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Le virtù del racconto nella retorica greca

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea Magistrale in Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di Laurea:

Le virtù del racconto nella retorica greca

Relatore:

Chiarissimo Prof. Mauro Tulli

Correlatore:

Prof.ssa Maria Isabella Bertagna

Candidata:

Maria Giulia Brotini

(2)

Indice.

I.

Capitolo

I.

Le

virtù

del

racconto

nella

Rhetorica

ad

Alexandrum……….

I. I. Introduzione………

I. II. Capitoli 30. 4 – 11: traduzione………..

I. III. Kαὶ τοῦτον 'ὲν τὸν τρό,ον τὰς ἀ,ιστίας ἰασό'εθα: la

costruzione della credibilità del racconto………..

I. IV. Capitolo 22. 3 – 7: traduzione……….

I. V. La lunghezza del racconto……….

II Capitolo II. La Rhetorica ad Herennium. Per l’insegnamento delle virtù

del racconto………..

II. I. Introduzione………

II. II. Capitoli I, 9, 14 – 16: traduzione……….

II. III. Costruire la narratio: regole e virtù …………..

III. Capitolo III. Sapientia e eloquentia: Cicerone e il De Inventione

………

III. I. Introduzione……….

III. II. Capitoli 28 – 29: traduzione ……….

III. III. Brevis, aperta, probabilis. Le virtù del racconto

……….

IV. Capitolo IV. Dionigi di Alicarnasso e l’etica dell’oratore…………

IV. I. Introduzione………

IV. II. De Lysia, capitoli 4.1 – 5.2 e 18.1 – 5: traduzione………..

IV. III. Lisia e la corrispondenza fra virtù dell’oratore e virtù del

racconto………..

(3)

V. Capitolo V. Il rapporto fra διήγησις e ἱστορία nei Προγυ'νάσ'ατα di

Elio Teone...

V. I. Introduzione...

V. II. Capitoli 79. 20 – 85. 28: traduzione...

V. III. La costruzione dell’ εἰκὸς del discorso...

(4)

Capitolo I.

Le virtù del racconto nella Rhetorica ad Alexandrum.

I. Introduzione.

La Retorica ad Alessandro è un trattato che presenta non poche difficoltà interpretative sia per il problema della paternità sia per la struttura molto complessa dell’opera. Ciò che pone meno problemi è la collocazione temporale dell’opera: il terminus a quo è interno all’opera ed è la menzione della spedizione dei Corinzi in Sicilia del 344/43 a.C.1, mentre il terminus ante quem è fornito dal papiro Hibeh 26, del III secolo d.C. La Retorica ad Alessandro

è quindi collocabile con ampio margine di sicurezza nella seconda metà del IV secolo. Senza addentrarsi nei particolari di un’architettura non semplice, è opportuno comunque dire che il trattato è incorniciato da due testi evidentemente apocrifi: il primo è una lettera dedicatoria falsamente scritta da Aristotele ad Alessandro Magno (e questo giustificherebbe il titolo), mentre alla fine compaiono un paio di pagine manifestamente slegate dal contesto precedente, che riprendono in maniera quasi letterale interi passaggi dei primi capitoli2. Il testo in nostro possesso è stato inoltre alterato nel corso della sua

trasmissione da errori non sempre meccanici. Chiron3 individua nell’opera una

tripartizione: la prima parte copre i primi cinque capitoli e fornisce dei modelli per ogni specie di discorso. La seconda, la più corposa del trattato (capp. 6-28), offre una serie di nozioni valide per ogni tipologia di discorso, indipendentemente dalla sua appartenenza di genere. La terza e ultima (capp. 29-37) tratta della messa in atto del discorso stesso. Il carattere non sempre omogeneo dello scritto non sarebbe però indizio di una compilazione da parte di autori diversi: Chiron individua piuttosto una linea unitaria al trattato in cui le disomogeneità e le apparenti contraddizioni sono da attribuire alla scarsa sistematicità e alla poca capacità di sintesi dell’autore. E’ chiaro quindi che a questo punto si rende necessario affrontare la questione della paternità della Retorica ad Alessandro. Nel Medioevo il trattato era conosciuto senza il minimo dubbio come aristotelico, mentre dal Rinascimento in poi, espressamente nella figura di Erasmo da Rotterdam, si comincia a dubitare fortemente dell’attribuzione allo Stagirita. Chiron riporta la dicitura Pseudo-Aristotele per evidenziare che il trattato è stato trasmesso fra le opere aristoteliche. Non si può non accennare a questo proposito al controverso rapporto che lo scritto ha con la

                                                                                                                         

1  Cfr.  29  b  18  s.  Per  il  problema  della  datazione,  così  come  per  altre  problematiche  inerenti  l’opera,  il  testo  di  

riferimento  è  sicuramente  Chiron  (2002).    

2  Chiron  (2002),  pp.  4  ss.   3  Chiron  (2002),pp.    5-­‐‑6.  

(5)

Retorica di Aristotele: numerosi studiosi hanno messo in luce i tanti punti di contatto fra le

due opere4, in primo luogo l’analogia strutturale e l’attenzione privilegiata concessa al

genere deliberativo. Le somiglianze, però, non sono sufficienti a stabilire l’attribuzione del trattato ad Aristotele: a prescindere da un’analisi puntualmente comparata tra i singoli passi delle due τέχναι, finalizzata a stabilire di volta in volta analogie e divergenze, è il livello intellettuale, lo spessore filosofico, a differenziare nettamente il trattato di Aristotele dalla Retorica ad Alessandro a ad escludere con forza la paternità aristotelica dell’opera. Aristotele inserisce la retorica all’interno di un contesto epistemologico più speculativo, facendo dialogare la materia con l’etica e la dialettica. La Retorica ad Alessandro si delinea invece come un vero e proprio manuale specialistico della disciplina, orientato ad un’impostazione meramente pragmatica e prescrittiva della materia all’interno di una concezione in cui la retorica costituisce quasi una τέχνη fine a se stessa e intesa quasi esclusivamente come mezzo per prevalere in ogni occasione e in ogni tipo di dibattito. Oggi è da molti studiosi riconosciuta l’attribuzione del manuale ad Anassimene di Lampsaco. E’ stato l’umanista fiorentino Pier Vettori il primo a sostenere la paternità di

Anassimene sulla base di una famosa testimonianza di Quintiliano5 in cui l’oratore latino

attribuisce ad Anassimene una dottrina retorica analoga a quella esposta nella Retorica ad

Alessandro6.

Anaximenes iudicialem et contionalem generalis partes esse voluit, septem autem species: hortandi, dehortandi, laudandi, vituperandi, accusandi, defendendi, exquirendi (quod ἐξεταστικόν dicit); quarum duae primae deliberativi, duae sequentes demonstrativi, tres ultimae iudicialis generi sunt partes.

Il passo di Quintiliano non risolve però la questione dell’attribuzione in maniera definitiva, poiché l’autore parla di due generi oratori, quello deliberativo e quello giudiziario, mentre nella Retorica ad Alessandro i generi oratori riportati sono tre7:

Τρία γένη τῶν 3ολιτικῶν εἰσι λόγων, τὸ 9ὲν δη9ηγορικόν, τὸ δὲ ἐ3ιδεικτικόν, τὸ δὲ δικανικόν.

Nel testo della Retorica compare quindi il genere epidittico e questo sembra mettere in discussione la validità della testimonianza quintilianea come base per l’attribuzione della

                                                                                                                         

4  Si  veda  soprattutto  Chiron  (2002),  pp.  39-­‐‑44.   5  Cfr.  Quint.  Inst.  Or.  3.  4.  9    

6   Chiron   (2002),   pp.   56   ss.   non   si   pronuncia   contro   l’attribuzione   ad   Anassimene   dell’opera,   anche   se  

manifesta   una   certa   cautela:   nelle   sue   pagine   lo   studioso   analizza   con   attenzione   anche   le   contraddizioni   esistenti  fra  il  passo  quintilianeo  e  la  dottrina  dei  generi  presente  nella  Retorica  ad  Alessandro.  

(6)

Retorica ad Alessandro ad Anassimene. Alcuni studiosi8 hanno ritenuto che il termine τρία e

il successivo τὸ δὲ ἐ,ιδεικτικόν rappresentino delle interpolazioni e delle aggiunte ad opera di copisti appartenenti ad un’epoca successiva alla prima edizione del testo,

salvaguardando in questo modo l’ipotesi dell’attribuzione dell’opera ad Anassimene9.

