L’argumentatio extra causam consiste in un elogio della cultu- ra e del suo ruolo civile, e della poesia in particolare. L’elogio della cultura si apre con l’affermazione che le discipline (artes) che formano la cultura sono connesse fra loro in quanto sono tutte finalizzate alla humanitas: omnes artes, quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam commune vinculum et quasi cognatione quadam inter se continentur (§ 2).
Lo stesso concetto è formulato nel De oratore, l’opera di reto- rica scritta da Cicerone pochi anni dopo lo svolgimento del processo: omnem doctrinam harum ingenuarum et humanarum ar- tium uno quodam societatis vinculo contineri (3.21). In questo caso
21 Cfr. P. R. Murphy, “Cicero’s pro Archia and the Periclean Epitaphios”, TAPhA 89 (1958), pp. 99-111.
22 Cicerone lo teorizza esplicitamente nel De oratore, a 2.342.
23 D. H. Berry, “Literature and Persuasion in Cicero’s Pro Archia”, in Cicero the Advocate, eds. J. Powell, J. Paterson, Oxford 2004, pp. 291-312.
le artes in questione sono definite ingenuae, termine che signifi- ca “libero”, non schiavo, e che denota socialmente il tipo di formazione di cui Cicerone sta parlando, quella propria dei “li- beri”. Del tutto equivalente, e più comune e frequente, è la de- finizione delle artes come liberales, cioè proprie dei “liberi”.
Le artes di cui Cicerone sta parlando sono quindi quelle in- segnate nelle scuole ai giovani “liberi”.di buona famiglia. Si tratta delle discipline che in Grecia erano note come ἐνκύύκλιος παιδείία (παιδείία significa “educazione”, da παίίς, “fanciullo”; ἐνκύύκλιος ha in questo caso il valore di “quotidiano”, “ordina- rio”; dall’espressione greca deriva il latino encyclopedia, “enci- clopedia”). Nel De oratore Cicerone cita alcune delle discipline che venivano insegnate nelle scuole greche: has artis, quibus libe- rales doctrinae atque ingenuae continerentur, geometriam, musicam, litterarum cognitionem et poetarum, atque illa, quae de naturis rerum, quae de hominibus moribus, quae de rebus publicis dicerentur (3.127). Come si può vedere, non si parla solo delle discipline che oggi definiamo “umanistiche”, ma anche di discipline scientifiche quali la geometria e la musica. Nella tarda Antichi- tà verranno identificate sette artes “liberali”, che nel Medioevo verranno divise in due gruppi, il Trivio e il Quadrivio: del pri- mo faranno parte la grammatica, la retorica e la dialettica; del secondo l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia.
Un carattere peculiare di queste artes, quello che le rende propriamente “liberali”, è il loro carattere “teorico”: consistono in nozioni che vengono impartire dal maestro, sulla base di te- sti scritti (la grammatica è la prima disciplina ad essere inse- gnata). Sono rigorosamente escluse le discipline di carattere pratico, in quanto nella cultura greco-romana il lavoro manuale è devoluto agli schiavi e ai ceti subalterni, essendo l’educazione propria dei liberi. Questa rigida divisione fra lavoro manuale e non portava ad accentuare il carattere “teorico” e non applica- tivo delle discipline insegnate ai liberi. Questa peculiarità della
cultura greco-romana è stata spesso indicata come l’elemento che ha frenato nel mondo antico lo sviluppo delle tecnologie, nonostante l’alto livello delle conoscenze scientifiche: le appli- cazioni della scienza sarebbero state frenate dalla diffidenza nei confronti del lavoro manuale e lo sviluppo tecnologico disin- centivato dalla disponibilità di forza-lavoro a buon mercato, quella fornita dagli schiavi (realizzazioni tecniche raffinate, ad es. nell’uso del vapore acqueo, restarono limitate a sperimenta- zioni di tipo ludico, senza ricadute di carattere economico).
