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Progetto di fattibilita di un sistema automatizzato di tracciabilita dei dispositivi medici tra la centrale di sterilizzazione e la sala operatoria

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Academic year: 2021

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Scuola di Ingegneria

Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica

Tesi di Laurea

Progetto di fattibilità di un sistema automatizzato di

tracciabilità dei dispositivi medici tra la centrale di

sterilizzazione e la sala operatoria

Relatori:

Candidato:

Ing. Andrea Ginghiali

Giuseppina Incoronata Palma

Dott.ssa Silvia Pagliantini

Controrelatore:

Ing. Lorenzo Sani

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Indice

Introduzione ... 1

1.

Complesso Operatorio ... 2

1.1 Organizzazione della sala operatoria ... 3

1.2 Distinta Base ... 7

2.

Sterilizzazione ... 9

2.1 Requisiti strutturali e tecnologici della centrale di sterilizzazione ... 10

2.2 Processo di sterilizzazione ... 13

2.3 La Centrale di Sterilizzazione dell’AOUP ... 25

2.4 Criticità Riscontrate ... 28

3.

La tecnologia RFID ... 31

3.1 Caratteristiche dei sistemi RFID ... 32

3.1.1 Tag ... 32

3.1.2 Reader ... 34

3.1.3 Sistema di gestione ... 36

3.2 Principi di funzionamento degli RFID ... 36

3.2.1 Accoppiamento tra Reader e Tag nei sistemi passivi ... 36

3.2.2 Principi di funzionamento dei Tag passivi ... 37

3.2.3 Protocolli di comunicazione ... 39

3.2.4 Frequenze utilizzate ... 39

3.3 Protocolli anticollisione ... 44

4.

Progetto di tracciabilità automatizzata ... 45

4.1 Contesto ... 45

4.2 Descrizione del processo automatizzato ... 46

4.2.1 Richiesta dello strumentario chirurgico ... 46

4.2.2 Arrivo cestelli sterili nel blocco operatorio ... 47

4.2.3 Uscita cestelli sporchi dalla sala operatoria ... 49

4.2.4 Arrivo cestelli sporchi nella centrale di sterilizzazione ... 50

4.3 Tecnologia utilizzata ... 51

4.3.1 Tag ... 51

(3)

5.

Risultati attesi ... 55

6.

Conclusioni ... 58

Bibliografia... 59

(4)

1

Introduzione

Dopo una completa ed attenta analisi dell’organizzazione delle sale operatorie e del processo di sterilizzazione degli strumenti chirurgici, resa possibile grazie alla collaborazione con l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, sono emerse alcune criticità che hanno spinto verso la realizzazione di questo progetto di fattibilità riguardante la tracciabilità dei dispositivi medici tra la centrale di sterilizzazione e la sala operatoria.

All’interno della centrale di sterilizzazione gli strumenti chirurgici subiscono una serie di fasi di lavorazione finalizzate alla sterilizzazione e durante tali fasi gli strumenti sono tracciati grazie all’utilizzo del software Itineris che permette attraverso la lettura di un barcode di tracciare sia l’operatore che sta eseguendo la fase della lavorazione sia il kit che viene processato.

Quando il kit sterile dalla centrale di sterilizzazione raggiunge il blocco operatorio, le sue tracce vengono perse perché all’interno del blocco non esiste un sistema che identifica le portate e registra il loro percorso (magazzino – sala – sporco).

Essendo importante conoscere la posizione, la tipologia e la quantità dei kit presenti all’interno del blocco operatorio per una gestione corretta del flusso di lavoro all’interno della centrale di sterilizzazione, abbiamo realizzato questo progetto riguardante un sistema automatizzato in grado di tener traccia dei kit all’interno del blocco.

Tra le tecnologie disponibili, abbiamo scelto una tecnologia di identificazione automatica basasta su RFID (Radio Frequency IDentification) che sta sempre più prendendo piede all’interno del settore dell’healthcare.

Essa permette il riconoscimento a distanza di un oggetto per mezzo delle comunicazioni a radiofrequenza.

La decisione di adottare proprio questa tecnologia è stata presa in seguito ad una valutazione basata su vantaggi e benefici che questa apporta rispetto al barcode.

In particolare, essa è in grado di rilevare la posizione di un oggetto in maniera automatizzata senza che vi sia la necessità dell’intervento di un operatore; inoltre, l’etichetta o Tag può essere posta ad ampia distanza dal lettore o Reader durante la scansione, non è necessario che vi sia una linea di vista e la lettura non è limitata ad una singola etichetta ma può essere multipla.

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2

1.

Complesso Operatorio

Il termine “complesso operatorio”, così come quello di “blocco operatorio”, rappresenta l’insieme di locali e strutture necessario all’esecuzione degli interventi chirurgici. È costituito dal blocco operatorio e da locali di servizio.

Il blocco operatorio comprende le sale nelle quali si svolgono gli interventi chirurgici ed altri ambienti utilizzati per la preparazione, l’induzione anestesiologica, il risveglio del paziente, la sterilizzazione dello strumentario, il lavaggio e la vestizione dei chirurghi e strumentisti.

I locali di servizio, invece, comprendono le zone filtro, i depositi, la centrale di sterilizzazione.

La costruzione e l’organizzazione del blocco operatorio devono essere finalizzate alla funzionalità ed alla massima riduzione della contaminazione esogena: ogni supporto impiantistico e tecnologico deve garantire efficienza e sicurezza secondo criteri che consentano un buon mantenimento delle condizioni igieniche.

Il complesso operatorio deve essere facilmente raggiungibile dai reparti di degenza, mentre deve essere escluso dalle grandi correnti di traffico dell’ospedale.

La sala operatoria è in comunicazione diretta attraverso una porta con il locale di lavaggio del personale medico e paramedico che partecipa all’intervento, e tramite un’apertura a finestra con l’area sporca collegata al percorso di sterilizzazione. Le sue dimensioni devono essere sufficientemente ampie (comprese tra 40-70 m2) per consentire la massima libertà di movimento e l’agevole collocazione delle apparecchiature che la chirurgia e l’anestesia moderna richiedono. Di particolare importanza sono il sistema di climatizzazione e di filtrazione dell’aria, i quali controllando i livelli di temperatura, il tasso di umidità e la quantità di pulviscolo in sospensione, creano e conservano all’interno della sala operatoria il microclima ottimale per tutta la durata degli interventi chirurgici.

Gli elementi essenziali di ogni sala operatoria sono:

 il tavolo operatorio, costituito dalla colonna di base e dal piano mobile che può essere svincolato e trasportato da un carrello per accogliere il paziente nella zona filtro;  le lampade scialitiche, sospese al centro della sala operatoria e costituite da sorgenti

luminose, specchi e prismi che convergono la luce sul campo senza creare ombre e consentendo al chirurgo di mantenere la percezione della profondità di campo;

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3

 gli apparecchi di anestesia, di monitoraggio e di rianimazione d’emergenza;  gli erogatori di gas terapeutici;

 il bisturi elettrico;  le pompe di aspirazione.