Anassimene è storico e retore del IV secolo a. C. e, nell’ambito della teoria retorica, le informazioni di cui disponiamo non sono così ampie. E’ noto che egli fu autore di trattati e che si interessò all’eloquenza giudiziaria e deliberativa. Egli, a quanto pare, fu maestro di retorica di Alessandro Magno, ma l’aneddotica su di lui non è sempre lusinghiera e non

sembra personaggio di grande levatura intellettuale10.

Al di là delle fondamentali questioni testuali e di attribuzione, la Retorica ad Alessandro resta un testo fondamentale nel contesto storico-culturale in cui venne redatto, perché ha l’indubbio merito di fornirci un quadro unico ed esaustivo sulla tradizione retorica greca, a partire dai primi retori siciliani fino ad Isocrate. All’interno di una produzione manualistica che non doveva essere di poco conto, il nostro trattato è l’unico integralmente conservato e costituisce un riferimento imprescindibile attraverso cui misurare tutta la produzione successiva in Grecia e a Roma.

II. Capitoli 30. 4-11: traduzione.

Per il testo dei passi che seguono ci siamo serviti dell’edizione a cura di Pierre Chiron11.

4 Ὅταν 'ὲν οὖν ,ρεσβείαν ἀ,αγγέλλω'εν, διὰ τὰς αἰτίας ταύτας ἕκαστα ὃν τρό,ον ἐγένετο ἀ,αγγελτέον· ὅταν δὲ αὐτοὶ δη'ηγοροῦντες τῶν ,αρεληλυθότων τι διεξίω'εν ἢ [καὶ] τὰ ,αρόντα δηλῶ'εν ἢ τὰ 'έλλοντα ,ρολέγω'εν, δεῖ τούτων ἕκαστον ,οιεῖν σαφῶς καὶ βραχέως καὶ 'ὴ ἀ,ίστως· 5 σαφῶς 'έν, ὅ,ως κατα'άθωσι τὰ λεγό'ενα ,ράγ'ατα, συντό'ως δέ, ἵνα 'νη'ονεύσωσι τὰ ῥηθέντα, ,ιστῶς δέ, ὅ,ως 'ὴ ,ρὸ τοῦ ταῖς ,ίστεσι καὶ ταῖς δικαιολογίαις βεβαιῶσαι τὸν λόγον ἡ'ᾶς τὰς ἐξηγήσεις ἡ'ῶν οἱ ἀκούοντες ἀ,οδοκι'άσωσι. 6 Σαφῶς 'ὲν οὖν δηλώσο'εν ἀ,ὸ τῶν ,ραγ'άτων ἢ ἀ,ὸ τῶν ὀνο'άτων. <ἀ,ὸ 'ὲν οὖν τῶν ,ραγ'άτων>, ἐὰν 'ὴ ὑ,ερβατῶς                                                                                                                          

8  Spengel  (1862),  p.  608;  Fuhrmann  (1967),  p.  39:  Haec  de  trium  genera  doctrina,  quam  a  posterioris  aetatis  librariis   in  Anaximenis  artem  inculcatam  esse  censeo  

9   La   questione   assai   problematica   dello   stato   del   testo,   l’eventuale   accesso   al   testo   originario,   la   questione  

delle   interpolazioni   e   delle   aggiunte   e   delle   loro   motivazioni   è   ben   presentata   nella   fondamentale   introduzione  all’opera  di  Chiron  (2002).  

10  Vedi  Chiron  (2002),  pp.  56-­‐‑63.  

(7)

αὐτὰ δηλῶ'εν, ἀλλὰ τὰ ,ρῶτα ,ραχθέντα ἢ ,ραττό'ενα ἢ ,ραχθησό'ενα ,ρῶτα λέγω'εν, τὰ δὲ λοι,ὰ ἐφεξῆς τάττω'εν, καὶ ἐὰν 'ὴ ,ροα,ολι,όντες τὴν ,ρᾶξιν, ,ερὶ ἧς ἂν ἐγχειρήσω'εν. λέγειν ,άλιν ἑτέραν ἐξαγγείλω'εν. 7 Ἀ,ὸ 'ὲν οὖν τῶν ,ραγ'άτων σαφῶς οὕτως ἐροῦ'εν· ἀ,ὸ δὲ τῶν ὀνο'άτων, ἐὰν ὅτι 'άλιστα τοῖς οἰκείοις τῶν ,ραγ'άτων ὀνό'ασι τὰς ,ράξεις ,ροσαγορεύω'εν καὶ ἐὰν τοῖς κοινοῖς, καὶ 'ὴ ὑ,ερβατῶς αὐτὰ τιθῶ'εν, ἀλλ’ ἀεὶ τὰ ἐχό'ενα ἑξῆς τάττω'εν. 8 Σαφῶς 'ὲν οὖν δηλώσο'εν ταῦτα διαφυλάττοντες, συντό'ως δέ, ἐὰν ἀ,ὸ τῶν ,ραγ'άτων καὶ τῶν ὀνο'άτων ,εριαιρῶ'εν τὰ 'ὴ ἀναγκαῖα ῥηθῆναι, ταῦτα 'όνα καταλεί,οντες, ὧν ἀφαιρεθέντων ἀσαφὴς ἔσται ὁ λόγος. 9 Kαὶ συντό'ως 'ὲν τοῦτον τὸν τρό,ον δηλώσο'εν, οὐκ ἀ,ίστως δέ, ἂν ,ερὶ τὰς ἀ,ιθάνους ,ράξεις αἰτίας φέρω'εν, ,αρ’ ἃς εἰκότως τὰ λεγό'ενα δόξει ,ραχθῆναι. ὅσα δ’ ἂν λίαν ἄ,ιστα συ'βαίνῃ, δεῖ ,αραλεί,ειν. 10 Ἐὰν δὲ ἀναγκαῖον ᾖ λέγειν, εἰδότα δεῖ φαίνεσθαι καὶ ἐ,ι,λέξαντα αὐτὰ τῷ τῆς ,αραλείψεως σχή'ατι ὑ,ερβάλλεσθαι καὶ ,ροϊόντος τοῦ λόγου ἐ,ιδείξειν ἀληθῆ ὑ,ισχνεῖσθαι, ,ροφασισά'ενον ὅτι τὰ ,ροειρη'ένα ,ρῶτον βούλει ἀ,οδεῖξαι ἀληθῆ ὄντα ἢ δίκαια ἤ τι τῶν τοιούτων. 11 Kαὶ τοῦτον 'ὲν τὸν τρό,ον τὰς ἀ,ιστίας ἰασό'εθα. συλλήβδην δὲ τὰς ἀ,αγγελίας καὶ τὰς δηλώσεις καὶ τὰς ,ρορρήσεις ἐξ ἁ,άντων τῶν εἰρη'ένων σαφεῖς καὶ βραχείας καὶ οὐκ ἀ,ίστους ,οιήσο'εν.

4 Quando dunque annunciamo il resoconto di un’ambasceria, per questi motivi bisogna annunciare ciascuna cosa nel modo in cui è avvenuta. Quando poi noi stessi, parlando in pubblico, raccontiamo qualcosa degli avvenimenti passati o mostriamo gli avvenimenti presenti o annunciamo gli accadimenti futuri, bisogna fare ciascuna di queste cose in maniera concisa e chiara e degna di fede; 5 in maniera chiara perché possano capire i fatti raccontati, in maniera concisa perché possano ricordare le cose dette, in maniera degna di fede affinché quelli che ci ascoltano non disapprovino i nostri racconti prima che noi consolidiamo il racconto con prove e argomentazioni di tipo giuridico. 6 Dunque narreremo in maniera chiara a partire dalle parole o dai fatti. <Dunque dai fatti> se li racconteremo non in ordine sovvertito, ma diciamo in primo luogo i fatti che per primi sono accaduti o che accadono o che accadranno, mentre collochiamo successivamente i fatti rimanenti, e se non tralasciamo la vicenda di cui ci accingeremmo a parlare, non ne riferiamo di nuovo un’altra. 7 Dunque così racconteremo in maniera chiara a partire dai fatti; invece a partire dalle parole, se chiamiamo il più possibile i fatti con i termini ad essi propri e di uso comune, e non ne sovvertiamo l’ordine, ma mettiamo sempre di seguito gli avvenimenti connessi tra loro. 8 Dunque racconteremo in modo chiaro osservando queste regole, mentre racconteremo in maniera concisa se eliminiamo dai fatti e dalle parole le cose che non è necessario che siano dette, lasciando solo quelle tolte le quali il

(8)

discorso risulterebbe oscuro. 9 E narreremo in maniera concisa in questo modo, mentre narreremo in maniera degna di fede se riguardo ai fatti non convincenti riportiamo le cause grazie alle quali risulterà che le cose dette sono state compiute in modo verosimile. Tutte quelle cose che risultino essere per niente degne di fede, invece, bisogna tralasciarle. 10 Qualora invece sia necessario dirle, bisogna mostrarsi consapevoli di ciò e passare oltre includendole nella figura della preterizione e garantire di dimostrarne la verità più avanti nel racconto, adducendo il pretesto per cui si vuole prima dimostrare che le cose dette in precedenza sono vere o giuste o qualcosa del genere. 11 E in questo modo porremo rimedio all’incredulità. In sintesi, i racconti di fatti passati, le dichiarazioni e le predizioni di fatti futuri, in base a tutte le cose dette, li renderemo chiari e brevi e degni di fede12.

