Con una sorta di gnome o sententia Cicerone afferma nel- l’orazione che il desiderio di gloria è insito nella natura umana: trahimur omnes studio laudis et optimus quisque maxime gloria duci- tur (§ 26). A dimostrazione di questo assunto Cicerone cita il fatto che anche i filosofi che nei loro libri disprezzano la gloria (allude principalmente agli Stoici), diffondono i propri nomi quali autori dei propri libri.
La gnome è proposta da Cicerone anche nelle Tusculanae di- sputationes: omnes… incenduntur ad studia gloria, assieme all’affermazione che honos alit artes (la fonte è Ennio, per il qua- le laus alit artes)32. Nelle Tusculanae ritroviamo anche la nota-
zione sui filosofi che disprezzano la gloria: nostri philosophi nonne in iis libri suis, quos scribunt de contemnenda gloria sua no- mina inscribunt? (1.34).
Il tema discusso nel libro I delle Tusculanae è quello dell’immortalità dell’anima. Esso emerge anche nella Pro Ar- chia, nella parte finale della argumentatio extra causam, dove Ci- cerone propone una connessione fra aspirazione alla gloria ed immortalità dell’anima: nessuno, egli afferma, si impegnerebbe nella vita in compiti difficili, se l’anima non avesse un qualche presentimento sul proprio futuro (§ 29: si nihil animus praesenti- ret in posterum et si, quibus regionibus vitae spatium circumscrip- tum est, isdem omnis cogitationes terminaret suas). L’affermazione è replicata di seguito dalla considerazione che l’impegno è sti-
32 Cfr. G. Mazzoli, “Il frammento enniano laus alit artes e il proemio al XVI libro degli Annales”, Athenaeum 52 (1964), pp. 307-33.
molato dalla gloria a cui ciascuno aspira, e dalla convinzione che la memoria delle proprie imprese è destinata a sopravvive- re, riguardando non lo spazio e della vita, ma quello dell’intera posterità:
Nunc insidet quaedam in optimo quoque virtus, quae noctes ac dies ani- mum gloriae stimulis concitat atque admonet non cum vitae tempore esse dimetiendam commemorationem nominis nostri, sed cum omni posteritate adaequandam (§ 29).
Troviamo qui un riferimento ad una “qualche virtù” (quae- dam virtus) che è analogo a quello all’ispirazione divina del po- eta (§ 18: quasi divino quodam spiritu): l’indefinito quaedam evi- denzia il fatto che Cicerone, per il suo orientamento scettico- Academico,33 ritiene impossibile precisare quale sia la natura di
questa virtus.
Il voluto parallelismo delle due frasi che formano il § 29 ten- de a sovrapporre due questioni che appaiono in realtà piuttosto diverse: la sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e la fama che un individuo può avere dopo la morte. La fama, di per sé, non implica la sopravvivenza dell’anima. Le due questioni si sovrappongono anche nella successiva interrogativa retorica:
An vero tam parvi animi videamur esse omnes, qui in re publica atque in his vitae periculis laboribusque versamur, ut, cum usque ad extremum spa- tium nullum tranquillum atque otiosum spiritum duxerimus, nobiscum si- mul moritura omnia arbitremur? (§ 30)
33 L’Academia, cioè la scuola fondata da Platone, ebbe a lungo un orien- tamento scettico. Cicerone aderiva a questo indirizzo, anche se non allo scet- ticismo radicale sostenuto da Carneade, bensì al più moderato probabilismo di Filone di Larissa, che era stato suo maestro. Carneade, nel 155 a. C., ave- va suscitato scandalo a Roma argomentando, come abbiamo visto (cfr. p. 10), a favore e contro l’esistenza di una legge universalmente valida.
Chi si impegna in modo indefesso per lo stato, rinunciando al riposo e alla tranquillità, lo fa, ribadisce Cicerone, perché pensa che dopo la morte sopravviva qualcosa di se stessi. Que- sta affermazione può essere riferita alla fama che rimane della gesta di un individuo, ma l’espressione simul moritura (riferita alle imprese che non possono “morire insieme” a noi) evoca un altro tipo di sopravvivenza, quella dell’anima.
