Fabio Stok
Lezioni di
letteratura latina:
la Pro Archia di Cicerone
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2018 – UniversItalia – Roma ISBN 978-88-3293-104-4
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I
NDICE
P
REFAZIONE... 1
I
NTRODUZIONE... 5
1. Il genere oratorio ... 5
2. Oratoria e retorica in Grecia ... 7
3. Oratoria e retorica a Roma ... 9
4. Cicerone ... 14
5. Il processo contro Archia ... 18
6. Risvolti politici del processo ... 21
7. La confirmatio extra causam ... 24
8. La cultura dell’oratore ... 26
9. Il ruolo della poesia ... 34
10. L’ispirazione poetica ... 38
11. Gloria e immortalità ... 40
N
OTA CRITICA... 43
C
ICERONEP
ROA
RCHIA POETA... 53
A
PPENDICE1
C
ONCETTI FONDAMENTALI DELLA RETORICA97
A
PPENDICE2
L
A PROSA D’
ARTE... 103
A
PPENDICE3
L
A PROSA RITMICA... 107
A
PPENDICE5
P
ETRARCA E LA RISCOPERTADELLA
P
ROA
RCHIA... 113
P
REFAZIONE
La Pro Archia di Cicerone è stata tradizionalmente una delle letture preferite nell’insegnamento del latino, come evidenzia-no i numerosi commenti scolastici prodotti in passato. 1
Nell’ultimo cinquantennio questa tradizione è andata decli-nando, non solo nell’insegnamento scolastico, dove la lettura diretta di intere opere della letteratura latina è stata sacrificata dall’uso delle antologie, ma anche in quello universitario, per il vincolo costituito dai CFU (Crediti Formativi Universitari) e dalla conseguente parcellizzazione dei programmi d’esame. Ed anche laddove si continuano a leggere testi latini nella loro in-terezza, si fa generalmente uso delle edizioni bilingui disponi-bili nel mercato librario. Io stesso, anni orsono, lessi in un corso di Letteratura Latina la Pro Archia avvalendomi dell’eccellente edizione pubblicata nella BUR dal compianto Emanuele Nar-ducci.2
1 Fra le numerose edizioni italiane, reperibili per lo più solo nel mercato antiquario, basti ricordare quelle di E. Stampini (Paravia 1893); G. Seniga-glia (Sansoni, 1901); F. Cantarella (Albrighi Segati, Milano, 1902); A. Pozzi (Signorelli, 1928); P. Pischedda (D’Anna, 1957); A. Calesella (Saturnia, 1960); L. Agnes (Paravia, 1969).
Queste edizioni, però, sono strumenti che non favoriscono gli obiettivi formativi della lettura dei testi latini, per ragioni diverse che vanno dall’insufficienza delle note che esse forni-scono, anche nei casi migliori, alla presenza di traduzioni egre-gie ma non finalizzate alla comprensione puntuale del testo o-riginale. Queste edizioni possono consentire quindi un utile in-quadramento storico-culturale di opere ed autori, ma non favo-riscono la comprensione del testo e l’apprendimento della lin-gua e dello stile. La presenza della traduzione a fronte, inoltre, induce con frequenza lo studente a trascurare l’analisi della lingua, favorendo un rapporto superficiale e non problematico con il testo latino. Queste considerazioni sono tanto più pres-santi in presenza di un testo complesso come quello della Pro Archia, nella quale la raffinatezza e la profondità dello stile raggiungono un apice sconosciuto alla maggior parte delle al-tre orazioni di Cicerone.
Questo volume nasce da queste considerazioni e dalla con-statazione dell’assenza di edizioni, in lingua italiana,3 in grado
di rispondere alle esigenze segnalate. Le note che accompagna-no in questo volume il testo dell’orazione soaccompagna-no finalizzate ad orientare lo studente nella comprensione del testo, in particola-re della sintassi particolarmente complessa che questa orazione presenta. Ho cercato, di conseguenza, di guidare il lettore nella ricostruzione della struttura sintattica, lasciando alle sue
3 Un commento didattico in lingua inglese è stato curato da S. M. Cerutti: Cicero, Pro Archia poeta oratio, Wauconda, Ill., Bolchazy-Carducci Publ. 1998 (include un utile vocabolario, ma il commento contiene anche degli sgrade-voli errori); in lingua tedesca uno strumento agile è quello di S. Klient, M. Tullius Cicero, Oratio pro Archia poeta, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 2007 (Clara, Kurze lateinische Texte H. 18); un altro commento in tedesco è stato pubblicato da O. Schönberger, anch’esso in una collana ad uso didatti-co: M. Tullius Cicero, Pro Archia poeta oratio, Bamberg, C. C. Buchner (Testi-monia. Curriculare Reihe lateinischer und griechischer Texte), 1984 (in fa-scicolo a parte il testo dell’orazione).
petenze pregresse (o acquisibili tramite la consultazione di un manuale grammaticale) il riconoscimento della morfologia e della grammatica basilare. Per le note di sintassi il rinvio è per lo più a termini e concetti oggetto dell’insegnamento della ma-teria nel Modulo A e, più in generale, alla sintassi normativa di Traina e Bertotti.4
Le note esegetiche ed esplicative sono ridotte all’essenziale, ed integrate con l’Introduzione, che ha lo scopo precipuo di fornire gli elementi che appaiono più utili all’inquadramento storico e storico-culturale. Come già nel volume dedicato al ge-nere bucolico, l’Introduzione fornisce strumenti utili per in-quadrare l’opera in esame nello sviluppo più generale dei ge-neri della letteratura latina.
Una possibilità di utile approfondimento è fornita dalla No-ta testuale, nella quale sono esaminati alcuni passaggi proble-matici del testo ciceroniano. Da tempo ritengo utile fornire no-zioni di filologia anche nell’insegnamento di base di letteratura latina, segnalando in particolare la precarietà e l’incertezza che caratterizzano il testo delle opere trasmesse per tradizione ma-noscritta, anche a partire dall’esame delle diverse varianti che si riscontrano nelle edizioni moderne di molte di queste opere. Nel caso della Pro Archia non sarà inutile, per gli studenti più interessati, leggere le motivazioni delle scelte testuali che sono state effettuate.
Le appendici, infine, forniscono strumenti utili ad una più completa comprensione del testo e del valore storico-culturale dell’opera. L’Appendice 1 fornisce un’esposizione elementare di alcuni concetti della retorica; nelle Appendici 2 e 3 è possibi-le trovare qualche informazione di base sulla prosa d’arte e sul-le clausu sul-le (due tematiche particolarmente ri sul-levanti per
4 A. Traina – T. Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, Bologna, Pà-tron Editore, 2015 (ristampa della terza edizione).
razione come la Pro Archia). L’Appendice 4, sugli epigrammi di Archia, è utile anche per gli studenti che hanno incluso nel loro curriculum di studi la Letteratura greca. L’Appendice 5, infine, dà informazioni più dettagliate sulla riscoperta dell’orazione ad opera di Francesco Petrarca e sull’impatto che essa ebbe nel-la cultura umanistica.
Fabio Stok Roma, marzo 2018
I
NTRODUZIONE
«The finest eulogy of the literary life in the whole of ancient literature» (Michel Grant)5
1. Il genere oratorio
Nella percezione letteraria moderna prosa è sinonimo di romanzo (o racconto), tutt’al più di teatro: difficilmente, invece, consideriamo “letteratura” un’orazione, una lettera o un tratta-to scientifico. Nelle letterature greca e latina, diversamente, la prosa d’arte interessa anche questi ambiti di scrittura, che si configurano come importanti generi letterari.
Questa ricezione antica della prosa letteraria riguarda in particolare l’oratoria, un genere innestato sulla pratica orale del discorso e che trova realizzazione letteraria, in poesia, già nei poemi omerici, nei quali i personaggi pronunciano frequente-mente dei discorsi (particolarfrequente-mente ammirati dai retori antichi erano i discorsi di Nestore nel libro I dell’Iliade e di Menelao e Odisseo nel III).