1.1

Organizzazione della sala operatoria

Dal punto di vista organizzativo, la sala operatoria rappresenta una delle realtà più complesse presenti nel mondo sanitario. Questo infatti è un settore caratterizzato dalla presenza di elevata tecnologia, forte interazione tra i professionisti coinvolti nel processo di cura ed elevata complessità assistenziale.

Per quanto riguarda la struttura del quartiere operatorio, è stabilito che per una migliore razionalizzazione delle risorse, per una maggior efficacia del percorso assistenziale e per l’appropriatezza delle prestazioni erogate, tutte le attività chirurgiche siano centralizzate nei blocchi operatori.

In particolare nell’AOUP, all’Edificio 30B dello stabilimento di Cisanello, sono presenti 18 sale operatorie situate su 3 piani e collegate direttamente alla centrale di sterilizzazione. Le restanti 30 sale operatorie sono dislocate tra gli Edifici 3, 6, 10, 31.

L’attività svolta in area chirurgica è fondamentale per la vita stessa dell’Ospedale, che su di essa e sui suoi livelli di efficienza fonda gran parte del suo esistere: basti pensare che i servizi chirurgici ospedalieri consumano intorno al 9% dei budget annuali. L’efficienza e l’efficacia dell’area chirurgica rappresentano un aspetto cruciale per ogni struttura sanitaria e rientrano a pieno nei principi di qualità che devono essere presenti nell’organizzazione ospedaliera. Di conseguenza il coordinatore di un blocco operatorio deve trovare strategie organizzative finalizzate ad evitare sospensioni sull’assistenza per mancanza di dispositivi medici di uso comune o specifici.

Si rende quindi necessario sviluppare un sistema organizzativo che permetta un’ottimale gestione delle risorse materiali, evitando aumenti di capitale immobilizzato. Tale sistema dovrà basarsi sulla quantità e tipologia dell’attività chirurgica che viene svolta nel blocco operatorio. Inoltre, una mappatura dei depositi operativi all’interno della struttura, un chiaro approvvigionamento, un piano di controllo delle scorte minime e un accurato controllo delle scadenze potranno consentire un’ottimale gestione dei dispositivi medici.

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Tutto ciò si rivela molto utile nel settore della chirurgia dove vi sono alti volumi di attività con elevata complessità e che pertanto necessita di:

- pianificare azioni e comportamenti;

- condivisione di scelte, azioni e criteri attuativi; - prevenire errori, incidenti e complicanze;

- adeguata strategia di formazione per gli operatori coinvolti nella fase pre, intra e post operatoria.

Nelle Aziende Sanitarie assume un’importanza rilevante la gestione dei materiali, che risulta essere strettamente collegata alla programmazione della produzione. Infatti, garantendo un corretto rifornimenti dei vari reparti, si riescono anche a minimizzare gli oneri da sopportare. Il ruolo del Coordinatore risulta fondamentale nella gestione dei materiali utilizzati nelle varie sale operatorie [1].

La letteratura e l’analisi organizzativa segnalano che nella gestione dei materiali rientrano le seguenti attività:

 l’accertamento del fabbisogno, che a fronte di una corretta analisi della programmazione chirurgica, determina la tipologia degli articoli da approvvigionare ed i momenti più opportuni in cui emettere gli ordini in funzione dei tempi di rifornimento (lead time1). La reattività e l’efficienza del sistema saranno maggiori se il lead time è minore. Infatti, utilizzando il metodo del lead time si può ridurre la tempistica di approvvigionamento del 45% come è emerso da uno studio condotto da Momani et. al pubblicato nel 2010 [2];

 l’approntamento e l’invio degli ordini ai fornitori;

 la sorveglianza sull’espletamento di quanto previsto negli ordini, volta a garantire, tramite un’opportuna azione di “sollecito”, che i fornitori rispettino quanto stabilito in fase di contratto, con particolare riferimento alle quantità da fornire ed ai termini di consegna;

 il ricevimento dei materiali provenienti dall’esterno, il loro controllo all’ingresso, il loro magazzinaggio e la conseguente custodia;

1 Il lead time è il tempo totale che intercorre tra il momento in cui si presenta la necessità di un determinato articolo e quello in cui si

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5

 il ricevimento dei materiali provenienti dall’interno, il loro controllo all’ingresso, il loro magazzinaggio e la conseguente custodia;

 il controllo del livello delle scorte e la determinazione dei relativi parametri di governo.

Per quanto riguarda la gestione del materiale pluriuso, ed in particolare l’organizzazione giornaliera dei kit di strumenti chirurgici, questa è affidata agli operatori socio sanitari (OSS).

Gli OSS si occupano di compilare il modulo per la richiesta dello strumentario chirurgico da recapitare alla centrale di sterilizzazione. Tale modulo (Figura 1) viene compilato in ogni sua parte inserendo:

 codice assegnato all’unità operativa (UO);

 nome dell’UO;

 direttore dell’UO;

 data della lista operatoria;

 sala, ora, tipologia di intervento che verrà effettuato e strumentario sfuso e in kit che verrà utilizzato.

Figura 1: Esempio di modulo di richiesta dello strumentario chirurgico del Centro Multidisciplinare di Chirurgia Robotica (CMR) dell’AOUP.

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Nel caso in cui un kit non fosse presente nel modulo inviato alla centrale di sterilizzazione, ma dovesse dimostrarsi necessario per un intervento, si procederà con una

richiesta urgente in modo che la centrale possa processarlo con priorità rispetto ad altri kit.

Il giorno seguente alla richiesta dello strumentario, gli OSS si recano alla centrale di sterilizzazione per ritirare il carrello contenente i kit sterili richiesti e destinato alla propria UO e lo trasportano lungo il percorso pulito attraverso un ascensore per il “Trasporto Pulito” che mette in collegamento la centrale con tutte le sale operatorie presenti nello stesso edificio. A conclusione degli interventi e ad orari prestabiliti, gli OSS, dopo aver opportunamente decontaminato lo strumentario nella zona sporca, trasportano il materiale alla centrale utilizzando un ascensore apposito per il “Trasporto Sporco”.

Se, invece, la sala operatoria è situata in un edificio diverso da quello in cui è presente la centrale, i carrelli con lo strumentario sterile vengono trasportati da navette. In questo modo i carrelli seguono un percorso non sterile perché provengono dall’esterno, di conseguenza non possono essere introdotti nell’area pulita. Per tale motivo, si procede al loro scarico e le portate, in essi contenute, sono successivamente caricate dagli OSS su carrelli puliti e trasportati all’interno della sala. I carrelli “sporchi” non vengono portati via, ma rimangono presso l’UO perché verranno poi utilizzati per contenere il materiale sporco da trasportare nuovamente alla centrale.

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1.2

Distinta Base

Per facilitare il compito organizzativo degli infermieri all’interno della sala ma anche per effettuare una valutazione dei costi di una tipologia di intervento eseguito nel Centro Multidisciplinare di Chirurgia Robotica (CMR) dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, è in corso un progetto che prevede la compilazione della Distinta Base.

La Distinta Base (DB) viene definita come “l’elenco di tutti i componenti, sottoassiemi,

semilavorati e materie prime necessari per realizzare un prodotto”.

La DB è realizzata per ogni tipologia di procedura chirurgica, ad esempio possiamo avere una DB per “Isterectomia” e una per “Isterectomia e annessiectomia”.