L’ambiguità è sciolta nella frase finale della Argumentatio, che precede la Peroratio conclusiva. Cicerone, dopo aver ribadi- to di aver sempre immaginato per le proprie imprese una sem-
piterna memoria, non esclude che dopo la morte non ci sia alcu-
na percezione di sé (sive a meo sensu post mortem afutura est), ma afferma che la sopravvivenza dell’anima, pur non essendo una certezza, è una speranza, avvalorata dall’opinione di sapientis-
simi homines (l’allusione è in primis a Platone).
L’intera argomentazione trova riscontro nelle Tusculanae, dove Cicerone ripropone l’idea che nessuno metterebbe a ri- schio la propria vita se non avesse speranza nell’immortalità: nemo umquam sine magna spe immortalitatis se pro patria offeret ad mortem (1.32); l’esempio citato a questo proposito è quello di Temistocle, menzionato anche nell’orazione (al § 20).
Uno degli argomenti addotti nelle Tusculanae in merito al- l’immortalità dell’anima è quello del consensus gentium, l’essere cioè una posizione presente in molte popolazioni (è un’argo- mentazione che era utilizzata in particolare dagli Stoici): ma- xumum vero argumentum est naturam ipsam de immortalitate ani- morum tacitam iudicare, quod omnibus curae sunt, et maxumae qui- dem, quae post mortem futura sint (1.31). Poco prima Cicerone a- veva esposto la validità generale di questo criterio: omni autem in re consentio omnium gentium lex naturae putanda est (1.30). Nel- la Pro Archia questo criterio è adottato da Cicerone in riferimen- to alla sacralità dei poeti, riconosciuta anche dalle popolazioni barbare: quo nulla umquam barbaries violavit (§ 19).
NOTA CRITICA
La Pro Archia è testimoniata da numerosi manoscritti che di- scendono da un perduto codice che nel tardo Medioevo si tro- vava probabilmente in Belgio, nell’area di Liegi. Non sappiamo nulla dell’origine di questo codice, né dei canali di trasmissione che possono aver portato il testo dell’orazione, che pure godet- te di una notevole fortuna nell’Antichità (è citata da Seneca re- tore, Quintiliano e Tacito), a sopravvivere solamente grazie ad un unico esemplare. Esso costituisce, per la ricostruzione del testo dell’orazione, l’archetipo da cui dipende l’intera tradizio- ne manoscritta.
Forse lo stesso archetipo, o una copia di esso, fu trovata nel 1333 da Francesco Petrarca, nel corso di un suo viaggio attra- verso la Francia e il Belgio. Petrarca copiò il testo dell’orazione da questo esemplare, poi perduto. Dalla copia effettuata da Pe- trarca, poi perduta (π), dipendono ben 270 manoscritti. Oltre a questi manoscritti, copiati fra il XIV e il XV secolo, ci restano un codice copiato nel sec. XII in un’altra località della Vallonia, Gembloux (per cui il codice è detto Gemblacensis), conservato attualmente nella Biblioteca Reale di Bruxelles (G); un altro co- dice del sec. XII/XIII, il cosiddetto Erfurtensis, oggi nella Staa- tsbibliothek di Berlino (E), copiato da Wibald di Corvey (Ger-
mania), un monaco benedettino che aveva studiato a Liegi (e che fu anche un personaggio di rilievo nell’entourage degli im- peratori Lotario e Federico Barbarossa); e un codice testual- mente vicinissimo ad E, il Vaticano Palatino 1525 (V), copiato nel 1467. Alcune parti dell’orazione, infine, sono trascritte in un florilegio del sec. XII,34 allestito probabilmente a Chartres (un
centro che in quest’epoca aveva contatti diretti con Liegi).