Lo sviluppo dell’oratoria presuppone un contesto politico
5 M. Grant (transl.), Selected Political Speechs of Cicero, New York 1977, p. 147.
nel quale ci sia una certa libertà di parola (una condizione che i Greci indicavano come παρρησίία, parrhesía), e quindi l’assenza di un regime rigidamente autocratico. Non è casuale il fatto che l’oratoria antica abbia avuto le sue stagioni più produttive a Si-racusa dopo la cacciata del tiranno Trasibulo (465 a.C.), ad A-tene nell’epoca di Pericle e della democrazia, e a Roma in età repubblicana. È in queste condizioni politiche, infatti, che un oratore può mettere in atto quella che è la funzione primaria di un discorso pubblico, il convincere gli ascoltatori. Nella demo-crazia ateniese e nella repubblica romana la capacità di convin-cere costituiva uno strumento importante della lotta politica, proprio per il carattere non autocratico di rispettivi regimi poli-tici.
L’oratoria, intesa come capacità di pronunciare discorsi con-vicenti, diventò presto oggetto di una disciplina (techne) che in-segnava a parlare in modo efficace: dal termine greco ῥήήτωρ (rhetor), che designa colui che parla in pubblico, essa fu deno-minata ῥητορικὴ τήήχνη (rhetoriké téchne), “arte del parlare in pubblico”, quindi senz’altro “retorica”.
Lo sviluppo della retorica favorì l’uso di scrivere il testo del-le orazioni, pratica che in un fase inizia del-le doveva servire all’apprendimento delle tecniche retoriche, ma che in seguito delineò un vero e proprio genere letterario, in quanto il testo di molte orazioni continuò a circolare e ad essere letto anche a di-stanza di tempo dal momento in cui esse erano state pronun-ciate. Nella fruizione delle orazioni scritte l’elemento determi-nante non era ovviamente più l’efficacia del discorso nel de-terminare l’opinione dell’ascoltatore, bensì lo stile e le caratteri-stiche della prosa dell’orazione.
corpus oratorio latino che ci è pervenuto,6 devono la loro
fortu-na al fatto di essere state utilizzate per secoli quali esempi di modelli di prosa e di stile.
2. Oratoria e retorica in Grecia
La retorica sembra esser nata a Siracusa, come abbiamo già visto, nell’epoca successiva alla cacciata dal tiranno Trasibulo, anche se Aristotele indica come fondatore della retorica il filo-sofo Empedocle di Agrigento (465 a.C.). Il contesto agrigentino è comunque analogo a quello siracusano, in quanto dopo il 472 a.C. si affermò ad Agrigento un regime di tipo democratico di qui Empedocle era sostenitore. A Siracusa furono attivi due re-tori, Corace e Tisia, che nei loro scritti davano consigli su come esagerare o attenuare i fatti e le argomentazioni sulla base dell’obiettivo che l’oratore si prefiggeva nell’azione giudiziaria. Lo sviluppo dell’oratoria a Siracusa sarebbe stato determinato anche dal gran numero di processi che si svolsero per la riap-propriazione delle terre confiscate negli anni precedenti dal ti-ranno.
Fu forse allievo di Empedocle Gorgia da Lentini (circa 483-376 a.C.), che nel 427 a.C. arrivò ad Atene quale ambasciatore, ma che poi si stabilì nella città greca, dove introdusse la retori-ca e fu anche esponente del movimento sofistico. Il suo Encomio di Elena evidenzia il suo stile basato sulle antitesi, sull’omote-leuto e sulle rime bilanciate.
Il contesto politico dell’Atene di Pericle favorì lo sviluppo dell’oratoria politica (discorsi nelle assemblee e nei consessi
6 L’unica orazione giudiziaria completa che ci è pervenuta, oltre a quelle di Cicerone, è l’Apologia di Apuleio. Ad essa si possono aggiungere, per l’età imperiale, le declamazioni di Quintiliano e pseudoquintilianee.
litici), uno dei tre ambiti in cui l’oratoria si affermò fin dall’origini.7 Gli altri due erano l’oratoria giudiziaria (i discorsi
di difesa e di accusa pronunciati nei tribunali) e quella celebra-tiva (elogi, encomi funebri e simili). In particolare nel IV secolo l’oratoria ebbe ad Atene uno sviluppo considerevole (cono-sciamo i nomi di un’ottantina di oratori) ed in età ellenistica venne delineato un canone di quelli che erano considerati i die-ci migliori oratori ateniesi: Antifonte, Andodie-cide, Lisia, Isocrate, Iseo, Eschine, Licurgo di Atene, Demostene, Iperide e Dinarco. Nella definizione di questo canone, basato sui testi delle ora-zioni, i filologi alessandrini che lo elaborarono si basarono ov-viamente non tanto sull’efficacia e sul successo che avevano avuto le specifiche orazioni, ma sulle caratteristiche dello stile e della prosa in cui esse erano scritte. Va considerato, a quasto proposito, che l’orazione scritta non consente di cogliere un a-spetto spesso fondamentale dell’attività dell’oratore, e cioè la gestualità, il tono e il volume della voce che accompagnano il discorso. Non tutti gli oratori, del resto, divulgavano la versio-ne scritta dei propri discorsi, specie se le loro ambizioni erano più politiche che letterarie: non lo fecero, per es., personaggi come Pericle e Temostocle, che pure erano molto apprezzati dai contemporanei in quanto oratori.
Allo sviluppo dell’oratoria si affiancò quello della retorica, che elaborò un sistema complesso di norme e precetti utili per scrivere e pronunciare con successo delle orazioni. Questi pre-cetti riguardavano ovviamente la forma delle orazioni, non il loro contenuto, ed erano quindi utilizzabili per gli obiettivi più diversi, anche eversivi. Per questa ragione la retorica fu avver-sata da Platone, che considerava in particolare la retorica dei Sofisti antitetica alla ricerca della verità che doveva caratteriz-zare la filosofia. La retorica fu poi legittimata da Aristotele, che
scrisse un proprio trattato di retorica nel quale determina il ruolo autonomo di questa disciplina rispetto alla logica e alla dialettica.
L’oratoria ateniese declinò dopo la conquista macedone del-la Grecia, ma del-la retorica restò un ambito centrale dell’educazio-ne e della formazio dell’educazio-ne antica (una funzio dell’educazio-ne della retorica che fu teorizzata soprattutto da Isocrate). L’influenza della retorica è rilevabile nell’intera produzione letteraria, poetica e in prosa. Anche la storiografia antica risente fortemente della retorica, non solo nella scelta dello stile, ma anche nell’uso di inserire nella narrazione storica discorsi di personaggi importanti, qua-si sempre immaginati dagli storici stesqua-si.
3. Oratoria e retorica a Roma
Anche l’oratoria romana nasce dalla pratica oratoria dei tri-bunali e delle assemblee, a partire dall’età repubblicana. Una tradizione romana di tipo oratorio era anche quella delle lauda-tiones funebres, i discorsi di elogio dei defunti che veniva pro-nunciato in occasione del funerale dei personaggi importanti.
Svariati personaggi della Roma più antica, a partire da Ap-pio Claudio Cieco, sono ricordati come valenti oratori, ma è del tutto improbabile che i loro discorsi fossero trascritti. La tradi-zione antica conosceva il testo scritto del discorso pronunciato da Appio Claudio nel 280 a.C., per dissuadere i Romani dalla pace con Pirro, ma si trattava con ogni probabilità di una ri-scrittura posteriore, simile ai discorsi che gli storici antichi at-tribuiscono abitualmente ai personaggi di cui narrano le im-prese, sulla base ovviamente della propria idea di quei perso-naggi e delle situazioni in cui i discorsi sarebbero stati pronun-ciati.
pratica di conservare il testo scritto delle orazioni (ci sono ri-masti molti frammenti delle sue orazioni). Lo stesso Catone, del resto, è considerato il pioniere della prosa latina: fu il primo autore di un’opera di storia in latino (le Origines), con cui pose le premesse della storiografia latina, soppiantando la preceden-te storiografia in lingua greca inaugurata da Fabio Pittore.
