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Academic year: 2021

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Fabio Stok

Lezioni di

letteratura latina:

la Pro Archia di Cicerone

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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2018 – UniversItalia – Roma ISBN 978-88-3293-104-4

A  norma  della  legge  sul  diritto  d’autore  e  del  codice  civile  è  vietata  la  ripro-duzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registratori o altro. Le foto-copie per uso personale del lettore possono tuttavia essere effettuate, ma so-lo nei limiti del 15% del volume e dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto   dall’art.68,   commi   4   e  5   della   legge   22   aprile   1941   n.   633.   Ogni   ri-produzione per finalità diverse da quelle per uso personale deve essere au-torizzata  specificatamente  dagli  autori  o  dall’editore.

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I

NDICE

P

REFAZIONE

... 1

I

NTRODUZIONE

... 5

1. Il genere oratorio ... 5

2. Oratoria e retorica in Grecia ... 7

3. Oratoria e retorica a Roma ... 9

4. Cicerone ... 14

5. Il processo contro Archia ... 18

6. Risvolti politici del processo ... 21

7. La confirmatio extra causam ... 24

8. La  cultura  dell’oratore ... 26

9. Il ruolo della poesia ... 34

10. L’ispirazione  poetica ... 38

11. Gloria e immortalità ... 40

N

OTA CRITICA

... 43

C

ICERONE

P

RO

A

RCHIA POETA

... 53

A

PPENDICE

1

C

ONCETTI FONDAMENTALI DELLA RETORICA

97

A

PPENDICE

2

L

A PROSA D

ARTE

... 103

A

PPENDICE

3

L

A PROSA RITMICA

... 107

(6)

A

PPENDICE

5

P

ETRARCA E LA RISCOPERTA

DELLA

P

RO

A

RCHIA

... 113

(7)

P

REFAZIONE

La Pro Archia di Cicerone è stata tradizionalmente una delle letture   preferite   nell’insegnamento   del   latino,   come   evidenzia-no i numerosi commenti scolastici prodotti in passato. 1

Nell’ultimo   cinquantennio   questa   tradizione   è   andata   decli-nando,   non   solo   nell’insegnamento   scolastico,   dove   la   lettura   diretta di intere opere della letteratura latina è stata sacrificata dall’uso  delle antologie, ma anche in quello universitario, per il vincolo costituito dai CFU (Crediti Formativi Universitari) e dalla conseguente  parcellizzazione  dei  programmi  d’esame.  Ed   anche laddove si continuano a leggere testi latini nella loro in-terezza, si fa generalmente uso delle edizioni bilingui disponi-bili nel mercato librario. Io stesso, anni orsono, lessi in un corso di Letteratura Latina la Pro Archia avvalendomi  dell’eccellente   edizione pubblicata nella BUR dal compianto Emanuele Nar-ducci.2

1 Fra le numerose edizioni italiane, reperibili per lo più solo nel mercato antiquario, basti ricordare quelle di E. Stampini (Paravia 1893); G. Seniga-glia (Sansoni, 1901); F. Cantarella (Albrighi Segati, Milano, 1902); A. Pozzi (Signorelli,  1928);  P.  Pischedda  (D’Anna,  1957);  A.  Calesella  (Saturnia,  1960);   L. Agnes (Paravia, 1969).

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Queste edizioni, però, sono strumenti che non favoriscono gli obiettivi formativi della lettura dei testi latini, per ragioni diverse che vanno dall’insufficienza   delle   note   che   esse forni-scono, anche nei casi migliori, alla presenza di traduzioni egre-gie ma non finalizzate alla comprensione puntuale del testo o-riginale. Queste edizioni possono consentire quindi un utile in-quadramento storico-culturale di opere ed autori, ma non favo-riscono  la  comprensione  del  testo  e  l’apprendimento  della  lin-gua e dello stile. La presenza della traduzione a fronte, inoltre, induce   con   frequenza   lo   studente   a   trascurare   l’analisi   della   lingua, favorendo un rapporto superficiale e non problematico con il testo latino. Queste considerazioni sono tanto più pres-santi in presenza di un testo complesso come quello della Pro Archia, nella quale la raffinatezza e la profondità dello stile raggiungono un apice sconosciuto alla maggior parte delle al-tre orazioni di Cicerone.

Questo volume nasce da queste considerazioni e dalla con-statazione dell’assenza  di  edizioni,  in  lingua  italiana,3 in grado

di rispondere alle esigenze segnalate. Le note che accompagna-no   in   questo   volume   il   testo   dell’orazione   soaccompagna-no   finalizzate   ad   orientare lo studente nella comprensione del testo, in particola-re della sintassi particolarmente complessa che questa orazione presenta. Ho cercato, di conseguenza, di guidare il lettore nella ricostruzione della struttura sintattica, lasciando alle sue

3 Un commento didattico in lingua inglese è stato curato da S. M. Cerutti: Cicero, Pro Archia poeta oratio, Wauconda, Ill., Bolchazy-Carducci Publ. 1998 (include un utile vocabolario, ma il commento contiene anche degli sgrade-voli errori); in lingua tedesca uno strumento agile è quello di S. Klient, M. Tullius Cicero, Oratio pro Archia poeta, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 2007 (Clara, Kurze lateinische Texte H. 18); un altro commento in tedesco è stato  pubblicato  da  O.  Schönberger,  anch’esso  in  una  collana  ad  uso  didatti-co: M. Tullius Cicero, Pro Archia poeta oratio, Bamberg, C. C. Buchner (Testi-monia. Curriculare Reihe lateinischer und griechischer Texte), 1984 (in fa-scicolo  a  parte  il  testo  dell’orazione).

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petenze pregresse (o acquisibili tramite la consultazione di un manuale grammaticale) il riconoscimento della morfologia e della grammatica basilare. Per le note di sintassi il rinvio è per lo  più  a  termini  e  concetti  oggetto  dell’insegnamento  della  ma-teria nel Modulo A e, più in generale, alla sintassi normativa di Traina e Bertotti.4

Le  note  esegetiche  ed   esplicative  sono  ridotte  all’essenziale,   ed integrate con l’Introduzione,   che ha lo scopo precipuo di fornire gli elementi che appaiono più utili   all’inquadramento   storico e storico-culturale. Come già nel volume dedicato al ge-nere   bucolico,   l’Introduzione   fornisce strumenti utili per in-quadrare l’opera   in   esame   nello   sviluppo   più   generale dei ge-neri della letteratura latina.

Una possibilità di utile approfondimento è fornita dalla No-ta testuale, nella quale sono esaminati alcuni passaggi proble-matici del testo ciceroniano. Da tempo ritengo utile fornire no-zioni  di  filologia  anche  nell’insegnamento  di  base  di  letteratura   latina,  segnalando  in  particolare  la  precarietà  e  l’incertezza  che caratterizzano il testo delle opere trasmesse per tradizione ma-noscritta,   anche   a   partire   dall’esame   delle   diverse   varianti   che   si riscontrano nelle edizioni moderne di molte di queste opere. Nel caso della Pro Archia non sarà inutile, per gli studenti più interessati, leggere le motivazioni delle scelte testuali che sono state effettuate.

Le appendici, infine, forniscono strumenti utili ad una più completa comprensione del testo e del valore storico-culturale dell’opera.   L’Appendice   1   fornisce   un’esposizione elementare di alcuni concetti della retorica; nelle Appendici 2 e 3 è possibi-le  trovare  qualche  informazione  di  base  sulla  prosa  d’arte  e  sul-le clausu sul-le (due tematiche particolarmente ri sul-levanti per  

4 A. Traina – T. Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, Bologna, Pà-tron Editore, 2015 (ristampa della terza edizione).

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razione come la Pro Archia).  L’Appendice  4, sugli epigrammi di Archia, è utile anche per gli studenti che hanno incluso nel loro curriculum di studi la  Letteratura  greca.  L’Appendice  5,  infine,   dà informazioni più dettagliate sulla riscoperta dell’orazione   ad opera di Francesco Petrarca e  sull’impatto  che essa ebbe nel-la cultura umanistica.

Fabio Stok Roma, marzo 2018

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I

NTRODUZIONE

«The finest eulogy of the literary life in the whole of ancient literature» (Michel Grant)5

1. Il genere oratorio

Nella percezione letteraria moderna prosa è sinonimo di romanzo  (o  racconto),  tutt’al  più  di  teatro:  difficilmente,  invece,   consideriamo  “letteratura”  un’orazione,  una  lettera  o un tratta-to scientifico. Nelle letterature greca e latina, diversamente, la prosa   d’arte   interessa   anche   questi   ambiti   di   scrittura,   che   si   configurano come importanti generi letterari.