Una DB si compone dei seguenti campi: - Tipologia di procedura;

- Reparto;

- Consulenze in pre-ospedalizzazione;

- Esami diagnostici ed ematochimici pre-intervento;

- Personale in sala operatoria (chirurgo, anestesista, infermiere anestesista, infermiere di sala, infermiere strumentista);

- Altri costi di sala operatoria (ammortamento sala, OSS) - Dispositivi medici robotici;

- Dispositivi medici non robotici; - Centrale di sterilizzazione; - Farmaci anestesia;

- Dispositivi medici di anestesia;

- Anatomia patologica (esami istologici); - Costi di degenza;

- Esami diagnostici post-intervento; - Codifica ICD-9 Diagnosi;

- Codifica ICD-9 Procedura; - DRG.

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Per compilare una DB che sia statisticamente rilevante, è necessario che effettuare almeno 15 osservazioni della stessa procedura.

Le quantità delle voci sopra riportate ed individuate durante le singole osservazioni della stessa procedura, vengono mediate per il totale delle osservazioni e viene così determinato un fattore quantità che moltiplicato per il costo unitario di ciascuna voce ne determina il costo medio.

Sommando tutti i costi medi otteniamo il costo totale dell’intervento chirurgico che andrà poi comparato con il DRG (Diagnosis Related Group), il quale va a determinare la remunerazione che l’Azienda Sanitaria riceve dal Sistema Sanitario Nazionale per quella determinata procedura.

La DB, oltre a determinare una previsione di costo di un intervento chirurgico, permette anche di creare un elenco di riferimento dei dispositivi medici utilizzati per una specifica procedura. Ciò agevola molto la preparazione del carrello da parte degli infermieri di sala e li rende anche capaci di fornire immediatamente i dispositivi medici richiesti dal chirurgo, senza doversi recare in magazzino ogniqualvolta ne servisse uno.

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2.

Sterilizzazione

Il concetto di sterilizzazione si è modificato nel corso del tempo grazie all’avanzamento della tecnologia e all’acquisizione di nuove conoscenze scientifiche.

Inizialmente la sterilizzazione veniva definita come un processo attraverso il quale venivano distrutte tutte le forme di vita possibili, comprese le spore, e si riteneva che il passaggio dei materiali all’interno della camera dell’autoclave potesse garantire l’assenza di proliferazione di germi.

In seguito, studi hanno evidenziato che il risultato della sterilità veniva molto influenzato dalla modalità con cui i materiali venivano preparati prima del processo di sterilizzazione e dal funzionamento delle apparecchiature utilizzate.

Sulla base delle nuove conoscenze, si può vedere la sterilizzazione come il risultato finale di un processo che utilizza una tecnologia avanzata e che tende a garantire una condizione in cui la sopravvivenza dei microrganismi è altamente improbabile. Poiché dal punto di vista statistico non si può affermare che ci sia certezza di sterilità, diventa indispensabile codificare tutte le procedure che intervengono nel trattamento del materiale al fine di ridurre il più possibile il rischio di alterazione del risultato.

La norma tecnica UNI EN 566-1:2002 stabilisce che per dichiarare un prodotto sterile si deve avere la probabilità che al massimo non sia sterile un prodotto su 1 milione di prodotti sterilizzati. Questa probabilità è chiamata SAL (Sterility Assurance Level). Quindi un insieme di oggetti è considerato sterile quando 1 su 1 milione è contaminato, ovvero la conta batterica è pari a 10-6.

Per far sì che il prodotto sia ritenuto sterile devono essere garantite specifiche condizioni fisiche; queste devono tener conto della variabilità delle specie di microrganismi potenzialmente presenti sul dispositivo da trattare e, soprattutto del loro possibile stato: forma vegetativa o sporigena o altre forme di agenti biologici non classici. Le spore, infatti, rappresentano le forme più resistenti agli agenti sterilizzanti e per essere eliminate richiedono, rispetto alle forme vegetative, temperature più elevate (superiori a 100°C) e tempi di esposizione maggiori. Invece, per quanto riguarda le altre forme di agenti biologici non classici, queste richiedono la messa a punto di un procedimento ad hoc.

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2.1

Requisiti strutturali e tecnologici della centrale di sterilizzazione

Nel processo di sterilizzazione è importante che le attività siano centralizzate in ambienti aventi determinate caratteristiche strutturali e tecnologiche. Infatti è necessario che all’interno della centrale di sterilizzazione (CS) ci siano spazi ben definiti e separati, come l’area destinata al ricevimento, lavaggio, confezionamento dei materiali; l’area dedicata alla sterilizzazione; una zona dedicata al deposito e alla distribuzione dei materiali sterilizzati. Il percorso deve essere progressivo dalla zona sporca a quella pulita.

Nelle linee guida sull’attività di sterilizzazione [3] vengono identificati i requisiti tecnico-strutturali per:

 Ospedali di grandi/medie dimensioni (con un numero di posti letto maggiore di 120 e con un minimo di 4 sale operatorie);

 Strutture sanitarie di piccole dimensioni con attività chirurgica programmata (1-3 sale operatorie);

 Altre strutture con caratteristiche più semplici (ad esempio: studi odontoiatrici, oambulatori, etc.) e attività di sterilizzazione decentrate. In queste ultime sarà il Responsabile sanitario che determinerà le caratteristiche necessarie della struttura, delle tecnologie e del processo per garantire la sterilità del prodotto. Tutto va specificato attraverso la stesura di procedure e protocolli operativi.

Requisiti minimi strutturali

I locali e gli spazi devono essere correlati alla tipologia e al volume delle attività erogate.

Ospedali di grandi/medie dimensioni

In ognuno di questi ospedali deve essere presente una centrale di sterilizzazione con specifiche che comprendono i requisiti minimi richiesti dal DPR 14 gennaio 1997 n. 37.

 Nella centrale devono essere previsti spazi articolati in zone nettamente separate, delle quali:

- una destinata al ricevimento e al lavaggio;

- una destinata a controllo e/o manutenzione ordinaria, confezionamento e sterilizzazione;

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- una per l’uscita del materiale sterile dall’autoclave e deposito;

- una nella quale posizionare i carrelli pronti per la distribuzione dei materiali sterilizzati.

Il percorso deve essere progressivo dalla zona sporca a quella pulita.

 La dotazione minima degli ambienti è la seguente: - locali ricezione-cernita-pulizia;

- locali ricomposizione kit, confezionamento, sterilizzazione; - filtro personale;

- airlock (dispositivi che permettono il controllo e la minimizzazione delle variazioni di pressione) per l’accesso al deposito del materiale sterile; - locale per il deposito del materiale sterile;

- locale per il materiale sporco; - servizi igienici per il personale.

 Le zone di lavaggio, confezionamento-sterilizzazione e stoccaggio devono essere separate e comunicanti solo con appositi filtri.

 Le pareti, i pavimenti e i soffitti devono essere costruiti con materiali lavabili che permettano una facile pulizia e sanificazione.

 I pavimenti nelle zone sporche devono essere antisdrucciolo con adeguate pendenze in modo da garantire i necessari scarichi.

 Le finestre, se presenti, non devono essere apribili e devono essere prive di cassonetti.