La rivalsa di Catone nei confronti dell’eccessivo favore ac-cordato alla cultura greca è rilevabile anche nell’ambito dell’o-ratoria e della retorica. Quest’ultima era stata introdotta a Ro-ma, come altre discipline, da immigrati o schiavi di origine gre-ca. Se si considera l’origine stessa della retorica, sviluppatasi in contesti politici non autocratici, in Sicilia e poi ad Atene, si può facilmente spiegare l’ostilità che essa suscitò nei gruppi con-servatori romani, timorosi degli effetti che essa poteva avere nell’allargamento dello spazio pubblico, fornendo le tecniche oratorie, e quindi strumenti di persuasione ed influenza, ai rappresentanti della plebe. Questi orientamenti politici porta-rono, nel 161 a.C., al varo di un provvedimento di espulsione dei retori greci da Roma.
Le preoccupazioni dei gruppi conservatori erano condivise da Catone il Censore, che alla retorica greca oppose una pro-pria retorica, che inserì nella propro-pria opera enciclopedica, i Pra-ecepta ad filium Marcum (oltre alla retorica, essa includeva medi-cina e agricoltura, forse anche giurisprudenza e arte militare). Fra i pochi frammenti rimasti relativi alla retorica è significati-vo quello in cui Catone pone l’accento sul profilo etico e politi-co dell’oratore: orator est, Marci fili, vir bonus dicendi peritus (frg. 14 Jordan ap. Sen contr. 1 pr. 9). L’oratore, afferma Catone ri-volgendosi al figlio Marco, deve essere insieme capace di parla-re in pubblico e uomo dai saldi principi morali. La polemica implicita è rivolta contro la tradizione greca che separava la tecnica di persuasione dai contenuti di essa (a Roma aveva su-scitato scandalo, nel 155 a.C., il filosofo Carneade, che nel giro
di due giorni aveva pronunciato due discorsi opposti in merito alla giustizia). In un altro frammento Catone sembra prendere posizione contro l’eccesso di abbellimenti retorici del discorso, invidando l’oratore a restare aderente ai fatti: rem tene, verba se-quentur (frg. 15 Jordan).
I provvedimenti restrittivi non impedirono l’assimilazione della retorica greca da parte degli oratori romani, che già nella generazione successiva a Catone mostrano una solida cono-scenza delle tecniche della retorica greca. Fra gli oratori attivi nel II secolo spiccano i fratelli Gracchi, fautori di un’oratoria appassionata, volta a suggestionare ed infiammare il pubblico con ripetizioni ed esagerazioni patetiche e con il ricorso a para-goni e ad immagini capaci di suscitare emozioni. A questo tipo di oratoria si opponeva quella preferita da altri esponenti poli-tici dell’epoca, che prediligevano uno stile più misurato, che fa-ceva maggiormente leva sulle argomentazioni e sulla persua-sione razionale.
Nel II secolo la conoscenza della retorica era limitata ai Ro-mani in grado di accedere alla trattatistica greca (o a precettori greci), costituendo la barriera linguistica un freno alla diffusio-ne delle tecniche oratorie. All’inizio del I secolo, ad opera di Plozio Gallo, un retore amico di Gaio Mario (homo novus ed av-versario dei gruppi aristocratici), venne fondata la scuola dei cosiddetti rhetores latini, nella quale la retorica era insegna in la-tino. Essa venne chiusa nel 92 a.C. per ordine delle autorità, preoccupate per il suo successo, ma il provvedimento non im-pedì l’affermazione della retorica nella cultura romana. Proba-bilmente nell’ambito dei Rhetores latini venne elaborato il più antico trattato di retorica in latino che ci è rimasto, la cosiddetta Rhetorica ad Herennium, di cui è ignoto l’autore (nel Medioevo essa era attribuita a Cicerone).
La diffusione della retorica fu favorita, fra il II e il I secolo a.C., dal crescente rilievo acquistato da ruolo degli avvocati
(pa-trones), oratori specializzato nella difesa processuale degli im-putati. Il ruolo del patronus, pur restando fortemente legato alla politica, rese indispensabile la formazione retorica, affidata ora regolarmente alle scuole e poi all’apprendistato presso avvocati già affermati.
I due maggiori oratori di quest’epoca furono Marco Antonio (nonno del triumviro, vittima nell’87 del regime di Mario), che fu anche autore di un perduto trattato di retorica, e Lucio Lici-nio Crasso, esponente della fazione aristocratica. Cicerone ne farà i protagonisti del proprio dialogo De oratore, attribuendo ad Antonio un’oratoria basata sulla predisposizione naturale dell’oratore, e a Crasso una visione dell’oratoria più vicina a quella dello stesso Cicerone, basata su un’ampia formazione culturale.
L’oratoria dei Gracchi e quella di Licinio Crasso preludono per qualche aspetto al cosiddetto stile “asiano”, che si impose nel I secolo a.C. Si trattava di uno stile magniloquente, spesso ampolloso e rindondante, basato sull’uso frequente delle figure retoriche e dal ritmo enfatico e concitato. La denominazione “asiano” è dovuta al fatto che gli iniziatori greci di questo stile erano originari dell’Asia Minore (in particolare Egesia di Ma-gnesia, attivo verso il 250 a.C.). Il maggior esponente dell’Asianesimo romano fu Quinto Ortensio Ortalo (114-50 a.C.), l’oratore di maggiore successo prima di Cicerone.
Vedremo nel prossimo paragrafo la posizione di Cicerone in merito all’Asianesimo. Essa andrà valutata tenendo conto dell’evoluzione complessiva dell’oratoria romana, che vide af-fermarsi, già nell’ultima fase della sua carriera, un nuovo indi-rizzo oratorio, il cosiddetto “atticismo” (dal nome della regione di Atene, l’Attica). L’oratoria atticistica, diversamente da quello asiana, era caratterizzata da uno stile scarno, sobrio ed essen-ziale, ispirato a quello dell’oratore ateniese Lisia. Sul piano lin-guistico l’oratoria atticistica è attenta alla purezza linguistica, in
opposizione alle distorsioni del linguaggio che caratterizzava-no l’oratoria asiana.
Non è casuale il fatto che gli oratori atticisti fossero anche sostenitori della teoria “analogistica”, per la quale il linguaggio deve essere rispettoso delle norme grammaticali. A questa teo-ria si opponeva quella “anomalistica”, che valorizzava invece l’uso linguistico e le particolarità del linguaggio, spesso in con-traddizione con le norme grammaticali.
Uno dei maggiori sostenitori della teoria analogistica e dell’oratoria atticistica era Giulio Cesare, che scrisse anche un trattato intitolato De analogia. Questi principi sono rilevabili an-che nella prosa delle opere di Cesare an-che ci sono pervenute, il De bello Gallico e il De bello civili.
L’antagonismo asianesimo / atticismo ebbe ripercussioni an-che nel genere storiografico. Il corrispettivo dell’oratoria asiana in questo ambito è la storiografia “tragica” di Lucio Cornelio Sisenna, che narrava la storia con accenti drammatici, roman-zeschi e patetici, e con una lingua ricca di arcaismi e di effetti retorici (era uno stile funzionale alla parzialità politica di Si-senna, legato alla figura di Silla). Una storiografia vicina all’atticismo oratorio era invece quella che si rifaceva allo stori-co gre stori-co Tucidide, testimoniata principalmente dall’opera di Sallustio (in politica seguace di Cesare).
Sostenitore dello stile atticista fu anche l’erede di Cesare, Ot-taviano Augusto, che si era formato nella scuola del retore A-pollonio di Pergamo. La retorica della prima età imperiale con-tinuò ad oscillare fra Atticismo ed Asianesimo, anche se l’avvento del regime imperiale determinò la decadenza dell’oratoria, analogamente a quanto era avvenuto in Grecia all’epoca della dominazione macedone. L’attività oratoria si indirizzò in età imperiale alle declamazioni, cioè alle orazioni fittizie che venivano pronunciate nelle scuole di retorica: suaso-riae se si trattava di orazioni fittizie di tipo politico, controversiae
se le orazioni erano di tipo giudiziario (relative a cause imma-ginarie). Dell’attività declamatoria abbiamo notizia grazie all’o-pera di Seneca il Vecchio. La retorica restò comunque al centro della formazione scolastica, come evidenzia il tratto De institu-tione oratoria scritto in età flavia da Quintiliano.