Questa ricezione antica della prosa letteraria riguarda in particolare  l’oratoria,  un genere innestato sulla pratica orale del discorso e che trova realizzazione letteraria, in poesia, già nei poemi omerici, nei quali i personaggi pronunciano frequente-mente dei discorsi (particolarfrequente-mente ammirati dai retori antichi erano  i  discorsi  di  Nestore  nel  libro  I  dell’Iliade e di Menelao e Odisseo nel III).

Lo sviluppo   dell’oratoria   presuppone   un   contesto   politico  

5 M. Grant (transl.), Selected Political Speechs of Cicero, New York 1977, p. 147.

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nel quale ci sia una certa libertà di parola (una condizione che i Greci indicavano come παρρησίία, parrhesía),  e  quindi  l’assenza   di un regime rigidamente autocratico. Non è casuale il fatto che l’oratoria antica abbia avuto le sue stagioni più produttive a Si-racusa dopo la cacciata del tiranno Trasibulo (465 a.C.), ad A-tene   nell’epoca   di   Pericle   e   della   democrazia,   e   a   Roma   in   età   repubblicana. È in queste condizioni politiche, infatti, che un oratore può mettere in atto quella che è la funzione primaria di un discorso pubblico, il convincere gli ascoltatori. Nella demo-crazia ateniese e nella repubblica romana la capacità di convin-cere costituiva uno strumento importante della lotta politica, proprio per il carattere non autocratico di rispettivi regimi poli-tici.

L’oratoria,  intesa  come  capacità  di  pronunciare  discorsi  con-vicenti, diventò presto oggetto di una disciplina (techne) che in-segnava a parlare in modo efficace: dal termine greco ῥήήτωρ   (rhetor), che designa colui che parla in pubblico, essa fu deno-minata ῥητορικὴ τήήχνη   (rhetoriké téchne),   “arte   del   parlare   in   pubblico”,  quindi  senz’altro  “retorica”.

Lo  sviluppo  della  retorica  favorì  l’uso  di  scrivere  il  testo  del-le orazioni, pratica che in un fase inizia del-le doveva servire all’apprendimento   delle   tecniche   retoriche,   ma   che   in   seguito   delineò un vero e proprio genere letterario, in quanto il testo di molte orazioni continuò a circolare e ad essere letto anche a di-stanza di tempo dal momento in cui esse erano state pronun-ciate.   Nella   fruizione   delle   orazioni   scritte   l’elemento   determi-nante   non   era   ovviamente   più   l’efficacia   del   discorso   nel   de-terminare  l’opinione  dell’ascoltatore,  bensì  lo  stile  e  le  caratteri-stiche  della  prosa  dell’orazione.

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corpus oratorio latino che ci è pervenuto,6 devono la loro

fortu-na al fatto di essere state utilizzate per secoli quali esempi di modelli di prosa e di stile.

2. Oratoria e retorica in Grecia

La retorica sembra esser nata a Siracusa, come abbiamo già visto,   nell’epoca   successiva   alla   cacciata   dal   tiranno   Trasibulo,   anche se Aristotele indica come fondatore della retorica il filo-sofo Empedocle di Agrigento (465 a.C.). Il contesto agrigentino è comunque analogo a quello siracusano, in quanto dopo il 472 a.C. si affermò ad Agrigento un regime di tipo democratico di qui Empedocle era sostenitore. A Siracusa furono attivi due re-tori, Corace e Tisia, che nei loro scritti davano consigli su come esagerare o attenuare i fatti e le argomentazioni sulla base dell’obiettivo  che  l’oratore  si  prefiggeva  nell’azione  giudiziaria.   Lo   sviluppo  dell’oratoria  a  Siracusa   sarebbe   stato  determinato   anche dal gran numero di processi che si svolsero per la riap-propriazione delle terre confiscate negli anni precedenti dal ti-ranno.

Fu forse allievo di Empedocle Gorgia da Lentini (circa 483-376 a.C.), che nel 427 a.C. arrivò ad Atene quale ambasciatore, ma che poi si stabilì nella città greca, dove introdusse la retori-ca e fu anche esponente del movimento sofistico. Il suo Encomio di Elena evidenzia il suo stile basato   sulle   antitesi,   sull’omote-leuto e sulle rime bilanciate.

Il   contesto   politico   dell’Atene   di   Pericle   favorì   lo   sviluppo   dell’oratoria  politica  (discorsi  nelle  assemblee e nei consessi

6 L’unica  orazione  giudiziaria  completa  che  ci  è  pervenuta,  oltre  a  quelle   di  Cicerone,  è  l’Apologia di Apuleio. Ad essa si possono aggiungere, per  l’età   imperiale, le declamazioni di Quintiliano e pseudoquintilianee.

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litici),   uno   dei   tre   ambiti   in   cui   l’oratoria   si   affermò   fin   dall’origini.7 Gli  altri  due  erano  l’oratoria  giudiziaria  (i  discorsi  

di difesa e di accusa pronunciati nei tribunali) e quella celebra-tiva (elogi, encomi funebri e simili). In particolare nel IV secolo l’oratoria   ebbe   ad   Atene   uno   sviluppo   considerevole   (cono-sciamo   i   nomi   di   un’ottantina   di   oratori)   ed   in   età   ellenistica   venne delineato un canone di quelli che erano considerati i die-ci migliori oratori ateniesi: Antifonte, Andodie-cide, Lisia, Isocrate, Iseo, Eschine, Licurgo di Atene, Demostene, Iperide e Dinarco. Nella definizione di questo canone, basato sui testi delle ora-zioni, i filologi alessandrini che lo elaborarono si basarono ov-viamente   non   tanto   sull’efficacia   e   sul successo che avevano avuto le specifiche orazioni, ma sulle caratteristiche dello stile e della prosa in cui esse erano scritte. Va considerato, a quasto proposito,  che  l’orazione  scritta  non  consente  di  cogliere  un   a-spetto   spesso   fondamentale   dell’attività   dell’oratore,   e   cioè   la   gestualità, il tono e il volume della voce che accompagnano il discorso. Non tutti gli oratori, del resto, divulgavano la versio-ne scritta dei propri discorsi, specie se le loro ambizioni erano più politiche che letterarie: non lo fecero, per es., personaggi come Pericle e Temostocle, che pure erano molto apprezzati dai contemporanei in quanto oratori.

Allo   sviluppo   dell’oratoria   si   affiancò   quello   della   retorica,   che elaborò un sistema complesso di norme e precetti utili per scrivere e pronunciare con successo delle orazioni. Questi pre-cetti riguardavano ovviamente la forma delle orazioni, non il loro contenuto, ed erano quindi utilizzabili per gli obiettivi più diversi, anche eversivi. Per questa ragione la retorica fu avver-sata da Platone, che considerava in particolare la retorica dei Sofisti antitetica alla ricerca della verità che doveva caratteriz-zare la filosofia. La retorica fu poi legittimata da Aristotele, che

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scrisse un proprio trattato di retorica nel quale determina il ruolo autonomo di questa disciplina rispetto alla logica e alla dialettica.

L’oratoria  ateniese  declinò  dopo  la  conquista  macedone  del-la  Grecia,  ma   del-la  retorica  restò  un  ambito  centrale  dell’educazio-ne e della formazio dell’educazio-ne antica (una funzio dell’educazio-ne della retorica che fu teorizzata   soprattutto   da   Isocrate).   L’influenza   della   retorica   è   rilevabile   nell’intera   produzione   letteraria, poetica e in prosa. Anche la storiografia antica risente fortemente della retorica, non   solo   nella   scelta   dello   stile,   ma   anche   nell’uso di inserire nella narrazione storica discorsi di personaggi importanti, qua-si sempre immaginati dagli storici stesqua-si.

3. Oratoria e retorica a Roma

Anche  l’oratoria  romana  nasce  dalla  pratica  oratoria  dei  tri-bunali   e   delle   assemblee,   a   partire   dall’età repubblicana. Una tradizione romana di tipo oratorio era anche quella delle lauda-tiones funebres, i discorsi di elogio dei defunti che veniva pro-nunciato in occasione del funerale dei personaggi importanti.

Svariati personaggi della Roma più antica, a partire da Ap-pio Claudio Cieco, sono ricordati come valenti oratori, ma è del tutto improbabile che i loro discorsi fossero trascritti. La tradi-zione antica conosceva il testo scritto del discorso pronunciato da Appio Claudio nel 280 a.C., per dissuadere i Romani dalla pace con Pirro, ma si trattava con ogni probabilità di una ri-scrittura posteriore, simile ai discorsi che gli storici antichi at-tribuiscono abitualmente ai personaggi di cui narrano le im-prese, sulla base ovviamente della propria idea di quei perso-naggi e delle situazioni in cui i discorsi sarebbero stati pronun-ciati.

