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Gloria e immortalità

Nel documento Materiali e Risorse (pagine 46-124)

Con una sorta di gnome o sententia Cicerone afferma nel- l’orazione  che  il  desiderio  di  gloria  è  insito  nella  natura  umana:   trahimur omnes studio laudis et optimus quisque maxime gloria duci- tur (§ 26). A dimostrazione di questo assunto Cicerone cita il fatto che anche i filosofi che nei loro libri disprezzano la gloria (allude principalmente agli Stoici), diffondono i propri nomi quali autori dei propri libri.

La gnome è proposta da Cicerone anche nelle Tusculanae di- sputationes: omnes…   incenduntur   ad   studia   gloria, assieme all’affermazione  che  honos alit artes (la fonte è Ennio, per il qua- le laus alit artes)32. Nelle Tusculanae ritroviamo anche la nota-

zione sui filosofi che disprezzano la gloria: nostri philosophi nonne in iis libri suis, quos scribunt de contemnenda gloria sua no- mina inscribunt? (1.34).

Il tema discusso nel libro I delle Tusculanae è quello dell’immortalità   dell’anima.   Esso   emerge   anche nella Pro Ar- chia, nella parte finale della argumentatio extra causam, dove Ci- cerone propone una connessione fra aspirazione alla gloria ed immortalità  dell’anima:  nessuno,  egli  afferma,  si  impegnerebbe   nella  vita  in  compiti  difficili,  se  l’anima  non  avesse un qualche presentimento sul proprio futuro (§ 29: si nihil animus praesenti- ret in posterum et si, quibus regionibus vitae spatium circumscrip- tum est, isdem omnis cogitationes terminaret suas).  L’affermazione   è replicata di seguito dalla considerazione che  l’impegno  è  sti-

32 Cfr.   G.   Mazzoli,   “Il   frammento   enniano   laus alit artes e il proemio al XVI libro degli Annales”,  Athenaeum 52 (1964), pp. 307-33.

molato dalla gloria a cui ciascuno aspira, e dalla convinzione che la memoria delle proprie imprese è destinata a sopravvive- re,  riguardando  non  lo  spazio  e  della  vita,  ma  quello  dell’intera   posterità:

Nunc insidet quaedam in optimo quoque virtus, quae noctes ac dies ani- mum gloriae stimulis concitat atque admonet non cum vitae tempore esse dimetiendam commemorationem nominis nostri, sed cum omni posteritate adaequandam (§ 29).

Troviamo  qui  un  riferimento  ad  una  “qualche  virtù”  (quae- dam virtus)  che  è  analogo  a  quello  all’ispirazione  divina  del  po- eta (§ 18: quasi divino quodam spiritu):   l’indefinito   quaedam evi- denzia il fatto che Cicerone, per il suo orientamento scettico- Academico,33 ritiene impossibile precisare quale sia la natura di

questa virtus.

Il voluto parallelismo delle due frasi che formano il § 29 ten- de a sovrapporre due questioni che appaiono in realtà piuttosto diverse:  la  sopravvivenza  dell’anima  dopo  la  morte,  e  la  fama   che un individuo può avere dopo la morte. La fama, di per sé, non   implica   la   sopravvivenza   dell’anima.   Le   due   questioni   si   sovrappongono anche nella successiva interrogativa retorica:

An vero tam parvi animi videamur esse omnes, qui in re publica atque in his vitae periculis laboribusque versamur, ut, cum usque ad extremum spa- tium nullum tranquillum atque otiosum spiritum duxerimus, nobiscum si- mul moritura omnia arbitremur? (§ 30)

33 L’Academia,  cioè  la  scuola  fondata  da  Platone,  ebbe  a  lungo  un  orien- tamento scettico. Cicerone aderiva a questo indirizzo, anche se non allo scet- ticismo radicale sostenuto da Carneade, bensì al più moderato probabilismo di Filone di Larissa, che era stato suo maestro. Carneade, nel 155 a. C., ave- va suscitato scandalo a Roma argomentando, come abbiamo visto (cfr. p. 10),  a  favore  e  contro  l’esistenza  di  una  legge  universalmente  valida.