Il disprezzo per le attività manuali investiva anche attività del tipo di quella dell’attore, considerata degradante per un cit- tadino romano: al § 10 dell’orazione Cicerone osserva che le cit- tà della Magna Grecia concedevano la cittadinanza anche a semplici scaenici artifices (“attori”), e poco sopra parla di indivi- dui mediocres e che esercitavano una qualche umile attività (humili aliqua rate praediti). È del tutto eccezionale il caso dell’attore Roscio Lanuvino, elogiato per la sua arte al § 17.
Alla struttura sociale schiavista andrà rapportata anche l’idea di humanitas che abbiamo trovato nella nostra orazione, doce Cicerone parla di artes che ad humanitatem pertinent (§ 2), e che è presente anche in un altro passo del De oratore relativo al- le arti liberali, dove è esplicitato il riferimento all’educazione dei fanciulli (pueri): in his artibus, quae repertae sunt, ut puerorum mentes ad humanitatem fingerentur (3.58).
Il concetto di humanitas era stato elaborato nel II sec. a.C. dalle elites romane più sensibili alla cultura e alle idee filosofi- che greche. Lo troviamo, prima di Cicerone, in una commedia di Terenzio, L’Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”), scritta nel 165 a.C. Uno dei protagonisti di questa commedia, Cramete, si accorge che un altro personaggio, Menedemo, è rat- tristato e in preda ad un dolore interiore. Cramete gli chiede quale sia il motivo della sua condizione, ma Menedemo gli ri- sponde che la cosa non lo riguarda. Cramete replica dicendo di
essere un uomo, e di non considerare estraneo nulla che ri- guardi un altro uomo: homo sum. Humani nihil a me alienum puto (Heaut. 77). Questa affermazione è stata spesso messa in rela- zione con il cosiddetto “circolo degli Scipioni”, un ipotetico gruppo intellettuale nato sotto la protezione della famiglia de- gli Scipioni e caratterizzato alla simpatia nei confronti della cul- tura greca, in opposizione al tradizionalismo a tratti xenofobo rappresentato da Catone il Censore. Il termine humanitas, in questo contesto, designa una sorta di filantropia, di rispetto re- ciproco che ovviamente andrà riferito ad un ambito sociale piuttosto ristretto, senza i tratti universalistici che il concetto ha assunto in età moderna. In Cicerone il termine designa più ge- nericamente la cultura che caratterizza l’elite romana, nell’ambito di un sistema di solidarietà e di doveri sociali che lo stesso Cicerone ha esplicitato nel De officiis.
Un tratto peculiare della visione esplicitata da Cicerone nella Pro Archia e nel De oratore riguarda quello che abbiamo visto il “legame” che connette le diverse artes (vedi i passi citati sopra). Si tratta di quella che potremmo definire una presa di posizio- ne contro lo specialismo, a favore di una cultura “generale” ed “enciclopedica” (si ricordi l’etimologia di questo termine) che deve riguardare non solo l’educazione dei fanciulli, ma anche la cultura dell’uomo adulto. Cicerone si vanta, nell’orazione (§ 12), di dedicare alla lettura e allo studio tutto il proprio tempo libero.
Nello specifico Cicerone polemizzava in particolare contro l’idea che l’oratore debba essere dotato solo o in prevalenza di una competenza tecnica di tipo retorico, come era quella im- partita nelle scuole di retoriche (che esistevano a Roma da al- cuni decenni, dall’epoca dei cosiddetti rhetores Latini: vedi so- pra il § 3 di questa Introduzione). Il De oratore si caratterizza, rispetto ai trattati “tecnici” di retorica (del tipo della Rhetorica ad Herennium ed anche del De inventione dello stesso Cicerone),
proprio per questa cultura ampia ed encliclopedica che l’o- ratore deve avere. Diversamente dalle altre discipline, afferma Cicerone, che si occupano ambiti specifici del sapere, l’oratoria (bene dicere) non è inclusa in precisi confini: etenim ceterae fere ar- tes se ipsae per se tuentur singulae; bene dicere autem, quod est scien- ter et perite et ornate dicere, non habet definitam aliquam regionem, cuius terminis saepta teneatur (2.5). Per certi aspetti Cicerone rie- cheggia un’affermazione che abbiamo trovato in Catone, pole- mico nei confronti della retorica greca, per il quale l’oratore deve essere un vir bonus dicendi peritus (vedi sopra). Catone po- neva una condizione di tipo etico-politico; Cicerone non lo fa esplicitamente, parlando di cultura enciclopedica dell’oratore, ma presuppone anche un’etica socialmente definita, quella che abbiamo trovato espressa dal termine humanitas.