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pratica di conservare il testo scritto delle orazioni (ci sono ri-masti molti frammenti delle sue orazioni). Lo stesso Catone, del resto, è considerato il pioniere della prosa latina: fu il primo autore  di  un’opera  di  storia  in  latino  (le  Origines), con cui pose le premesse della storiografia latina, soppiantando la preceden-te storiografia in lingua greca inaugurata da Fabio Pittore.

La   rivalsa   di   Catone   nei   confronti   dell’eccessivo   favore   ac-cordato  alla  cultura  greca  è  rilevabile  anche  nell’ambito  dell’o-ratoria  e  della  retorica.  Quest’ultima  era  stata  introdotta  a  Ro-ma, come altre discipline, da immigrati o schiavi di origine gre-ca.  Se  si  considera  l’origine  stessa  della  retorica,  sviluppatasi  in   contesti politici non autocratici, in Sicilia e poi ad Atene, si può facilmente   spiegare   l’ostilità   che   essa   suscitò   nei   gruppi   con-servatori romani, timorosi degli effetti che essa poteva avere nell’allargamento   dello   spazio   pubblico,   fornendo   le   tecniche   oratorie, e quindi strumenti di persuasione ed influenza, ai rappresentanti della plebe. Questi orientamenti politici porta-rono, nel 161 a.C., al varo di un provvedimento di espulsione dei retori greci da Roma.

Le preoccupazioni dei gruppi conservatori erano condivise da Catone il Censore, che alla retorica greca oppose una pro-pria retorica, che inserì nella propro-pria opera enciclopedica, i Pra-ecepta ad filium Marcum (oltre alla retorica, essa includeva medi-cina e agricoltura, forse anche giurisprudenza e arte militare). Fra i pochi frammenti rimasti relativi alla retorica è significati-vo  quello  in  cui  Catone  pone  l’accento  sul  profilo  etico  e  politi-co  dell’oratore:  orator est, Marci fili, vir bonus dicendi peritus (frg. 14   Jordan   ap.   Sen   contr.   1   pr.   9).   L’oratore,   afferma   Catone   ri-volgendosi al figlio Marco, deve essere insieme capace di parla-re in pubblico e uomo dai saldi principi morali. La polemica implicita è rivolta contro la tradizione greca che separava la tecnica di persuasione dai contenuti di essa (a Roma aveva su-scitato scandalo, nel 155 a.C., il filosofo Carneade, che nel giro

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di due giorni aveva pronunciato due discorsi opposti in merito alla giustizia). In un altro frammento Catone sembra prendere posizione  contro  l’eccesso  di  abbellimenti  retorici  del  discorso,   invidando  l’oratore  a  restare  aderente  ai  fatti:  rem tene, verba se-quentur (frg. 15 Jordan).

I   provvedimenti   restrittivi   non   impedirono   l’assimilazione   della retorica greca da parte degli oratori romani, che già nella generazione successiva a Catone mostrano una solida cono-scenza delle tecniche della retorica greca. Fra gli oratori attivi nel   II   secolo   spiccano   i   fratelli   Gracchi,   fautori   di   un’oratoria   appassionata, volta a suggestionare ed infiammare il pubblico con ripetizioni ed esagerazioni patetiche e con il ricorso a para-goni e ad immagini capaci di suscitare emozioni. A questo tipo di oratoria si opponeva quella preferita da altri esponenti poli-tici dell’epoca,  che  prediligevano  uno  stile  più  misurato,  che  fa-ceva maggiormente leva sulle argomentazioni e sulla persua-sione razionale.

Nel II secolo la conoscenza della retorica era limitata ai Ro-mani in grado di accedere alla trattatistica greca (o a precettori greci), costituendo la barriera linguistica un freno alla diffusio-ne   delle   tecniche   oratorie.   All’inizio   del   I   secolo,   ad   opera   di   Plozio Gallo, un retore amico di Gaio Mario (homo novus ed av-versario dei gruppi aristocratici), venne fondata la scuola dei cosiddetti rhetores latini, nella quale la retorica era insegna in la-tino. Essa venne chiusa nel 92 a.C. per ordine delle autorità, preoccupate per il suo successo, ma il provvedimento non im-pedì  l’affermazione  della  retorica  nella  cultura  romana. Proba-bilmente   nell’ambito   dei Rhetores latini venne elaborato il più antico trattato di retorica in latino che ci è rimasto, la cosiddetta Rhetorica ad Herennium,   di   cui   è   ignoto   l’autore   (nel   Medioevo   essa era attribuita a Cicerone).

La diffusione della retorica fu favorita, fra il II e il I secolo a.C., dal crescente rilievo acquistato da ruolo degli avvocati

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(pa-trones), oratori specializzato nella difesa processuale degli im-putati. Il ruolo del patronus, pur restando fortemente legato alla politica, rese indispensabile la formazione retorica, affidata ora regolarmente  alle  scuole  e  poi  all’apprendistato  presso  avvocati   già affermati.

I  due  maggiori  oratori  di  quest’epoca  furono  Marco  Antonio   (nonno  del  triumviro,  vittima  nell’87  del  regime  di  Mario),  che   fu anche autore di un perduto trattato di retorica, e Lucio Lici-nio Crasso, esponente della fazione aristocratica. Cicerone ne farà i protagonisti del proprio dialogo De oratore, attribuendo ad   Antonio   un’oratoria   basata   sulla   predisposizione   naturale   dell’oratore,   e   a   Crasso   una   visione   dell’oratoria   più   vicina   a   quella   dello   stesso   Cicerone,   basata   su   un’ampia   formazione   culturale.

L’oratoria   dei   Gracchi   e   quella di Licinio Crasso preludono per   qualche   aspetto   al   cosiddetto   stile   “asiano”,   che   si   impose   nel I secolo a.C. Si trattava di uno stile magniloquente, spesso ampolloso  e  rindondante,  basato  sull’uso  frequente  delle  figure   retoriche e dal ritmo enfatico e concitato. La denominazione “asiano”  è  dovuta  al  fatto  che  gli  iniziatori  greci  di  questo  stile   erano   originari   dell’Asia   Minore   (in   particolare   Egesia   di   Ma-gnesia, attivo verso il 250 a.C.). Il maggior esponente dell’Asianesimo   romano   fu   Quinto   Ortensio   Ortalo   (114-50 a.C.),  l’oratore  di  maggiore  successo  prima  di  Cicerone.

Vedremo nel prossimo paragrafo la posizione di Cicerone in merito   all’Asianesimo.   Essa   andrà   valutata   tenendo   conto   dell’evoluzione  complessiva  dell’oratoria  romana,  che  vide  af-fermarsi,  già  nell’ultima  fase  della  sua  carriera,  un  nuovo  indi-rizzo  oratorio,  il  cosiddetto  “atticismo”  (dal nome della regione di  Atene,  l’Attica).  L’oratoria  atticistica,  diversamente  da  quello   asiana, era caratterizzata da uno stile scarno, sobrio ed essen-ziale, ispirato a quello dell’oratore  ateniese  Lisia.  Sul  piano  lin-guistico  l’oratoria  atticistica  è  attenta alla purezza linguistica, in

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opposizione alle distorsioni del linguaggio che caratterizzava-no  l’oratoria  asiana.  

Non è casuale il fatto che gli oratori atticisti fossero anche sostenitori  della  teoria  “analogistica”,  per  la  quale  il  linguaggio   deve essere rispettoso delle norme grammaticali. A questa teo-ria   si   opponeva   quella   “anomalistica”,   che   valorizzava   invece   l’uso  linguistico  e  le  particolarità  del  linguaggio,  spesso  in  con-traddizione con le norme grammaticali.

Uno dei maggiori sostenitori della teoria analogistica e dell’oratoria   atticistica era Giulio Cesare, che scrisse anche un trattato intitolato De analogia. Questi principi sono rilevabili an-che nella prosa delle opere di Cesare an-che ci sono pervenute, il De bello Gallico e il De bello civili.

L’antagonismo  asianesimo  /  atticismo  ebbe  ripercussioni  an-che  nel  genere  storiografico.  Il  corrispettivo  dell’oratoria  asiana   in   questo   ambito   è   la   storiografia   “tragica”   di   Lucio   Cornelio   Sisenna, che narrava la storia con accenti drammatici, roman-zeschi e patetici, e con una lingua ricca di arcaismi e di effetti retorici (era uno stile funzionale alla parzialità politica di Si-senna, legato alla figura di Silla). Una storiografia vicina all’atticismo  oratorio  era  invece  quella  che  si  rifaceva  allo  stori-co   gre stori-co   Tucidide,   testimoniata   principalmente   dall’opera   di   Sallustio (in politica seguace di Cesare).