Chi si impegna in modo indefesso per lo stato, rinunciando al riposo e alla tranquillità, lo fa, ribadisce Cicerone, perché pensa che dopo la morte sopravviva qualcosa di se stessi. Que- sta affermazione può essere riferita alla fama che rimane della gesta di un individuo,   ma   l’espressione   simul moritura (riferita alle  imprese  che  non  possono  “morire  insieme”  a  noi)  evoca  un   altro  tipo  di  sopravvivenza,  quella  dell’anima.

L’ambiguità   è   sciolta   nella   frase   finale   della   Argumentatio, che precede la Peroratio conclusiva. Cicerone, dopo aver ribadi- to di aver sempre immaginato per le proprie imprese una sem-

piterna memoria, non esclude che dopo la morte non ci sia alcu-

na percezione di sé (sive a meo sensu post mortem afutura est), ma afferma  che  la  sopravvivenza  dell’anima,  pur  non  essendo  una   certezza,  è  una  speranza,  avvalorata  dall’opinione   di   sapientis-

simi homines (l’allusione  è  in primis a Platone).

L’intera   argomentazione   trova   riscontro   nelle   Tusculanae, dove Cicerone ripropone   l’idea   che   nessuno   metterebbe   a   ri- schio   la   propria   vita   se   non   avesse   speranza   nell’immortalità:   nemo umquam sine magna spe immortalitatis se pro patria offeret ad mortem (1.32);   l’esempio   citato   a   questo   proposito   è   quello   di   Temistocle, menzionato anche  nell’orazione  (al  §  20).

Uno degli argomenti addotti nelle Tusculanae in merito al- l’immortalità  dell’anima  è  quello  del  consensus gentium,  l’essere   cioè   una   posizione   presente   in   molte   popolazioni   (è   un’argo- mentazione che era utilizzata in particolare dagli Stoici): ma- xumum vero argumentum est naturam ipsam de immortalitate ani- morum tacitam iudicare, quod omnibus curae sunt, et maxumae qui- dem, quae post mortem futura sint (1.31). Poco prima Cicerone a- veva esposto la validità generale di questo criterio: omni autem in re consentio omnium gentium lex naturae putanda est (1.30). Nel- la Pro Archia questo criterio è adottato da Cicerone in riferimen- to alla sacralità dei poeti, riconosciuta anche dalle popolazioni barbare: quo nulla umquam barbaries violavit (§ 19).

NOTA CRITICA

La Pro Archia è testimoniata da numerosi manoscritti che di- scendono da un perduto codice che nel tardo Medioevo si tro- vava  probabilmente  in  Belgio,  nell’area  di  Liegi.  Non  sappiamo   nulla  dell’origine  di  questo  codice,  né  dei  canali  di  trasmissione   che  possono  aver  portato  il  testo  dell’orazione,  che  pure  godet- te  di  una  notevole  fortuna  nell’Antichità  (è  citata  da  Seneca  re- tore, Quintiliano e Tacito), a sopravvivere solamente grazie ad un unico esemplare. Esso costituisce, per la ricostruzione del testo  dell’orazione,  l’archetipo  da  cui  dipende  l’intera  tradizio- ne manoscritta.

Forse lo stesso archetipo, o una copia di esso, fu trovata nel 1333 da Francesco Petrarca, nel corso di un suo viaggio attra- verso  la  Francia  e  il  Belgio.  Petrarca  copiò  il  testo  dell’orazione   da questo esemplare, poi perduto. Dalla copia effettuata da Pe- trarca, poi perduta (π), dipendono ben 270 manoscritti. Oltre a questi manoscritti, copiati fra il XIV e il XV secolo, ci restano un codice   copiato   nel   sec.   XII   in   un’altra   località   della   Vallonia,   Gembloux (per cui il codice è detto Gemblacensis), conservato attualmente nella Biblioteca Reale di Bruxelles (G); un altro co- dice del sec. XII/XIII, il cosiddetto Erfurtensis, oggi nella Staa- tsbibliothek di Berlino (E), copiato da Wibald di Corvey (Ger-

mania), un monaco benedettino che aveva studiato a Liegi (e che  fu  anche  un  personaggio  di  rilievo  nell’entourage degli im- peratori Lotario e Federico Barbarossa); e un codice testual- mente vicinissimo ad E, il Vaticano Palatino 1525 (V), copiato nel  1467.  Alcune  parti  dell’orazione,  infine,  sono  trascritte  in  un   florilegio del sec. XII,34 allestito probabilmente a Chartres (un

centro  che  in  quest’epoca  aveva  contatti  diretti  con  Liegi).