Le principali edizioni critiche della Pro Archia sono quelle pubblicate nel 1911 da A. C. Clark (nella Bibliotheca Oxonien- sis)35 e nel 1966 da H. Kasten (nella Bibliotheca Teubneriana).36
Kasten delineò uno stemma della tradizione nel quale dall’archetipo dipendono due rami, il primo formato da G e π, il secondo da E e V: Ω π G E V
34 Segnalato da T. Maslowski – R. H. House, “Twelfth-Century Extracts from Cicero’s Pro Archia and Pro Cluentio in Paris B. N. MS Lat. 18104”, Italia Medievale e Umanistica 22 (1979), pp. 97-122.
35 M. Tulli Ciceronis, Orationes v. VI, ed. A. C. Clark, Oxford 1911.
36 M. Tulli Ciceronis, Oratio pro P. Sulla, Oratio pro Archia poeta, Lipsiae 1966 (rielaborazione dell’edizione pubblicata nella stessa collana nel 1933 da P. Reis e rivista dallo stesso Kasten nel 1949).
Lo stemma di Kasten, criticato già da Reeve e House,37 è sta-
to messo recentemente in discussione da due studiosi, Jeroen De Kayser e Tom Deneire, che hanno attribuito G allo stesso ramo di cui fanno parte E e V, restando π unico testimone dell’altro ramo:38 Ω π G E V
Gli stessi De Kayser e Deneire hanno anche ricostruito con precisione la tradizione dipendente da π, distribuendo i codici in quattro famiglie che probabilmente rispecchiano fasi diverse del lavoro testuale effettuato da Petrarca.39
Il testo che ci è pervenuto presenta numerosi guasti risalenti all’archetipo, che in alcuni casi si possono correggere agevol- mente,40 in altri hanno suggerito soluzioni diverse da parte de-
37 In Text and Transmission. A Survey of the Latin Classics, ed. L. D. Rey- nolds, Oxford 1983, p. 84
38 J. De Keyser – T. Deneire, “A New Stemma for Cicero’s Pro Archia”, Ei- kasmos 24 (2013), pp. 193-208.
39 J. De Keyser – T. Deneire, “The Descendants of Petrarch’s Pro Archia”, Classical Quarterly 63 (2013), pp. 292-328.
40 Ad es. al § 11 iis temporibus, i manoscritti hanno his / hiis (corretto da Manuzio); al § 13, quantumcumque est in me, la copula est è omessa nei mano- scritti. Un errore tipico testimoniato dai codici E V è al § 14, nisi litterarum lumen accederet, dove questi codici hanno accenderet (suggerito evidentemen- te da lumen),
gli studiosi. In numerosi casi, inoltre, i due rami della tradizio- ne si differenziano. In passato gli editori hanno privilegiato le varianti testimoniate da G (tendenza rilevabile in modo molto netto, in particolare, nell’edizione di Gaffiot41), ma lo stemma
proposto da De Kayser e Deneire induce ad accordare pari va- lore alle lezioni di π e a prenderle in considerazione come pos- sibile lezione originaria.
* * *
Il testo proposto in questo volume è quello dell’edizione di Kasten, al quale sono state però apportate le seguenti modifi- che:
§ 4 celeriter antecellere omnibus ingeni gloria coepit.
In luogo di coepit, Kasten pubblica contigit dei codici, ma questo verbo non è utilizzato di solito con l’infinito (ci si aspetterebbe una costruzione del tipo ei contigit, “gli capitò”); accolgo quindi la soluzione congetturale (di Er- nesti) coepit (adottata anche da Clark).
§ 8 M. Lucullus, qui se non opinari sed scire, non audivisse sed vidisse, non interfuisse sed egisse dicit.
Kasten pubblica la lezione di G E audisse, ma audivisse di π restituisce la simmetria delle tre coppie di verbi, nelle quali il primo verbo è composto da un maggior numero di sillabe rispetto al secondo.
41 Cicero, Pour le poète Archias, ed. F. Gaffiot, Paris, Les Belles Lettres, 1938. Esempi dell’eccessivo favore accordato da Gaffiot al codice G sono ri- levabili al § 1, hic A. Licinius, dove Gaffiot non pubblica il dimostrativo hic in quanto nel codice G è aggiunto in interlinea; e al § 8, est ridiculum ea, quae habemus, dove Gaffiot pubblica l’evidente errore di G videmus (pro habemus).
