AGOSTINO
Un punto di svolta
• Il testo che andiamo a presentare rappresenta
un punto di svolta del pensiero agostiniano
sulla libertà. Da un lato vengono riviste
sensibilmente alcune posizioni proprie del De
libero arbitrio, dall’altro vengono acquisite
prospettive che non verranno più abbandonate
e
che
anzi
verranno
riconfermate
e
radicalizzare
durante
la
polemica
antipelagiana. Per capire meglio il nostro
scritto vediamone il suo Sitz im Leben.
La redazione del testo
• Le diverse questioni a Simpliciano sono uno scritto
in risposta ad una lettera del prete milanese,
futuro vescovo successore di Ambrogio, in cui
venivano posti dei problemi di interpretazione di
alcuni brani di Paolo e dei libri biblici di 1- 2
Samuele e di 1-2 Re. Sono state redatte poco dopo
la nomina vescovile di Agostino che data al
maggio-giugno 395. Tra l’estate 395 e l’inverno
396 viene composto il testo e spedito con una
lettera
di
accompagnamento
(lett.
37)
Il destinatario
• Simpliciano è un personaggio importantissimo della Chiesa milanese. Nato nel 320 circa e morto nel 401 da famiglia cristiana di origini romane, divenne prete, visse a Milano, fu espositore infaticabile della dottrina cristiana, profondo indagatore dei misteri della religione di Cristo ed ebbe parte rilevante nella conversione del neoplatonico Mario Vittorino, di Ambrogio stesso e di Agostino. Da Ambrogio sappiamo che fu persona estremamente colta e curiosa, con un’imponente cultura filosofica e critica, amante delle Scritture e soprattutto di San Paolo. Dice Ambrogio: «poiché la profondità del suo insegnamento riesce difficile da comprendersi, la sublimità dei suoi concetti desta l’attenzione di chi ascolta e stimola chi ne discute» (S. Ambrogio, Ep. 7, 1).
Agostino e Simpliciano
• Nelle Confessioni Agostino riconosce la grande
importanza del prete milanese non solo nella vita
spirituale di Ambrogio, ma anche nel suo stesso
nel processo di conversione. Il suo esempio di
ascetismo e il suo acume intellettuale ne fanno
un punto di riferimento obbligato per il giovane
intellettuale africano che a Milano intraprende il
suo cammino di fede. Dal punto di vista filosofico
è ancora Simpliciano ad offrirgli la griglia
concettuale
per
conciliare
platonismo
e
cristianesimo.
Simpliciano, Agostino e Paolo
• Ma ai meriti di Simpliciano va aggiunto lo stimolo
rilevantissimo nell’approfondimento dello studio
di san Paolo, che il vescovo di Ippona aveva
iniziato e che però, nel caso della lettera ai
Romani, aveva interrotto per la difficoltà della
materia.
• In effetti il primo libro delle Diverse questioni è
tutto dedicato a Paolo, con il tentativo di
spiegazione di due passi decisivi della lettera ai
Romani, Rm 7, 7-25 e Rm 9, 10-29. Di questo
primo libro ci occuperemo nello specifico.
La posizione del primo problema
• Agostino, che sembra lusingato dalle domande
di Simpliciano («gradita e delicata» è la
questione paolina posta da prete milanese al
neo-vescovo di Ippona), inizia a rispondere al
primo problema da queste suscitato. Si tratta
dell’interpretazione di un passo della lettera ai
Romani che riportiamo integralmente.
Rm 7, 7-13
• Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No, certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare.
8Ma, presa l'occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento,
ogni sorta di desideri. Senza la Legge infatti il peccato è morto. 9E un tempo
io vivevo senza la Legge ma, sopraggiunto il precetto, il peccato ha ripreso vita 10e io sono morto. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è
divenuto per me motivo di morte. 11Il peccato infatti, presa l'occasione,
mediante il comandamento mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. 12Così la Legge è santa, e santo, giusto e buono è il comandamento. 13Ciò che è bene allora è diventato morte per me? No davvero! Ma il
peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento.