Sostenitore  dello  stile  atticista  fu  anche  l’erede  di  Cesare,  Ot-taviano Augusto, che si era formato nella scuola del retore A-pollonio di Pergamo. La retorica della prima età imperiale con-tinuò ad oscillare fra Atticismo ed Asianesimo, anche se l’avvento   del   regime   imperiale   determinò   la   decadenza   dell’oratoria,   analogamente   a   quanto   era   avvenuto   in   Grecia   all’epoca   della   dominazione   macedone.   L’attività oratoria si indirizzò in età imperiale alle declamazioni, cioè alle orazioni fittizie che venivano pronunciate nelle scuole di retorica: suaso-riae se si trattava di orazioni fittizie di tipo politico, controversiae

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se le orazioni erano di tipo giudiziario (relative a cause imma-ginarie).  Dell’attività  declamatoria  abbiamo  notizia  grazie  all’o-pera di Seneca il Vecchio. La retorica restò comunque al centro della formazione scolastica, come evidenzia il tratto De institu-tione oratoria scritto in età flavia da Quintiliano.

4. Cicerone

Marco Tullio Cicerone (M. Tullius Cicero) nacque ad Arpino nel  106  a.C.  ed  ebbe  un’eccellente  formazione  filosofica  e  reto-rica, dapprima a Roma e successivamente in Grecia. Prestò ser-vizio militare nel 90/89, mentre era in corso la guerra sociale, ed intraprese poi la carriera oratoria frequentando gli oratori Pu-blio Sulpicio Rufo ed Aurelio Cotta. Ambedue questi perso-naggi furono coinvolti nella guerra civile fra Mario e Silla, in-ducendo Cicerone a tenersi in questa fase lontano dalla vita po-litica, e a dedicarsi invece alla stesura di un proprio trattato di retorica, il De inventione, prima parte di un progettato trattato che  doveva  interessare  l’intera  retorica  (l’inventio, su cui verte il trattato, è la prima delle 5 parti in cui era suddivisa la ca8).  L’opera  presenta  molte  analogie  con  la  Rhetorica ad Heren-nium (il trattato dei rhetores latini ricordato sopra), a cui proba-bilmente Cicerone si ispirò.

Negli anni successivi Cicerone iniziò la propria carriera di avvocato e pronunciò due orazioni in difesa di imputati, la Pro Quinctio (81 a.C.), in difesa di un personaggio implicato in un questione patrimoniale, e la Pro Roscio Amerino (80), in difesa di un cittadino di Ameria accusato di parricidio. In queste prime orazioni  lo  stile  di  Cicerone  è  influenzato  dall’Asianesimo  e  da   Ortensio, peraltro impegnato anche lui nella difesa di Publio

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Quinzio. Ambedue i processi, inoltre, avevano implicazioni po-litiche, per i legami degli imputati   nella   Roma   dell’epoca,   sot-toposta alla dittatura di Silla (Roscio Amerino, in particolare, era avversato da un potente liberto di Silla, Lucio Cornelio Cri-sagono). Per ragioni di prudenza politica Cicerone, negli anni successivi, preferì abbandonare momentaneamente la carriera di avvocato e di intraprendere un soggiorno di studio in Grecia (79-77 a.C.), dapprima ad Atene e poi a Rodi, accompagnato dal fratello, Quinto Tullio Cicerone. Ad Atene Cicerone fu ac-colto da Tito Pomponio Attico, che diverrà poi suo amico e cor-rispondente (destinatario di molte lettere del suo epistolario). Ad Atene Cicerone seguì le lezioni del filosofo Academico An-tioco di Ascalona; a Rodi quelle dello stoico Posidonio di Apa-mea. A Rodi, inoltre, frequentò Molone di Rodi, che aveva già conosciuto anni prima a Roma, e con il quale maturò uno stile oratorio più moderato di quello asiano (denominato talora “rodiese”),  che  caratterizzerà  l’oratoria  matura  di  Cicerone.

Rientrato a Roma dopo la morte di Silla (78 a.C.), Cicerone intraprese   la   carriera   politica,   continuando   al   contempo   l’atti-vità di avvocato. Nel 76 fu eletto questore, una carica che lo portò a contatto   con   i   problemi   connessi   all’amministrazione   delle province. In seguito ad un viaggio in Sicilia, egli assunse la   difesa   dei   Siciliani   in   una   causa   in   cui   era   imputato   l’ex-governatore della provincia, Gaio Verre. Contro Verre, che era difeso  da  quello  che  all’epoca  era  il  principe  del  foro,  Ortensio   Ortalo, Cicerone pronunciò nel 70 cinque orazioni che lo proiettarono al centro della scena politica romana. La sua asce-sa restava però contrastata dalla diffidenza degli aristocratici, in quanto Cicerone era un homo novus (non aveva ascendenti nobili  e  per  di  più  veniva  da  Arpino,  patria  dell’odiato  Mario).   Nonostante ciò, nel 69 egli venne eletto alla carica di edile curu-le e nel 66 a quella di pretore. In questo stesso anno pronunciò la sua prima orazione politica, la Pro lege Manilia de imperio Cn.

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Pompei, un discorso in cui appoggiò il conferimento a Pompeo dei pieni poteri nella guerra in corso contro il re del Ponto Mi-tridate, condotta fino a quel momento da Lucio Licinio Lucullo. Questo conferimento, appoggiato dal ceto dei cavalieri, interes-sati ad una rapida conclusione della guerra e allo sviluppo dei commerci con   l’Asia,   era   osteggiato   invece   dal   Senato   e   dagli   aristocratici, dei quali faceva parte la famiglia dei Luculli, il cui maggiore esponente veniva esautorato dal provvedimento a favore di Pompeo. La destituzione era favorita dal fatto che Lucullo, dopo una   serie   di   affermazioni   militari,   nell’ultimo   anno del suo comando era incorso in insuccessi e sconfitte, con la conseguenza che Mitridate era riuscito a riconquistare la Cappadocia e buona parte dei domini perduti in precedenza. Nel biennio successivo Pompeo sconfisse definitivamente Mi-tridate,  allargò  l’area  di  influenza  romana  all’Armenia  ed  effet-tuò spedizioni che arrivarono fino alle pendici del Caucaso.

Cicerone arrivò al vertice della carriera politica nel 64, anno in  cui  fu  eletto  console  per  l’anno successivo, il 63. Il consolato ebbe come evento principale la congiura di Lucio Sergio Catili-na, esponente della fazione popolare avversa agli aristocratici. Nella vicenda della guerra mitridatica Cicerone si era trovato alleato di Cesare e Pompeo, contro gli aristocratici. In occasione della congiura egli si schierò invece con questi ultimi e pronun-ciò le orazioni Catilinariae perorando ed ottenendo la condanna a morte dei congiurati. Nel dibattito che si svolse in Senato Ci-cerone si scontrò con Cesare, che avrebbe voluto punire i con-giurati  con  l’esilio  e  la  confisca  dei  beni.  Catilina  sfuggì  alla  cat-tura  ma  morì  l’anno  dopo   in  Etruria,  braccato  dall’esercito  ro-mano.

Negli anni successivi Cicerone restò vicino alle posizioni de-gli aristocratici e cercò di   frenare   l’alleanza   fra   Pompeo   e   l’emergente   Cesare,   che   portò   nel   60   alla stipula del primo triumvirato, fra i due personaggi e Marco Licinio Crasso, uno

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dei  personaggi  più  ricchi  nella  Roma  dell’epoca. Il nuovo con-testo politico creò le condizioni per la vendetta della fazione popolare su Cicerone: nel 58 egli fu incriminato per aver con-dannato a morte i catilinari senza concedere loro la possibilità di appellarsi al popolo per ottenere una pena detentiva. In se-guito  all’accusa,  Cicerone  fu  costretto  all’esilio,  che  trascorse  in   Grecia (per lo più a Tessalonica). Rientrò a Roma nel 57, grazie ad un provvedimento sostenuto da Pompeo (Cesare, nel frat-tempo, era partito per la Gallia).

Cicerone riprese negli anni successivi la sua attività politica e di avvocato, tentando di promuovere una riconciliazione dei ceti che si opponesse alla fazione popolare (programma espo-sto nella Pro Sestio,  pronunciata  nel  56).  L’attività  politica  fu  in-frammezzata in questi anni dalla composizioni di opere quali il De oratore,   dialogo   sulla   formazione   dell’oratore,   e   il   De re pu-blica, dialogo ispirato alla Repubblica di Platone.