 Le apparecchiature di sterilizzazione devono essere posizionate a cavaliere tra la zona di confezionamento e la zona di stoccaggio.

 Vanno previsti servizi igienici per il personale, un ufficio per il coordinatore e uno per l’archivio.

Strutture sanitarie di piccole dimensioni

Le caratteristiche strutturali possono essere limitate alla dotazione minima di ambienti prevista dal DPR 14 gennaio 1997 n. 37 [4].

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 Gli ambienti di ricevimento e lavaggio devono essere separati dalla zona addetta al confezionamento e sterilizzazione, a loro volta separati dal locale per il deposito di materiale sterile; deve essere presente una zona filtro per il personale, preliminare all’accesso al deposito dei materiali sterili, e un locale deposito per il materiale sporco, nonché servizi igienici per il personale, un ufficio per il coordinatore e uno per l’archivio.

 Le pareti, i pavimenti e i soffitti devono essere costruiti con materiali lavabili che permettano una facile pulizia e sanitizzazione.

 I pavimenti nelle zone sporche devono essere antisdrucciolo con adeguate pendenze in modo da garantire i necessari scarichi.

 Le finestre, se presenti, non devono essere apribili e devono essere prive di cassonetti.

Requisiti minimi tecnologici

La dotazione minima tecnologica del Servizio di sterilizzazione deve comprendere:

 apparecchiature di sterilizzazione;

 apparecchiatura per il lavaggio del materiale da sottoporre a sterilizzazione;

 bancone con lavello resistente ad acidi e alcalini;

 tavoli luminosi per il controllo dei materiali/dispositivi;

 termosaldatrici per la saldatura di buste e/o per sottovuoto;

scaffalature in acciaio Inox per lo stoccaggio della biancheria e dei kit sterili;

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2.2

Processo di sterilizzazione

La buona pratica di sterilizzazione dei dispositivi medici rappresenta uno degli elementi fondamentali per determinare la qualità dell’assistenza sanitaria. Infatti, l’Azienda sanitaria deve essere in grado di fornire prestazioni adeguate al paziente/utente e ciò porta a focalizzare l’attenzione proprio sulla sicurezza del paziente/utente, degli operatori e dell’Azienda stessa.

Le infezioni correlate all’assistenza continuano a rappresentare un tema sanitario molto sentito dall’utenza. La sterilizzazione, che ha la funzione di interrompere la trasmissione di microrganismi, rappresenta una pratica che necessita di standardizzazione dei processi, di personale specializzato e di competenze gestionali peculiari per garantire la sicurezza del processo.

Per ottenere ciò è fondamentale il lavoro in team ed una definizione chiara delle responsabilità degli operatori che lavorano in centrale di sterilizzazione.

La sterilizzazione è un processo che si compone di singole fasi: 1. Raccolta e trasporto; 2. Decontaminazione; 3. Lavaggio; 4. Risciacquo; 5. Asciugatura; 6. Controllo e manutenzione; 7. Confezionamento; 8. Sterilizzazione; 9. Stoccaggio.

Ognuna di queste fasi ha un’importanza rilevante: è sufficiente non garantirne una sola per compromettere l’intero processo ed esporre a potenziali rischi il paziente, l’operatore, l’Azienda.

Raccolta E Trasporto

I primi step nel processo di sterilizzazione sono rappresentati dalla raccolta e trasporto del materiale utilizzato nelle sale operatorie.

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Al termine di un’operazione chirurgica il materiale monouso utilizzato viene eliminato e smaltito in maniera opportuna, mentre tutto ciò che è riutilizzabile va predisposto per il processo di sterilizzazione e deve essere riposto negli appositi contenitori impiegati per la raccolta direttamente dagli utilizzatori, ovvero gli infermieri strumentisti in sala operatoria. I contenitori utilizzati prendono il nome di container (Figura 2); questi sono contenitori grigi senza saldature muniti di manici laterali e griglia estraibile che garantisce la non fuoriuscita dei liquidi che si posso accumulare all’interno del contenitore.

Figura 2: Container per ferri chirurgici.

L’esposizione o la potenziale esposizione ad agenti biologici degli operatori inizia proprio con la raccolta dei materiali utilizzati in quanto contaminati o potenzialmente contaminati.

Il materiale utilizzato/contaminato viene trasportato e trattato in una zona dedicata alla decontaminazione; un’accurata pulizia prima della disinfezione e della sterilizzazione è di particolare importanza per il controllo delle infezioni.

Decontaminazione

La decontaminazione è uno degli adempimenti previsti dal Titolo X del D.Lgs 81/2008 e s.m.i in quanto è una misura di sicurezza di tipo collettivo e deve essere effettuata prima del lavaggio mediante immersione "in idoneo mezzo". Tale misura di sicurezza contribuisce alla protezione degli operatori coinvolti nel processo di sterilizzazione e in particolare di quelli addetti al trasporto e al lavaggio del materiale utilizzato. Inoltre, essa facilita le operazioni di pulizia, in quanto la presenza di residui organici sui dispositivi medici costituirebbe una vera e propria interferenza al processo di sterilizzazione.

La decontaminazione può essere effettuata con modalità manuali, utilizzando una soluzione decontaminante efficace sui virus dell’HIV e dell’epatite [5], oppure mediante apparecchiature, la cui efficacia di disinfezione è garantita dal proprio Certificato di Conformità.

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Questa fase viene eseguita nel percorso di Area Sporca presente nel blocco operatorio e situata al di fuori della sala operatoria, con la quale entra in contatto attraverso una doppia finestra (Figura 3) che permette il trasferimento del materiale da decontaminare.

Figura 3: Finestra per l’uscita degli strumenti sporchi dalla sala operatoria. A sinistra, la finestra aperta con gli strumenti sporchi da decontaminare. A destra, la finestra è chiusa per permettere al personale presente nel percorso

sporco di prelevare gli strumenti

Una volta decontaminati, i container vengono portati alla centrale di sterilizzazione utilizzando carrelli chiusi adibiti al trasporto (Figura 4).

Figura 4: Carrelli per trasporto container e materiale sfuso

Lavaggio

La terza fase del processo di sterilizzazione è rappresentato dal lavaggio, il cui obiettivo è quello di rimuovere il materiale organico ed inorganico presente sulle superfici dei dispositivi da sottoporre a sterilizzazione. Un buon lavaggio comporta una riduzione qualitativa e quantitativa della contaminazione microbica (bioburden), condizione irrinunciabile affinché il processo di sterilizzazione sia efficace: un dispositivo con residui organici o inorganici non potrà essere sterile.

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L’attività di lavaggio, effettuata con acqua calda (max 60°C) e detergente enzimatico, ha lo scopo di favorire il distacco delle molecole di materiale organico. Essa deve essere svolta in una zona dedicata, attrezzata e lontana dall’area in cui avviene il confezionamento. Prima di essere lavati, gli strumenti devono essere aperti, quelli composti da più parti devono essere smontati e devono essere disposti in maniera tale da assicurare l’efficacia di azione del detergente.

Il lavaggio può avvenire in tre modalità: automatico, manuale, a ultrasuoni. Il lavaggio automatico è da preferire a quello manuale perché riduce il rischio di infezione degli operatori addetti al lavaggio e garantisce la riproducibilità del ciclo.