Rm 7, 14-25
• 14Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto
come schiavo del peccato. 15Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio
non quello che voglio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non
voglio, riconosco che la Legge è buona; 17quindi non sono più io a farlo, ma il
peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non
abita il bene: in me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo;
19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se
faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è
accanto a me. 22Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, 23ma nelle
mie membra vedo un'altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra.
24Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25Siano rese grazie a
Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato.
Il tema
• Qui Paolo tratta i concetti di Legge, cioè quello che per lui prima della conversione, e per ogni buon giudeo, era il punto di riferimento assoluto per la salvezza: eseguire nel modo più scrupoloso i comandamenti di Dio. Dio ha infatti rivelato a Mosé la sua volontà e nell’alleanza essa è stata fatta propria dal popolo eletto che ha ricevuto contestualmente la promessa della terra e della redenzione. Tuttavia la storia di Israele appare la storia della trasgressione del popolo, dell’allontanamento dei prescelti da Dio dalla strada da Dio stesso indicata. Fino al punto da rendere necessario agli occhi di Dio l’invio del suo Figlio e fino al punto della crocifissione del Figlio ad opera di quel popolo che aveva da Dio ricevuto tutti i doni. Bene, come è stato possibile un evento del genere. Ecco la spiegazione di Paolo: la presenza costante accanto all’uomo di una tendenza irresistibile al peccato che non riesce ad essere evitata dalle sole forze umane e che solo Cristo può vincere definitivamente.
L’uomo sotto la legge
• Secondo Agostino, Paolo ha in questa pericope rappresentato se stesso come se egli fosse ancora l’uomo sotto la legge, cioè quell’uomo antico che non ha ancora ricevuto l’annuncio di Cristo e il dono liberante della sua fede. Però egli, che prima aveva affermato che era stato liberato dalla legge in cui era «morto incatenato», sottolinea che non si deve dire che la legge è peccato, per evitare la possibilità di fraintederne il concetto. Quindi Paolo, che ha conosciuto Cristo e che è già da lui stato liberato, si mette nei panni di colui che è ancora sotto la legge, per spiegare meglio che rapporto vi sia tra legge, grazia e peccato, escludendo fin dall’inizio la possibilità che la legge sia peccato.
Antimanichesimo di Agostino
• Agostino riafferma che «la legge non è peccato» in chiave antimanichea, giacché i manichei dicevano che la legge è opera del Dio negativo dell’antico Testamento e che quindi è pure essa qualcosa di negativo. Il vescovo, seguendo l’Apostolo, sottolinea per contro che essa non è in sé negativa, ma è stata data affinché l’uomo conoscesse la sua condizione di peccato. Il peccato emerge in tutta la sua evidenza, infatti, quando vi sia una legge che lo indica e quando la trasgressione della legge ne enfatizzi il carattere negativo e distruttivo.
Il peccato nascosto e la rivelazione
del peccato
• Senza una legge il peccato non si evidenzia: senza qualcuno che mi dica «non fare X» io non ho chiarissimo consapevolezza che X è male, e che se faccio X sto facendo male. Quindi Paolo può dire che il peccato era morto quando egli viveva senza legge (in riferimento all’uomo naturale, addirittura senza la rivelazione della legge), intendendo la parola «morto» nel significato di «nascosto», mentre la legge lo ha evidenziato («il peccato ha preso vita») ed è a quel punto che egli è morto, cioè si è reso conto della sua effettiva disgraziata condizione che è adesso quella di colui che pecca sapendo di peccare e cedendo consapevolmente alle sue seduzioni.
Dove sta il vizio?
• Il vizio dunque non è nella legge, ma in colui che la trasgredisce: la legge è santa perché viene da Dio. Ma essa vuole sottomissione sincera, cosa che può darsi solo a uomini spirituali. E infatti Paolo, identificandosi con l’uomo sub lege dice «sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono carnale». Carnale significa qui «venduto al peccato», cioè ormai incapace di ogni resistenza alla seduzione del peccato che fa apparire gravoso il rispetto della legge e dolce la sua trasgressione. La grazia invece ribalta completamente la situazione, facendo apparire gradevole il rispetto della legge (fino a quasi renderla superflua, ma questo punto arriveremo).