Nel 51, mentre i rapporti fra Cesare e Pompeo andavano de-teriorandosi, Cicerone si recò quale proconsole in Cilicia (Asia Minore). Nel 49 scoppiò la guerra civile, con il passaggio del Rubicone da parte delle truppe di Cesare. In una prima fase Ci-cerone seguì i Pompeiani in fuga e raggiunse Durazzo, ma poi prese le distanze dallo stesso Pompeo, sconfitto a Farsalo (48), e tornò  a  Roma  ottenendo  il  perdono  da  Cesare.  L’avvicinamento   è  evidenziato  dalle  cosiddette  orazioni  “cesariane”  (Pro Marcel-lo, Pro Ligario, Pro rege Deiotaro).  L’evoluzione  del  regime  di  Ce-sare in dittatura chiuse a Cicerone gli spazi di attività politica che sperava di conservare e lo spinse negli anni successivi a dedicarsi agli studi: nel giro di pochi anni completò il De legi-bus (iniziato 6 anni prima), scrisse la maggior parte delle sue opere filosofiche: Hortensius (perduto), Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, De fato, De senectute, De amicitia, De officiis, De divinatione, e pubblicò anche due ope-re ope-retoriche, il Brutus e  l’Orator. In queste opeope-re Cicerone pope-rese

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posizione  contro  l’Atticismo,  lo  stile  oratorio  che  si  andava  im-ponendo in quegli anni (vedi sopra, § 3).

L’uccisione   di   Cesare   (marzo   44)   riaprì   lo   scontro   politico,   che vide Cicerone schierato contro colui che si presentava come l’erede   di   Cesare,   Marco   Antonio. Contro di lui Cicerone pro-nunciò le orazioni Philippicae (ispirate alle orazioni di Demo-stene contro Filippo di Macedonia). Cicerone sperava che lo strapotere di Antonio fosse contrastato da Ottaviano (il giovane figlio adottivo di Giulio Cesare), ma quest’ultimo   preferì   ac-cordarsi con Antonio, con il quale (assieme a Lepido) stipulò il cosiddetto   secondo   triumvirato.   L’accordo   prevedeva   l’elimi-nazione degli avversari politici, che vennero inclusi nelle liste di proscrizione. Cicerone fu incluso nelle liste, per ordine di Antonio, ed ucciso nel dicembre 43.

5. Il processo contro Archia

Le orazioni furono una parte cospicua della produzione let-teraria di Cicerone. Abbiamo notizia di 106 orazioni da lui pro-nunciate. Ci è rimasto il testo di 58 orazioni; di altre 18 restano frammenti. La maggior parte delle orazioni sono costituite da difese (Pro Sestio, Pro Milone e molte altre); altre sono orazioni giudiziarie pronunciate in qualità di accusatore (le orazioni In Verrem, In Pisonem e altre); le altre sono orazioni politiche (ad es. le Catilinariae e la De lege agraria).

Quello contro Archia fu uno dei numerosi processi nei quali Cicerone, in qualità di avvocato, assunse le difese di un impu-tato. Aulo Licinio Archia era un poeta greco, proveniente da Antiochia,  nell’attuale  Asia  Minore, che a Roma aveva trovato protezione ed ospitalità presso la famiglia dei Luculli, con una forma di patronato   all’epoca   diffusa:   intellettuali   del   tipo   di   Archia, oltre a ruoli celebrativi e di intrattenimento, svolgevano

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anche funzione di educatori (questo sembra esser stato anche il caso di Archia, in quanto Cicerone afferma di aver imparato molto da lui).9 Archia   era   l’originario   nome   greco   del  

perso-naggio; Aulo Licinio il prenome e il nome assunti in seguito al sua   legame   con   la   famiglia   dei   Luculli,   appartenenti   all’antica   gens dei Licinii, originari di Lanuvio.

Archia, per motivi che non sono del tutto chiari, era stato ac-cusato di essersi illegittimamente dichiarato cittadino romano. Conosciamo  il  nome  dell’accusatore,  Grattius,  in  quanto  esso  è   citato dallo stesso Cicerone, ma non sappiamo chi fosse. Il pro-cesso si svolse nel 62 a.C.,10 anno successivo al consolato di

Ci-cerone,  le  cui  vicende  sono  ricordate  nell’orazione  come  evento   recente (§ 28).

Per chiarire il contesto giuridico del processo, dobbiamo considerare  la  vicenda  storica  della  guerra  italica  o  “sociale”11,

che si era svolta nel 91-88 a.C. Causa della guerra era stata la rivendicazione della cittadinanza (civitas) romana da parte de-gli alleati italici di Roma. Questa richiesta era stata avanzata fin dall’epoca   dei   Gracchi,   ma   l’estensione   della   cittadinanza   era   stata sempre impedita dai gruppi conservatori.

La tensione fra gli Italici e Roma aumentò in seguito all’approvazione  della   lex Licinia Mucia (95 a.C.), un

9 La rete di legami di patronato intrattenuta da Archia è ricostruita da T. P.   Wiseman,   “Pete Nobiles Amicos: Poets and Patrons in Late Republican Rome”,   in   B.   K.   Gold   (ed.),   Literary and Artistic Patronage in Ancient Rome, Austin 1982, pp. 28-49 (a pp. 31-34).

10 La datazione è avvalorata dal fatto che il processo, come attesta lo sco-liasta Bobiense, fosse presieduto, in qualità di pretore, da Quinto Cicerone (il   fratello   dell’oratore);   da   una   lettera   ad   Attico   (1.15.1)   sappiamo   che   l’anno   successivo   Quinto   era   propretore.   Dubbi   sulla   datazione   sono   stati   espressi   da   J.   Bellemore,   “The   Date   of   Cicero’s   Pro   Archia”,   Antichton 36 (2002), pp. 41-53, per il quale il processo potrebbe essersi in realtà svolto nel 56 a. C.

11 Questa denominazione è da intendere non nel senso odierno del ter-mine, ma come guerra dei socii, cioè degli alleati

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mento che istituiva un tribunale giudicante per chi si fosse a-busivamente inserito tra i cittadini (cives) romani. Il tribuno della plebe Marco Livio Druso si adoperò negli anni successivi a  favore  degli  Italici,  ma  trovò  l’opposizione  del  console  Lucio   Marcio Filippo, ostile ad ogni concessione.

L’assassinio  di  Druso,  nel  91,  provocò  la  rivolta  delle  popo-lazioni italiche, che scoppiò nel Piceno e che si estese presto all’intera   Italia   centro-meridionale (ne rimasero estranei gli Umbri  e  gli  Etruschi).  I  ribelli  si  dettero  un’organizzazione  po-litica e militare stabilendo come propria capitale Isernia. I Ro-mani reagirono militarmente,  e  nell’88  stroncarono  la  rivolta  ed   espugnarono le roccaforti dei ribelli in Abruzzo, ma provvide-ro anche ad arginare politicamente il malcontento varando dapprima la lex Iulia de civitate Latinis danda (90), che concedeva la cittadinanza ai municipi che non avevano aderito alla rivol-ta, e poi la Lex Plautia Papiria de civitate sociis danda (89), che sta-biliva che potessero chiedere la cittadinanza romana tutti colo-ro che erano originari di città alleate, ma che vivevano a Roma. Probabilmente per frenare   gli   abusi   nell’applicazione   della  

Lex Plautia Papiria, nel 65 a.C. venne approvata la Lex Papia de peregrinis,   che   puniva   con   l’espulsione   coloro   che   si   erano  

ap-propriati irregolarmente della cittadinanza sulla base della lex

Plautia Papiria. Con ogni probabilità Archia venne denunciato

sulla base della lex Papia, per aver illecitamente usufruito della

lex Plautia Papiria.

La difesa di Cicerone cerca di dimostrare che Archia non a-veva usufruito irregolarmente della lex Plautia Papiria, e che quindi  era  legittimamente  cittadino  romano.  Nell’orazione  egli   cita il testo di questa legge, dal quale si evince che essa asse-gnava la cittadinanza sulla base di tre condizioni: a) essere cit-tadini di una città federata; b) avere il domicilio a Roma; c) aver presentato   richiesta   al   pretore   entro   60   giorni   dall’approva-zione della legge. Archia avrebbe rispettato queste tre

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condi-zioni in quanto: a) sarebbe stato cittadino di Eraclea, città fede-rata;12 b) avrebbe avuto domicilio a Roma nella casa dei Luculli;

c) avrebbe regolarmente presentato la sua istanza. Solo sul ter-zo punto, però, Cicerone fu in grado di portare in aula una do-cumentazione sicura: egli, infatti, fa esibire davanti ai giudici le tavole che attestavano la richiesta. Per gli altri due punti poteva basarsi  solo  su  testimoni:  l’elenco  dei  cittadini  di  Eraclea,  infat-ti,  non  era  disponibile,  in  quanto  l’archivio  della  città  era  anda-to distrut anda-to nel corso della guerra sociale. Per quel che riguarda il  domicilio  a  Roma,  l’accusa  aveva  segnalato  l’assenza del no-me di Archia nelle liste censorie: Cicerone replica a questo ap-punto con due argomenti, il fatto che Archia fosse spesso im-pegnato fuori Roma assieme a Lucullo, e le irregolarità che si erano verificate nella compilazione delle liste censorie.

