L’impressione è che la materia di Basile, che Praz definì «brulicante»43, ven-ga riorven-ganizzata in cinque sontuose still lifes immerse in una cornice realistica che ha la sola funzione di accentuarne la perfezione formale e l’immobilità. Storia di un fallimento subito sancito dai lettori, la Posilecheata si offre come testi-monianza di un Barocco sterile e ormai perfetto nelle sue imperfezioni e stravaganze.

Poco importa che Sarnelli, confrontandosi esplicitamente con Basile, scriva, coonestando l’equivoco, che se «l’Abbat-tuto scrivette pe trattenimento sulo de li peccerille e po’ ha servuto perzì pe le giuvene e pe li viecchie, e cotte meglio porzì pe li frostiere», «sto livreciello mio non sarà sgrato a li stisse» e soprattutto a «li patre de fameglia c’hanno pecceril-le assaje» perché ascoltandolo «s’addormarranno» e messi a letto faranno «sparagnar[e] lo magnare»44. È naturalmente una posa, perché Sarnelli, autore di «tant’opere grave e de considerazione»45, non è certo mosso da queste preoccupa-zioni quando sceglie di coniugare il genere fiabesco con il divertissement archeologico-erudito e si potrebbe anzi pensare che anche in questo egli voglia superare il modello di Basile, fingendo di ignorare, fin dalle righe che abbiamo letto, che 42. Ivi, pp. 165, 188.

43. M. Praz, Il Cunto de li cunti di G.B. Basile, in id., Il giardino dei sensi. Studi sul

Manieri-smo e il Barocco, Mondadori, Milano 1975, ora in id., Bellezza e bizzarria, A. Cane (a c. di), con

un saggio di G. Ficara, Mondadori, Milano 2002, p. 177.

44. Sarnelli, Posilecheata cit., p. 8. 45. Ivi, p. 4.

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l’autore del Cunto – sono parole di Dante Della Terza – ci tie-ne a salvaguardare la sua «origitie-ne di scrittore visitato costan-temente dalla dottrina di cui si fa portavoce eccentrico»46.

«Ogni riferimento» ai monumenti napoletani, scrive Raffaele Giglio, «si sposa mirabilmente con l’ordito della fiaba» e, all’amore per le meraviglie del «paese più bello del mondo», Sarnelli affianca qui, a differenza di quanto ha fatto con la parte paesaggistica, vicende quasi sempre inventate, «non raccolte da altre fonti»: ne nasce una sorta di galleria museale, che vuole fornire al lettore «una miniguida artistica» incastonata nelle cinque fiabe che, secondo Giglio, «Sarnelli scrisse, divertendosi, per addottrinare i suoi lettori»47.

Di questo procedimento è, a mio avviso, elemento sim-bolico la «preta marmora addove era ‘ntagliata la capo de Medusa»48 che la fedele Pietruccia fa porre a guardia del giar-dino in cui si nasconde la padrona Pomponiella, identica a lei ma trasformata in serpe e che diverrà, nel solito repentino passaggio finale fra fiaba e realtà, la Fontana dei serpi di cui parla Carlo Celano nella giornata quarta delle sue Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli (Gio. Francesco Paci, Napoli 1725, p. 67). È questa la sola fiaba, insieme a La gallenella, in cui non compare il motivo della metamorfosi dell’uomo in statua o viceversa, ma ne compare il simbolo per eccellenza: Medusa che «faceva arreventare l’uommene de preta»49.

Nelle altre fiabe la metamorfosi avviene reiteratamente: ne La piatà remmunerata «lo catavero» dell’infido e bestiale Mastro Cucchiaione «deventaje de màrmora», ne La ’ngan-natrice ’ngannata, gli aiutanti sono tutti statue che prendono vita, mentre Jannuzzo, non appena salutato dall’uccello che parla, «sentije correre comme no jaccio pe le bene, e ‘nnitto ‘nfatto na statola deventaje» e l’intero bosco dell’uccello par-lante, che aveva a sua volta rischiato di restare intrappolato in una «rezza [che] deventaie de preta», è gremito di «persone carcerate dinto a chille marmore»50. Infine ne La capo e la co-da, la statua del Gigante di Palazzo prende temporaneamente 46. Della Terza, Il Barocco e la fiaba: il caso Basile cit., p. 272.

47. Giglio, Il cunto “dotto” di Pompeo Sarnelli cit., pp. 132, 145. 48. Sarnelli, Posilecheata cit., p. 83.

49. Ibid.

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267 vita per fingere di essere il disonesto zio della bugiarda ma caritatevole Nunziella.

Già Basile aveva introdotto, fin dal Cunto cornice, l’ac-coppiata chiastica di carne e «fredda marmora», declinata in varie modalità, fino all’abbassamento comico della ricotta, peraltro attuato in una novella cardine del Cunto come Le tre cetra (v, 9) ma, sempre, la dinamica narrativa e il reale in metamorfosi vincevano sull’immobilità della pietra. Non così in Sarnelli, dove il pantheon statuario e monumentale che si costruisce mano a mano che ci si addentra nella Posilecheata, illuminato dai fuochi d’artificio della festa con cui si chiu-de la giornata, grava sulla raccolta come «una rezza […] chiu-de preta»51, conferendole compostezza marmorea e ribadendo l’assenza di drammaticità.

All’occhio “fisso” di Basile, «felicemente appostato a ren-dere il senso più profondo della fiaba, la sua ‘sincronia’, la sua riduzione fatalistica e preordinata degli eventi, l’allegria, i tabù, le paure vergini del ‘popolo selvaggio’» di cui parla Mazzacurati52, si sostituisce qui un occhio indifferente che riduce quello che Nigro ha definito «il gran teatro e volubile e ruotante»53 a un automatismo che soltanto gli assomiglia: l’unico automa immateriale che dalle pagine della Posilechea-ta va a far compagnia ai Posilechea-tanti automi del Cunto, ma lonPosilechea-tano da quel «laboratorio entro il quale i maggiori generi e tendenze narrative della tradizione vengono sottoposti ad ogni tipo di alchimia, di esperimento»54.

51. Ivi, p. 125.

52. G. Mazzacurati, Narrativa e romanzo nel Seicento, in S. Battaglia, G. Mazzacurati (a

c. di), La letteratura italiana. Rinascimento e Barocco, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1974, pp. 426-427.

53. Nigro, Lo cunto de li cunti cit., p. 885.

54. F. Tarzia, Il cunto di tutti i cunti. Giambattista Basile e la proposta del modello fiabesco, in L.

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