«Faccio quello che non voglio»
• Ora nella condizione sub lege Agostino, proseguendo
nell’interpretazione di Paolo, dice che l’uomo, pur
approvando dal punto di vista razionale la legge, non
ne realizza le esigenze, cioè non l’osserva. Egli quindi
non «fa» ciò che pure «vuole». Perché ciò accade?
Perché l’uomo in questa condizione è «dominato
dalla concupiscenza e ingannato dalla dolcezza del
peccato proibito», dunque è trascinato e vinto dal
peccato che abita in lui tanto da avergli consegnato il
timone della sua esistenza.
Conoscenza e azione
• Dunque la legge ha un effetto sulla
conoscenza, dà all’uomo conoscenza di ciò che
è giusto e sbagliato, ma non può nulla
sull’azione, che rimane l’ambito di dominio del
peccato. Ciò è il pegno della carnalità umana:
mortalità e sensualità che sono effetto del
peccato, l’una del «peccato originale», l’altra
del «peccato ripetuto», l’una effetto della
«natura», l’altra dell’ «abitudine».
«Me infelice!»
• Quando Paolo fa questa affermazione prende atto
della situazione dell’ homo sub lege e al tempo
stesso, aggiungendo «chi mi libererà da questo corpo
di morte?» implicitamente riflette sul fatto che
sarebbe
una
folle
presunzione
pensare
di
autoliberarsi. Infatti si risponde, con significativa
torsione della traduzione da parte di Agostino (cfr. la
Bibbia Cei alla slide 10), che a liberarlo sarà la «grazia
di Dio per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore».
Il «volgersi supplicante»
• Ecco introdotto da Agostino il tema della grazia. L’uomo
per essere liberato deve «volgersi con pietà supplicante»
a Dio. Infatti nulla può realizzare la sua volontà contro la
tendenza irresistibile al peccato e al libero arbitrio non
rimane che supplicare Dio. Interessante è qui il fatto che
è demandato al libero arbitrio la responsabilità di
rivolgersi a Dio. Esso non ha altra chance se vuole
liberarsi, eppure è lui che deve in qualche modo dare
inizio alla sua liberazione rivolgendosi a Dio. Così sembra
per ora di poter interpretare, anche se presto bisognerà
ulteriormente radicalizzare questa prospettiva.
Di nuovo sulla bontà della legge
contro i manichei
• Ma subito dopo aver introdotto il tema della grazia, Agostino ritorna a sottolineare che la legge che Paolo ha citato come «occasione di peccato» solo perché lo fa conoscere, è una legge buona. Il peccato si è servito della legge «per apparire oltre misura, cioè per rafforzarsi maggiormente a causa della trasgressione», ma la legge rimane assolutamente ineccepibile in quanto legge di Dio che è santo. I manichei (la cui «perversità è cieca oltre ogni dire») sono dunque smentiti da un’interpretazione adeguatamente contestualizzata di Paolo, interpretazione che consente di risolvere anche le apparenti ambiguità del testo.
Come fa la legge ad apparire
condanna?
• La legge appare condanna a chi non la osserva, cioè per costoro essa è lettera, lettera diremmo «morta» perché semplice comunicazione di un dovere senza la possibilità di adempierlo. Mentre per coloro che sono sotto la grazia la legge è «osservata con amore». Non si tratta qui di osservare la legge «con amore della legge». Dal contesto mi sembra che l’amore in questione sia il dono di grazia offerto da Dio, cioè la capacità di amare (chi? Dio e il prossimo) realizzando la quale la legge è già di per sé osservata e lo è nel suo spirito, cioè in ciò a cui essa mira veramente, ossia ancora l’amore. Per questo la «lettera uccide e lo spirito vivifica» (2 Cor 3,6).
La seconda questione: Rm 9, 10-29
(qui 10-17)
• «Anche Rebecca ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre; 11quando essi
non erano ancora nati e nulla avevano fatto di bene o di male - perché
rimanesse fermo il disegno divino fondato sull'elezione, non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama -, 12le fu dichiarato: Il maggiore sarà
sottomesso al minore, 13come sta scritto: Ho amato Giacobbe
e ho odiato Esaù.