Nel  complesso,  come  si  vede,  la  posizione  dell’imputato,  dal   punto di vista giuridico, era meno forte di quanto Cicerone non voglia  far  credere  nell’orazione.  Il  processo  ebbe  comunque  un   esito positivo per Archia: non abbiamo notizie dirette in propo-sito, ma che egli fosse stato assolto lo fa pensare il fatto che an-ni dopo fosse ancora attivo a Roma.13 Sull’esito   favorevole   del  

giudizio avrà avuto un certo peso il fatto che la giuria fosse presieduta da Quinto Cicerone, fratello del difensore.

6. Risvolti politici del processo

Il processo contro Archia non presenta apparentemente ri-svolti politici, per cui non si è escluso che Cicerone possa aver assunto  la  difesa  dell’imputato  per  ragioni  professionali  o

12 Eraclea era una città della Lucania, fondata nel 434 a. C. da coloni pro-venienti   da   Taranto;   verso   il   280   si   era   alleata   con   i   Romani   (all’epoca   in   conflitto con Taranto).

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sonali (ad es. la gratitudine verso un vecchio maestro, se diamo fiducia  a  quanto  afferma  Cicerone  nell’orazione  stessa,  al  §  1,  di   aver cioè avuto Archia quale maestro). È difficile, però, che la causa non avesse ripercussioni politiche, in quanto Cicerone, nel 62, aveva ancora un ruolo centrale nella vita politica roma-na,  mentre  l’imputato,  Archia,  era  legato  ad  una  delle  famiglie   più influenti a Roma, quella dei Luculli.14

Una   possibile   ipotesi   è   che   l’assunzione   della   difesa   di   Ar-chia fosse un favore reso a questa famiglia, anche se Cicerone in passato aveva aveva avuto anche rapporti conflittuali con essa (nel 66 a.C., come abbiamo visto, egli aveva appoggiato l’assegnazione   a   Pompeo   del   comando   della   campagna   mitri-datica), ma negli anni successivi, in coincidenza con le vicende del consolato, i rapporti di Cicerone con gli aristocratici erano migliorati, e quindi probabilmente anche quelle con i Luculli.

Un  dato  problematico  è  costituito  dall’identità  di  Grattius,  il   rappresentante  dell’accusa  che  Cicerone  cita  nell’orazione.  Si  è   ipotizzato che egli fosse un esponente della fazione pompeiana, all’epoca   in   conflitto   con   quella   aristocratica,   e   che   quindi   l’intera   causa   fosse   un’azione   di   disturbo   di   Pompeo   nei   con-fronti dei Luculli. Nessun indizio, però, suffraga questa ipotesi. Nell’orazione,  d’altra parte, Cicerone inserisce anche un elo-gio di Pompeo (§ 24), che evidenzia il suo intento di mantenere una posizione autonoma nel panorama politico romano. L’orazione,  per  questo  aspetto,  può  essere  inquadrata  nella  po-litica di mediazione e conciliazione fra Pompeo e gli

14 Fra i vari studi dedicati al problema basti ricordare quello di J. A. Ta-ylor,  “Political  Motives  in  Cicero’s  Defense  of  Archias”,   American Journal of Philology 73 (1952), pp. 62-70; meno propenso ad ammettere motivazioni po-litiche   era   T.   A.   Dorey,   “Cicero,   Pompey   and   the   Pro Archia”,   Orpheus 2 (1955), pp. 32-35. Più recentemente la questione è stata discussa da A. Luisi, “Pro Archia:  retroscena  politico  di  un  processo”,  in  Processi e politica nel mon-do antico, ed. M. Sordi, Milano 1996, pp. 189-206.

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ci perseguita in questa fase da Cicerone, ben testimoniata dalla lettera che egli inviò a Pompeo nella primavera del 62 a.C. (fam. 5.7):   in   essa   egli   cerca   di   contrastare   l’avvicinamento   di   Pom-peo ai populares Crasso e Cesare e presenta questi ultimi come tuos veteres hostes, novos amicos. Fu un tentativo fallito, in quan-to nel 62 a.C. Pompeo formerà con Crasso e Cesare il primo triumvirato,   determinando   l’emarginazione   politica   di   Cicero-ne. Nel contesto politico in cui fu pronunciata la Pro Archia, Ci-cerone aveva comunque ancora un ruolo politico di un certo lievo,  e  l’orazione riflette in qualche misura il programma di ri-conciliazione  che  l’oratore  auspicava,  nell’intento  di  raccogliere   un vasto schieramento sociale e politico in difesa della tradi-zione repubblicana. È significativo il fatto che al § 6, fra perso-naggi che avrebbero apprezzato la cultura di Archia, egli in-cluda numerosi ex-consoli  ed  esponenti  dell’aristocrazia.

Nell’incertezza   sul   ruolo   preciso che la pro Archia potrebbe aver avuto nella battaglia politica di Cicerone, molti critici hanno   pensato   ad   un   interesse   personale   per   l’imputato,   dal   quale  egli  si  aspettava,  come  apprendiamo  dall’orazione  stessa   (§ 28), un poema celebrativo del proprio consolato e della re-pressione della congiura di Catilina. Cicerone afferma nell’orazione   che   Archia   aveva   già   iniziato   a   scrivere   questo   poema,  e  che  egli  aveva  potuto  apprezzare  alcuni  saggi  dell’o-pera (§ 28: quibus auditis, quod mihi magna res et iucunda visa est, hunc ad perficiendum adornavi), ma si trattava evidentemente di una finzione ad uso retorico e processuale, in quanto da lettera inviata   ad   Attico   l’anno   successivo   apprendiamo   che   Archia   non  aveva  mantenuto  l’impegno,  e  che  non  aveva  scritto  nulla su Cicerone: Archias nihil de me scripserit; ac vereor, ne, Lucullis quoniam Graecum poema condidit, nunc ad Cecilianam fabulam spec-tet.15 Le motivazioni del voltafaccia di Archia appaiono

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li: i rapporti di Cicerone con gli aristocratici, dopo il processo, si erano raffreddati ed Archia rimaneva legato principalmente ai Luculli.

Alla rinuncia di Archia di celebrare il consolato del 63 rime-diò lo stesso Cicerone, che tra il 60 e il 55 scrisse il poema auto-biografico De consulatu suo, in tre libri, dei quali resta solamen-te qualche frammento.16

7. La confirmatio extra causam

Nella Pro Archia sono riconoscibili le parti in cui sono tradi-zionalmente suddivise le orazioni giudiziarie:17 dopo una

pri-ma presentazione della causa ai giudici (exordium: §§ 1-4), volto conquistarsi il loro favore (captatio benevolentiae), Cicerone pas-sa a narrare le circostanze del processo, nel caso specifico pre-senta   l’imputato e la sua vicenda (narratio: §§ 4-7); di seguito, sulla base di quanto esposto nella narratio, confuta  l’accusa  (ar-gumentatio: §§ 8-11).

A  questo  punto,  come  afferma  lo  stesso  Cicerone,  l’orazione   dovrebbe terminare (causa dicta est). Egli passa invece a trattare di questioni non direttamente attinenti alla problematica legale dell’orazione:   è   questa   l’argomentatio extra causam (§§ 12-30), che  occupa  più  della  metà  dell’orazione  (a  cui  seguirà  una  bre-ve conclusione, la peroratio: §§ 31-32). Lo stesso Cicerone

16 Su  quest’opera  si  può  leggere  proficuamente  l’articolo  di  C.  Volk, "The

Genre of Cicero's De consulatu suo," in Generic Interfaces in Latin Literature:

Encounters, Interactions and Transformations, ed. by T. D. Papanghelis, S. J.

Harrison, and S. Frangoulidis. Berlin: de Gruyter, 2013, pp. 93-112.

17 La  struttura  dell’orazione  è  analizzata  da  L.  S.  Fotheringham,  “Gliding  

Transitions and the Analysis of Structure: Cicero's Pro Archia”,  in  C.  Deroux   (ed.), Studies in Latin Literature and Roman History v. XIII, Bruxelles 2006, pp. 32-52.

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linea   l’inusualità   di   questa   parte   dell’orazione,   parlando   nell’esordio  di  genus dicendi che non modo a consuetudine iudicio-rum veiudicio-rum etiam a forensi sermone abhorreat (§ 3) e poi, nella par-te finale, di una parpar-te a foro aliena iudicialique consuetudine (§ 32).