4. Cicerone
Marco Tullio Cicerone (M. Tullius Cicero) nacque ad Arpino nel 106 a.C. ed ebbe un’eccellente formazione filosofica e reto-rica, dapprima a Roma e successivamente in Grecia. Prestò ser-vizio militare nel 90/89, mentre era in corso la guerra sociale, ed intraprese poi la carriera oratoria frequentando gli oratori Pu-blio Sulpicio Rufo ed Aurelio Cotta. Ambedue questi perso-naggi furono coinvolti nella guerra civile fra Mario e Silla, in-ducendo Cicerone a tenersi in questa fase lontano dalla vita po-litica, e a dedicarsi invece alla stesura di un proprio trattato di retorica, il De inventione, prima parte di un progettato trattato che doveva interessare l’intera retorica (l’inventio, su cui verte il trattato, è la prima delle 5 parti in cui era suddivisa la ca8). L’opera presenta molte analogie con la Rhetorica ad Heren-nium (il trattato dei rhetores latini ricordato sopra), a cui proba-bilmente Cicerone si ispirò.
Negli anni successivi Cicerone iniziò la propria carriera di avvocato e pronunciò due orazioni in difesa di imputati, la Pro Quinctio (81 a.C.), in difesa di un personaggio implicato in un questione patrimoniale, e la Pro Roscio Amerino (80), in difesa di un cittadino di Ameria accusato di parricidio. In queste prime orazioni lo stile di Cicerone è influenzato dall’Asianesimo e da Ortensio, peraltro impegnato anche lui nella difesa di Publio
Quinzio. Ambedue i processi, inoltre, avevano implicazioni po-litiche, per i legami degli imputati nella Roma dell’epoca, sot-toposta alla dittatura di Silla (Roscio Amerino, in particolare, era avversato da un potente liberto di Silla, Lucio Cornelio Cri-sagono). Per ragioni di prudenza politica Cicerone, negli anni successivi, preferì abbandonare momentaneamente la carriera di avvocato e di intraprendere un soggiorno di studio in Grecia (79-77 a.C.), dapprima ad Atene e poi a Rodi, accompagnato dal fratello, Quinto Tullio Cicerone. Ad Atene Cicerone fu ac-colto da Tito Pomponio Attico, che diverrà poi suo amico e cor-rispondente (destinatario di molte lettere del suo epistolario). Ad Atene Cicerone seguì le lezioni del filosofo Academico An-tioco di Ascalona; a Rodi quelle dello stoico Posidonio di Apa-mea. A Rodi, inoltre, frequentò Molone di Rodi, che aveva già conosciuto anni prima a Roma, e con il quale maturò uno stile oratorio più moderato di quello asiano (denominato talora “rodiese”), che caratterizzerà l’oratoria matura di Cicerone.
Rientrato a Roma dopo la morte di Silla (78 a.C.), Cicerone intraprese la carriera politica, continuando al contempo l’atti-vità di avvocato. Nel 76 fu eletto questore, una carica che lo portò a contatto con i problemi connessi all’amministrazione delle province. In seguito ad un viaggio in Sicilia, egli assunse la difesa dei Siciliani in una causa in cui era imputato l’ex-governatore della provincia, Gaio Verre. Contro Verre, che era difeso da quello che all’epoca era il principe del foro, Ortensio Ortalo, Cicerone pronunciò nel 70 cinque orazioni che lo proiettarono al centro della scena politica romana. La sua asce-sa restava però contrastata dalla diffidenza degli aristocratici, in quanto Cicerone era un homo novus (non aveva ascendenti nobili e per di più veniva da Arpino, patria dell’odiato Mario). Nonostante ciò, nel 69 egli venne eletto alla carica di edile curu-le e nel 66 a quella di pretore. In questo stesso anno pronunciò la sua prima orazione politica, la Pro lege Manilia de imperio Cn.
Pompei, un discorso in cui appoggiò il conferimento a Pompeo dei pieni poteri nella guerra in corso contro il re del Ponto Mi-tridate, condotta fino a quel momento da Lucio Licinio Lucullo. Questo conferimento, appoggiato dal ceto dei cavalieri, interes-sati ad una rapida conclusione della guerra e allo sviluppo dei commerci con l’Asia, era osteggiato invece dal Senato e dagli aristocratici, dei quali faceva parte la famiglia dei Luculli, il cui maggiore esponente veniva esautorato dal provvedimento a favore di Pompeo. La destituzione era favorita dal fatto che Lucullo, dopo una serie di affermazioni militari, nell’ultimo anno del suo comando era incorso in insuccessi e sconfitte, con la conseguenza che Mitridate era riuscito a riconquistare la Cappadocia e buona parte dei domini perduti in precedenza. Nel biennio successivo Pompeo sconfisse definitivamente Mi-tridate, allargò l’area di influenza romana all’Armenia ed effet-tuò spedizioni che arrivarono fino alle pendici del Caucaso.
Cicerone arrivò al vertice della carriera politica nel 64, anno in cui fu eletto console per l’anno successivo, il 63. Il consolato ebbe come evento principale la congiura di Lucio Sergio Catili-na, esponente della fazione popolare avversa agli aristocratici. Nella vicenda della guerra mitridatica Cicerone si era trovato alleato di Cesare e Pompeo, contro gli aristocratici. In occasione della congiura egli si schierò invece con questi ultimi e pronun-ciò le orazioni Catilinariae perorando ed ottenendo la condanna a morte dei congiurati. Nel dibattito che si svolse in Senato Ci-cerone si scontrò con Cesare, che avrebbe voluto punire i con-giurati con l’esilio e la confisca dei beni. Catilina sfuggì alla cat-tura ma morì l’anno dopo in Etruria, braccato dall’esercito ro-mano.
Negli anni successivi Cicerone restò vicino alle posizioni de-gli aristocratici e cercò di frenare l’alleanza fra Pompeo e l’emergente Cesare, che portò nel 60 alla stipula del primo triumvirato, fra i due personaggi e Marco Licinio Crasso, uno
dei personaggi più ricchi nella Roma dell’epoca. Il nuovo con-testo politico creò le condizioni per la vendetta della fazione popolare su Cicerone: nel 58 egli fu incriminato per aver con-dannato a morte i catilinari senza concedere loro la possibilità di appellarsi al popolo per ottenere una pena detentiva. In se-guito all’accusa, Cicerone fu costretto all’esilio, che trascorse in Grecia (per lo più a Tessalonica). Rientrò a Roma nel 57, grazie ad un provvedimento sostenuto da Pompeo (Cesare, nel frat-tempo, era partito per la Gallia).
Cicerone riprese negli anni successivi la sua attività politica e di avvocato, tentando di promuovere una riconciliazione dei ceti che si opponesse alla fazione popolare (programma espo-sto nella Pro Sestio, pronunciata nel 56). L’attività politica fu in-frammezzata in questi anni dalla composizioni di opere quali il De oratore, dialogo sulla formazione dell’oratore, e il De re pu-blica, dialogo ispirato alla Repubblica di Platone.
Nel 51, mentre i rapporti fra Cesare e Pompeo andavano de-teriorandosi, Cicerone si recò quale proconsole in Cilicia (Asia Minore). Nel 49 scoppiò la guerra civile, con il passaggio del Rubicone da parte delle truppe di Cesare. In una prima fase Ci-cerone seguì i Pompeiani in fuga e raggiunse Durazzo, ma poi prese le distanze dallo stesso Pompeo, sconfitto a Farsalo (48), e tornò a Roma ottenendo il perdono da Cesare. L’avvicinamento è evidenziato dalle cosiddette orazioni “cesariane” (Pro Marcel-lo, Pro Ligario, Pro rege Deiotaro). L’evoluzione del regime di Ce-sare in dittatura chiuse a Cicerone gli spazi di attività politica che sperava di conservare e lo spinse negli anni successivi a dedicarsi agli studi: nel giro di pochi anni completò il De legi-bus (iniziato 6 anni prima), scrisse la maggior parte delle sue opere filosofiche: Hortensius (perduto), Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, De fato, De senectute, De amicitia, De officiis, De divinatione, e pubblicò anche due ope-re ope-retoriche, il Brutus e l’Orator. In queste opeope-re Cicerone pope-rese
posizione contro l’Atticismo, lo stile oratorio che si andava im-ponendo in quegli anni (vedi sopra, § 3).
