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La cultura dell’oratore

Nel documento Materiali e Risorse (pagine 32-40)

L’argumentatio extra causam consiste in un elogio della cultu- ra  e  del  suo  ruolo  civile,  e  della  poesia  in  particolare.  L’elogio   della  cultura  si  apre  con  l’affermazione  che  le  discipline  (artes) che formano la cultura sono connesse fra loro in quanto sono tutte finalizzate alla humanitas: omnes artes, quae ad humanitatem pertinent, habent quoddam commune vinculum et quasi cognatione quadam inter se continentur (§ 2).

Lo stesso concetto è formulato nel De oratore,  l’opera  di  reto- rica scritta da Cicerone pochi anni dopo lo svolgimento del processo: omnem doctrinam harum ingenuarum et humanarum ar- tium uno quodam societatis vinculo contineri (3.21). In questo caso

21 Cfr.  P.  R.  Murphy,  “Cicero’s  pro  Archia  and  the  Periclean  Epitaphios”,   TAPhA 89 (1958), pp. 99-111.

22 Cicerone lo teorizza esplicitamente nel De oratore, a 2.342.

23 D.   H.   Berry,   “Literature   and   Persuasion   in   Cicero’s   Pro Archia”,   in   Cicero the Advocate, eds. J. Powell, J. Paterson, Oxford 2004, pp. 291-312.

le artes in questione sono definite ingenuae, termine che signifi- ca   “libero”,   non   schiavo,   e   che   denota   socialmente   il   tipo   di   formazione di cui Cicerone sta parlando,  quella  propria  dei  “li- beri”.  Del  tutto  equivalente,  e  più  comune  e  frequente,  è  la  de- finizione delle artes come liberales,  cioè  proprie  dei  “liberi”.  

Le artes di cui Cicerone sta parlando sono quindi quelle in- segnate   nelle   scuole   ai   giovani   “liberi”.di   buona   famiglia.   Si   tratta delle discipline che in Grecia erano note come ἐνκύύκλιος παιδείία (παιδείία significa  “educazione”,  da   παίίς,  “fanciullo”;   ἐνκύύκλιος ha  in  questo  caso  il  valore  di  “quotidiano”,  “ordina- rio”;   dall’espressione   greca   deriva   il   latino encyclopedia,   “enci- clopedia”).   Nel   De oratore Cicerone cita alcune delle discipline che venivano insegnate nelle scuole greche: has artis, quibus libe- rales doctrinae atque ingenuae continerentur, geometriam, musicam, litterarum cognitionem et poetarum, atque illa, quae de naturis rerum, quae de hominibus moribus, quae de rebus publicis dicerentur (3.127). Come si può vedere, non si parla solo delle discipline che   oggi   definiamo   “umanistiche”,   ma   anche   di   discipline   scientifiche quali la geometria e la musica. Nella tarda Antichi- tà verranno identificate sette artes “liberali”,  che  nel  Medioevo   verranno divise in due gruppi, il Trivio e il Quadrivio: del pri- mo faranno parte la grammatica, la retorica e la dialettica; del secondo  l’aritmetica,  la  geometria,  la  musica  e  l’astronomia.

Un carattere peculiare di queste artes, quello che le rende propriamente  “liberali”,  è  il  loro  carattere  “teorico”:  consistono   in nozioni che vengono impartire dal maestro, sulla base di te- sti scritti (la grammatica è la prima disciplina ad essere inse- gnata). Sono rigorosamente escluse le discipline di carattere pratico, in quanto nella cultura greco-romana il lavoro manuale è  devoluto  agli  schiavi  e  ai  ceti  subalterni,  essendo  l’educazione   propria dei liberi. Questa rigida divisione fra lavoro manuale e non  portava  ad  accentuare  il  carattere  “teorico” e non applica- tivo delle discipline insegnate ai liberi. Questa peculiarità della

cultura greco-romana   è   stata   spesso   indicata   come   l’elemento   che ha frenato nel mondo antico lo sviluppo delle tecnologie, nonostante  l’alto  livello  delle  conoscenze  scientifiche:  le  appli- cazioni della scienza sarebbero state frenate dalla diffidenza nei confronti del lavoro manuale e lo sviluppo tecnologico disin- centivato dalla disponibilità di forza-lavoro a buon mercato, quella fornita dagli schiavi (realizzazioni tecniche raffinate, ad es.  nell’uso  del  vapore  acqueo,  restarono  limitate  a  sperimenta- zioni di tipo ludico, senza ricadute di carattere economico).