III. Kαὶ τοῦτον 'ὲν τὸν τρό,ον τὰς ἀ,ιστίας ἰασό'εθα: la costruzione

della credibilità del racconto.

Nella terza parte dell’opera, seguendo la tripartizione indicata da Chiron, l’autore della

Retorica affronta le parti del discorso e, dopo aver trattato la struttura dell’esordio e

sottolineato quegli aspetti che possono far scaturire la benevolenza dell’uditorio13, mette

subito in evidenza che ogni tipologia di narrazione deve adottare come criteri imprescindibili la chiarezza, la concisione e la verosimiglianza (ὃταν δὲ αὐτοὶ δη'ηγοροῦντες τῶν ,αρεληλυθόθων τι διεξίω'εν ἤ [καὶ] τὰ ,αρόντα δηλῶ'εν ἤ τὰ 'έλλοντα ,ρολέγω'εν, δεῖ τούτων ἕκαστον ,οιεῖν βραχέως καὶ σαφῶς καὶ 'ὴ

ἀ,ίστως). Chiron14 sottolinea giustamente come la qualità della chiarezza sia stata già

precedentemente trattata nell’opera, nel momento in cui l’autore fornisce dei precetti su come evitare l’ambiguità soprattutto dal punto di vista della λέξις15. Si ricava quindi che la

ripresa del tema della chiarezza al capitolo 30, unitamente alle qualità della concisione e della verosimiglianza, introduca una teoria che non appartiene all’autore, ma che è stata presa in prestito e inserita nel testo. Ciò è molto indicativo anche delle modalità compositive del trattato, dal momento che gli argomenti, come mostra plasticamente l’esempio prima addotto, sono talora più giustapposti che logicamente concatenati.

                                                                                                                         

12  La  traduzione  dei  passi  analizzati  è  nostra   13  Cfr.  Rhet.  Alex.  29.1-­‐‑30.3.  

14  Chiron  (2002),  176.   15  Cfr.  Rhet.  Alex.  25,  1-­‐‑6.  

(9)

E’ necessario quindi tentare di capire quale sia l’origine di questa teoria sulle ἀρεταὶ della

narrazione. Un’importantissima testimonianza di Quintiliano16 definisce queste virtù come

originarie della scuola di Isocrate:

Eam (scil. narrationem) plerique scriptores maximeque qui sunt ab Isocrate volunt esse lucidam brevem verisimilem. Neque enim refert an pro lucida perspicuam, pro veri simili probabilem credibilemve dicamus.

L’attribuzione quintilianea non può però essere presa come dato certo e inconfutabile, dal momento che altre testimonianze collocano addirittura più indietro la formulazione di

questa teoria: Dossopatro la fa risalire addirittura a Corace17. Come vedremo più avanti da

confronti puntuali, queste virtù sono in alcune parti largamente criticate da Aristotele nella Retorica: comunque sia, la teoria delle tre qualità del racconto è ampiamente ripresa, con qualche differenza, nella trattatistica latina (Rhetorica ad Herennium e De inventione)18.

L’autore offre dall’inizio le motivazioni per cui si rende necessario l’impiego delle tre

virtutes narrationis: la chiarezza serve affinché l’uditorio sia efficacemente informato

(κατα'άθωσι τὰ λεγό'ενα ,ράγ'ατα), la brevità è utile per la memorizzazione ('νη'ονεύσωσι τὰ ῥηθέντα), la verosimiglianza infine costituisce il momento più importante perché attraverso prove ed argomentazioni di tipo giuridico19 l’oratore possa

guadagnare la fiducia di chi ascolta20.

L’autore prende in esame come primo requisito la chiarezza e distingue subito fra chiarezza del linguaggio e chiarezza espositiva derivante dai fatti (ἀ,ὸ τῶν ὀνο'άτων ἤ ἀ,ὸ τῶν ,ραγ'άτων): per quanto riguarda i fatti, viene in primo luogo raccomandato il mantenimento nella nostra esposizione dell’ordine in cui sono avvenuti. Inoltre è molto importante evitare di passare ad un altro argomento in maniera parentetica senza aver prima esaurito la conclusione del discorso principale. L’espressione adottata per il mantenimento dell’ordine espositivo dei fatti è 'ὴ ὑ,ερβατῶς: la nozione di iperbato viene ripresa poco dopo anche per la λέξις (καὶ 'ὴ ὑ,ερβατῶς αὐτὰ τιθῶ'εν, ἀλλ 'ἀεὶ τὰ ἐχό'ενα ἑξῆς τάττω'εν). Per la chiarezza è inoltre indispensabile l’uso di termini appropriati all’argomento e non distanti dall’uso comune (ἀ,ὸ δὲ τῶν ὀνο'άτων, ἐὰν ὃτι

                                                                                                                         

16  Inst.  Or.  4.  2.  31-­‐‑32.  

17  In  Aphtlon  p.  119,  16  W  II  =  Prolegomenon  Sylloge  p.  126,  5,  13  Rabe  =  AS  B  II  23  Rad.  Cp.  Jean  de  Sardes,  p.  

50,  12  ss.  

18  Si  veda  Calboli-­‐‑Montefusco  (1988),  p  67.    

19  Sulla  traduzione  corretta  (e  ampiamente  discussa)  dei  termini  πίίστις  e  δικαιολογίία  si  veda  Chiron  (2002),  

pp.  176-­‐‑177.  

20   Qunitiliano   in   Inst.   Or.   4.   33   usa   i   verbi   intellegere,   meminisse,   credere   per   esprimere   gli   effetti   che  

(10)

'άλιστα τοῖς οἰκείοις τῶν ,ραγ'άτων ὀνό'ασι τὰς ,ράξεις ,ροσαγορεύω'εν καὶ τοῖς κοινοῖς).

Per quanto riguarda la seconda delle virtù, la συντο'ία, l’autore si limita ad una trattazione molto più concisa, fornendo un solo generico precetto, quello di eliminare dalla narrazione ogni elemento superfluo e di mantenere solo quegli elementi la cui sottrazione comprometterebbe la chiarezza espositiva rendendo il discorso oscuro (συντό'ως δέ, ἐὰν ἀ,ὸ τῶν ,ραγ'άτων καὶ τῶν ὀνο'άτων ,εριαιρῶ'εν τὰ 'ὴ ἀναγκαῖα ῥηθῆναι, ταῦτα 'όνα καταλεί,οντες ὧν ἀφαιρεθέντων ἀσαφὴς ἔσται ὁ λόγος).

La trattazione sul concetto di brevità rappresenta una delle divergenze più rilevanti tra la

Retorica ad Alessandro e la Retorica di Aristotele: il filosofo infatti afferma come sia ridicolo

pretendere a priori che una narrazione sia breve, dal momento che l’unico criterio che

deve ispirare la lunghezza del racconto è quello del 'ετρίως21:

[...] δεῖ γὰρ 'ὴ 'ακρῶς διηγεῖσθαι ὥσ,ερ οὐδὲ ,ροοι'ιάζεσθαι 'ακρῶς, οὐδὲ τὰς ,ίστεις λέγειν. Οὐδὲ γὰρ ἐνταῦθά ἐστι τὸ εὖ ἢ τὸ συντό'ως, ἀλλὰ τὸ 'ετρίως.