L’uccisione di Cesare (marzo 44) riaprì lo scontro politico, che vide Cicerone schierato contro colui che si presentava come l’erede di Cesare, Marco Antonio. Contro di lui Cicerone pro-nunciò le orazioni Philippicae (ispirate alle orazioni di Demo-stene contro Filippo di Macedonia). Cicerone sperava che lo strapotere di Antonio fosse contrastato da Ottaviano (il giovane figlio adottivo di Giulio Cesare), ma quest’ultimo preferì ac-cordarsi con Antonio, con il quale (assieme a Lepido) stipulò il cosiddetto secondo triumvirato. L’accordo prevedeva l’elimi-nazione degli avversari politici, che vennero inclusi nelle liste di proscrizione. Cicerone fu incluso nelle liste, per ordine di Antonio, ed ucciso nel dicembre 43.
5. Il processo contro Archia
Le orazioni furono una parte cospicua della produzione let-teraria di Cicerone. Abbiamo notizia di 106 orazioni da lui pro-nunciate. Ci è rimasto il testo di 58 orazioni; di altre 18 restano frammenti. La maggior parte delle orazioni sono costituite da difese (Pro Sestio, Pro Milone e molte altre); altre sono orazioni giudiziarie pronunciate in qualità di accusatore (le orazioni In Verrem, In Pisonem e altre); le altre sono orazioni politiche (ad es. le Catilinariae e la De lege agraria).
Quello contro Archia fu uno dei numerosi processi nei quali Cicerone, in qualità di avvocato, assunse le difese di un impu-tato. Aulo Licinio Archia era un poeta greco, proveniente da Antiochia, nell’attuale Asia Minore, che a Roma aveva trovato protezione ed ospitalità presso la famiglia dei Luculli, con una forma di patronato all’epoca diffusa: intellettuali del tipo di Archia, oltre a ruoli celebrativi e di intrattenimento, svolgevano
anche funzione di educatori (questo sembra esser stato anche il caso di Archia, in quanto Cicerone afferma di aver imparato molto da lui).9 Archia era l’originario nome greco del
perso-naggio; Aulo Licinio il prenome e il nome assunti in seguito al sua legame con la famiglia dei Luculli, appartenenti all’antica gens dei Licinii, originari di Lanuvio.
Archia, per motivi che non sono del tutto chiari, era stato ac-cusato di essersi illegittimamente dichiarato cittadino romano. Conosciamo il nome dell’accusatore, Grattius, in quanto esso è citato dallo stesso Cicerone, ma non sappiamo chi fosse. Il pro-cesso si svolse nel 62 a.C.,10 anno successivo al consolato di
Ci-cerone, le cui vicende sono ricordate nell’orazione come evento recente (§ 28).
Per chiarire il contesto giuridico del processo, dobbiamo considerare la vicenda storica della guerra italica o “sociale”11,
che si era svolta nel 91-88 a.C. Causa della guerra era stata la rivendicazione della cittadinanza (civitas) romana da parte de-gli alleati italici di Roma. Questa richiesta era stata avanzata fin dall’epoca dei Gracchi, ma l’estensione della cittadinanza era stata sempre impedita dai gruppi conservatori.
La tensione fra gli Italici e Roma aumentò in seguito all’approvazione della lex Licinia Mucia (95 a.C.), un
9 La rete di legami di patronato intrattenuta da Archia è ricostruita da T. P. Wiseman, “Pete Nobiles Amicos: Poets and Patrons in Late Republican Rome”, in B. K. Gold (ed.), Literary and Artistic Patronage in Ancient Rome, Austin 1982, pp. 28-49 (a pp. 31-34).
10 La datazione è avvalorata dal fatto che il processo, come attesta lo sco-liasta Bobiense, fosse presieduto, in qualità di pretore, da Quinto Cicerone (il fratello dell’oratore); da una lettera ad Attico (1.15.1) sappiamo che l’anno successivo Quinto era propretore. Dubbi sulla datazione sono stati espressi da J. Bellemore, “The Date of Cicero’s Pro Archia”, Antichton 36 (2002), pp. 41-53, per il quale il processo potrebbe essersi in realtà svolto nel 56 a. C.
11 Questa denominazione è da intendere non nel senso odierno del ter-mine, ma come guerra dei socii, cioè degli alleati
mento che istituiva un tribunale giudicante per chi si fosse a-busivamente inserito tra i cittadini (cives) romani. Il tribuno della plebe Marco Livio Druso si adoperò negli anni successivi a favore degli Italici, ma trovò l’opposizione del console Lucio Marcio Filippo, ostile ad ogni concessione.
L’assassinio di Druso, nel 91, provocò la rivolta delle popo-lazioni italiche, che scoppiò nel Piceno e che si estese presto all’intera Italia centro-meridionale (ne rimasero estranei gli Umbri e gli Etruschi). I ribelli si dettero un’organizzazione po-litica e militare stabilendo come propria capitale Isernia. I Ro-mani reagirono militarmente, e nell’88 stroncarono la rivolta ed espugnarono le roccaforti dei ribelli in Abruzzo, ma provvide-ro anche ad arginare politicamente il malcontento varando dapprima la lex Iulia de civitate Latinis danda (90), che concedeva la cittadinanza ai municipi che non avevano aderito alla rivol-ta, e poi la Lex Plautia Papiria de civitate sociis danda (89), che sta-biliva che potessero chiedere la cittadinanza romana tutti colo-ro che erano originari di città alleate, ma che vivevano a Roma. Probabilmente per frenare gli abusi nell’applicazione della
Lex Plautia Papiria, nel 65 a.C. venne approvata la Lex Papia de peregrinis, che puniva con l’espulsione coloro che si erano
ap-propriati irregolarmente della cittadinanza sulla base della lex
Plautia Papiria. Con ogni probabilità Archia venne denunciato
sulla base della lex Papia, per aver illecitamente usufruito della
lex Plautia Papiria.
La difesa di Cicerone cerca di dimostrare che Archia non a-veva usufruito irregolarmente della lex Plautia Papiria, e che quindi era legittimamente cittadino romano. Nell’orazione egli cita il testo di questa legge, dal quale si evince che essa asse-gnava la cittadinanza sulla base di tre condizioni: a) essere cit-tadini di una città federata; b) avere il domicilio a Roma; c) aver presentato richiesta al pretore entro 60 giorni dall’approva-zione della legge. Archia avrebbe rispettato queste tre
condi-zioni in quanto: a) sarebbe stato cittadino di Eraclea, città fede-rata;12 b) avrebbe avuto domicilio a Roma nella casa dei Luculli;
c) avrebbe regolarmente presentato la sua istanza. Solo sul ter-zo punto, però, Cicerone fu in grado di portare in aula una do-cumentazione sicura: egli, infatti, fa esibire davanti ai giudici le tavole che attestavano la richiesta. Per gli altri due punti poteva basarsi solo su testimoni: l’elenco dei cittadini di Eraclea, infat-ti, non era disponibile, in quanto l’archivio della città era anda-to distrut anda-to nel corso della guerra sociale. Per quel che riguarda il domicilio a Roma, l’accusa aveva segnalato l’assenza del no-me di Archia nelle liste censorie: Cicerone replica a questo ap-punto con due argomenti, il fatto che Archia fosse spesso im-pegnato fuori Roma assieme a Lucullo, e le irregolarità che si erano verificate nella compilazione delle liste censorie.