Le principali edizioni critiche della Pro Archia sono quelle pubblicate nel 1911 da A. C. Clark (nella Bibliotheca Oxonien- sis)35 e nel 1966 da H. Kasten (nella Bibliotheca Teubneriana).36

Kasten delineò uno stemma della tradizione nel quale dall’archetipo  dipendono due rami, il primo formato da G e π, il secondo da E e V: Ω π G E V

34 Segnalato da T. Maslowski – R.   H.   House,   “Twelfth-Century Extracts from  Cicero’s  Pro Archia and Pro Cluentio in  Paris  B.  N.  MS  Lat.  18104”,  Italia Medievale e Umanistica 22 (1979), pp. 97-122.

35 M. Tulli Ciceronis, Orationes v. VI, ed. A. C. Clark, Oxford 1911.

36 M. Tulli Ciceronis, Oratio pro P. Sulla, Oratio pro Archia poeta, Lipsiae 1966  (rielaborazione  dell’edizione  pubblicata  nella  stessa  collana nel 1933 da P. Reis e rivista dallo stesso Kasten nel 1949).

Lo stemma di Kasten, criticato già da Reeve e House,37 è sta-

to messo recentemente in discussione da due studiosi, Jeroen De Kayser e Tom Deneire, che hanno attribuito G allo stesso ramo di cui fanno parte E e V, restando π unico testimone dell’altro  ramo:38 Ω π G E V

Gli stessi De Kayser e Deneire hanno anche ricostruito con precisione la tradizione dipendente da π, distribuendo i codici in quattro famiglie che probabilmente rispecchiano fasi diverse del lavoro testuale effettuato da Petrarca.39

Il testo che ci è pervenuto presenta numerosi guasti risalenti all’archetipo,   che   in   alcuni   casi   si   possono   correggere   agevol- mente,40 in altri hanno suggerito soluzioni diverse da parte de-

37 In Text and Transmission. A Survey of the Latin Classics, ed. L. D. Rey- nolds, Oxford 1983, p. 84

38 J. De Keyser – T.  Deneire,  “A  New  Stemma  for  Cicero’s  Pro Archia”,  Ei- kasmos 24 (2013), pp. 193-208.

39 J. De Keyser – T.  Deneire,  “The  Descendants  of  Petrarch’s  Pro Archia”,   Classical Quarterly 63 (2013), pp. 292-328.

40 Ad es. al § 11 iis temporibus, i manoscritti hanno his / hiis (corretto da Manuzio); al § 13, quantumcumque est in me, la copula est è omessa nei mano- scritti. Un errore tipico testimoniato dai codici E V è al § 14, nisi litterarum lumen accederet, dove questi codici hanno accenderet (suggerito evidentemen- te da lumen),

gli studiosi. In numerosi casi, inoltre, i due rami della tradizio- ne si differenziano. In passato gli editori hanno privilegiato le varianti testimoniate da G (tendenza rilevabile in modo molto netto,   in   particolare,   nell’edizione   di   Gaffiot41), ma lo stemma

proposto da De Kayser e Deneire induce ad accordare pari va- lore alle lezioni di π e a prenderle in considerazione come pos- sibile lezione originaria.

* * *

Il  testo  proposto  in  questo  volume  è  quello  dell’edizione  di   Kasten, al quale sono state però apportate le seguenti modifi- che:

§ 4 celeriter antecellere omnibus ingeni gloria coepit.

In luogo di coepit, Kasten pubblica contigit dei codici, ma questo verbo non  è  utilizzato  di  solito  con  l’infinito  (ci  si  aspetterebbe  una  costruzione  del   tipo ei contigit,  “gli  capitò”);  accolgo  quindi  la  soluzione  congetturale  (di  Er- nesti) coepit (adottata anche da Clark).

§ 8 M. Lucullus, qui se non opinari sed scire, non audivisse sed vidisse, non interfuisse sed egisse dicit.

Kasten pubblica la lezione di G E audisse, ma audivisse di π restituisce la simmetria delle tre coppie di verbi, nelle quali il primo verbo è composto da un maggior numero di sillabe rispetto al secondo.