Riguardo al criterio di verosimiglianza, esso rappresenta senza dubbio la più importante delle virtutes: il carattere precettistico e pragmatico dell’opera infatti fornisce nel momento della persuasione dell’uditorio, il punto culminante del discorso. Il fine precipuo della narrazione deve essere quello di porre rimedio alla potenziale diffidenza dell’uditorio (τοῦτον 'ὲν τὸν τρό,ον τὰς ἀ,ιστίας ἰασό'εθα). Il verosimile rappresenta quindi il mezzo attraverso cui pervenire alla persuasione degli ascoltatori: senza specificare quali siano esattamente i criteri di verosimiglianza, l’autore si limita ad enunciare generiche motivazioni (αἰτίαι) che siano in grado di rendere verosimili fatti di per sé poco plausibili (οὐκ ἀ,ίστως δὲ, ἄν ,ερὶ τὰς ἀ,ιθάνους ,ράξεις αἰτίας φέρω'εν ,αρ' ἃς εἰκότως τὰ λεγό'ενα δόξει ,ραχθῆναι). L’autore pone comunque un limite alla narrazione di qualsiasi fatto, raccomandando di evitare di parlare di avvenimenti per loro natura troppo inverosimili (ὅσα δ' ἂν λίαν ἄ,ιστα συ'βαίνῃ, δεῖ ,αραλεί,ειν). Talvolta però in sede processuale si rende necessario argomentare su fatti inverosimili e allora la raccomandazione dell’autore è quella di procedere con il ricorso alla figura della ,αράλειψις (ἐὰν δὲ ἀναγκαῖον ἢ λέγειν, εἰδότα δεῖ φαίνεσθαι καὶ ἐ,ι,λέξαντα αὐτὰ τῷ τῆς ,αραλείψεως σχή'ατι ὑ,ερβάλλεσθαι) adducendo come scusa la necessità di trattare prima la veridicità delle cose che si sono dette in precedenza.

                                                                                                                         

(11)

Intorno al concetto di verosimiglianza ruota senza dubbio la differenza concettuale fondamentale fra la Retorica ad Alessandro e la Retorica di Aristotele: come già abbiamo sostenuto in precedenza, il primo nella costruzione della sua opera non è animato da nessun intento filosofico, ma interpreta pragmaticamente la retorica come τέχνη atta esclusivamente a convincere. Viene in definitiva offerta una precettistica di carattere tecnico senza particolari speculazioni morali e filosofiche. Aristotele interpreta invece la retorica come materia che interloquisce con altre discipline: se infatti ci atteniamo alla definizione di retorica contenuta nell’opera omonima, essa si delinea come la facoltà (δύνα'ις) di scoprire il mezzo di persuasione adeguato intorno ad ogni argomento (,ερὶ

ἕκαστον τοῦ θεωρῆσαι τὸ ἐνδεχό'ενον ,ιθανόν)22, ma non ha come scopo quello di

convincere (φανερόν, καὶ ὅτι οὐ τὸ ,εῖσαι ἔργον αὐτῆς, ἀλλὰ τὸ ἰδεῖν τὰ ὑ,άρχοντα

,ιθανὰ ,ερὶ ἕχαστον)23: la ricerca di ciò che è persuasivo deve necessariamente avvenire

entro i confini della verità, dal momento che per Aristotele ciò che è vero è anche per natura più convincente (τὰ 'έντοι ὑ,οκεί'ενα ,ράγ'ατα οὐχ ὁ'οίως ἔχει, αλλ' ἀεὶ

τἀληθῆ καὶ τὰ Βελτίω τῇ φύσει εὐσυλλογιστότερα καὶ ,ιθανώτερα ὡς ἁ,λῶς εἰ,εῖν)24.

Si evidenzia quindi in Aristotele il tentativo di razionalizzare la retorica e di elevarla in senso filosofico, in evidente contrapposizione ai professionisti della materia che vedono al contrario in essa esclusivamente un mezzo per imporre le proprie ragioni in sede processuale. Aristotele quindi, pur all’interno di una visione filosofica ovviamente diversa, continua la polemica già espressa da Platone nel Fedro, dove Socrate condanna in maniera aperta i retori di professione che nella ricerca strumentale del verosimile hanno abbandonato del tutto quella della verità25.

IV. Capitoli 22. 3 – 7: traduzione.

3 Μηκύνειν δὲ τοὺς λόγους βουλό'ενον δεῖ 'ερίζειν τὸ ,ρᾶγ'α καὶ ἐν ἑκάστῳ 'έρει τὰ ἐνόντα οἷά τέ ἐστι τὴν φύσιν διδάσκειν, καὶ τὴν χρῆσιν καὶ ἰδίᾳ καὶ κοινῇ καὶ τὰς ,ροφάσεις αὐτῶν ἐκδιηγεῖσθαι. ἂν δὲ καὶ ἔτι 'ακρότερον ἐθελήσω'εν τὸν λόγον                                                                                                                           22  Arist.,  Rhet.  1.  1355  b  25  -­‐‑  26   23  Arist.  Rhet.  1.  1355  b  9  -­‐‑  11   24  Arist.  Rhet.  1.  1355  a  36  -­‐‑  38  

25   Plat.,   Phaedr.   272   d3   –   e5:   Παντάάπασι   γάάρ,   ὃ   καὶ   κατ'ʹ   ἀρχὰς   εἴποµμεν   τοῦδε   τοῦ   λόόγου,   ὅτι   οὐδὲν  

ἀληθείίας  µμετέέχειν  δέέοι  δικαίίων  ἢ  ἀγαθῶν  πέέρι  πραγµμάάτων,  ἢ  καὶ  ἀνθρώώπων  γε  τοιούύτων  φύύσει  ὄντων   ἢ  τροφῇ,  τὸν  µμέέλλοντα  ἱκανῶς  ῥητοροκὸν  ἔσεσθαι.  Τὸ  παράάπαν  γὰρ  οὐδεν  ἐν  τοῖς  δικαστηρίίοις  τούύτων   ἀληθείίας   µμέέλειν   οὐδενίί,   ἀλλὰ   τοῦ   πιθανοῦ·∙   τοῦτο   δ'ʹ   εἶναι   τὸ   εἰκόός,   ᾧ   δεῖν   προσέέχειν   τὸν   µμέέλλοντα   τέέχνῃ  ἐρεῖν.  Οὐδὲ  γὰρ  αὐτὰ  <τὰ>  πραχθέέντα  δεῖν  λέέγειν  ἐνίίοτε,  ἐὰν  µμὴ  εἰκόότως  ᾖ  πεπραγµμέένα,  ἀλλὰ  τὰ   εἰκόότα,  ἔν  τε  κατηγορίίᾳ  καὶ  ὰπολογίίᾳ,  καὶ  πάάντως  λέέγοντα  τὸ  δὴ  εἰκὸς  διωκτέέον  εἶναι,  πολλὰ  εἰπόόντα   χαίίρειν  τῷ  ἀληθεῖ.  