L’idea dell’oratoria formulata da Cicerone nel De oratore pre- sentava anche risvolti filosofici (trovava probabilmente riscon- tri in un’opera perduta dello stesso Cicerone, l’Hortensius).24 Il
modello di oratore proposto nell’opera voleva costituire anche la soluzione della querelle fra filosofia e retorica presente nella tradizione greca, proponendo una sorta di sintesi che da una parte accoglieva le istanze della filosofia, soprattutto platonica,
per le quali la retorica senza la filosofia è una disciplina priva di contenuto, dall’altra teneva conto del fatto che l’eloquenza è il fondamento della politica e della società civile. Filosofia e re- torica, nella visione di Cicerone, non sono opposte, bensì com- plementari, in quanto il buon oratore, nella sua cultura enci- clopedica, deve avere anche conoscenza della filosofia. Cicero- ne, per questo aspetto, tende a proporre una sintesi di due di- verse tradizioni della cultura greca, quelle rappresentate rispet- tivamente da Platone e da Isocrate.
24 C. Vitelli, “La Pro Archia e l’Hortensius: analogie e loro significato”, Hermes 104 (1976), 59-72.
È interessante osservare che Quinto Cicerone non concorda- va del tutto con la posizione del fratello. Lo apprendiamo dal proemio del De oratore, dove Cicerone ricorda la diversa idea dell’oratoria postulata dal fratello, basata non tanto sulla cultu- ra e sulle conoscenze, quanto sulla predisposizione naturale (ingenium) e sulla pratica (exercitationes):
solesque non numquam hac in re a me in disputationibis nostris dissentiri quod ego eruditissimorum hominum artibus eloquentiam contineri sta- tuam, tu autem illam ab elegantia doctrinae segregandam putes et in quo- dam ingenii atque exercitationis genere ponendam (1.5).
La diversità di opinione fra i due fratelli attestata dal De ora- tore25 fa pensare che il quispiam a cui Cicerone si rivolge nel § 15
possa essere allusivo della posizione del fratello, che al proces- so era presente in quanto presiedeva la giuria. È da notare che l’interrogativa che Cicerone rivolge al quispiam è una interroga- tiva reale, segnalata dal ne eclitico (istane doctrina), diversamen- te dalle interrogative che troviamo nei paragrafi successivi, che sono tutte retoriche, presuppongono cioè la risposta.
L’interrogativa pone il problema della cultura dei grandi o- ratori del passato:
Quaeret quispiam: “Quid? Illi ipsi summi viri, quorum virtutes litteris pro- ditae sunt, istane doctrina, quam tu effers laudibus, eruditi fuerunt?”
La domanda dell’ipotetico interlocutore riguarda i grandi saggi della storia arcaica romana: oltre che saggi e virtuosi, essi erano anche colti ed eruditi? Cicerone sa che non è così, in
25 Anche in ambito filosofico le idee dei due fratelli non erano le stesse, in quanto Quinto Cicerone era più vicino a posizioni di tipo stoico. I due fra- telli erano comunque accomunati dall’interesse per la cultura greca come lo stesso Cicerone dichiara nella lettera ad Attico 1.15.1: nunc, quoniam et laudis avidissimi semper fuimus et praeter ceteros φιλέέλληνες et sumus et habemus.
quanto all’epoca in cui vissero quei personaggi, la cultura greca non era ancora penetrata a Roma. Cicerone deve quindi am- mettere che in certi casi la virtù è sufficiente a garantire la sag- gezza e l’abilità oratoria, anche in assenza di cultura. In una certa misura, quindi, nell’orazione Cicerone prende in conside- razione e riconosce la fondatezza delle obiezioni del fratello.