14Che diremo dunque? C'è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! 15
Egli infatti dice a Mosè:
Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla.
16Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che ha
misericordia. 17Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per
Rm 9, 18-25
• la terra. 18Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi
vuole. 19Mi potrai però dire: "Ma allora perché ancora rimprovera? Chi
infatti può resistere al suo volere?".
20O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a
colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?". 21Forse il vasaio non è
padrone dell'argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far
conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità
• gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. 23E questo, per far
conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di
misericordia, da lui predisposta alla gloria, 24cioè verso di noi, che egli ha
chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani. • 25Esattamente come dice Osea:
Rm 9, 25-29
Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e mia amata quella che non era l'amata.
26E avverrà che, nel luogo stesso dove fu detto loro:
"Voi non siete mio popolo",
là saranno chiamati figli del Dio vivente.
27E quanto a Israele, Isaia esclama:
Se anche il numero dei figli d'Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato;
28perché con pienezza e rapidità
il Signore compirà la sua parola sulla terra.
29E come predisse Isaia:
Se il Signore degli eserciti
non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo divenuti come Sòdoma
e resi simili a Gomorra.
Il commento di Agostino: la grazia
precede le opere
• Agostino inizia a commentare questo passo dicendo di
volersi anzitutto attenere all’intenzione dell’Apostolo,
che egli coglie in generale nella sottolineatura che
LA GRAZIA PRECEDE LE OPERE.
Cioè il dono che Dio fa agli uomini di una redenzione dal
peccato è un dono assolutamente gratuito (grazia
appunto) e quindi non è data in cambio di qualche
merito umano. Sarebbe infatti una contraddizione in
termini concepire una grazia data a seguito di qualche
azione positiva.
La grazia MEDIANTE la fede
• Agostino sostiene che Paolo antepone la grazia alle
opere e che dice che l’uomo non può «agire bene,
senza aver ricevuto la grazia mediante la fede.
L’uomo infatti comincia a ricevere la grazia quando
inizia a credere in Dio» e questo poi genera i suoi
buoni comportamenti. Ma questo inizio di grazia,
consistente nella fede, a volte è sufficiente a volte
deve essere completato con l’adesione alla Chiesa di
Cristo e ai suoi sacramenti.
La fede MEDIANTE la grazia
• Poche righe dopo il passo testé citato, Agostino
accenna all’episodio del centurione Cornelio (Atti 10)
e introduce una frase che allude ad una
radicalizzazione della sua prospettiva: il centurione
agisce bene perché crede, ma neppure avrebbe
creduto se non fosse stato chiamato da «segrete
esortazioni» spirituali e sensibili. Quindi sembra che
qui sia adombrata l’idea che verrà poi sviluppata
successivamente: anche la fede deriva da una
chiamata, quindi da una grazia.
Giacobbe ed Esaù
• Veniamo allora al commento vero e proprio del passo paolino. Agostino sottolinea che la nascita di Giacobbe ed Esaù dovuta ad un parto gemellare (occasione per un excursus anti-astrologico del nostro vescovo), è stata promessa da Dio e anche il destino dei due è stato deciso da Dio prima della loro nascita cioè in virtù di una grazia senza alcun merito da parte loro. Così le buone opere di Giacobbe non sono dovute ai meriti di quest’ultimo ma alla grazia con cui egli è stato chiamato: la grazia opera nell’uomo affinché egli possa vivere giustamente. La vita giusta di Giacobbe è conseguenza della grazia e non la precede.
«Ho amato Giacobbe e ho odiato
Esaù» (Mal 1, 2-3)
• Fin qui però si è visto solo il caso positivo di
Giacobbe, eletto senza meriti. Ma ad Agostino non
sfugge il problema nascosto nell’episodio di Genesi
(25,24-49,43) citato da Paolo. Infatti il midrash di
Malachia sul testo genesiaco attribuisce a Dio le
parole che cita Paolo: «Ho amato Giacobbe e ho
odiato Esaù». Ebbene, perché Dio «odia» Esaù senza
che egli abbia commesso alcun peccato? «Come può
dirsi giusta la sua riprovazione?» domanda
giustamente il vescovo di Ippona.