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,οιεῖν, δεῖ ,ολλοῖς ὀνό'ασι ,ερὶ ἑκάστου χρῆσθαι. 4 Xρὴ δὲ καὶ ,αρὰ 'έρος ἕκαστον τοῦ λόγου ,αλιλλογεῖν καὶ τὴν ,αλιλλογίαν σύντο'ον ,οιεῖσθαι, ἐν δὲ τῇ τελευτῇ τοῦ λόγου ταῦτα ,ερὶ ὧν καθ’ ἓν ἕκαστον εἴρηκας, ἀθρόα συντιθέναι καὶ ,ερὶ ὅλων τῶν ,ραγ'άτων λέγειν. τοῦτον 'ὲν οὖν τὸν τρό,ον 'ῆκος ἕξουσιν οἱ λόγοι. 5 Βραχυλογεῖν δὲ βουλό'ενον ὅλον τὸ ,ρᾶγ'α ἑνὶ ὀνό'ατι ,εριλα'βάνειν, καὶ τούτῳ ὃ ἂν ὑ,άρχῃ βραχύτατον τῷ ,ράγ'ατι. χρὴ δὲ καὶ συνδέσ'ους ὀλίγους ,οιεῖν, τὰ ,λεῖστα δὲ ζευγνύναι, ὀνο'άζειν 'ὲν οὕτω, τῇ δὲ λέξει εἰς δύο χρῆσθαι καὶ ,αλιλλογίαν τὴν σύντο'ον ἐκ τῶν 'ερῶν ἀφαιρεῖν, ἐν δὲ ταῖς τελευταῖς 'όνον ,αλιλλογεῖν. καὶ τοῦτον 'ὲν τὸν τρό,ον βραχεῖς τοὺς λόγους ,οιήσο'εν. 6 Ἐὰν δὲ βούλῃ 'έσως λέγειν, τὰ 'έγιστα τῶν 'ερῶν ἐκλέγοντα ,ερὶ τούτων ,οιεῖσθαι τοὺς λόγους. χρὴ δὲ καὶ τοῖς ὀνό'ασι τοῖς 'έσοις χρῆσθαι καὶ 'ήτε τοῖς 'ακροτάτοις 'ήτε τοῖς βραχυτάτοις 'ήτε ,ολλοῖς ,ερί γε ἑνός, ἀλλὰ 'ετρίοις. 7 Xρὴ δὲ καὶ τοὺς ἐ,ιλόγους ἐκ τῶν ἀνὰ 'έσον 'ερῶν 'ήτε ,αντελῶς ἐξαιρεῖν 'ήτε ,ᾶσι τοῖς 'έρεσιν ἐ,ιφέρειν, ἀλλ’ ἅ,ερ ἂν 'άλιστα βούλῃ κατανοῆσαι τοὺς ἀκούοντας, ἐ,ὶ τούτων 'άλιστα ,αλιλλογεῖν ἐ,ὶ τῇ τελευτῇ.

3 Volendo allungare i discorsi, bisogna dividere in parti la vicenda e spiegare tutto ciò che sta dentro a ciascuna parte e spiegarne la natura, ed esporne nel dettaglio l’utilità, sia in privato sia in pubblico, e le cause. Se poi vogliamo fare un discorso ancora più esteso, bisogna usare molte parole su ogni argomento. 4 Poi bisogna anche ricapitolare per ciascuna parte della narrazione e fare una ricapitolazione concisa, mentre alla fine del discorso, rispetto a quelle cose di cui si è parlato una ad una, è necessario rimetterle insieme e parlare delle vicende nella loro interezza. In questo modo dunque i discorsi si allungheranno.

5 Volendo invece parlare in modo sintetico bisogna definire l’intera cosa in una parola, e quella che sia massimamente breve per esprimere il soggetto. Poi bisogna anche fare pochi collegamenti, e invece associare il più possibile: bisogna usare le parole così, usare una sola parola per un doppio significato e togliere la ricapitolazione concisa dalle parti, invece fare una ricapitolazione solo alla fine. E in questo modo renderemo brevi i discorsi.

6 Se si vuole poi fare un discorso di lunghezza intermedia, bisogna scegliere tra le parti quelle più importanti e parlare di queste. Bisogna anche usare le parole di lunghezza media e non quelle troppo lunghe né troppo corte, né molte in relazione a un solo concetto, ma misurate. 7 Per quanto riguarda gli epiloghi poi, non bisogna né rimuoverli completamente dalle parti intermedie né

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aggiungerli ad ogni parte, ma quelle cose che soprattutto si vuole che gli ascoltatori conoscano, di queste soprattutto è necessario fare una ricapitolazione alla fine26.

V. La lunghezza del racconto.

In questi capitoli vengono passate in rassegna le tecniche per allungare ed abbreviare il racconto secondo le convenienze dell’oratore. Una simile trattazione mette bene in evidenza il modus operandi dell’autore: abbiamo infatti visto, nei capitoli precedentemente analizzati, come la συντο'ία rappresentasse un cardine intorno al quale deve ruotare ogni διήγησις ben strutturata. Questa prescrizione sembra rappresentare una contraddizione palese con quanto affermato nei capitoli che ci accingiamo a prendere in esame, poiché, come precedentemente affermato, la narrazione viene qui presentata come materia plasmabile nella sua lunghezza secondo tecniche ben precise. Questo dimostra come nell’opera molti concetti, anche diversi nella loro sostanza, siano inseriti non sempre in maniera logicamente consequenziale, delineando la Retorica ad Alessandro come una grande enciclopedia, una miniera d’informazioni alla quale attingere più che un’opera “ideologicamente” coerente e sistematica.

L’autore parte analizzando quelle tecniche che siano in grado di allungare ('ηκύνειν) il discorso ed individua nella suddivisione in parti il criterio più valido in questo senso, in

base ad una teoria quasi analoga a quella della Retorica di Aristotele27. Si raccomanda poi

l’uso di un numero adeguato di termini (δεῖ ,ολλοῖς ὀνό'ασι ,ερὶ ἑκάστου χρῆσθαι) e una breve ricapitolazione alla fine di ogni parte (τὴν ,αλιλλογίαν σύντο'ον ,οιεῖσθαι) alla quale dovrà aggiungersi una ricapitolazione finale che tratti il tema nella sua totalità (,ερὶ ὅλων τῶν ,αργ'άτων λέγειν).

La parte in cui vengono prese in esame quelle tecniche che servono ad abbreviare il racconto non si pone come semplice rovesciamento di quanto affermato precedentemente riguardo ai criteri necessari per allungare la narrazione, ma comporta problemi di significato di non lineare interpretazione. L’autore esordisce infatti con la formula ὅλον τὸ ,ρᾶγ'α ἑνὶ ὀνό'ατι ,εριλα'βάνειν: come fa notare Chiron, il precetto, tradotto alla lettera, sembra difficilmente applicabile, in quanto è evidentemente difficile racchiudere o

definire con una sola parola la totalità di una vicenda28. S’impone quindi una precisazione

del termine ,ρᾶγ'α, che in questo passo dovrà presumibilmente assumere il significato

                                                                                                                         

26  La  traduzione  dei  passi  analizzati  è  nostra  

27  Cfr.  Arist.  Rhet.  1365  a10:  καὶ  διαιροῦµμενα  δὲ  εἰς  τὰ  µμέέρη  τὰ  αὐτὰ  µμείίζω  φαίίνειται.   28  Vedi  Chiron  (2002),  p.  64:  Le  précepte  paraît  à  première  vue  difficilement  applicable.  

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non comune di “cosa”29. Si tratterebbe dunque di designare una cosa con una sola parola

evitando l’uso di perifrasi, analogamente a quanto sostiene Aristotele nella Retorica30.

Ancor più complessa è l’interpretazione del periodo successivo:

Χρὴ δὲ καὶ συνδέσ'ους ὀλίγους ,οιεῖν, τὰ ,λεῖστα δὲ ζευγνύναι, ὀνο'άζειν 'ὲν οὕτω, τῇ δὲ λέξει εἰς δύο χρῆσθαι.

L’autore raccomanda l’uso limitato di particelle e congiunzioni, ossia di quelle parole che indicano gli elementi di collegamento fra i termini e che sono racchiuse nel termine συνδέσ'οs. Conseguente è il precetto successivo di associare o raggruppare (ζευγνύναι) il più possibile le parole evitando l’uso del polisindeto31. A questo punto il discorso sulle

indicazioni riguardo alle parole di collegamento viene interrotto da una frase apparentemente slegata dal contesto e di non facile interpretazione (ὀνο'άζειν 'ὲν οὕτω, τῇ δὲ λέξει εἰς δύο χρῆσθαι) tanto che alcuni studiosi propongono addirittura

l’espunzione dal testo32. A creare problemi è innanzitutto l’uso del verbo ὀνο'άζω: Chiron

propone l’uso intransitivo di questo verbo collegando l’espressione ὀνο'άζειν 'ὲν οὕτω a quanto detto poco prima dall’autore della Retorica riguardo all’uso di una sola parola per

una cosa33. Ancor più enigmatica è l’espressione τῇ δὲ λέξει εἰς δύο χρῆσθαι : più avanti,

al capitolo 24, viene usata la formula εἰς δύο ἑρ'ηνεύειν34 attraverso la quale l’autore

raccomanda l’uso di espressioni binarie per chiarire il pensiero. Chiron ipotizza che vi sia nel passo da noi analizzato una sorta di anticipazione riassuntiva di quanto verrà più chiaramente esposto al capitolo 2435. La relazione fra i due passi sopra indicati sembra

essere complicata dal fatto che nel capitolo 24 emerge l’abbozzo di una teoria del periodo a cui non si fa accenno in 22.5. E’ stata avanzata anche un’altra ipotesi che tiene maggiormente conto del contesto in cui è inserita l’espressione λέξις εἰς δύο: si tratterebbe, come afferma lo stesso Chiron, dell’impiego di una sola parola per designare due cose con un effetto simile a quello dell’ellissi. In questo modo l’espressione acquisirebbe un significato coerente con il senso complessivo del testo, in cui sono presentate delle regole utili per abbreviare il discorso36.