§ 10 cum mediocribus multis et aut nulla aut humili aliqua arte praeditis civitatem in Graecia homines impertiebant.
Nei manoscritti si legge: gratuito civitatem (π); gravat in civitatem (G, con l’aggiunta s.l. vel gratuito); vel gratuito gravat civitatem (E). Kasten (come in precedenza Gaffiot) pubblica gravatim civitate (“con difficoltà”); Clark e altri (fra i quali Vretska, Bellardi e Narducci) pubblicano, per lo più senza molta convinzione, gratuito civitate (“senza alcun pagamento”); Thomas e altri e- mendano haud gravatim civitate (“senza difficoltà”); Sternkopf, ripreso da Reis e Schönberger, ipotizzò non gravate civitate (di significato analogo). La lezione di Kasten è del tutto improbabile in qaunto contraddice il senso del- la frase di Cicerone, che parla della facilità con cui le città della Magna Gre- cia concedevano la cittadinanza (per smentire la possibilità che l’avessero rifiutata ad Archia). La soluzione gratuito dà maggiore senso, ma appare anch’essa improbabile, in quanto Cicerone non critica la concessione della cittadinanza effettuata dalle città citate, ma nota solamente che essa era con- ferita anche a personaggi di basso rango sociale quali gli attori. La soluzione adottata presuppone che gravat in sia il risultato di una dittografia, cioè del- la ripetizione errata di una parola contingua, in questo caso civitatem: ipo- tizzando un passaggio da scrittura precarolina, la corruzione appare plausi- bile sul piano paleografico. In luogo dell’incomprensibile gravat in un copi- sta avrebbe formulato la congettura gratuito. Petrarca, di fronte alla doppia lezione dell’archetipo, optò senz’altro per gratuito, che era la variante che dava un senso. Questa ricostruzione comporta l’espunzione della dittogra- fia e consente quindi non pubblicare né gratuito né gravatim, ottenendo un testo che risulta più coerente con il senso delle argomentazioni ciceroniane.
§ 18: Atqui sic a summis hominibus eruditissimisque acce- pimus…
atqui è lezione di π; Kaster e gli altri editori pubblicano atque di G E, ma
la variante di π restituisce un valore avversativo alla congiunzione che ap- pare coerente con il contesto.
§ 21 et regiis quondam opibus et ipsa natura regionis valla- tum.
Kasten adotta la lezione di G E ipsa naturae regione (anche Narducci, che traduce: “difeso […] dalla sua stessa posizione geografica”); V ha natura re-
gione; natura regionis, qui accolta, è lezione (congetturale) di alcuni codici
della tradizione π; Mommsen e Clark emendano natura et regione, sulla base di fam. 1.7.6: eam esse naturam et regionem provinciae tuae. Un’altra emen- dazione è natura egregie di Benecke. La lezione qui adottata è avvalorata da un’altra orazione di Cicerone, la Pro rege Deiotaro, dove si legge: speravit, cre-
do, difficiles tibi Alexandriae fore exitus propter regionum naturam et fluminis (§
24).
§ 25: quem [scil. Sulla] nos in contione vidimus.
Kasten conserva la lezione della maggior parte dei codici videmus, ma il senso esige vidimus, congettura (adottata anche da Clark) presente in parte della tradizione π.
§ 28 simul pro salute huius urbis atque imperi.
Adotto la soluzione congetturale di Naugerius ripresa da Clark, in luogo della lezione dei codici pro salute huius aeque imperi (“al tempo stesso per la salvezza di questo impero”) conservata da Kasten.
§ 28 hunc ad perficiendum adornavi.
adornavi (“mi sono adoperato”) è aggiustamento di R. Klotz della lezione
di G e V adortavi (adottato anche da Clark e Gaffiot). Kasten congettura a-
doptavi, ma la soluzione non appare convincente. Frankel42 raccomandò a-
dhortatus sum di E e di una parte della tradizione di π. Una decina d’anni fa
K. Rzepkowski43 ha proposto sum adhortatus. La soluzione adornavi è prefe-
ribile per ragioni paleografiche, in quanto da essa può essersi facilmente prodotta la corruzione adortavi testimoniata dai codici.