Nel complesso, come si vede, la posizione dell’imputato, dal punto di vista giuridico, era meno forte di quanto Cicerone non voglia far credere nell’orazione. Il processo ebbe comunque un esito positivo per Archia: non abbiamo notizie dirette in propo-sito, ma che egli fosse stato assolto lo fa pensare il fatto che an-ni dopo fosse ancora attivo a Roma.13 Sull’esito favorevole del
giudizio avrà avuto un certo peso il fatto che la giuria fosse presieduta da Quinto Cicerone, fratello del difensore.
6. Risvolti politici del processo
Il processo contro Archia non presenta apparentemente ri-svolti politici, per cui non si è escluso che Cicerone possa aver assunto la difesa dell’imputato per ragioni professionali o
12 Eraclea era una città della Lucania, fondata nel 434 a. C. da coloni pro-venienti da Taranto; verso il 280 si era alleata con i Romani (all’epoca in conflitto con Taranto).
sonali (ad es. la gratitudine verso un vecchio maestro, se diamo fiducia a quanto afferma Cicerone nell’orazione stessa, al § 1, di aver cioè avuto Archia quale maestro). È difficile, però, che la causa non avesse ripercussioni politiche, in quanto Cicerone, nel 62, aveva ancora un ruolo centrale nella vita politica roma-na, mentre l’imputato, Archia, era legato ad una delle famiglie più influenti a Roma, quella dei Luculli.14
Una possibile ipotesi è che l’assunzione della difesa di Ar-chia fosse un favore reso a questa famiglia, anche se Cicerone in passato aveva aveva avuto anche rapporti conflittuali con essa (nel 66 a.C., come abbiamo visto, egli aveva appoggiato l’assegnazione a Pompeo del comando della campagna mitri-datica), ma negli anni successivi, in coincidenza con le vicende del consolato, i rapporti di Cicerone con gli aristocratici erano migliorati, e quindi probabilmente anche quelle con i Luculli.
Un dato problematico è costituito dall’identità di Grattius, il rappresentante dell’accusa che Cicerone cita nell’orazione. Si è ipotizzato che egli fosse un esponente della fazione pompeiana, all’epoca in conflitto con quella aristocratica, e che quindi l’intera causa fosse un’azione di disturbo di Pompeo nei con-fronti dei Luculli. Nessun indizio, però, suffraga questa ipotesi. Nell’orazione, d’altra parte, Cicerone inserisce anche un elo-gio di Pompeo (§ 24), che evidenzia il suo intento di mantenere una posizione autonoma nel panorama politico romano. L’orazione, per questo aspetto, può essere inquadrata nella po-litica di mediazione e conciliazione fra Pompeo e gli
14 Fra i vari studi dedicati al problema basti ricordare quello di J. A. Ta-ylor, “Political Motives in Cicero’s Defense of Archias”, American Journal of Philology 73 (1952), pp. 62-70; meno propenso ad ammettere motivazioni po-litiche era T. A. Dorey, “Cicero, Pompey and the Pro Archia”, Orpheus 2 (1955), pp. 32-35. Più recentemente la questione è stata discussa da A. Luisi, “Pro Archia: retroscena politico di un processo”, in Processi e politica nel mon-do antico, ed. M. Sordi, Milano 1996, pp. 189-206.
ci perseguita in questa fase da Cicerone, ben testimoniata dalla lettera che egli inviò a Pompeo nella primavera del 62 a.C. (fam. 5.7): in essa egli cerca di contrastare l’avvicinamento di Pom-peo ai populares Crasso e Cesare e presenta questi ultimi come tuos veteres hostes, novos amicos. Fu un tentativo fallito, in quan-to nel 62 a.C. Pompeo formerà con Crasso e Cesare il primo triumvirato, determinando l’emarginazione politica di Cicero-ne. Nel contesto politico in cui fu pronunciata la Pro Archia, Ci-cerone aveva comunque ancora un ruolo politico di un certo lievo, e l’orazione riflette in qualche misura il programma di ri-conciliazione che l’oratore auspicava, nell’intento di raccogliere un vasto schieramento sociale e politico in difesa della tradi-zione repubblicana. È significativo il fatto che al § 6, fra perso-naggi che avrebbero apprezzato la cultura di Archia, egli in-cluda numerosi ex-consoli ed esponenti dell’aristocrazia.
Nell’incertezza sul ruolo preciso che la pro Archia potrebbe aver avuto nella battaglia politica di Cicerone, molti critici hanno pensato ad un interesse personale per l’imputato, dal quale egli si aspettava, come apprendiamo dall’orazione stessa (§ 28), un poema celebrativo del proprio consolato e della re-pressione della congiura di Catilina. Cicerone afferma nell’orazione che Archia aveva già iniziato a scrivere questo poema, e che egli aveva potuto apprezzare alcuni saggi dell’o-pera (§ 28: quibus auditis, quod mihi magna res et iucunda visa est, hunc ad perficiendum adornavi), ma si trattava evidentemente di una finzione ad uso retorico e processuale, in quanto da lettera inviata ad Attico l’anno successivo apprendiamo che Archia non aveva mantenuto l’impegno, e che non aveva scritto nulla su Cicerone: Archias nihil de me scripserit; ac vereor, ne, Lucullis quoniam Graecum poema condidit, nunc ad Cecilianam fabulam spec-tet.15 Le motivazioni del voltafaccia di Archia appaiono
li: i rapporti di Cicerone con gli aristocratici, dopo il processo, si erano raffreddati ed Archia rimaneva legato principalmente ai Luculli.
Alla rinuncia di Archia di celebrare il consolato del 63 rime-diò lo stesso Cicerone, che tra il 60 e il 55 scrisse il poema auto-biografico De consulatu suo, in tre libri, dei quali resta solamen-te qualche frammento.16
7. La confirmatio extra causam
Nella Pro Archia sono riconoscibili le parti in cui sono tradi-zionalmente suddivise le orazioni giudiziarie:17 dopo una
pri-ma presentazione della causa ai giudici (exordium: §§ 1-4), volto conquistarsi il loro favore (captatio benevolentiae), Cicerone pas-sa a narrare le circostanze del processo, nel caso specifico pre-senta l’imputato e la sua vicenda (narratio: §§ 4-7); di seguito, sulla base di quanto esposto nella narratio, confuta l’accusa (ar-gumentatio: §§ 8-11).
A questo punto, come afferma lo stesso Cicerone, l’orazione dovrebbe terminare (causa dicta est). Egli passa invece a trattare di questioni non direttamente attinenti alla problematica legale dell’orazione: è questa l’argomentatio extra causam (§§ 12-30), che occupa più della metà dell’orazione (a cui seguirà una bre-ve conclusione, la peroratio: §§ 31-32). Lo stesso Cicerone
16 Su quest’opera si può leggere proficuamente l’articolo di C. Volk, "The
Genre of Cicero's De consulatu suo," in Generic Interfaces in Latin Literature:
Encounters, Interactions and Transformations, ed. by T. D. Papanghelis, S. J.
Harrison, and S. Frangoulidis. Berlin: de Gruyter, 2013, pp. 93-112.
17 La struttura dell’orazione è analizzata da L. S. Fotheringham, “Gliding
Transitions and the Analysis of Structure: Cicero's Pro Archia”, in C. Deroux (ed.), Studies in Latin Literature and Roman History v. XIII, Bruxelles 2006, pp. 32-52.
linea l’inusualità di questa parte dell’orazione, parlando nell’esordio di genus dicendi che non modo a consuetudine iudicio-rum veiudicio-rum etiam a forensi sermone abhorreat (§ 3) e poi, nella par-te finale, di una parpar-te a foro aliena iudicialique consuetudine (§ 32).