Il disprezzo per le attività manuali investiva anche attività del  tipo  di  quella  dell’attore,  considerata  degradante  per  un  cit- tadino  romano:  al  §  10  dell’orazione  Cicerone  osserva  che  le  cit- tà della Magna Grecia concedevano la cittadinanza anche a semplici scaenici artifices (“attori”),  e  poco  sopra parla di indivi- dui mediocres e che esercitavano una qualche umile attività (humili aliqua rate praediti). È del tutto eccezionale il caso dell’attore  Roscio  Lanuvino,  elogiato  per  la  sua  arte  al  §  17.

Alla struttura sociale schiavista andrà rapportata anche l’idea   di   humanitas che abbiamo trovato nella nostra orazione, doce Cicerone parla di artes che ad humanitatem pertinent (§ 2), e che è presente anche in un altro passo del De oratore relativo al- le arti liberali, dove è esplicitato il riferimento all’educazione   dei fanciulli (pueri): in his artibus, quae repertae sunt, ut puerorum mentes ad humanitatem fingerentur (3.58).

Il concetto di humanitas era stato elaborato nel II sec. a.C. dalle elites romane più sensibili alla cultura e alle idee filosofi- che greche. Lo troviamo, prima di Cicerone, in una commedia di   Terenzio,   L’Heautontimorumenos (“Il   punitore   di   se   stesso”),   scritta nel 165 a.C. Uno dei protagonisti di questa commedia, Cramete, si accorge che un altro personaggio, Menedemo, è rat- tristato e in preda ad un dolore interiore. Cramete gli chiede quale sia il motivo della sua condizione, ma Menedemo gli ri- sponde che la cosa non lo riguarda. Cramete replica dicendo di

essere un uomo, e di non considerare estraneo nulla che ri- guardi un altro uomo: homo sum. Humani nihil a me alienum puto (Heaut. 77). Questa affermazione è stata spesso messa in rela- zione   con   il   cosiddetto   “circolo   degli   Scipioni”,   un   ipotetico   gruppo intellettuale nato sotto la protezione della famiglia de- gli Scipioni e caratterizzato alla simpatia nei confronti della cul- tura greca, in opposizione al tradizionalismo a tratti xenofobo rappresentato da Catone il Censore. Il termine humanitas, in questo contesto, designa una sorta di filantropia, di rispetto re- ciproco che ovviamente andrà riferito ad un ambito sociale piuttosto ristretto, senza i tratti universalistici che il concetto ha assunto in età moderna. In Cicerone il termine designa più ge- nericamente   la   cultura   che   caratterizza   l’elite   romana,   nell’ambito   di   un   sistema   di solidarietà e di doveri sociali che lo stesso Cicerone ha esplicitato nel De officiis.

Un tratto peculiare della visione esplicitata da Cicerone nella Pro Archia e nel De oratore riguarda quello che abbiamo visto il “legame”  che  connette  le  diverse  artes (vedi i passi citati sopra). Si tratta di quella che potremmo definire una presa di posizio- ne  contro  lo  specialismo,  a  favore  di  una  cultura  “generale”  ed   “enciclopedica”   (si   ricordi   l’etimologia   di   questo   termine)   che   deve   riguardare   non   solo   l’educazione dei fanciulli, ma anche la  cultura  dell’uomo  adulto.  Cicerone  si  vanta,  nell’orazione  (§   12), di dedicare alla lettura e allo studio tutto il proprio tempo libero.

Nello specifico Cicerone polemizzava in particolare contro l’idea  che  l’oratore debba essere dotato solo o in prevalenza di una competenza tecnica di tipo retorico, come era quella im- partita nelle scuole di retoriche (che esistevano a Roma da al- cuni   decenni,   dall’epoca   dei   cosiddetti   rhetores Latini: vedi so- pra il § 3 di questa Introduzione). Il De oratore si caratterizza, rispetto   ai   trattati   “tecnici”   di   retorica   (del   tipo   della   Rhetorica ad Herennium ed anche del De inventione dello stesso Cicerone),