Gli studiosi moderni hanno spesso identificato questo genus dicendi inusitato nel genere epidittico o laudativo.18 Questo

ge-nere aveva avuto a Roma una fortuna limitata:19 nel De oratore

Cicerone lo presenta come un genere greco, da lui inizialmente escluso  dall’insegnamento  e  praticato  più  per  diletto  o  per  elo-giare qualcuno, che per la sua utilità dei tribunali: ipsi enim Graeci magis legendi et delectationis aut hominis alicuius ornando quam utilitatis huius forensis causa laudationes scriptitaverunt (2.341). Il fatto che Cicerone possa aver mutuato questo genere nella Pro Archia non è di per se sorprendente (in passato si era arrivato   a   sostenere   che   l’intera   orazione,   per   questa   sua   ano-malia, potesse essere apocrifa, cioè una falsificazione).20 La Rhe-torica ad Herennium contempla  esplicitamente  l’utilizzazione  del   genere   laudativo   nell’oratoria giudiziaria e deliberativa, nelle quali ci sono parti che includono lodi e anche biasimi di perso-naggi (3.151: in iudicialibus et deliberativis causis saepe magne par-tes versantur laudis aut vituperationis). Si può quindi ammettere che Cicerone alluda  a  questo  genere,  definendolo  “nuovo”  (§  3:   prope novo et inusitato genere dicendi). Egli potrebbe aver tenuto in  particolare  conto,  nello  scrivere  questa  orazione,  dell’elogio  

18 Uno dei tre tipi di orazione: cfr. Appendice 1.

19 Cfr. G. Kennedy, The Art of Rhetoric in the Roman World 300 B.C.-A.D. 300, Princeton 1972, p. 21.

20 È la singolare tesi proposta nel sec. XIX da uno studioso tedesco, C. W. Büchner, Commentatio, qua M. Tullium Ciceronem orationis pro Archia poeta auctorem non esse demonstratur, Schwerin 1839-1841; gli replicò J. Lattmann, Ciceronem orationis pro Archia poeta revera esse auctorem demonstratur, Göttin-gen 1877.

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funebre di Pericle che si legge in Tucidide a 2.35.46.21 L’elogio  

che Cicerone propone di Archia è peraltro coerente con i det-tami della retorica di ascendenza aristotelica, che raccomanda-va di privilegiare i meriti morali e non le contingenze fortunate (i cosiddetti bona externa):22 in effetti Cicerone fa solo un

accen-no  all’origine accen-nobile di Archia (§4: natus est accen-nobili loco), ed elo-gia non solo la sua cultura e il suo ingenium poetico, ma anche la sua moralità (§ 5: non solum ingeni ac litterarum, verum etiam naturae ac virtutis).

Al di là delle distinzioni di genere, quello che comunque va sottolineato è che la lunga digressione appare del tutto funzio-nale alla difesa allestita da Cicerone, e quindi non estranea alla sua strategia oratoria.23

8. La  cultura  dell’oratore

L’argumentatio extra causam consiste in un elogio della cultu-ra  e  del  suo  ruolo  civile,  e  della  poesia  in  particolare.  L’elogio   della  cultura  si  apre  con  l’affermazione  che  le  discipline  (artes) che formano la cultura sono connesse fra loro in quanto sono tutte finalizzate alla humanitas: omnes artes, quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam commune vinculum et quasi cognatione quadam inter se continentur (§ 2).

Lo stesso concetto è formulato nel De oratore,  l’opera  di  reto-rica scritta da Cicerone pochi anni dopo lo svolgimento del processo: omnem doctrinam harum ingenuarum et humanarum ar-tium uno quodam societatis vinculo contineri (3.21). In questo caso

21 Cfr.  P.  R.  Murphy,  “Cicero’s  pro  Archia  and  the  Periclean  Epitaphios”,   TAPhA 89 (1958), pp. 99-111.

22 Cicerone lo teorizza esplicitamente nel De oratore, a 2.342.

23 D.   H.   Berry,   “Literature   and   Persuasion   in   Cicero’s   Pro Archia”,   in   Cicero the Advocate, eds. J. Powell, J. Paterson, Oxford 2004, pp. 291-312.

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le artes in questione sono definite ingenuae, termine che signifi-ca   “libero”,   non   schiavo,   e   che   denota   socialmente   il   tipo   di   formazione di cui Cicerone sta parlando,  quella  propria  dei  “li-beri”.  Del  tutto  equivalente,  e  più  comune  e  frequente,  è  la  de-finizione delle artes come liberales,  cioè  proprie  dei  “liberi”.  

Le artes di cui Cicerone sta parlando sono quindi quelle in-segnate   nelle   scuole   ai   giovani   “liberi”.di   buona   famiglia.   Si   tratta delle discipline che in Grecia erano note come ἐνκύύκλιος παιδείία (παιδείία significa  “educazione”,  da   παίίς,  “fanciullo”;   ἐνκύύκλιος ha  in  questo  caso  il  valore  di  “quotidiano”,  “ordina-rio”;   dall’espressione   greca   deriva   il   latino encyclopedia,   “enci-clopedia”).   Nel   De oratore Cicerone cita alcune delle discipline che venivano insegnate nelle scuole greche: has artis, quibus libe-rales doctrinae atque ingenuae continerentur, geometriam, musicam, litterarum cognitionem et poetarum, atque illa, quae de naturis rerum, quae de hominibus moribus, quae de rebus publicis dicerentur (3.127). Come si può vedere, non si parla solo delle discipline che   oggi   definiamo   “umanistiche”,   ma   anche   di   discipline   scientifiche quali la geometria e la musica. Nella tarda Antichi-tà verranno identificate sette artes “liberali”,  che  nel  Medioevo   verranno divise in due gruppi, il Trivio e il Quadrivio: del pri-mo faranno parte la grammatica, la retorica e la dialettica; del secondo  l’aritmetica,  la  geometria,  la  musica  e  l’astronomia.

Un carattere peculiare di queste artes, quello che le rende propriamente  “liberali”,  è  il  loro  carattere  “teorico”:  consistono   in nozioni che vengono impartire dal maestro, sulla base di te-sti scritti (la grammatica è la prima disciplina ad essere inse-gnata). Sono rigorosamente escluse le discipline di carattere pratico, in quanto nella cultura greco-romana il lavoro manuale è  devoluto  agli  schiavi  e  ai  ceti  subalterni,  essendo  l’educazione   propria dei liberi. Questa rigida divisione fra lavoro manuale e non  portava  ad  accentuare  il  carattere  “teorico” e non applica-tivo delle discipline insegnate ai liberi. Questa peculiarità della

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cultura greco-romana   è   stata   spesso   indicata   come   l’elemento   che ha frenato nel mondo antico lo sviluppo delle tecnologie, nonostante  l’alto  livello  delle  conoscenze  scientifiche:  le  appli-cazioni della scienza sarebbero state frenate dalla diffidenza nei confronti del lavoro manuale e lo sviluppo tecnologico disin-centivato dalla disponibilità di forza-lavoro a buon mercato, quella fornita dagli schiavi (realizzazioni tecniche raffinate, ad es.  nell’uso  del  vapore  acqueo,  restarono  limitate  a  sperimenta-zioni di tipo ludico, senza ricadute di carattere economico).

Il disprezzo per le attività manuali investiva anche attività del  tipo  di  quella  dell’attore,  considerata  degradante  per  un tadino  romano:  al  §  10  dell’orazione  Cicerone  osserva  che  le  cit-tà della Magna Grecia concedevano la cittadinanza anche a semplici scaenici artifices (“attori”),  e  poco  sopra parla di indivi-dui mediocres e che esercitavano una qualche umile attività (humili aliqua rate praediti). È del tutto eccezionale il caso dell’attore  Roscio  Lanuvino,  elogiato  per  la  sua  arte  al  §  17.

Alla struttura sociale schiavista andrà rapportata anche l’idea   di   humanitas che abbiamo trovato nella nostra orazione, doce Cicerone parla di artes che ad humanitatem pertinent (§ 2), e che è presente anche in un altro passo del De oratore relativo al-le arti liberali, dove è esplicitato il riferimento all’educazione   dei fanciulli (pueri): in his artibus, quae repertae sunt, ut puerorum mentes ad humanitatem fingerentur (3.58).