Gli studiosi moderni hanno spesso identificato questo genus dicendi inusitato nel genere epidittico o laudativo.18 Questo
ge-nere aveva avuto a Roma una fortuna limitata:19 nel De oratore
Cicerone lo presenta come un genere greco, da lui inizialmente escluso dall’insegnamento e praticato più per diletto o per elo-giare qualcuno, che per la sua utilità dei tribunali: ipsi enim Graeci magis legendi et delectationis aut hominis alicuius ornando quam utilitatis huius forensis causa laudationes scriptitaverunt (2.341). Il fatto che Cicerone possa aver mutuato questo genere nella Pro Archia non è di per se sorprendente (in passato si era arrivato a sostenere che l’intera orazione, per questa sua ano-malia, potesse essere apocrifa, cioè una falsificazione).20 La Rhe-torica ad Herennium contempla esplicitamente l’utilizzazione del genere laudativo nell’oratoria giudiziaria e deliberativa, nelle quali ci sono parti che includono lodi e anche biasimi di perso-naggi (3.151: in iudicialibus et deliberativis causis saepe magne par-tes versantur laudis aut vituperationis). Si può quindi ammettere che Cicerone alluda a questo genere, definendolo “nuovo” (§ 3: prope novo et inusitato genere dicendi). Egli potrebbe aver tenuto in particolare conto, nello scrivere questa orazione, dell’elogio
18 Uno dei tre tipi di orazione: cfr. Appendice 1.
19 Cfr. G. Kennedy, The Art of Rhetoric in the Roman World 300 B.C.-A.D. 300, Princeton 1972, p. 21.
20 È la singolare tesi proposta nel sec. XIX da uno studioso tedesco, C. W. Büchner, Commentatio, qua M. Tullium Ciceronem orationis pro Archia poeta auctorem non esse demonstratur, Schwerin 1839-1841; gli replicò J. Lattmann, Ciceronem orationis pro Archia poeta revera esse auctorem demonstratur, Göttin-gen 1877.
funebre di Pericle che si legge in Tucidide a 2.35.46.21 L’elogio
che Cicerone propone di Archia è peraltro coerente con i det-tami della retorica di ascendenza aristotelica, che raccomanda-va di privilegiare i meriti morali e non le contingenze fortunate (i cosiddetti bona externa):22 in effetti Cicerone fa solo un
accen-no all’origine accen-nobile di Archia (§4: natus est accen-nobili loco), ed elo-gia non solo la sua cultura e il suo ingenium poetico, ma anche la sua moralità (§ 5: non solum ingeni ac litterarum, verum etiam naturae ac virtutis).
Al di là delle distinzioni di genere, quello che comunque va sottolineato è che la lunga digressione appare del tutto funzio-nale alla difesa allestita da Cicerone, e quindi non estranea alla sua strategia oratoria.23
8. La cultura dell’oratore
L’argumentatio extra causam consiste in un elogio della cultu-ra e del suo ruolo civile, e della poesia in particolare. L’elogio della cultura si apre con l’affermazione che le discipline (artes) che formano la cultura sono connesse fra loro in quanto sono tutte finalizzate alla humanitas: omnes artes, quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam commune vinculum et quasi cognatione quadam inter se continentur (§ 2).
Lo stesso concetto è formulato nel De oratore, l’opera di reto-rica scritta da Cicerone pochi anni dopo lo svolgimento del processo: omnem doctrinam harum ingenuarum et humanarum ar-tium uno quodam societatis vinculo contineri (3.21). In questo caso
21 Cfr. P. R. Murphy, “Cicero’s pro Archia and the Periclean Epitaphios”, TAPhA 89 (1958), pp. 99-111.
22 Cicerone lo teorizza esplicitamente nel De oratore, a 2.342.
23 D. H. Berry, “Literature and Persuasion in Cicero’s Pro Archia”, in Cicero the Advocate, eds. J. Powell, J. Paterson, Oxford 2004, pp. 291-312.
le artes in questione sono definite ingenuae, termine che signifi-ca “libero”, non schiavo, e che denota socialmente il tipo di formazione di cui Cicerone sta parlando, quella propria dei “li-beri”. Del tutto equivalente, e più comune e frequente, è la de-finizione delle artes come liberales, cioè proprie dei “liberi”.
Le artes di cui Cicerone sta parlando sono quindi quelle in-segnate nelle scuole ai giovani “liberi”.di buona famiglia. Si tratta delle discipline che in Grecia erano note come ἐνκύύκλιος παιδείία (παιδείία significa “educazione”, da παίίς, “fanciullo”; ἐνκύύκλιος ha in questo caso il valore di “quotidiano”, “ordina-rio”; dall’espressione greca deriva il latino encyclopedia, “enci-clopedia”). Nel De oratore Cicerone cita alcune delle discipline che venivano insegnate nelle scuole greche: has artis, quibus libe-rales doctrinae atque ingenuae continerentur, geometriam, musicam, litterarum cognitionem et poetarum, atque illa, quae de naturis rerum, quae de hominibus moribus, quae de rebus publicis dicerentur (3.127). Come si può vedere, non si parla solo delle discipline che oggi definiamo “umanistiche”, ma anche di discipline scientifiche quali la geometria e la musica. Nella tarda Antichi-tà verranno identificate sette artes “liberali”, che nel Medioevo verranno divise in due gruppi, il Trivio e il Quadrivio: del pri-mo faranno parte la grammatica, la retorica e la dialettica; del secondo l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia.
Un carattere peculiare di queste artes, quello che le rende propriamente “liberali”, è il loro carattere “teorico”: consistono in nozioni che vengono impartire dal maestro, sulla base di te-sti scritti (la grammatica è la prima disciplina ad essere inse-gnata). Sono rigorosamente escluse le discipline di carattere pratico, in quanto nella cultura greco-romana il lavoro manuale è devoluto agli schiavi e ai ceti subalterni, essendo l’educazione propria dei liberi. Questa rigida divisione fra lavoro manuale e non portava ad accentuare il carattere “teorico” e non applica-tivo delle discipline insegnate ai liberi. Questa peculiarità della
cultura greco-romana è stata spesso indicata come l’elemento che ha frenato nel mondo antico lo sviluppo delle tecnologie, nonostante l’alto livello delle conoscenze scientifiche: le appli-cazioni della scienza sarebbero state frenate dalla diffidenza nei confronti del lavoro manuale e lo sviluppo tecnologico disin-centivato dalla disponibilità di forza-lavoro a buon mercato, quella fornita dagli schiavi (realizzazioni tecniche raffinate, ad es. nell’uso del vapore acqueo, restarono limitate a sperimenta-zioni di tipo ludico, senza ricadute di carattere economico).
Il disprezzo per le attività manuali investiva anche attività del tipo di quella dell’attore, considerata degradante per un tadino romano: al § 10 dell’orazione Cicerone osserva che le cit-tà della Magna Grecia concedevano la cittadinanza anche a semplici scaenici artifices (“attori”), e poco sopra parla di indivi-dui mediocres e che esercitavano una qualche umile attività (humili aliqua rate praediti). È del tutto eccezionale il caso dell’attore Roscio Lanuvino, elogiato per la sua arte al § 17.
Alla struttura sociale schiavista andrà rapportata anche l’idea di humanitas che abbiamo trovato nella nostra orazione, doce Cicerone parla di artes che ad humanitatem pertinent (§ 2), e che è presente anche in un altro passo del De oratore relativo al-le arti liberali, dove è esplicitato il riferimento all’educazione dei fanciulli (pueri): in his artibus, quae repertae sunt, ut puerorum mentes ad humanitatem fingerentur (3.58).