Il lavaggio automatico può essere effettuato mediante l’utilizzo di macchine lavastrumenti, termo-disinfettatrici assicurando così un’omogenea rimozione dello sporco grazie all’uso di una concentrazione costante di soluzione detergente che la macchina preleva da appositi contenitori. È importante che il caricamento della macchina venga effettuato senza zone d’ombra, ovvero zone in cui non è garantito il raggiungimento della soluzione detergente. A tal proposito, i ferri chirurgici come pinze, forbici o strumenti formati da più parti devono essere aperti e smontati prima di essere caricati nella lavastrumenti (Figura 5).

Figura 5: Strumenti disposti sulle griglie prima di essere inseriti nella termodisinfettatrice.

I programmi di lavaggio sono standardizzati in funzione del materiale da trattare con cicli impostati in accordo con la normativa UNI EN ISO 15883 [6] che prevede:

 pre-lavaggio con acqua fredda;

 lavaggio con acqua calda e detergente;

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 risciacquo;

 disinfezione;

 (eventuale) asciugatura.

Al termine del ciclo di lavaggio, gli apparecchi che possono essere dotati di sistemi di registrazione e stampa, permettono di verificare l’esito del ciclo e di stampare, per una successiva archiviazione, la documentazione dell’intero procedimento al fine di tracciare il percorso dello strumentario all’interno della centrale di sterilizzazione.

Il lavaggio manuale si effettua quando non si hanno a disposizione le apparecchiature automatiche e nei casi in cui a causa delle caratteristiche del materiale non si può eseguire un lavaggio automatico, in particolare questo trattamento va effettuato per tutti quegli strumenti che presentano incastri e zigrinature. Per la pulizia manuale, il materiale viene immerso in una soluzione detergente-disinfettante e disassemblato all’interno di tale soluzione affinchè tutte le superfici possano entrarvi a contatto. Successivamente gli strumenti vengono spazzolati per rimuovere i residui organici che non sono stati eliminati dall’azione del detergente.

Come trattamento di sostegno a quello manuale è impiegato il lavaggio ad ultrasuoni, soprattutto quando le sostanze organiche sono solidificate sui materiali. Tale lavaggio si basa su un principio fisico chiamato cavitazione ultrasonica, che consiste nella formazione di microbolle piene di gas all’interno di un liquido; queste bolle, implodendo all’interno del liquido per aumento del loro volume, rilasciano un’onda d’urto e producono un effetto simile alla spazzolatura meccanica. In questo modo è possibile staccare le incrostazioni più resistenti e trattare gli strumenti delicati evitando il rischio di rotture accidentali dovute alla manipolazione. L’impianto ad ultrasuoni è costituito da un produttore di ultrasuoni (frequenza di lavoro intorno a 35 kHz) e da una vasca che viene riempita con una soluzione detergente o proteolitica mantenuta a temperatura costante (tra 40 e 50°C). All’interno della soluzione viene posizionato un cestello forato con il materiale da sottoporre al trattamento.

Risciacquo E Asciugatura

Nei casi in cui viene effettuato il lavaggio a mano, si procede ad un primo risciacquo del materiale con doccia di acqua corrente e poi con doccia di acqua demineralizzata per rimuovere i residui di detergente.

Dopo il risciacquo si procede ad una accurata asciugatura del materiale con pistole ad aria compressa o con panni di carta o di tela che non rilasciano fibre. Questa fase è

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fondamentale in quanto la presenza di tracce di acqua sulla superficie dei dispositivi medici compromette il processo di sterilizzazione. Nel caso di lavaggio automatico, la macchina stessa provvederà alla fase di risciacquo e asciugatura

Controllo E Manutenzione

Segue poi la fase di controllo e manutenzione durante la quale viene controllata la pulizia delle superfici e dei lumi degli strumenti, la corretta asciugatura e la funzionalità ed integrità di tutti i componenti. Dopo un controllo visivo di tutti gli strumenti, l’operatore ne verifica lo stato di usura (ruggine), l’integrità (rotture) e la funzionalità (attrito) attraverso l’utilizzo di lenti d’ingrandimento. Se viene rilevata un’anomalia, lo strumento viene inviato al servizio di manutenzione e, se disponibile, reintegrato nel kit con un altro dispositivo simile. La manutenzione ordinaria dello strumento prevede una lubrificazione di snodi, cremagliere e parti dentellate, trapani e motori con lubrificanti idrosolubili (se il materiale viene sterilizzato a vapore, i prodotti devono essere privi di silicone).

Confezionamento

La fase successiva è il confezionamento che deve essere effettuato in un ambiente dedicato e diverso da quello in cui si eseguono le operazioni di lavaggio. A seconda del metodo di sterilizzazione utilizzato e della tipologia del dispositivo da trattare, verrà individuato il confezionamento corretto per garantire la sterilità del materiale trattato.

Il metodo di sterilizzazione viene valutato in base alle indicazioni del fabbricante del dispositivo e della sterilizzatrice, sulla base della compatibilità con l’agente sterilizzante, sulla tipologia, peso e volume dei materiali e sulla loro termolabilità.

I principali materiali e sistemi di barriera sterile (SBS [7]) utilizzati in ambiente ospedaliero includono: SBS monouso e poliuso-riutilizzabili. Tra gli SBS monouso (Figura 6) troviamo la carta medicale in TNT, buste e rotoli in accoppiato carta-film polimerico, materiale di composizione polimerica di varia tipologia impiegabile in fogli, materiale poliolefinico e similare impiegabile in rotoli o tubolari; mentre tra gli SBS

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Figura 6: SBS monouso. A sinistra, buste e rotoli di carta accoppiati a film polimerici. A destra, carta medicale in TNT.

Il confezionamento del materiale sanitario da sottoporre a processo di sterilizzazione deve permettere:

 la penetrazione e il contatto dell’agente sterilizzante con il materiale da trattare;

 la conservazione della sterilità nei tempi e modi stabiliti dal corretto stoccaggio;

 la riduzione del rischio di contaminazione del contenuto al momento dell’apertura nel campo sterile;

 la praticità, la comodità, l’economicità.

I materiali usati per il confezionamento devono avere le seguenti caratteristiche:

 compatibilità con i processi di sterilizzazione e con il materiale che sarà contenuto;

 compatibilità con il sistema di etichettatura (indicatore chimico di processo, tracciabilità, etc.);

 non possedere agenti chimici che possano inficiare l’intero processo di sterilizzazione;

 biocompatibilità;

 essere in grado di mantenere la sterilità del materiale fino alla scadenza stabilita, in conformità alla norma UNI EN ISO 11607-1 e UNI EN ISO 11607-2.

Un corretto confezionamento svolge il compito di mantenere sterili i dispositivi processati fino al momento del loro utilizzo, isolando il dispositivo dalla contaminazione ambientale e proteggendolo dall’esposizione ad eventi critici come una caduta accidentale.

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Sterilizzazione

Dopo il confezionamento, si passa alla fase di sterilizzazione. Esistono diverse modalità di sterilizzazione: con vapore saturo, con ossido di etilene, con gas plasma di perossido di idrogeno, con soluzioni di acido peracetico.