Il concetto di humanitas era stato elaborato nel II sec. a.C. dalle elites romane più sensibili alla cultura e alle idee filosofi-che grefilosofi-che. Lo troviamo, prima di Cicerone, in una commedia di   Terenzio,   L’Heautontimorumenos (“Il   punitore   di   se   stesso”),   scritta nel 165 a.C. Uno dei protagonisti di questa commedia, Cramete, si accorge che un altro personaggio, Menedemo, è rat-tristato e in preda ad un dolore interiore. Cramete gli chiede quale sia il motivo della sua condizione, ma Menedemo gli ri-sponde che la cosa non lo riguarda. Cramete replica dicendo di

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essere un uomo, e di non considerare estraneo nulla che ri-guardi un altro uomo: homo sum. Humani nihil a me alienum puto (Heaut. 77). Questa affermazione è stata spesso messa in rela-zione   con   il   cosiddetto   “circolo   degli   Scipioni”,   un   ipotetico   gruppo intellettuale nato sotto la protezione della famiglia de-gli Scipioni e caratterizzato alla simpatia nei confronti della cul-tura greca, in opposizione al tradizionalismo a tratti xenofobo rappresentato da Catone il Censore. Il termine humanitas, in questo contesto, designa una sorta di filantropia, di rispetto re-ciproco che ovviamente andrà riferito ad un ambito sociale piuttosto ristretto, senza i tratti universalistici che il concetto ha assunto in età moderna. In Cicerone il termine designa più ge-nericamente   la   cultura   che   caratterizza   l’elite   romana,   nell’ambito   di   un   sistema   di solidarietà e di doveri sociali che lo stesso Cicerone ha esplicitato nel De officiis.

Un tratto peculiare della visione esplicitata da Cicerone nella Pro Archia e nel De oratore riguarda quello che abbiamo visto il “legame”  che  connette  le  diverse  artes (vedi i passi citati sopra). Si tratta di quella che potremmo definire una presa di posizio-ne  contro  lo  specialismo,  a  favore  di  una  cultura  “geposizio-nerale”  ed   “enciclopedica”   (si   ricordi   l’etimologia   di   questo   termine)   che   deve   riguardare   non   solo   l’educazione dei fanciulli, ma anche la  cultura  dell’uomo  adulto.  Cicerone  si  vanta,  nell’orazione  (§   12), di dedicare alla lettura e allo studio tutto il proprio tempo libero.

Nello specifico Cicerone polemizzava in particolare contro l’idea  che  l’oratore debba essere dotato solo o in prevalenza di una competenza tecnica di tipo retorico, come era quella im-partita nelle scuole di retoriche (che esistevano a Roma da al-cuni   decenni,   dall’epoca   dei   cosiddetti   rhetores Latini: vedi so-pra il § 3 di questa Introduzione). Il De oratore si caratterizza, rispetto   ai   trattati   “tecnici”   di   retorica   (del   tipo   della   Rhetorica ad Herennium ed anche del De inventione dello stesso Cicerone),

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proprio   per   questa   cultura   ampia   ed   encliclopedica   che   l’o-ratore deve avere. Diversamente dalle altre discipline, afferma Cicerone,  che  si  occupano  ambiti  specifici  del  sapere,  l’oratoria   (bene dicere) non è inclusa in precisi confini: etenim ceterae fere ar-tes se ipsae per se tuentur singulae; bene dicere autem, quod est scien-ter et perite et ornate dicere, non habet definitam aliquam regionem, cuius terminis saepta teneatur (2.5). Per certi aspetti Cicerone rie-cheggia  un’affermazione  che  abbiamo  trovato  in  Catone,  pole-mico   nei   confronti   della   retorica   greca,   per   il   quale   l’oratore   deve essere un vir bonus dicendi peritus (vedi sopra). Catone po-neva una condizione di tipo etico-politico; Cicerone non lo fa esplicitamente,   parlando   di   cultura   enciclopedica   dell’oratore,   ma  presuppone  anche  un’etica  socialmente  definita,  quella  che   abbiamo trovato espressa dal termine humanitas.

L’idea  dell’oratoria  formulata  da  Cicerone  nel  De oratore pre-sentava anche risvolti filosofici (trovava probabilmente riscon-tri   in   un’opera   perduta   dello   stesso   Cicerone,   l’Hortensius).24 Il

modello  di  oratore  proposto  nell’opera voleva costituire anche la soluzione della querelle fra filosofia e retorica presente nella tradizione greca, proponendo una sorta di sintesi che da una parte accoglieva le istanze della filosofia, soprattutto platonica,

per le quali la retorica senza la filosofia è una disciplina priva di  contenuto,  dall’altra  teneva  conto  del  fatto  che  l’eloquenza  è   il fondamento della politica e della società civile. Filosofia e re-torica, nella visione di Cicerone, non sono opposte, bensì com-plementari, in quanto il buon oratore, nella sua cultura enci-clopedica, deve avere anche conoscenza della filosofia. Cicero-ne, per questo aspetto, tende a proporre una sintesi di due di-verse tradizioni della cultura greca, quelle rappresentate rispet-tivamente da Platone e da Isocrate.

24 C.   Vitelli,   “La   Pro Archia e   l’Hortensius:   analogie   e   loro   significato”,   Hermes 104 (1976), 59-72.

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È interessante osservare che Quinto Cicerone non concorda-va del tutto con la posizione del fratello. Lo apprendiamo dal proemio del De oratore, dove Cicerone ricorda la diversa idea dell’oratoria  postulata  dal  fratello,  basata  non  tanto  sulla  cultu-ra e sulle conoscenze, quanto sulla predisposizione natu cultu-rale (ingenium) e sulla pratica (exercitationes):

solesque non numquam hac in re a me in disputationibis nostris dissentiri quod ego eruditissimorum hominum artibus eloquentiam contineri sta-tuam, tu autem illam ab elegantia doctrinae segregandam putes et in quo-dam ingenii atque exercitationis genere ponenquo-dam (1.5).

La diversità di opinione fra i due fratelli attestata dal De ora-tore25 fa pensare che il quispiam a cui Cicerone si rivolge nel § 15

possa essere allusivo della posizione del fratello, che al proces-so era presente in quanto presiedeva la giuria. È da notare che l’interrogativa  che  Cicerone  rivolge  al  quispiam è una interroga-tiva reale, segnalata dal ne eclitico (istane doctrina), diversamen-te dalle indiversamen-terrogative che troviamo nei paragrafi successivi, che sono tutte retoriche, presuppongono cioè la risposta.

L’interrogativa  pone  il  problema  della  cultura  dei  grandi   o-ratori del passato:

Quaeret quispiam:  “Quid?  Illi  ipsi  summi  viri,  quorum  virtutes  litteris  pro-ditae  sunt,  istane  doctrina,  quam  tu  effers  laudibus,  eruditi  fuerunt?”

La   domanda   dell’ipotetico   interlocutore   riguarda   i   grandi   saggi della storia arcaica romana: oltre che saggi e virtuosi, essi erano anche colti ed eruditi? Cicerone sa che non è così, in

25 Anche in ambito filosofico le idee dei due fratelli non erano le stesse, in quanto Quinto Cicerone era più vicino a posizioni di tipo stoico. I due fra-telli  erano  comunque  accomunati  dall’interesse  per  la  cultura  greca  come  lo   stesso Cicerone dichiara nella lettera ad Attico 1.15.1: nunc, quoniam et laudis avidissimi semper fuimus et praeter ceteros φιλέέλληνες et sumus et habemus.

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quanto  all’epoca  in  cui  vissero  quei  personaggi,  la  cultura  greca   non era ancora penetrata a Roma. Cicerone deve quindi am-mettere che in certi casi la virtù è sufficiente a garantire la sag-gezza   e   l’abilità   oratoria,   anche   in   assenza   di   cultura.   In   una   certa  misura,  quindi,  nell’orazione  Cicerone  prende  in  conside-razione e riconosce la fondatezza delle obiezioni del fratello.

Un   ulteriore   elemento   da   considerare   è   rilevabile   nell’affer-mazione che si legge nei §§ 12-13, dove Cicerone dice di aver dedicato agli studi tutto il tempo libero che gli altri riservano al riposo e ai divertimenti. È qui presupposta la distinzione ro-mana   fra   l’otium e il negotium, cioè fra il tempo del riposo e quello dell’impegno   pubblico.   L’idea   promossa   da   Cicerone   è   che bisogna impiegare in modo dignitoso anche il tempo dell’otium, da cui la celebre formulazione otium cum dignitate. Troviamo  espressa  questa  idea  nell’orazione  Pro Sestio ed anche nell’esordio  del  De oratore, dove egli scrive che possono essere considerati perbeati (“felicissimi”)   coloro che, avendo ricoperto cariche e portato a termine imprese, hanno partecipato alla vita pubblica senza correre pericoli e possono godere con dignità della loro vita privata (in otio cum dignitate):

qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria flore-rent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent (1.1)

L’ideologia  dell’otium chiarisce anche la gerarchia che, come abbiamo visto, interessa le diverse artes. Il criterio del carattere teorico o pratico delle diverse discipline è un tratto che interes-sa anche la cultura greca, e risente del carattere schiavista delle società antiche, che portava a disprezzare il lavoro manuale in quanto prerogativa degli schiavi. Nella cultura prevalente a Roma a questo criterio gerarchico se ne sovrappone un altro, che  privilegia  l’attività  militare  e  politica  su  quella  intellettuale.   Troviamo questa gerarchia nel De oratore, dove Cicerone, dopo

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