                                                                                                                         

29  Altrove  nell’opera  il  termine  πρᾶγµμα  assume  il  significato  abituale  di  materia,  in  particolare  di  materia  del  

discorso  (cfr.  Rhet.  Alex.  34  b  1).  

30  Cfr.  Arist.  Rhet.  3.  6.  1407  b  26-­‐‑29   31  Cfr.  Chiron  (2002),  p.  162    

32  Vedi  Kassel  (1967),  p.  125  e  Fuhrmann  (1965).  

33  Chiron  (2002),  p.  163:  La  formule  ὀνοµμάάζειν  µμὲν  οὕτω  rappelle  la  règle  de  l’emploi  d’un  mot  par  chose   34  Cfr.  Rhet.  Alex.  24.  1:  Πρῶτον  µμὲν  οὖν  εἰς  δύύο  ἑρµμηνεύύειν,  εἶτα  σαφῶς  δεῖ  λέέγειν.  

35  Chiron  (2002),  p.  163.  

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L’ultimo precetto raccomandato è quello di eliminare la ricapitolazione al termine di ogni singola parte, riservando lo spazio riassuntivo solo alla conclusione (ἐν δὲ ταῖς τελευταῖς 'όνον ,αλιλλογεῖν).

Vengono infine descritte le norme attraverso cui comporre un discorso di media lunghezza: si raccomanda un uso misurato di termini, i quali non dovranno essere né troppo lunghi né troppo corti (Χρὴ δὲ καὶ τοῖς ὀνό'ασι τοῖς 'έσοις χρῆσθαι καὶ 'ήτε τοῖς 'ακροτάτοις 'ήτε τοῖς βραχυτάτοις 'ήτε ,ολλοῖς ,ερί γε ἑνός, ἀλλὰ 'ετρίοις). L’indicazione più interessante che si ricava dalle osservazioni dell’autore riguarda le ricapitolazioni: egli ne suggerisce un uso moderato lasciando libertà all’oratore di individuare per esse quei momenti in cui egli ritenga necessario richiamare l’attenzione dell’uditorio (κατανοῆσαι τοὺς ἀκούοντας). In conclusione, il discorso di media lunghezza è quello che dà all’oratore un più ampio margine di manovra, all’interno comunque di una precettistica ben precisa.

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Capitolo II.

La Rhetorica ad Herennium. Per l’insegnamento delle virtù del

racconto.

I. Introduzione.

La Rhetorica ad Herennium è un’opera che presenta non pochi problemi, in primo luogo per l’identificazione di autore e destinatario, poi per la datazione e, più in generale, per il periodo storico-culturale in cui vide la luce.

Per quanto riguarda le prime due questioni, non è questa la sede per offrire un resoconto

completo su aspetti già lungamente dibattuti37; tuttavia sarà opportuno ricordare come la

paternità dell’opera, dopo lungo dibattito critico, sia da attribuire a Cornificio

grammatico38, personaggio legato agli ambienti delle nascenti scuole di retorica in Latino a

Roma, mentre il destinatario è Gaio Erennio, personaggio appartenente ad una famiglia plebea di spicco, quella degli Erenni, di orientamento filomariano39. Più complessa è la

questione della datazione esatta dell’opera: la data più accreditata è quella che pone la stesura fra 86 e 82 a. C.40 Al di là della vexata quaestio sulla datazione esatta della Rhetorica,

non vi sono dubbi che il contesto politico-culturale in cui l’opera fu redatta è quello dei complessi e violenti anni della guerra civile fra Mario e Silla con la conseguente affermazione di quest’ultimo come dictator, per della fazione degli optimates. Se si confrontano, dunque, i dati di cui disponiamo sull’ambiente culturale da cui presumibilmente proviene l’auctor dell’opera e il destinatario di essa con le contingenze storiche e con il violento scontro politico in atto in quel periodo, ci rendiamo conto come la

Rhetorica ad Herennium sia un’opera tutt’altro che neutra nel contesto di quell’epoca.

E’ indispensabile a questo punto fare ricorso ad alcune nozioni di storia della retorica a Roma. Agli inizi del I secolo a. C. l’insegnamento della materia avviene esclusivamente in lingua greca e si delinea come prerogativa culturale ristretta all’élite della nobilitas. La richiesta di ampliamento dell’insegnamento della materia porta però come conseguenza

                                                                                                                         

37  Si veda innanzitutto il fondamentale studio di Calboli (1993), sia per l’approfondimento di ogni singola

questione riguardante l’opera sia per l’ampia bibliografia contenuta.

38

Per un quadro esauriente della questione, si veda Calboli (1993) pp. 3-11.

39

Si rimanda a Calboli 1993, pp. 11-12.

40 Le altre due datazioni proposte non sembrano più riscuotere molto credito: la prima, tenendo fisso come terminus post quem l’86 a. C., sposta quello ante quem al 75 a. C.; la seconda ipotesi propone una datazione

molto bassa e improbabile, quella del 50 a. C. Achard 1989 precisa ulteriormente la data di stesura dell’opera ponendola a cavallo fra l’84 e 83 a. C.  

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all’apertura delle prime scuole di retorica in latino nel 93 a. C. Il primo insegnante di retorica in latino è Plozio Gallo, secondo la testimonianza ciceroniana riportata da Svetonio:

Cicero in epistula ad M. Titinium sic refert: “Equidem memoria teneo pueris nobis primum latine docere coepisse Plotium quendam41.

Naturalmente la battaglia per l’allargamento della conoscenza della disciplina non costituiva soltanto un problema culturale, ma si poneva come una vera e propria questione politica: la retorica era già allora - e diventerà sempre di più nel corso del primo secolo - il mezzo primario per una piena partecipazione all’agone politico. Il rischio di una eccessiva divulgazione della materia viene colto dalla fazione conservatrice che, nel 92 a.C., nelle figure dei censori Crasso e Domizio Enobarbo, interviene per chiudere le appena nate scuole di retorica in latino. In conseguenza di tale provvedimento coloro che vogliono continuare nell’opera di allargamento e divulgazione della retorica devono forzatamente ricorrere a manuali scritti. Non sembra strano quindi che dall’83 a.C. Silla potesse non simpatizzare nei confronti delle opere che favorivano una presa di coscienza culturale e politica di un numero sempre più ampio di persone.

Dunque, gli ambienti delle scuole di retorica in latino all’inizio del I sec. a. C. sono innegabilmente segnati da una tendenza politica filomariana e filopopolare. Che il Cornificio autore della Rhetorica ad Herennium sia legato a tali ambienti e che la sua opera sia non il frutto di un’ars fatta conoscere e divulgata a Roma, ma un prodotto scaturito dai primi insegnamenti in latino della materia, sembra essere confermato proprio da un passaggio dell’opera stessa42 in cui l’autore ci parla di un noster doctor, ossia di un

insegnante che ha svolto attività analoga a quella di Plozio Gallo43 e quindi,

presumibilmente, di tendenza politica filomariana.

Per quanto riguarda la struttura dell’opera, dobbiamo innanzitutto osservare come la

Rhetorica ad Herennium si delinei come un vero e proprio manuale dove vengono

compendiate le cinque parti canoniche in cui è divisa la retorica: inventio, dispositio, elocutio,

memoria, actio. La narratio, la parte specifica che interessa il nostro lavoro, è una delle sei

parti dell’inventio e segue, almeno a livello teorico44, il momento dell’exordium. Le restanti

parti che vengono dopo la narratio sono la divisio, la confirmatio, la confutatio e la conclusio.

                                                                                                                         

41  Svet. De gramm. et rhet. 26, 1, 31. 42  Cfr. Rhet. ad Her. I, 11, 18. 43  Si veda Calboli (1993), pag. 20.  

44  La questione sull’opportuna collocazione della narratio fu ampiamente dibattuta nel mondo antico: per un

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L’auctor individua tre tipi di narrazione, di cui due sono quelle che si riferiscono ad un contesto giudiziario, mentre il terzo genere è quello a causa civili remotum, cioè quello che non riguarda contesti processuali e che si identifica in buona sostanza con la cultura letteraria45. Dopo aver diviso il racconto più specificamente letterario in narratio in negotiis

(diviso a sua volta in fabula, historia e argumentum) e narratio in personis46, l’autore passa a

descrivere le virtutes narrationis che devono essere qualità indispensabili di ogni tipo di racconto, indipendentemente dal genere di appartenenza.