41 Cicero, Pour le poète Archias, ed. F. Gaffiot, Paris, Les Belles Lettres, 1938. Esempi  dell’eccessivo  favore  accordato  da  Gaffiot  al  codice  G  sono  ri- levabili al § 1, hic A. Licinius, dove Gaffiot non pubblica il dimostrativo hic in quanto nel codice G è aggiunto in interlinea; e al § 8, est ridiculum ea, quae habemus,  dove  Gaffiot  pubblica  l’evidente  errore  di  G  videmus (pro habemus).

§ 10 cum mediocribus multis et aut nulla aut humili aliqua arte praeditis civitatem in Graecia homines impertiebant.

Nei manoscritti si legge: gratuito civitatem (π); gravat in civitatem (G, con l’aggiunta s.l. vel gratuito); vel gratuito gravat civitatem (E). Kasten (come in precedenza Gaffiot) pubblica gravatim civitate (“con  difficoltà”);  Clark  e  altri   (fra i quali Vretska, Bellardi e Narducci) pubblicano, per lo più senza molta convinzione, gratuito civitate (“senza   alcun   pagamento”);   Thomas   e   altri   e- mendano haud gravatim civitate (“senza   difficoltà”);   Sternkopf,   ripreso   da   Reis e Schönberger, ipotizzò non gravate civitate (di significato analogo). La lezione di Kasten è del tutto improbabile in qaunto contraddice il senso del- la frase di Cicerone, che parla della facilità con cui le città della Magna Gre- cia   concedevano   la   cittadinanza   (per   smentire   la   possibilità   che   l’avessero   rifiutata ad Archia). La soluzione gratuito dà maggiore senso, ma appare anch’essa   improbabile,   in   quanto   Cicerone   non   critica   la   concessione   della   cittadinanza effettuata dalle città citate, ma nota solamente che essa era con- ferita anche a personaggi di basso rango sociale quali gli attori. La soluzione adottata presuppone che gravat in sia il risultato di una dittografia, cioè del- la ripetizione errata di una parola contingua, in questo caso civitatem: ipo- tizzando un passaggio da scrittura precarolina, la corruzione appare plausi- bile  sul  piano  paleografico.  In  luogo  dell’incomprensibile   gravat in un copi- sta avrebbe formulato la congettura gratuito. Petrarca, di fronte alla doppia lezione   dell’archetipo,   optò   senz’altro   per   gratuito, che era la variante che dava un senso. Questa ricostruzione  comporta  l’espunzione   della dittogra- fia e consente quindi non pubblicare né gratuito né gravatim, ottenendo un testo che risulta più coerente con il senso delle argomentazioni ciceroniane.

§ 18: Atqui sic a summis hominibus eruditissimisque acce- pimus…  

atqui è lezione di π; Kaster e gli altri editori pubblicano atque di G E, ma

la variante di π restituisce un valore avversativo alla congiunzione che ap- pare coerente con il contesto.

§ 21 et regiis quondam opibus et ipsa natura regionis valla- tum.

Kasten adotta la lezione di G E ipsa naturae regione (anche Narducci, che traduce:  “difeso  […]  dalla  sua  stessa  posizione  geografica”); V ha natura re-

gione; natura regionis, qui accolta, è lezione (congetturale) di alcuni codici

della tradizione π; Mommsen e Clark emendano natura et regione, sulla base di fam. 1.7.6: eam esse naturam et regionem provinciae tuae.   Un’altra   emen- dazione è natura egregie di Benecke. La lezione qui adottata è avvalorata da un’altra  orazione  di  Cicerone,  la  Pro rege Deiotaro, dove si legge: speravit, cre-

do, difficiles tibi Alexandriae fore exitus propter regionum naturam et fluminis (§

24).

§ 25: quem [scil. Sulla] nos in contione vidimus.

Kasten conserva la lezione della maggior parte dei codici videmus, ma il senso esige vidimus, congettura (adottata anche da Clark) presente in parte della tradizione π.

§ 28 simul pro salute huius urbis atque imperi.

Adotto la soluzione congetturale di Naugerius ripresa da Clark, in luogo della lezione dei codici pro salute huius aeque imperi (“al  tempo  stesso  per  la   salvezza  di  questo  impero”)  conservata  da  Kasten.