Paolo
• Paolo risponderebbe in Romani: si può dire
giusta poiché Dio ha agito così affinché
«rimanesse fermo il disegno divino fondato
sull’elezione». Ma come interpretare queste
parole? Forse sono da riferirsi alla prescienza
divina che, conoscendo i destini futuri di tutti,
avrebbe giustificato Giacobbe sapendo della
sua FUTURA fede e allo stesso tempo avrebbe
condannato Esaù?
Non la prescienza
• Agostino esclude la prescienza divina come causa dell’elezione di Giacobbe e della condanna di Esaù. Infatti ha già avuto modo di evidenziare che Paolo nega recisamente che l’elezione sia dovuta a qualche opera. Ma se parliamo di prescienza divina in generale siamo messi in condizione di non riuscire a capire, perché non vi sono elementi sufficienti nelle Scritture, a che cosa sia riferita la prescienza, se essa riguardi la fede o le opere, giacché Dio conosce entrambe allo stesso modo. Dunque se Paolo avesse inteso la prescienza, avrebbe dovuto specificare, cosa che non ha fatto. Quindi non possiamo utilizzare questa soluzione.
La Grazia
• Se l’elezione di Giacobbe non proviene dalle
opere, giacché i due fratelli non erano ancora nati,
né dalla prescienza, l’unica soluzione è che venga
dalla GRAZIA. Cioè il «disegno divino dell’elezione»
è dovuto alla volontà di Dio, di colui che chiama e
chiamando giustifica. cCiò avviene in modo che
l’elezione, cioè la scelta divina è preceduta e non
seguita dalla giustificazione: Dio sceglie coloro che
egli ha già giustificato per mezzo della sua grazia.
La grazia precede la fede
• I meriti della fede seguono e non precedono la chiamata «infatti come credono in colui che non hanno sentito? E come sentiranno se nessuno predica». Siamo al punto in cui Agostino approda al tema più difficile e controverso della sua dottrina e lo affronta direttamente. Anche la fede è dono gratuito di Dio. Il modo argomentativo per rendere accettabile questa affermazione abbastanza controintuitiva è legato alle condizioni «materiali» della fede stessa. Come infatti si può credere se non si ha avuto notizia? E come avere notizia se Dio non mette l’uomo nelle condizioni di riceverla? Infatti dobbiamo dire che o le condizioni per le quali abbiamo ricevuto la notizia di Gesù sono del tutto casuali, ma questo introdurrebbe un concetto di caso estraneo e incompatibile con quello di provvidenza divina, oppure dobbiamo riferire l’occasione – qualsiasi essa sia – di conoscere Gesù ad una precisa volontà divina. Se è così, l’iniziativa che pone le condizioni della fede è certamente divina, dunque è grazia.
Le condizioni e l’esercizio
• Ovviamente qui Agostino ritiene che date le condizioni per la fede, essa si può dispiegare tranquillamente, e siccome le condizioni sono date da Dio, la fede, il credere è un dono di Dio. Il rilievo di Agostino appare tuttavia non necessario in sede ermeneutica. Agostino si preoccupa di giustificare la possibilità della fede, e lo fa egregiamente – con Paolo - dicendo che senza una notizia la fede è impossibile. Ma, una volta giustificata la possibilità, non si è ancora stabilito perché uno crede EFFETTIVAMENTE, se per iniziativa propria o per iniziativa divina. Qui è rilevante non tanto una giustificazione razionale della dinamica, che non pare nemmeno possibile, bensì la corretta individuazione del senso della parola apostolica, che evidentemente in tale campo è normativa, essendo parola di Dio. Ebbene, essa per Agostino attribuisce chiaramente a Dio l’iniziativa anche dell’esercizio effettivo della fede umana in Gesù.