In ambito ospedaliero la sterilizzazione con vapore saturo rappresenta il metodo di sterilizzazione più utilizzato in quanto permette la sterilizzazione della maggior parte del materiale riprocessabile; inoltre rappresenta il metodo più sicuro, economico, rapido e non inquinante. L’agente sterilizzante è il calore umido sotto forma di vapore saturo sottoposto a pressione per raggiungere temperature superiori ai 100°C. Le apparecchiature che consentono di porre sotto pressione il vapore sono dette autoclavi, o più propriamente sterilizzatrici a vapore, dotate di una camera a perfetta tenuta e resistente alle alte pressioni. Le relazioni tra tempo, temperatura e pressione che garantiscono una efficace sterilizzazione sono indicate dalla Farmacopea Europea e dalle normative europee sulla sterilizzazione a vapore [8] e UNI EN ISO 17665 parte 1 e parte 2.

Tutti i dispositivi da sterilizzare devono essere disposti in modo tale che ogni superficie sia direttamente esposta all’agente sterilizzante per la temperatura e per il tempo previsti. Il carico deve essere distribuito uniformemente facendo attenzione che non tocchi le pareti della camera, che sia sostenuto da apposite griglie, che non sia ammassato affinché il vapore possa circolare il più liberamente possibile. Al termine del ciclo di sterilizzazione non devono essere presenti residui di condensa in quanto questa favorisce la ricontaminazione dei materiali.

Nella sterilizzazione con ossido di etilene, l’agente sterilizzante è un gas tossico, l’ossido di etilene (EtO), che possiede un’energica attività antimicrobica. Esso agisce penetrando all’interno del microrganismo e reagendo chimicamente con le proteine microbiche.

È un processo irreversibile che rende inefficace anche la difesa naturale d’incapsulamento delle spore. In questo modo si ha la completa distruzione di tutte le funzioni vitali del microrganismo.

Per il trattamento è necessaria un’autoclave installata in un locale adibito esclusivamente per tale impego, dotato di misure di sicurezza e personale preparato, in possesso della patente per la manipolazione di gas tossici.

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I parametri monitorati durante il processo sono la concentrazione di gas, il tempo, la temperatura e l’umidità. Si susseguono cicli automatici di eliminazione di aria, umidificazione, raggiungimento della temperatura, iniezione del gas, tempo d’azione del gas, concentrazione di gas stabiliti, eliminazione del gas.

La sterilizzazione con EtO ha dei limiti legati al costo, ma soprattutto alla sua tossicità: richiede tempi lunghi di sterilizzazione e di aerazione, ed è necessario adottare misure di prevenzione per evitare l’inquinamento ambientale.

Un’altra tipologia di sterilizzazione è quella che utilizza il perossido di idrogeno sotto forma di gas plasma o vapore. Il gas plasma, o quarto stato della materia (stato liquido, solido. gassoso e gas plasma), è il risultato dell’azione di un campo energetico (elettrico o magnetico) sulla materia gassosa (perossido di idrogeno) che viene disgregata a livello molecolare e producendo radicali liberi. Questi ultimi sono particelle instabili altamente reattive che presentano una forte capacità germicida in quanto sono in grado di danneggiare le membrane cellulari dei microrganismi.

Il perossido di idrogeno viene diffuso all’interno della camera di sterilizzazione in concentrazione ottimale e a seguito dell’applicazione di energia elettrica o magnetica, viene prodotto il gas plasma a bassa temperatura. Terminato il ciclo di sterilizzazione, si interrompe l’applicazione di energia elettrica; tutti i componenti attivi si ricombinano a formare composti stabili, non tossici, costituiti da acqua e ossigeno.

La sterilizzazione con perossido di idrogeno sotto forma di vapore avviene in tre fasi: 1. condizionamento: arie e umidità vengono rimosse dalla camera di sterilizzazione; 2. sterilizzazione: i vapori di perossido di idrogeno vengono immessi nella camera e

mantenuti per un tempo programmato;

3. aerazione: il vapore viene evacuato dalla camera attraverso un convertitore catalitico che tramuta il perossido di idrogeno in vapore acqueo e ossigeno. Al termine del ciclo la pressione all’interno della camera viene riequilibrata a quella atmosferica consentendo così l’apertura della porta della sterilizzatrice.

La sterilizzazione con perossido di idrogeno, sia sotto forma di gas plasma sia sotto forma di vapore, è caratterizzata da:

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 dispositivi medici al termine del ciclo di sterilizzazione freddi, pertanto utilizzabili nell’immediato;

Questo metodo di sterilizzazione indicato per tutti i dispositivi medici termolabili o

termosensibili, ma non è compatibile con materiali in grado di assorbire il perossido di

idrogeno come la cellulosa, la teleria, le garze, etc.

La sterilizzazione mediante soluzioni di acido peracetico sfrutta la capacità di questo perossiacido organico, composto da una miscela di acido acetico e perossido di idrogeno in soluzione acquosa, di decomporsi in modo esplosivo per urto o riscaldamento divenendo così un potentissimo agente ossidante e comburente. Queste sue proprietà gli conferiscono un potere antisettico e antibatterico, attivo a concentrazioni minime. Inoltre i prodotti di degradazione dell’acido peracetico non sono tossici e si dissolvono facilmente in acqua.

Questo tipo di sterilizzazione permette una processazione rapida, a bassa temperatura (50-56°C) ed è indicata per il trattamento di dispositivi totalmente immergibili, in particolare è indicata per tutti gli strumenti utilizzati in campo endoscopico (endoscopi rigidi e flessibili, cavi luce, telecamere, etc) per i quali non è richiesta la sterilità ma solo che siano stati sterilizzati e quindi possono essere sterilizzati non confezionati.

Per validare il rilascio di un prodotto sterile è necessario utilizzare dei dispositivi, chiamati indicatori, che possono essere di tre tipi: chimici, fisici e biologici.

Quando gli oggetti vengono confezionati, all’interno della confezione e del container viene inserito un indicatore chimico (Figura 7).

Figura 7: Esempio di indicatore chimico.

Questo svolge una funzione di monitoraggio del ciclo di sterilizzazione successivo, in quanto fornisce informazioni sulle condizioni verificatesi nella camera di sterilizzazione durante il processo modificando la sua colorazione. Il viraggio finale dell’indicatore non certifica la sterilità del prodotto ma indica soltanto che il dispositivo è stato sottoposto a sterilizzazione. Il mancato viraggio deve mettere in allarme l’operatore e deve portarlo a

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ricercare le cause possibili (errore di confezionamento, di carico, malfunzionamento dell’autoclave, etc). Oltre all’indicatore chimico viene anche utilizzato l’indicatore fisico e l’indicatore biologico (Figura 8). Il primo è rappresentato dai parametri (temperatura, pressione, etc) rilevati dalla macchina durante un ciclo di lavoro e stampati su uno scontrino. Il secondo è un dispositivo contenente spore che viene posto all’interno della sterilizzatrice: qui le alte temperature raggiunte inducono la morte delle spore. Per verificare il corretto funzionamento della macchina e quindi il raggiungimento di temperature superiori ai 100°C, le spore vengono messe in incubazione per verificare che non siano in grado di proliferare, confermandone la morte. Anche in questo caso, il viraggio dell’indicatore biologico non certifica la sterilità del dispositivo, ma indica che il ciclo è stato in grado di abbattere la carica microbica.