§ 28 hunc ad perficiendum adornavi.

adornavi (“mi  sono  adoperato”)  è  aggiustamento  di  R.  Klotz  della  lezione  

di G e V adortavi (adottato anche da Clark e Gaffiot). Kasten congettura a-

doptavi, ma la soluzione non appare convincente. Frankel42 raccomandò a-

dhortatus sum di E e di una parte della tradizione di π.  Una  decina  d’anni  fa  

K. Rzepkowski43 ha proposto sum adhortatus. La soluzione adornavi è prefe-

ribile per ragioni paleografiche, in quanto da essa può essersi facilmente prodotta la corruzione adortavi testimoniata dai codici.

42 E. Frankel, Lesenproben aus Reden Ciceros und Catos, Roma 1968, pp. 72- 73.

43 K.  Rzepkowski,  “Pro Archia §  28:  colometry  and  textual  criticism”,  Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae 47 (2007), pp. 34-48.

§ 29 admonet non cum vitae tempore esse dimitiendam commemorationem nominis nostri.

dimitiendam (“non  deve  essere  misurata”)  è  congettura  di  Lambinus  (ac-

colta da Narducci) in luogo della lezione dei codici dimittendam (accolta da Kasten e dagli altri editori).

§ 31 quod summorum hominum iudiciis expetitum esse videatis

iudiciis è   congettura   di   Madvig   in   luogo   dell’improbabile ingeniis di G

(determinato dal precedente ingenio) accolto da Kasten, e di negotiis di π.

§ 31 quique est ex eo numero

In luogo di quique est Kasten  pubblica  l’emendamento  di  Madvig  estque, ma il testo dei manoscritti è del tutto accettabile.

§ 32 Quae a foro aliena iudicialique  consuetudine…  

In luogo di a foro aliena nei manoscritti si legge firme a me (ferme a me due codici dipendenti da π). Kasten conserva il testo tradito con la crux despera-

tionis (segnala cioè che il passo è guasto). Fra le varie congetture proposte

quella qui adottata, di Madvig, sembra la più ragionevole (altre proposte:

infirmata mea di Sydow; a forensi aliena di Halm; aliena a forensi sermone di A.

Klotz; a forensi abhorrentia sermone di Reis; fere a mea di Gaffiot). Una solu- zione più aderente alla lezione dei codici potrebbe essere fere aliena a mea (la congettura è vicina a quella proposta da Gaffiot, ma ne evita la durezza sin-

tattica): fere riecheggerebbe prope di § 3 (prope novo quodam et inusitato genere

dicendi);  Cicerone  segnalerebbe  la  novità  dell’orazione  non  solo  rispetto  alla   consuetudine del foro, ma anche alla propria.

Segnalo qualche altro passo che presenta problemi di tipo testuale e sul quale gli studiosi hanno espresso opinioni diver- se:

§ 1 a quo id accepimus, quo ceteris opitulari et alios servare possemus.

Nei  codici  medievali  si  legge  l’indicativo   possumus, accolto da diversi e- ditori (Gaffior, Bellardi ed altri), ma la sintassi esige possemus, già in parte dei codici derivati da π.

§ 5 et Tarentini et Regini et Neapolitani.

Alcuni editori aggiungono et Locrenses in quanto al § 10 le città menzio- nate sono quattro (oltre a Taranto, Reggio Calabria e Napoli, anche Locri). Ma Cicerone può aver facilmente variato in modo deliberato, citando Locri solamente nel secondo passo.

§ 5 Sed iam hoc non solum ingeni ac litterarum, verum e- tiam naturae atque virtutis gratia, ut domus, quae huius adule- scentiae prima fuit, eadem esset familiarissima senectuti.

Nei codici si legge sed etiam hoc in luogo di sed iam hoc; gratia, assente nei codici, è congettura di Kasten. Gaffiot ed altri accolgono il testo dei codici con la motivazione che il verbo esse è sottinteso; Narducci inserisce nel testo una crux dando comunque una traduzione («ma anche la sua indole e le sue qualità morali fecero sì che la casa etc.»). Clark pubblica: sed etiam insedit hoc non solum etc. La soluzione di Kasten è quella meno improbabile, anche se non  c’è,  va  precisato, una soluzione veramente convincente.