II. Capitoli I, 9, 14 – 16: traduzione.

Il testo proviene dall’edizione di Gualtiero Calboli.

IX. 14. Tres res convenit habere narrationem, ut brevis, ut dilucida, ut veri similis sit; quae quoniam fieri oportere scimus, quemadmodum faciamus, cognoscendum est.

Rem breviter narrare poterimus, si inde incipiemus narrare, unde necesse erit; et si non ab ultimo initio repetere volemus; et si summatim, non particulatim narrabimus; et si non ad extremum, sed usque eo, quo opus erit, persequemur; et si transitionibus nullis utemur, et si non deerrabimus ab eo, quod coeperimus exponere; et si exitus rerum ita ponemus, ut ante quoque quae facta sint, scire possint, tametsi nos reticuerimus: quod genus, si dicam me ex provincia redisse, profectum quoque in provinciam intellegatur. Et omnino non modo id, quod obest, sed etiam id, quod neque obest neque adiuvat, satius est praeterire. Et ne bis aut saepius idem dicamus, cavendum est; etiam ne quid, novissime [id] quod [supra] diximus, deinceps dicamus, hoc modo:

Athenis Megaram vesperi advenit Simo: Ubi advenit Megaram, insidias fecit virgini: Insidias postquam fecit, vim in loco adtulit.

15. Rem dilucide narrabimus, si ut quicquid primum gestum erit, ita primum exponemus et rerum ac temporum ordinem conservabimus, ut gestae res erunt aut ut potuisse geri videbuntur: hic erit considerandum, ne quid perturbate, <ne quid contorte,> ne quid nove dicamus; ne quam in aliam rem transeamus; ne ab ultimo repetamus; ne longe

                                                                                                                         

45  Cfr. Rhet. ad Her. I, 8, 12 - 13   46  Cfr.  Rhet. ad Her. I, 8, 13  

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persequamur; ne quid, quod ad rem pertineat, praetereamus; et si sequemur ea, quae de brevitate praecepta sunt; nam quo brevior, dilucidior et cognitu facilior narratio fiet.

16. Veri similis narratio erit, si, ut mos, ut opinio, et natura postulat, dicemus; si spatia temporum, personarum dignitates, consiliorum rationes, locorum opportunitates constabunt, ne refelli possit aut temporis parum fuisse, aut causam nullam, aut locum idoneum non fuisse, aut homines ipsos facere aut pati non potuisse. Si vera res erit, nihilominus haec omnia narrando conservanda sunt; nam saepe veritas, nisi haec servata sint, fidem non potest facere: sin erunt ficta, eo magis erunt conservanda. De iis rebus caute confingendum est, quibus in rebus tabulae aut alicuius firma auctoritas videbitur interfuisse.

Adhuc quae dicta sunt arbitror mihi constare cum ceteris artis scriptoribus […]

IX. 14. Il racconto deve avere tre qualità: che risulti breve, chiaro e verisimile; e poiché sappiamo che

è necessario che ci siano queste caratteristiche, si deve conoscere in che modo farlo.

Potremo raccontare il fatto in breve, se cominceremo a narrare dal punto in cui sarà necessario; e se non vorremo risalire al punto più remoto; e se narreremo per sommi capi, e non nei particolari; e se continueremo non fino alla fine, ma fino al punto in cui sarà necessario; e se non useremo nessuna formula di passaggio e se non ci allontaneremo da ciò che abbiamo iniziato a esporre; e se proporremo i risultati dei fatti così che si possa sapere anche quali cose sono accadute prima, anche se noi le abbiamo fatte passare sotto silenzio: per esempio, se dirò di essere tornato dalla provincia, si capirà che ci sono anche andato. E senza dubbio non solo ciò che ostacola, ma anche ciò che non è né di ostacolo né di aiuto, è preferibile tralasciarlo. E bisogna stare attenti a non dire due volte o più spesso la stessa cosa; e a non dire di nuovo quello che abbiamo appena detto da ultimo, in questo modo:

Simone giunse di sera da Atene a Megara: Quando giunse a Megara, insidiò una vergine:

Dopo averla insidiata, al momento giusto le usò violenza.

15. Narreremo la vicenda in maniera chiara, se, in funzione di come ciascuna cosa sia avvenuta per

prima, così per prima la racconteremo, e manterremo l’ordine degli avvenimenti e dei tempi, così come i fatti saranno accaduti o sembrerà che siano potuti accadere: qui si dovrà fare attenzione a non dire niente di confuso, niente di contorto, niente di nuovo; a non passare ad un altro argomento; a non risalire all’inizio; a non dilungarsi; a non tralasciare nulla che riguardi

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l’argomento; e se seguiremo le norme sulla brevità; infatti quanto più breve sarà il racconto, tanto più sarà chiaro e facile da comprendere.

16. Il racconto sarà verisimile se narreremo come richiedono l’uso, l’opinione comune, la natura; se

risulteranno certi la durata dei tempi, la credibilità dei personaggi, le ragioni dei propositi, l’opportunità dei luoghi, affinché non si possa confutare che c’è stato poco tempo, o che non c’è stata nessuna motivazione, o che il luogo non era idoneo, o che proprio quelle persone non avrebbero potuto fare o subire. Se l’argomento sarà vero, cionondimeno tutte queste caratteristiche devono essere osservate nel racconto; infatti spesso la verità, se non sono osservate queste regole, non può persuadere: se invece gli argomenti saranno inventati, tanto più si dovranno osservare. Si deve creare un racconto fittizio con cautela su quegli argomenti nei quali sembrerà che siano presenti documenti o la ferma autorità di qualcuno.

Quanto alle cose che sono state dette fin qui, ritengo di essere d’accordo con gli altri autori di trattati retorici […]

III. Costruire la narratio: regole e virtù.

La trattazione delle virtutes per un racconto efficace si trova all’interno del primo libro. Le qualità del racconto sono brevità, chiarezza e verosimiglianza. Secondo la testimonianza di Quintiliano47, le tre virtutes sono di matrice isocratea.

Il primo requisito di cui si occupa l’auctor della retorica è la brevitas: vengono enumerati tutti i mezzi attraverso i quali il racconto possa risultare conciso e, in particolare, la prima raccomandazione che l’autore suggerisce è quella di stabilire dei sicuri confini alla narrazione che intendiamo fare. L’inizio del nostro racconto non si identifica con l’origine della storia alla quale quel racconto appartiene (si non ab ultimo initio repetere volemus) così come la fine non coincide con la conclusione dell’intera storia, ma con la fine che siamo noi stessi a stabilire in base alle nostre esigenze narrative. Va da sé che la narratio non è la totalità della storia, ma un segmento narrativo da noi autonomamente selezionato all’interno di un macro - racconto più ampio. La brevitas non si ottiene, però, solo selezionando la parte di una storia, ma costruendo anche una narrazione in grado di esprimere efficacemente la summa degli avvenimenti omettendo i particolari (si summatim,

non particulatim narrabimus). Proseguendo nell’analisi delle tecniche in grado di produrre brevitas, l’autore invita ad evitare le formule di passaggio (transitiones), ossia tutte quelle

locuzioni che allungano il racconto senza aggiungere niente dal punto di vista concettuale.

                                                                                                                         

47  Quint. Inst. Or. 4. 2. 31: : Eam plerique scriptores maximeque qui sunt ab Isocrate volunt esse lucidam, brevem, veri similem, come abbiamo visto anche per il De Inventione.

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Naturalmente, l’autore dell’opera vieta l’uso della digressione, palesemente in contraddizione con qualsiasi principio di brevitas. La brevità implica anche l’esposizione dei risultati dei fatti in maniera tale che possano implicitamente risultare chiare quelle azioni che l’oratore non racconta, ma che hanno portato a quei risultati (si exitus rerum ita

ponemus, ut ante quoque quae facta sint scire possint, tametsi nos reticuerimus).

È particolarmente interessante l’ultimo passaggio dedicato al criterio di brevità. L’autore si avvale di alcuni versi48 per esemplificare il concetto di ripetizione:

Athenis Megaram vesperi advenit Simo: Ubi advenit Megaram, insidias fecit virgini: Insidias postquam fecit, vim in loco adtulit.