42 E. Frankel, Lesenproben aus Reden Ciceros und Catos, Roma 1968, pp. 72- 73.
43 K. Rzepkowski, “Pro Archia § 28: colometry and textual criticism”, Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae 47 (2007), pp. 34-48.
§ 29 admonet non cum vitae tempore esse dimitiendam commemorationem nominis nostri.
dimitiendam (“non deve essere misurata”) è congettura di Lambinus (ac-
colta da Narducci) in luogo della lezione dei codici dimittendam (accolta da Kasten e dagli altri editori).
§ 31 quod summorum hominum iudiciis expetitum esse videatis
iudiciis è congettura di Madvig in luogo dell’improbabile ingeniis di G
(determinato dal precedente ingenio) accolto da Kasten, e di negotiis di π.
§ 31 quique est ex eo numero
In luogo di quique est Kasten pubblica l’emendamento di Madvig estque, ma il testo dei manoscritti è del tutto accettabile.
§ 32 Quae a foro aliena iudicialique consuetudine…
In luogo di a foro aliena nei manoscritti si legge firme a me (ferme a me due codici dipendenti da π). Kasten conserva il testo tradito con la crux despera-
tionis (segnala cioè che il passo è guasto). Fra le varie congetture proposte
quella qui adottata, di Madvig, sembra la più ragionevole (altre proposte:
infirmata mea di Sydow; a forensi aliena di Halm; aliena a forensi sermone di A.
Klotz; a forensi abhorrentia sermone di Reis; fere a mea di Gaffiot). Una solu- zione più aderente alla lezione dei codici potrebbe essere fere aliena a mea (la congettura è vicina a quella proposta da Gaffiot, ma ne evita la durezza sin-
tattica): fere riecheggerebbe prope di § 3 (prope novo quodam et inusitato genere
dicendi); Cicerone segnalerebbe la novità dell’orazione non solo rispetto alla consuetudine del foro, ma anche alla propria.
Segnalo qualche altro passo che presenta problemi di tipo testuale e sul quale gli studiosi hanno espresso opinioni diver- se:
§ 1 a quo id accepimus, quo ceteris opitulari et alios servare possemus.
Nei codici medievali si legge l’indicativo possumus, accolto da diversi e- ditori (Gaffior, Bellardi ed altri), ma la sintassi esige possemus, già in parte dei codici derivati da π.
§ 5 et Tarentini et Regini et Neapolitani.
Alcuni editori aggiungono et Locrenses in quanto al § 10 le città menzio- nate sono quattro (oltre a Taranto, Reggio Calabria e Napoli, anche Locri). Ma Cicerone può aver facilmente variato in modo deliberato, citando Locri solamente nel secondo passo.
§ 5 Sed iam hoc non solum ingeni ac litterarum, verum e- tiam naturae atque virtutis gratia, ut domus, quae huius adule- scentiae prima fuit, eadem esset familiarissima senectuti.
Nei codici si legge sed etiam hoc in luogo di sed iam hoc; gratia, assente nei codici, è congettura di Kasten. Gaffiot ed altri accolgono il testo dei codici con la motivazione che il verbo esse è sottinteso; Narducci inserisce nel testo una crux dando comunque una traduzione («ma anche la sua indole e le sue qualità morali fecero sì che la casa etc.»). Clark pubblica: sed etiam insedit hoc non solum etc. La soluzione di Kasten è quella meno improbabile, anche se non c’è, va precisato, una soluzione veramente convincente.