§ 6 M. Lucullo

L’identificazione   del   personaggio   non   è   del   tutto   sicura.   Nei   codici   si   legge L. Lucullo. Molti editori conservano questa lezione pensando a Lucio Lucullo, il padre di Marco Lucullo oppure il fratello Lucio. Il padre potreb- be  aver  soggiornato  ad  Eraclea  in  seguito  all’esilio  a  cui  fu  condannato,  nel   103-102 a.C., ma sembra improbabile che Archia fosse con lui in quest’epoca,  essendo  da  poco  arrivato  a  Roma.  Più  verosimile  potrebbe  es- sere  l’identificazione con Lucio figlio, che non risulta però aver ricoperto ca- riche in Sicilia. Restando incerti i dati storici, la correzione M. Lucullo adotta- ta da Kasten è suggerita dal fatto che al § 8 sia citato Marco quale testimone della cittadinanza ottenuta da Archia ad Eraclea.

§ 11 delatus est a L. Lucullo pro consule.

pro consule è congettura di Gronovius in luogo della lezione dei codici praetore et consule. Questa lezione è stata recentemente difesa, sulla base di argomentazioni storico-giuridiche, da F. Beschi,  “Archia  e  la  delatio ad aera- rium”,  Eikasmos 24 (2013), pp. 183-92.

§ 16 at haec studia adulescentiam acuunt.

In luogo di acuunt i manoscritti hanno agunt (accolto fra gli altri, da Gaf- fiot e Narducci), ma la correzione acuunt di Gulielmius è garantita da de o- rat. 3.93: acui ingenia adulescentium (cfr. anche de orat. 3.121: non enim solum acuenda nobis neque procudenda lingua est).

§ 23 quo minus manuum nostrarum tela pervenirent, eodem gloriam famamque penetrare.

Narducci ritiene inaccettabile la frase, e colloca nel testo la crux, in quan- to   «dopo   aver   glorificato   il   fatto   che  l’azione   delle   armi   romane   si   è   estesa fino ai confini del mondo», sarebbe non conseguente il fatto che «Cicerone sottolinei che in certe regioni quella penetrazione è insufficiente, e deve es- sere  piuttosto  sostituita  della  ‘propaganda’  in  lingua  greca».44 La stessa pre- occupazione è alla base di altre sistemazioni congetturali, che tendono a da- re  un’interpretazione  analoga  a  quella  della  traduzione  di  Narducci  («dob- biamo desiderare che fin dove sono giunte le armi dei nostri eserciti, pene- trino la gloria e la fama»): quo hominum nostrorum (Clark); quo manuum no- strarum (Madvig); quo eminus manuum nostrarum (Gulielmius); quo viribus manuum nostrarum (Sydow).   Ma   l’incoerenza del discorso ciceroniano, per evitare la quale si è intervenuto sul testo, è a mio parere solo apparente: l’idea  che  i  Romani  abbia  conquistato  l’intero  mondo  è  un’esagerazione  re- torica corrente, che gli stessi Romani sapevano non essere vera (pochi anni dopo   l’esercito   romano   sarà   sconfitto   duramente   a   Carre   dai   Parti).   Dopo   aver  enfatizzato  le  conquiste  romane,  Cicerone  formula  l’idea  più  realistica   che nelle zone non ancora conquistate sia utile diffondere la fama dei Ro- mani.

§ 24 Nam nisi Ilias illa exstitisset.

Ilias è congettura di Naugerius accolta da Kasten in luogo della lezione dei codici illi ars (che dà, nella traduzione di Narducci: «se per lui [Achille] non  vi  fosse  stata  quell’arte  [la  poesia]».  La  congettura, oltre ad essere con- vincente per la menzione che introduce del poema omerico, appare anche piuttosto verosimile sul piano paleografico.

CICERONE

PRO ARCHIA POETA

Exordium (§§ 1-445)

Nell’exordium l’oratore  usualmente  presenta  la  causa  cercando  di  conquista- re il favore dei giudici (captatio benevolentiae).   L’exordium della pro Archia è caratterizzato da un marcato atteggiamento di modestia,46 esibito   dall’ora- tore per esaltare il ruolo del suo cliente, Archia, al quale attribuisce (con e- vidente esagerazione) il merito della propria formazione intellettuale. Cice- rone anticipa anche la strategia che egli metterà in campo nel corso dell’orazione,   quella   di   difendere   Archia   anche   con   un’argomentazione di tipo  extragiudiziale  (quindi  non  strettamente  giuridica),  e  cioè  l’elogio  della   cultura.   Questo   sviluppo   della   difesa   è   comunicato   fin   d’ora   ai   giudici,   ai   quali Cicerone annuncia una inconsueta explanatio extra causam. Nel finale

Nel documento Materiali e Risorse (pagine 46-124)

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