Nei versi utilizzati come paradigma dall’autore, il criterio di brevità, anche visivamente, è apparentemente rispettato. In realtà, ad un’attenta analisi del passo, si nota chiaramente la presenza di ripetizioni, vere e proprie zeppe di cui l’autore dei versi si serve per riprendere quanto detto al verso precedente ripetendo, appunto, una stessa parola detta poco prima. L’effetto di ripetizione compromette la brevitas, dal momento che lo stesso fatto, evitando le zeppe, si sarebbe potuto esprimere ancor più brevemente. Il medesimo concetto sarà poi affrontato da Cicerone nel De inventione, con un esempio diverso: Cicerone parlerà esplicitamente di imitatio brevitatis a proposito di coloro che, ritenendo di essere brevi, in realtà finiscono per allungare il racconto con aggiunte superflue, proprio come nei versi riportati dall’auctor della Rhetorica.

Per il secondo criterio, quello della chiarezza, l’autore individua come principio di base quello della conservazione dell’ordine degli avvenimenti e dei tempi (rerum ac temporum

ordinem conservabimus). Risulta poi evidente la quasi totale comunanza di precetti fra

brevità e chiarezza: l’autore esorta ad un inizio che non coincida con un punto troppo remoto (ne ab ultimo repetamus), a non dilungarsi (ne longe persequamur) e a non passare ad un altro argomento (ne quam in aliam rem transeamus). L’autore invita poi esplicitamente a seguire, per la chiarezza, le stesse norme prima trattate per la brevità (si sequemur ea quae de

brevitate pracepta sunt) e l’affermazione con cui conclude la sezione dedicata alla narratio dilucida (nam quo brevior, dilucidior et cognitu facilior narratio fiet) sta a significare come la

chiarezza sia la risultante diretta della brevitas.

                                                                                                                         

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Terza ed ultima caratteristica da osservare per il racconto è la verosimiglianza. Essa si delinea innanzitutto come verosimiglianza di tipo culturale, dato che nella narratio devono rispecchiarsi il costume (mos) e l’opinione comune (opinio) di chi ascolta; l’uditorio deve sapersi riconoscere in un racconto che rispecchi i valori e le tradizioni della comunità. L’autore passa poi ad analizzare quella serie di circostanze particolari che, se osservate, concorrono alla composizione di un racconto verosimile: devono essere presenti le caratteristiche dei personaggi (personarum dignitates), la durata dei tempi (spatia temporum), le motivazioni (consiliorum rationes) e l’opportunità dei luoghi (locorum opportunitates). L’autore della retorica, attraverso l’enumerazione di queste categorie di verosimiglianza, sembra individuare delle norme che si riferiscono non tanto ad una tipologia generale di racconto, ma in particolare ad un racconto breve di tipo giudiziario, in cui i tempi contingentati imponevano narrazioni concise e in cui lo scopo esclusivo era di quello di convincere l’uditorio. L’autore osserva infatti che i precetti dati per rendere un racconto verosimile si impongono come necessari anche nella narrazione di un fatto vero che, però, se si omettono i principi sopracitati, non sarà in grado, proprio per la sua mancanza di verosimiglianza, di persuadere gli ascoltatori (nam saepe veritas, nisi haec servata sint, fidem

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Capitolo III.

Sapientia e eloquentia: Cicerone e il De Inventione.

I. Introduzione.

Nell’ampio corpus delle opere ciceroniane e nel complesso contesto politico romano del I secolo a. C., il De inventione occupa un posto del tutto particolare sia per la natura dell’opera che per la materia trattata, nonché per il contesto storico-culturale in cui è maturato questo trattato, che si configura, in maniera analoga alla Rhetorica ad Herennium, come un vero e proprio manuale di retorica ascrivibile agli anni giovanili di Cicerone. Come denota il titolo stesso, l’opera tratta solo una delle cinque parti della retorica, quella dell’inventio: la parte destinata al reperimento degli argomenti. Ci troviamo dunque di fronte ad un trattato dal carattere lacunoso. Questo è il primo problema da affrontare nella misura in cui sarà necessario, per quanto possibile, fornire alcune ipotesi che spieghino la struttura dell’opera49.

Seguendo l’ipotesi di Achard, la datazione dell’opera può essere presumibilmente posta fra gli anni 84-83 a.C., subito dopo il turbolento periodo della guerra civile fra Mario e Silla e quasi in concomitanza con l’ascesa definitiva di Silla al potere50. L’affermazione della

dittatura sillana comportò una rigida e spesso violenta censura nei confronti di molte opere letterarie, e non sembra improprio che l’ancor giovane Cicerone abbia quindi deciso di interrompere la stesura di un’opera che poteva incorrere nella spietata censura sillana. Questo potrebbe contribuire a spiegare il motivo per cui Cicerone abbia rinunciato a trattare le restanti parti della materia. Da quanto affermato a proposito del clima politico e culturale di quegli anni e, in particolare, della tendenza filomariana delle scuole di retorica, risulta quindi chiaro come il De inventione (opera molto legata, come vedremo, alla Rhetorica ad Herennium) potesse in qualche modo rappresentare un’opera politicamente compromettente per Cicerone, che in quegli anni si apprestava a intraprendere la carriera forense e politica. Lo stesso autore appare piuttosto severo nei confronti di un’opera che viene considerata alla stregua di un errore giovanile:

                                                                                                                         

49  Che  Cicerone  considerasse  quest’opera  come  parte  di  un  progetto  più  ampio  è  egli  stesso  ad  affermarlo  nel  

corso  della  trattazione.  Ad  esempio,  si  veda  De  inv.  1.  27  e  2.  178  

50  Per   maggiori   approfondimenti   sulla   complessa   questione   della   datazione   dell’opera   si   veda,   appunto,  

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Vis enim, ut mihi saepe dixisti, quoniam, quae pueris aut adulescentulis nobis ex commentariolis nostris inchoata ac rudia exciderunt, vix hac aetate digna et hoc usu51[…]

Il giudizio di Cicerone appare particolarmente severo nei confronti di un’opera che viene definita come un insieme di abbozzi grossolani (inchoata ac rudia) ricavata da quaderni di scuola (ex commentariolis). In realtà la volontà ciceroniana di togliere importanza alla composizione del De inventione non è legata soltanto a motivi formali che definiscono in generale un’opera letteraria come immatura, ma affonda le radici anche in ragioni squisitamente politiche. Ai tempi della composizione del De oratore, infatti, Cicerone ha già toccato i vertici della res publica come prestigioso esponente di una nobilitas che ha da tempo già allargato la base del suo consenso anche agli homines novi come l’Arpinate. È evidente quindi come Cicerone non andasse orgoglioso di uno scritto giovanile che, nella contingenza storica in cui venne redatto, aveva presumibilmente assunto i caratteri di un trattato politicamente non gradito agli optimates.

L’idea di retorica alla base dell’opera viene chiarita subito da Cicerone nel proemio, in cui l’Arpinate considera come irrinunciabile il connubio fra sapientia e eloquentia52:

Ac me quidem diu cogitantem ratio ipsa in hanc potissimum sententiam ducit ut existimem sapientiam sine eloquentia parum prodesse civitatibus, eloquentiam vero sine sapientia nimium obesse, prodesse numquam.

Nella concezione ciceroniana la retorica, l’arte dell’eloquenza, si pone come traduzione in parola del pensiero (sapientia), in netto intreccio con il concetto di utile. Se infatti il pensiero non “tradotto” in parola non porta nessun giovamento al vivere comunitario, l’eloquenza senza pensiero, ridotta a pura tecnica retorica, è in grado addirittura di nuocere alle città. E’ evidente nella riflessione proemiale ciceroniana l’influenza della concezione isocratea, ossia la ricerca non tanto e non solo di un’arte del linguaggio, ma di una vera e propria filosofia del linguaggio in grado di portare vantaggi alla comunità. Dopo aver parlato a lungo della parola come fondamento del vivere civile, Cicerone si addentra nei particolari più tecnici dedicati alla partizione del discorso oratorio53:

                                                                                                                         

51  Cic.  De  orat.  I.  5.  Del  passo  si  occupa  diffusamente  il  già  citato  Achard  (1994),  pp.  5-­‐‑10.   52  Cic., De inv. I. 1

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