§ 6 M. Lucullo
L’identificazione del personaggio non è del tutto sicura. Nei codici si legge L. Lucullo. Molti editori conservano questa lezione pensando a Lucio Lucullo, il padre di Marco Lucullo oppure il fratello Lucio. Il padre potreb- be aver soggiornato ad Eraclea in seguito all’esilio a cui fu condannato, nel 103-102 a.C., ma sembra improbabile che Archia fosse con lui in quest’epoca, essendo da poco arrivato a Roma. Più verosimile potrebbe es- sere l’identificazione con Lucio figlio, che non risulta però aver ricoperto ca- riche in Sicilia. Restando incerti i dati storici, la correzione M. Lucullo adotta- ta da Kasten è suggerita dal fatto che al § 8 sia citato Marco quale testimone della cittadinanza ottenuta da Archia ad Eraclea.
§ 11 delatus est a L. Lucullo pro consule.
pro consule è congettura di Gronovius in luogo della lezione dei codici praetore et consule. Questa lezione è stata recentemente difesa, sulla base di argomentazioni storico-giuridiche, da F. Beschi, “Archia e la delatio ad aera- rium”, Eikasmos 24 (2013), pp. 183-92.
§ 16 at haec studia adulescentiam acuunt.
In luogo di acuunt i manoscritti hanno agunt (accolto fra gli altri, da Gaf- fiot e Narducci), ma la correzione acuunt di Gulielmius è garantita da de o- rat. 3.93: acui ingenia adulescentium (cfr. anche de orat. 3.121: non enim solum acuenda nobis neque procudenda lingua est).
§ 23 quo minus manuum nostrarum tela pervenirent, eodem gloriam famamque penetrare.
Narducci ritiene inaccettabile la frase, e colloca nel testo la crux, in quan- to «dopo aver glorificato il fatto che l’azione delle armi romane si è estesa fino ai confini del mondo», sarebbe non conseguente il fatto che «Cicerone sottolinei che in certe regioni quella penetrazione è insufficiente, e deve es- sere piuttosto sostituita della ‘propaganda’ in lingua greca».44 La stessa pre- occupazione è alla base di altre sistemazioni congetturali, che tendono a da- re un’interpretazione analoga a quella della traduzione di Narducci («dob- biamo desiderare che fin dove sono giunte le armi dei nostri eserciti, pene- trino la gloria e la fama»): quo hominum nostrorum (Clark); quo manuum no- strarum (Madvig); quo eminus manuum nostrarum (Gulielmius); quo viribus manuum nostrarum (Sydow). Ma l’incoerenza del discorso ciceroniano, per evitare la quale si è intervenuto sul testo, è a mio parere solo apparente: l’idea che i Romani abbia conquistato l’intero mondo è un’esagerazione re- torica corrente, che gli stessi Romani sapevano non essere vera (pochi anni dopo l’esercito romano sarà sconfitto duramente a Carre dai Parti). Dopo aver enfatizzato le conquiste romane, Cicerone formula l’idea più realistica che nelle zone non ancora conquistate sia utile diffondere la fama dei Ro- mani.
§ 24 Nam nisi Ilias illa exstitisset.
Ilias è congettura di Naugerius accolta da Kasten in luogo della lezione dei codici illi ars (che dà, nella traduzione di Narducci: «se per lui [Achille] non vi fosse stata quell’arte [la poesia]». La congettura, oltre ad essere con- vincente per la menzione che introduce del poema omerico, appare anche piuttosto verosimile sul piano paleografico.
CICERONE
PRO ARCHIA POETA
Exordium (§§ 1-445)
Nell’exordium l’oratore usualmente presenta la causa cercando di conquista- re il favore dei giudici (captatio benevolentiae). L’exordium della pro Archia è caratterizzato da un marcato atteggiamento di modestia,46 esibito dall’ora- tore per esaltare il ruolo del suo cliente, Archia, al quale attribuisce (con e- vidente esagerazione) il merito della propria formazione intellettuale. Cice- rone anticipa anche la strategia che egli metterà in campo nel corso dell’orazione, quella di difendere Archia anche con un’argomentazione di tipo extragiudiziale (quindi non strettamente giuridica), e cioè l’elogio della cultura. Questo sviluppo della difesa è comunicato fin d’ora ai giudici, ai quali Cicerone annuncia una inconsueta explanatio extra causam. Nel finale