Il concetto di humanitas era stato elaborato nel II sec. a.C. dalle elites romane più sensibili alla cultura e alle idee filosofi-che grefilosofi-che. Lo troviamo, prima di Cicerone, in una commedia di Terenzio, L’Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”), scritta nel 165 a.C. Uno dei protagonisti di questa commedia, Cramete, si accorge che un altro personaggio, Menedemo, è rat-tristato e in preda ad un dolore interiore. Cramete gli chiede quale sia il motivo della sua condizione, ma Menedemo gli ri-sponde che la cosa non lo riguarda. Cramete replica dicendo di
essere un uomo, e di non considerare estraneo nulla che ri-guardi un altro uomo: homo sum. Humani nihil a me alienum puto (Heaut. 77). Questa affermazione è stata spesso messa in rela-zione con il cosiddetto “circolo degli Scipioni”, un ipotetico gruppo intellettuale nato sotto la protezione della famiglia de-gli Scipioni e caratterizzato alla simpatia nei confronti della cul-tura greca, in opposizione al tradizionalismo a tratti xenofobo rappresentato da Catone il Censore. Il termine humanitas, in questo contesto, designa una sorta di filantropia, di rispetto re-ciproco che ovviamente andrà riferito ad un ambito sociale piuttosto ristretto, senza i tratti universalistici che il concetto ha assunto in età moderna. In Cicerone il termine designa più ge-nericamente la cultura che caratterizza l’elite romana, nell’ambito di un sistema di solidarietà e di doveri sociali che lo stesso Cicerone ha esplicitato nel De officiis.
Un tratto peculiare della visione esplicitata da Cicerone nella Pro Archia e nel De oratore riguarda quello che abbiamo visto il “legame” che connette le diverse artes (vedi i passi citati sopra). Si tratta di quella che potremmo definire una presa di posizio-ne contro lo specialismo, a favore di una cultura “geposizio-nerale” ed “enciclopedica” (si ricordi l’etimologia di questo termine) che deve riguardare non solo l’educazione dei fanciulli, ma anche la cultura dell’uomo adulto. Cicerone si vanta, nell’orazione (§ 12), di dedicare alla lettura e allo studio tutto il proprio tempo libero.
Nello specifico Cicerone polemizzava in particolare contro l’idea che l’oratore debba essere dotato solo o in prevalenza di una competenza tecnica di tipo retorico, come era quella im-partita nelle scuole di retoriche (che esistevano a Roma da al-cuni decenni, dall’epoca dei cosiddetti rhetores Latini: vedi so-pra il § 3 di questa Introduzione). Il De oratore si caratterizza, rispetto ai trattati “tecnici” di retorica (del tipo della Rhetorica ad Herennium ed anche del De inventione dello stesso Cicerone),
proprio per questa cultura ampia ed encliclopedica che l’o-ratore deve avere. Diversamente dalle altre discipline, afferma Cicerone, che si occupano ambiti specifici del sapere, l’oratoria (bene dicere) non è inclusa in precisi confini: etenim ceterae fere ar-tes se ipsae per se tuentur singulae; bene dicere autem, quod est scien-ter et perite et ornate dicere, non habet definitam aliquam regionem, cuius terminis saepta teneatur (2.5). Per certi aspetti Cicerone rie-cheggia un’affermazione che abbiamo trovato in Catone, pole-mico nei confronti della retorica greca, per il quale l’oratore deve essere un vir bonus dicendi peritus (vedi sopra). Catone po-neva una condizione di tipo etico-politico; Cicerone non lo fa esplicitamente, parlando di cultura enciclopedica dell’oratore, ma presuppone anche un’etica socialmente definita, quella che abbiamo trovato espressa dal termine humanitas.
L’idea dell’oratoria formulata da Cicerone nel De oratore pre-sentava anche risvolti filosofici (trovava probabilmente riscon-tri in un’opera perduta dello stesso Cicerone, l’Hortensius).24 Il
modello di oratore proposto nell’opera voleva costituire anche la soluzione della querelle fra filosofia e retorica presente nella tradizione greca, proponendo una sorta di sintesi che da una parte accoglieva le istanze della filosofia, soprattutto platonica,
per le quali la retorica senza la filosofia è una disciplina priva di contenuto, dall’altra teneva conto del fatto che l’eloquenza è il fondamento della politica e della società civile. Filosofia e re-torica, nella visione di Cicerone, non sono opposte, bensì com-plementari, in quanto il buon oratore, nella sua cultura enci-clopedica, deve avere anche conoscenza della filosofia. Cicero-ne, per questo aspetto, tende a proporre una sintesi di due di-verse tradizioni della cultura greca, quelle rappresentate rispet-tivamente da Platone e da Isocrate.
24 C. Vitelli, “La Pro Archia e l’Hortensius: analogie e loro significato”, Hermes 104 (1976), 59-72.
È interessante osservare che Quinto Cicerone non concorda-va del tutto con la posizione del fratello. Lo apprendiamo dal proemio del De oratore, dove Cicerone ricorda la diversa idea dell’oratoria postulata dal fratello, basata non tanto sulla cultu-ra e sulle conoscenze, quanto sulla predisposizione natu cultu-rale (ingenium) e sulla pratica (exercitationes):
solesque non numquam hac in re a me in disputationibis nostris dissentiri quod ego eruditissimorum hominum artibus eloquentiam contineri sta-tuam, tu autem illam ab elegantia doctrinae segregandam putes et in quo-dam ingenii atque exercitationis genere ponenquo-dam (1.5).
La diversità di opinione fra i due fratelli attestata dal De ora-tore25 fa pensare che il quispiam a cui Cicerone si rivolge nel § 15
possa essere allusivo della posizione del fratello, che al proces-so era presente in quanto presiedeva la giuria. È da notare che l’interrogativa che Cicerone rivolge al quispiam è una interroga-tiva reale, segnalata dal ne eclitico (istane doctrina), diversamen-te dalle indiversamen-terrogative che troviamo nei paragrafi successivi, che sono tutte retoriche, presuppongono cioè la risposta.
L’interrogativa pone il problema della cultura dei grandi o-ratori del passato:
Quaeret quispiam: “Quid? Illi ipsi summi viri, quorum virtutes litteris pro-ditae sunt, istane doctrina, quam tu effers laudibus, eruditi fuerunt?”
La domanda dell’ipotetico interlocutore riguarda i grandi saggi della storia arcaica romana: oltre che saggi e virtuosi, essi erano anche colti ed eruditi? Cicerone sa che non è così, in
25 Anche in ambito filosofico le idee dei due fratelli non erano le stesse, in quanto Quinto Cicerone era più vicino a posizioni di tipo stoico. I due fra-telli erano comunque accomunati dall’interesse per la cultura greca come lo stesso Cicerone dichiara nella lettera ad Attico 1.15.1: nunc, quoniam et laudis avidissimi semper fuimus et praeter ceteros φιλέέλληνες et sumus et habemus.
quanto all’epoca in cui vissero quei personaggi, la cultura greca non era ancora penetrata a Roma. Cicerone deve quindi am-mettere che in certi casi la virtù è sufficiente a garantire la sag-gezza e l’abilità oratoria, anche in assenza di cultura. In una certa misura, quindi, nell’orazione Cicerone prende in conside-razione e riconosce la fondatezza delle obiezioni del fratello.
Un ulteriore elemento da considerare è rilevabile nell’affer-mazione che si legge nei §§ 12-13, dove Cicerone dice di aver dedicato agli studi tutto il tempo libero che gli altri riservano al riposo e ai divertimenti. È qui presupposta la distinzione ro-mana fra l’otium e il negotium, cioè fra il tempo del riposo e quello dell’impegno pubblico. L’idea promossa da Cicerone è che bisogna impiegare in modo dignitoso anche il tempo dell’otium, da cui la celebre formulazione otium cum dignitate. Troviamo espressa questa idea nell’orazione Pro Sestio ed anche nell’esordio del De oratore, dove egli scrive che possono essere considerati perbeati (“felicissimi”) coloro che, avendo ricoperto cariche e portato a termine imprese, hanno partecipato alla vita pubblica senza correre pericoli e possono godere con dignità della loro vita privata (in otio cum dignitate):
qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria flore-rent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent (1.1)
L’ideologia dell’otium chiarisce anche la gerarchia che, come abbiamo visto, interessa le diverse artes. Il criterio del carattere teorico o pratico delle diverse discipline è un tratto che interes-sa anche la cultura greca, e risente del carattere schiavista delle società antiche, che portava a disprezzare il lavoro manuale in quanto prerogativa degli schiavi. Nella cultura prevalente a Roma a questo criterio gerarchico se ne sovrappone un altro, che privilegia l’attività militare e politica su quella intellettuale. Troviamo questa gerarchia nel De oratore, dove Cicerone, dopo