proprio   per   questa   cultura   ampia   ed   encliclopedica   che   l’o- ratore deve avere. Diversamente dalle altre discipline, afferma Cicerone,  che  si  occupano  ambiti  specifici  del  sapere,  l’oratoria   (bene dicere) non è inclusa in precisi confini: etenim ceterae fere ar- tes se ipsae per se tuentur singulae; bene dicere autem, quod est scien- ter et perite et ornate dicere, non habet definitam aliquam regionem, cuius terminis saepta teneatur (2.5). Per certi aspetti Cicerone rie- cheggia  un’affermazione  che  abbiamo  trovato  in  Catone,  pole- mico   nei   confronti   della   retorica   greca,   per   il   quale   l’oratore   deve essere un vir bonus dicendi peritus (vedi sopra). Catone po- neva una condizione di tipo etico-politico; Cicerone non lo fa esplicitamente,   parlando   di   cultura   enciclopedica   dell’oratore,   ma  presuppone  anche  un’etica  socialmente  definita,  quella  che   abbiamo trovato espressa dal termine humanitas.

L’idea  dell’oratoria  formulata  da  Cicerone  nel  De oratore pre- sentava anche risvolti filosofici (trovava probabilmente riscon- tri   in   un’opera   perduta   dello   stesso   Cicerone,   l’Hortensius).24 Il

modello  di  oratore  proposto  nell’opera voleva costituire anche la soluzione della querelle fra filosofia e retorica presente nella tradizione greca, proponendo una sorta di sintesi che da una parte accoglieva le istanze della filosofia, soprattutto platonica,

per le quali la retorica senza la filosofia è una disciplina priva di  contenuto,  dall’altra  teneva  conto  del  fatto  che  l’eloquenza  è   il fondamento della politica e della società civile. Filosofia e re- torica, nella visione di Cicerone, non sono opposte, bensì com- plementari, in quanto il buon oratore, nella sua cultura enci- clopedica, deve avere anche conoscenza della filosofia. Cicero- ne, per questo aspetto, tende a proporre una sintesi di due di- verse tradizioni della cultura greca, quelle rappresentate rispet- tivamente da Platone e da Isocrate.

24 C.   Vitelli,   “La   Pro Archia e   l’Hortensius:   analogie   e   loro   significato”,   Hermes 104 (1976), 59-72.

È interessante osservare che Quinto Cicerone non concorda- va del tutto con la posizione del fratello. Lo apprendiamo dal proemio del De oratore, dove Cicerone ricorda la diversa idea dell’oratoria  postulata  dal  fratello,  basata  non  tanto  sulla  cultu- ra e sulle conoscenze, quanto sulla predisposizione naturale (ingenium) e sulla pratica (exercitationes):

solesque non numquam hac in re a me in disputationibis nostris dissentiri quod ego eruditissimorum hominum artibus eloquentiam contineri sta- tuam, tu autem illam ab elegantia doctrinae segregandam putes et in quo- dam ingenii atque exercitationis genere ponendam (1.5).

La diversità di opinione fra i due fratelli attestata dal De ora- tore25 fa pensare che il quispiam a cui Cicerone si rivolge nel § 15

possa essere allusivo della posizione del fratello, che al proces- so era presente in quanto presiedeva la giuria. È da notare che l’interrogativa  che  Cicerone  rivolge  al  quispiam è una interroga- tiva reale, segnalata dal ne eclitico (istane doctrina), diversamen- te dalle interrogative che troviamo nei paragrafi successivi, che sono tutte retoriche, presuppongono cioè la risposta.

L’interrogativa  pone  il  problema  della  cultura  dei  grandi   o- ratori del passato:

Quaeret quispiam:  “Quid?  Illi  ipsi  summi  viri,  quorum  virtutes  litteris  pro- ditae  sunt,  istane  doctrina,  quam  tu  effers  laudibus,  eruditi  fuerunt?”

La   domanda   dell’ipotetico   interlocutore   riguarda   i   grandi   saggi della storia arcaica romana: oltre che saggi e virtuosi, essi erano anche colti ed eruditi? Cicerone sa che non è così, in

25 Anche in ambito filosofico le idee dei due fratelli non erano le stesse, in quanto Quinto Cicerone era più vicino a posizioni di tipo stoico. I due fra- telli  erano  comunque  accomunati  dall’interesse  per  la  cultura  greca  come  lo   stesso Cicerone dichiara nella lettera ad Attico 1.15.1: nunc, quoniam et laudis avidissimi semper fuimus et praeter ceteros φιλέέλληνες et sumus et habemus.

quanto  all’epoca  in  cui  vissero  quei  personaggi,  la  cultura  greca   non era ancora penetrata a Roma. Cicerone deve quindi am- mettere che in certi casi la virtù è sufficiente a garantire la sag- gezza   e   l’abilità   oratoria,   anche   in   assenza   di   cultura.   In   una   certa  misura,  quindi,  nell’orazione  Cicerone  prende  in  conside- razione e riconosce la fondatezza delle obiezioni del fratello.