Figura 8: A sinistra, esempio di indicatore fisico; a destra, indicatore biologico.

La durata del mantenimento della sterilità di un dispositivo viene calcolata dal momento della sterilizzazione; pertanto la data di scadenza indica il termine entro il quale la possibilità che il dispositivo sia sterile è molto elevata. Bisogna però tener presente che la data di scadenza è solo un elemento indicativo in quanto il mantenimento della sterilità non dipende solo dal tempo ma anche dalla modalità di conservazione del dispositivo confezionato.

Stoccaggio

Lo stoccaggio, ultima fase del processo di sterilizzazione, riveste un ruolo fondamentale per il mantenimento della sterilità del dispositivo medico.

Infatti in questa fase è necessario che:

 il locale di stoccaggio abbia un accesso limitato e condizioni microclimatiche stabili (temperatura 18-22°C, umidità relativa 35-50%);

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 la conservazione del materiale sterilizzato avvenga in armadi chiusi o in scaffali;

le confezioni siano esposte in ordine cronologico rispetto alla scadenza (FIFO: first

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2.3

La Centrale di Sterilizzazione dell’AOUP

Dopo aver delineato le fasi di cui si compone un processo di sterilizzazione, andiamo ora a descrivere il flusso produttivo della centrale di sterilizzazione dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana.

Come possiamo vedere dalla Figura 9, il percorso che effettuano i dispositivi che arrivano in centrale è unidirezionale e va dalla zona di arrivo dei carrelli contenenti i kit chirurgici, detti anche portate o cestelli, a quella di stoccaggio del materiale sterile.

Figura 9: Schema della centrale di sterilizzazione dell'AOUP

I kit decontaminati provenienti dalle sale operatorie vengono consegnati in prossimità della zona lavaggio (Figura 10).

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Figura 10: Parte della zona lavaggio della centrale di sterilizzazione dell'AOUP.

Qui i container relativi alle varie portate vengono svuotati e puliti a mano mentre i dispositivi medici (DM) presenti al loro interno vengono prima lavati a mano e poi posizionati su griglie metalliche che vengono caricate su termodisinfettatrici meccaniche (Figura 11).

Figura 11: Carico pronto da inserire all'interno della termodisinfettatrice.

I DM appartenenti ad uno stesso container non vengono mescolati con quelli contenuti in altri container, facilitando in questo modo la fase successiva di assemblaggio.

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Terminato il ciclo di lavaggio e disinfezione, le griglie vengono scaricate dalle termodisifettatrici e i dispositivi presenti sono pronti per ricomporre il kit. Essi raggiungono la zona di confezionamento e assemblaggio, dove gli addetti verificano visivamente lo stato di pulizia dei DM e li inseriscono nel container di appartenenza. Quando i DM non superano questa fase, vengono riprocessati nella fase di lavaggio.

Una volta che la portata è stata riassemblata, essa viene sigillata e l’addetto procede con la stampa dell’etichetta contenete il codice a barre e della check list in cui sono indicati gli strumenti presenti con le loro rispettive quantità, ma anche gli strumenti eventualmente mancanti. A questo punto il container è pronto per essere caricato su autoclavi a vapore per la sterilizzazione. Successivamente vengono scaricati e stoccati all’interno dei carrelli, pronti per essere consegnati alle rispettive unità operative (UO).

In realtà, non tutti i kit che arrivano quotidianamente in centrale subiscono l’intero processo sopra descritto nella stessa giornata lavorativa. Quando i presidi sanitari sono consegnati al servizio di sterilizzazione, questi vengono lavati e disinfettati prima possibile per evitare incrostazioni di materiale organico sui DM, che potrebbe causare il fallimento del processo di sterilizzazione e/o potrebbe danneggiare lo strumento. Alla fase di lavaggio dovrebbe seguire quella di assemblaggio, ma ciò non sempre accade. I kit semilavorati si accumulano nella zona di assemblaggio perché la centrale utilizza una strategia produttiva di tipo “pull”, ossia di tutti i kit disinfettati in uscita dalla zona di detersione sono processati solo quelli che vengono richiesti dalle sale operatorie per il giorno successivo alla domanda, quindi la pianificazione è regolata a valle del processo (lean manifacturing) [9].

Le UO inviano le liste operatorie del giorno seguente alla caposala della centrale di sterilizzazione entro le ore 9:30, in modo che lei possa organizzare l’eventuale assemblaggio dei kit semilavorati già presenti o dare priorità di lavorazione ad un kit specifico quando giunge in centrale. Secondo la Procedura Aziendale n°29, la priorità assoluta va data ai Kit

Salvavita che sono contrassegnati da un pallino rosso presente vicino al nome del cestello.

Il loro utilizzo in sala operatoria è previsto solo in caso di mancanza di altre portate contenenti lo stesso strumentario chirurgico. Per tale motivo quando giungono in centrale la loro sterilizzazione ha precedenza sugli altri cestelli.

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2.4

Criticità Riscontrate

Durante il mio lavoro di tirocinio ho avuto modo di frequentare la centrale di sterilizzazione per comprendere meglio le dinamiche dell’intero processo ma soprattutto per mettere in risalto le criticità esistenti e proporre la soluzione più adatta al problema.

Quando il container entra nella centrale di sterilizzazione, tutto il suo percorso viene tracciato in maniera molto accurata grazie all’utilizzo del software Itineris. Questo software si avvale di un sistema di lettura di codici a barre che permette l’identificazione del personale e del kit. Infatti quando una portata sta per essere processata, l’addetto scansiona il proprio codice a barre personale, poi scansiona quello presente sul container e inserisce il tipo di processo a cui viene sottoposto il kit: lavaggio manuale, lavaggio automatico (indicando anche il numero della termodisinfettatrice in cui il container verrà caricato), scarico dalla termodisinfettatrice, assemblaggio, sterilizzazione (indicando il numero dell’autoclave), scarico dall’autoclave e stocccaggio (indicando il numero del carrello).

In questo modo è possibile sapere con precisione in quale area della Centrale si trovi il kit e di conseguenza anche a quale fase del ciclo di sterilizzazione sia sottoposto.

Terminato il percorso, i container sterili vengono inviati alle rispettive UO.

Una volta fuori dalla centrale non si ha più traccia dei cestelli e del loro percorso all’interno del blocco operatorio, quindi non si ha modo di verificare se il kit è “sporco” o ancora sterile.

Come precedentemente descritto, la strategia di produzione della centrale è di tipo “pull”: dei DM che hanno superato la fase di detersione, solo quelli necessari agli interventi programmati per il giorno successivo subiscono l’intero processo di sterilizzazione.

In alcuni casi le UO potrebbero aver bisogno di un kit sterile con tempistiche inferiori al tempo standard di evasione dell’ordine, definito come l’intervallo di tempo tra la richiesta della sala operatoria e la consegna. Tale situazione porta le UO a fare scorta di kit richiedendo non solo la sterilizzazione delle portate che saranno utilizzate nel giorno seguente alla richiesta, ma anche di quelle che non verranno utilizzate e che potrebbero servire in caso di interventi non programmati per il giorno successivo (urgenze).