Il problema di Esaù
• Detto ciò Agostino ritorna su Esaù. La sua
condizione di svantaggio non è dovuta né alle
opere che non aveva compiuto, né alla
prescienza della fede di cui non possiamo
avere notizia, ma da una sorta di elezione al
contrario. Egli non è stato scelto per essere
oggetto della chiamata, da cui originano fede,
opere e giustificazione. Perché tutto ciò?
Perché Esaù?
• Perché Esaù è reso odioso prima ancora di nascere, giacché Dio non ha creato «qualcosa da odiare»? Tutte le cose sono state create buone nel loro genere, a prescindere dalla loro collocazione, in basso o in alto, nell’ordine del creato (cfr. De libero arbitrio).
• Dio poi non ha «odiato Esaù,» prima che egli nascesse a motivo della sua iniquità. Questo oltre che assurdo – non essendo ancora nato - è ingiusto, Perché allora l’odio dipenderebbe dalle opere e l’amore pure dalle opere, contro l’intenzione del testo apostolico.
• Dipende forse dalla fede? Ma anche qui vale il discorso prima fatto circa la prescienza della fede.
Perché Esaù non ha voluto?
Esaù non ha ricevuto la chiamata
• Se Dio chiama e la volontà di seguirlo fosse opera sia di Dio sia nostra, si potrebbe concludere che Esaù non ha voluto seguire la chiamata? Ciò non è possibile visto che Esaù non nato, non poteva volere. Infatti questi è stato riprovato quando «non poteva credere a chi lo chiamava, né disprezzare la chiamata, né compiere nulla di bene o di male».
• In realtà Esaù non è stato chiamato, infatti è Dio che suscita la nostra buona volontà, perché senza la chiamata non possiamo neppure volere giacché come dice l’Apostolo in Fil 2,13 «E’ Dio che suscita in noi il volere e l’operare».
Chiamati ed eletti
• Ma se è Dio che chiama, come mai è detto «molti i chiamati e pochi gli eletti?». E’ possibile che la chiamata di Dio sia inefficace? No, perché gli eletti fanno parte di coloro che Dio chiama nel modo conveniente affinché uno lo segua, viceversa è possibile che una chiamata sia fatta non «in modo da essere seguito», per motivi non direttamente attinenti alla sequela di colui che è chiamato. Tale chiamata non produrrà la sequela perché non intende farlo.
• Agostino aggiunge vari esempi di chiamati che hanno seguito e di chiamati che non hanno seguito)
• Come ad Esaù accade anche al faraone, il cui cuore è stato indurito, nel senso che Dio non ha usato con lui misericordia, senza per questo renderlo peggiore, ma senza neanche migliorarlo; questa mancanza di miglioramento dovuta alla misericordia divina è l’indurimento di cui parla Paolo.
Giustizia in Dio
Il problema allora diventa il seguente: «Perché ad Esaù,
che in sé non è odiato da Dio, e che Dio non crea per
odiare, è stata negata la misericordia della chiamata
divina?»
•La risposta è che Esaù è il caso particolare di una legge
generale che comincia dal sottolineare che «Tutti gli
uomini sono morti in Adamo». Cioè il peccato originale
ha coinvolto tutti.
•Quindi tutti appartengono a quella che Agostino
chiama «massa dannata».
Il diverso comportamento di Dio
• Bene, così come con Esaù e Giacobbe, Dio ad alcuni
uomini condona il peccato e perdona, mentre con altri si
comporta nel modo del creditore giusto che esige il
debito. Quindi ad alcuni dona la misericordia che va oltre
la giustizia, con altri si limita a mantenere un
comportamento giusto. Ora, se è vero che tutti siamo
peccatori in virtù del peccato originale di Adamo, con
alcuni accade che tale peccato sia punito – ed è il caso di
Esaù – con irreprensibile giustizia; con altri accade che il
peccato sia condonato con altrettanto irreprensibile
misericordia.
Giustizia e misericordia
• Quindi alla giustizia corrisponde la punizione, alla
misericordia la grazia del perdono e della
chiamata che muove la volontà a rivolgersi in
modo supplicante a Dio e ad ottenere la
possibilità di
• Credere
• Di voler vivere una vita santa
• Di
realizzare
questa
volontà,
vivendo
santamente.