Un   ulteriore   elemento   da   considerare   è   rilevabile   nell’affer- mazione che si legge nei §§ 12-13, dove Cicerone dice di aver dedicato agli studi tutto il tempo libero che gli altri riservano al riposo e ai divertimenti. È qui presupposta la distinzione ro- mana   fra   l’otium e il negotium, cioè fra il tempo del riposo e quello dell’impegno   pubblico.   L’idea   promossa   da   Cicerone   è   che bisogna impiegare in modo dignitoso anche il tempo dell’otium, da cui la celebre formulazione otium cum dignitate. Troviamo  espressa  questa  idea  nell’orazione  Pro Sestio ed anche nell’esordio  del  De oratore, dove egli scrive che possono essere considerati perbeati (“felicissimi”)   coloro che, avendo ricoperto cariche e portato a termine imprese, hanno partecipato alla vita pubblica senza correre pericoli e possono godere con dignità della loro vita privata (in otio cum dignitate):

qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria flore- rent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent (1.1)

L’ideologia  dell’otium chiarisce anche la gerarchia che, come abbiamo visto, interessa le diverse artes. Il criterio del carattere teorico o pratico delle diverse discipline è un tratto che interes- sa anche la cultura greca, e risente del carattere schiavista delle società antiche, che portava a disprezzare il lavoro manuale in quanto prerogativa degli schiavi. Nella cultura prevalente a Roma a questo criterio gerarchico se ne sovrappone un altro, che  privilegia  l’attività  militare  e  politica  su  quella  intellettuale.   Troviamo questa gerarchia nel De oratore, dove Cicerone, dopo

aver   preso   in   considerazione   l’arte   militare   (ars imperatoris), l’attività  politica  (ad rem publicam moderandam usum et scientiam et studium)  ed  anche  la  giurisprudenza  (l’ars di colui qui legum et consuetudinis eius, qua privati in civitate uterentur, et ad respon- dendum et ad agendum et ad cavendum peritus esset), passa a par- lare delle altre discipline e le definisce leviores (“meno   impor- tanti”):   ut iam ad leviora artium studia veniam, si musicus, si grammaticus, si poeta quarentur, possim similiter explicare quid eo- rum quisque profiteatur et quo non amplius ab quoque sit postulan- dum (1.210-212). Il non amplius designa i limiti entro cui l’attività   intellettuale   va   praticata,   e   la   levitas ne definisce il rapporto con le attività socialmente più importanti ed elevate. Anche in un passo della Pro Sestio troviamo utilizzato il termi- ne levitas, in un appello ai giudici che presenta peraltro analo- gie con quello che leggiamo nella Pro Archia: quaeso hoc loco, iu- dices, ne qua levitate me ductum ad insolitum genus dicendi labi pu- tetis, si de poetis, de histrionibus, de ludis in iudicio loquor (Sest. 119).   I   poeti,   in   questo   caso,   sono   senz’altro   assimilati   agli   hi- striones, gli attori del teatro.

Un’altra   opera   nella   quale   emerge il ruolo subalterno asse- gnato nella cultura romana alle attività intellettuali è il De offi- ciis, dove Cicerone scrive che alcune professioni intellettuali sono dignitose, ma solamente per i ceti sociali a cui esse com- petono: quibus artibus aut prudentia maior inest aut non mediocris utilitas quaritur, ut medicina, ut architectura, ut doctrina rerum ho- nestarum, eae sunt iis, quorum ordini conveniunt, honestae (1.151). Professioni   quali   il   medico,   l’architetto   e   l’insegnante,   afferma   Cicerone, sono rispettabili, ma non sono praticabili dai membri dell’elite,  che  devono privilegiare  l’attività  politica.  A  questa  af- fermazione  corrisponde  la  realtà  sociale  della  Roma  nell’epoca,   dove le citate professioni erano svolte prevalentemente da li- berti, immigrati o individui di estrazione sociale subalterna.

Nel documento Materiali e Risorse (pagine 32-40)

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