Un ulteriore elemento da considerare è rilevabile nell’affer- mazione che si legge nei §§ 12-13, dove Cicerone dice di aver dedicato agli studi tutto il tempo libero che gli altri riservano al riposo e ai divertimenti. È qui presupposta la distinzione ro- mana fra l’otium e il negotium, cioè fra il tempo del riposo e quello dell’impegno pubblico. L’idea promossa da Cicerone è che bisogna impiegare in modo dignitoso anche il tempo dell’otium, da cui la celebre formulazione otium cum dignitate. Troviamo espressa questa idea nell’orazione Pro Sestio ed anche nell’esordio del De oratore, dove egli scrive che possono essere considerati perbeati (“felicissimi”) coloro che, avendo ricoperto cariche e portato a termine imprese, hanno partecipato alla vita pubblica senza correre pericoli e possono godere con dignità della loro vita privata (in otio cum dignitate):
qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria flore- rent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent (1.1)
L’ideologia dell’otium chiarisce anche la gerarchia che, come abbiamo visto, interessa le diverse artes. Il criterio del carattere teorico o pratico delle diverse discipline è un tratto che interes- sa anche la cultura greca, e risente del carattere schiavista delle società antiche, che portava a disprezzare il lavoro manuale in quanto prerogativa degli schiavi. Nella cultura prevalente a Roma a questo criterio gerarchico se ne sovrappone un altro, che privilegia l’attività militare e politica su quella intellettuale. Troviamo questa gerarchia nel De oratore, dove Cicerone, dopo
aver preso in considerazione l’arte militare (ars imperatoris), l’attività politica (ad rem publicam moderandam usum et scientiam et studium) ed anche la giurisprudenza (l’ars di colui qui legum et consuetudinis eius, qua privati in civitate uterentur, et ad respon- dendum et ad agendum et ad cavendum peritus esset), passa a par- lare delle altre discipline e le definisce leviores (“meno impor- tanti”): ut iam ad leviora artium studia veniam, si musicus, si grammaticus, si poeta quarentur, possim similiter explicare quid eo- rum quisque profiteatur et quo non amplius ab quoque sit postulan- dum (1.210-212). Il non amplius designa i limiti entro cui l’attività intellettuale va praticata, e la levitas ne definisce il rapporto con le attività socialmente più importanti ed elevate. Anche in un passo della Pro Sestio troviamo utilizzato il termi- ne levitas, in un appello ai giudici che presenta peraltro analo- gie con quello che leggiamo nella Pro Archia: quaeso hoc loco, iu- dices, ne qua levitate me ductum ad insolitum genus dicendi labi pu- tetis, si de poetis, de histrionibus, de ludis in iudicio loquor (Sest. 119). I poeti, in questo caso, sono senz’altro assimilati agli hi- striones, gli attori del teatro.
Un’altra opera nella quale emerge il ruolo subalterno asse- gnato nella cultura romana alle attività intellettuali è il De offi- ciis, dove Cicerone scrive che alcune professioni intellettuali sono dignitose, ma solamente per i ceti sociali a cui esse com- petono: quibus artibus aut prudentia maior inest aut non mediocris utilitas quaritur, ut medicina, ut architectura, ut doctrina rerum ho- nestarum, eae sunt iis, quorum ordini conveniunt, honestae (1.151). Professioni quali il medico, l’architetto e l’insegnante, afferma Cicerone, sono rispettabili, ma non sono praticabili dai membri dell’elite, che devono privilegiare l’attività politica. A questa af- fermazione corrisponde la realtà sociale della Roma nell’epoca, dove le citate professioni erano svolte prevalentemente da li- berti, immigrati o individui di estrazione sociale subalterna.