Chi sei tu?
• Rimane la domanda: perché proprio ad alcune
persone viene perdonato e ad altre no? Su ciò
l’uomo non è in grado di dire niente. Questa è una
decisione che compete solo al Creatore e al suo
metro di giustizia inaccessibile alla mente umana.
Noi, come creature, non abbiamo né le capacità né
il diritto di comprendere il criterio divino della
giustizia al di là di quanto ci è stato concesso. Ci
rimane però un dovere, quello di tener fermo che
Il rimprovero
• Il rimprovero è dato ai peccatori perché Dio, anche
quando non dona la sua misericordia, comunque
non li costringe a peccare, benché essi,
inevitabilmente afflitti dal peccato originale,
pecchino non avendo la purificazione della volontà
necessaria a non peccare. In secondo luogo il
rimprovero è utile ai chiamati, perché è un modo
negativo per far sentire loro la chiamata, attraverso
il rimprovero fatto a coloro che se lo meritano.
Il Dio giusto e misericordioso odia
solo il peccato
• Anche in coloro che sono puniti Dio non odia la
persona - le cui azioni quand’anche cattive sono
ricondotte
dalla
Provvidenza
ad
un
esito
complessivamente buono – ma il peccato. L’uomo, in
quanto creatura, è sempre buono e amato da Dio.
Quando Dio dice «Ho amato Giacobbe e ho odiato
Esaù» la frase è da riferire all’ amore della creatura
buona la cui bontà è stata ripristinata dalla grazia, e
all’odio del peccato, che genera la punizione,
nonostante la creatura rimanga in sé buona.
L’ordine divino
• Tutti gli uomini dunque sono fatti di una stessa pasta (corrotta dal peccato), ma alcuni sono salvati per grazia e misericordia, altri condannati per giustizia. Il ruolo di questi ultimi è quello di «servire» alla conversione dei primi, mediante lo spettacolo della punizione in cui cadono i secondi. Questo vale in particolare per gli Ebrei e i pagani. Non c’è differenza tra gli uni e gli altri quanto alla pasta di cui sono fatti e quanto alla scelta di Dio di trovare meritevoli di condanna gli ebrei che non hanno creduto, eccetto un «resto», e degni di misericordia i pagani, venuti dopo e nondimeno oggetto del perdono di Dio, in virtù della fede cristiana ottenuta per grazia.
La conferma del Siracide
• A conferma di quanto viene dicendo Agostino
cita il Siracide e mette a confronto il brano
paolino che sta commentando, con quello
anticotestamentario, trovando in effetti la
conferma scritturistica della diversità dei
destini dell’uomo.
Chi si vanta si vanti nel Signore
• Nondimeno alla fine Agostino ribadisce l’intenzione
POSITIVA di Paolo, che sta tutta nel dire: «Chi si vanta, si
vanti nel Signore».
• Di fronte a ciò, che ruolo ha il libero arbitrio della
volontà? Agostino ribadisce che conta moltissimo, e ne
conferma la sua esistenza, ma sostiene che nulla è
possibile realizzare al libero arbitrio senza l’aiuto della
grazia, la quale non dipende dalla nostra volontà. Infatti
«perché vi sia atto di volontà, intensità di interesse o
azioni ferventi di carità, è Dio ad accordarlo e a donarlo».
Abbozzo di spiegazione
• Agostino in ultimo prova a fare un’ipotesi, dicendo però anticipatamente che si tratta di un’opinione personale che non è in grado di giustificare né razionalmente né scritturalmente. Secondo lui la scelta tra il «resto» destinato alla futura elezione, e la massa dei dannati potrebbe essere fondata «o sul maggiore ingegno o sulla minore consapevolezza o su entrambe le cose» o infine sulla formazione dottrinale fruttuosa de onesta. «Sembra quindi che la scelta per la grazia debba cadere su chi è irretito e macchiato solo da colpe veniali (chi mai ne è esente?) è di notevole ingegno ed è versato nelle arti liberali».