Nel caso vi fosse un’urgenza, la Centrale non sarebbe in grado di fornire una portata istantaneamente in quanto tutto il ciclo di sterilizzazione richiederebbe in media circa 4 ore. Per questa ragione, all’interno delle sale si hanno a disposizione un certo numero di portate della stessa tipologia. La quantità di tali portate in ciascuna UO è nota alla centrale di sterilizzazione.

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Si possono verificare situazioni in cui, ad esempio, in Chirurgia Toracica vi siano 5 kit di “Ferri vascolari”, di cui 3 già sporchi perché utilizzati negli interventi di elezione e 2 puliti. Nella lista operatoria che gli OSS inviano in Centrale per il giorno seguente, vengono richiesti 2 kit “Ferri vascolari”. Quando al termine della giornata, la Centrale riceve i 3 kit sporchi, non si preoccupa di processarli interamente perché sa che all’interno della sala ci sono ancora 2 portate pulite che possono soddisfare la richiesta ricevuta di strumentario. In realtà, potrebbe esservi stata un’urgenza che ha causato l’utilizzo di una delle due portate sterili. Non essendovi traccia dei percorsi dei kit all’interno della sala, la Centrale non può essere a conoscenza del loro eventuale utilizzo. Di conseguenza, la portata utilizzata verrà mandata in Centrale al termine dell’operazione e verrà richiesta con “urgenza”, provocando così non pochi disagi all’intera organizzazione.

Se ci fosse stato un modo per tracciare il kit, la Centrale avrebbe potuto sapere che le portate sterili si erano ridotte in numero e avrebbe potuto far fronte alle esigenze di sala per tempo senza creare colli di bottiglia all’intero processo.

Per evitare questi inconvenienti, alcune UO tendono a creare delle liste operatorie false da inserire nel modulo di richiesta dello strumentario chirurgico consegnato alla Centrale. In tale modo potranno ricevere al mattino successivo i kit che hanno utilizzato nel giorno precedente, pur non essendo necessari per gli interventi effettivamente programmati ma che in caso di urgenza potrebbero essere fondamentali.

Questo implica che la Centrale si ritroverà a dover processare durante il turno di notte non solo i kit appena arrivati dalle sale operatorie realmente necessari per il giorno successivo ma anche quelli che non sono necessari pur essendo stati richiesti dalle UO, incrementando il carico di lavoro degli addetti che svolgono il turno fino all’impossibilità di soddisfare a pieno le richieste di tutte le UO.

Inoltre, ogni portata è identificata da un nome ben preciso che ne indica il contenuto (es. “Laparo Ginecologica”). La nomenclatura del kit è riportata sul container stesso ed è presente anche nel database di Itineris, in cui troviamo anche la tipologia, la quantità e le immagini degli strumenti contenuti. Non essendoci, quindi, un codice che identifichi in maniera univoca la tipologia di cestello, può capitare che il nominativo del kit indicato dagli OSS all’interno della lista operatoria, non coincida con quello indicato sul container stesso e di conseguenza neppure con quello presente nel database di Itineris. Questo provoca non pochi disagi all’operatore che non sa effettivamente quale sia il kit richiesto ed assembla un

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30

kit che, secondo la sua interpretazione, potrebbe essere quello richiesto ma che il più delle volte non è.

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31

3.

La tecnologia RFID

I sistemi RFID (Radio Frequency IDentification) sono una tecnologia che permette il riconoscimento a distanza di un oggetto per mezzo di comunicazioni radio.

Negli ultimi anni la tecnologia di identificazione automatica più diffusa è stata quella dei codici a barre; oggigiorno sta prendendo sempre più piede l’utilizzo dell’RFID che offre funzionalità più complesse.

Nei sistemi che utilizzano il codice a barre occorre mantenere una distanza minima tra l’oggetto e il lettore e far assumere all’etichetta la giusta orientazione rispetto al lettore; inotre, l’etichetta su cui è riportato il codice a barre è di solito cartacea e se sottoposta ad agenti esterni, come l’acqua o la sporcizia, può essere danneggiata con conseguente degradazione del proprio contenuto informativo.

I sistemi RFID sono in grado di superare tutto ciò grazie alle comunicazioni a radiofrequenza (RF).

In pratica all’oggetto che deve essere riconosciuto è accoppiato un trasponder (Tag) in grado di comunicare via radio le informazioni richieste da un apposito lettore (Reader). Ogni Tag può essere identificato in modo univoco grazie ad un codice memorizzato nel proprio microchip.

Il Tag può assumere qualunque forma si desideri, può essere esposto agli agenti atmosferici o essere rivestito con il materiale più idoneo al tipo di utilizzo che si vuole fare dell’oggetto su cui è applicato.

Un Tag può immagazzinare anche una cospicua quantità di dati e consentire operazioni di lettura e scrittura in tempo reale a distanza di alcuni metri.

Il fatto che un Tag possa essere letto a distanze superiori rispetto ad un codice a barre è un’intrinseca superiorità dei sistemi RFID rispetto a tale tecnologia.

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3.1

Caratteristiche dei sistemi RFID

La tecnologia RFID si compone di tre elementi fondamentali: Tag, Reader e sistema di

gestione dei dati, in quanto questi possono essere letti e/o scritti da molteplici dispositivi

[10].

Figura 12: Sistema RFID generico.

3.1.1 Tag

Il Tag è un trasponder (ricevitore e trasmettitore) a radiofrequenza, di piccole dimensioni, costituito da un circuito integrato (microchip) con logica di controllo, da una memoria (normalmente la quantità di dati contenuti in un RFID è piuttosto modesta: da pochi bit a centinaia di byte o, al massimo qualche kbyte) e da un ricetrasmettitore RF, connesso ad un’antenna. Il Tag è inserito in un contenitore, o incorporato in un’etichetta, che può essere di vario tipo in funzione dell’utilizzo, ad esempio può essere adesivo trasparente o in plastica formando così un accoppiamento che prende il nome di inlay. In questo caso, il microchip non è incapsulato in alcun package per ridurre l’ingombro ed è fornito sotto forma di silicio con le piazzolle metalliche (pad) esposte per il collegamento (non mediante saldatura che potrebbe danneggiare il supporto, ma con paste conduttive o tecniche di micro oscillazioni) ad un’antenna molto più grande.

Figura 13: Esempio della struttura del Tag, in questo caso passivo.

Nel caso di Tag adesivo, l’accoppiamento inlay rimane compreso tra etichetta stampata e la parte adesiva posteriore, altrimenti sono inseriti in strutture più resistenti ad esempio ad elevate temperature o a prodotti chimici aggressivi (ogni datasheet riporta i limiti di operabilità del Tag.)

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Figura 14: Struttura delle etichette smart label RFID HF e UHF.

L’antenna è un componente molto importante e non esiste una struttura generale per tutte le applicazioni, ma le specifiche di ogni applicazione definiscono la struttura più idonea, ad esempio il materiale sul quale saranno applicate e quindi la scelta della banda frequenziale.

Generalmente, maggiore è l’area dell’antenna, maggiore sarà l’energia trasferita al microchip ed il range di comunicazione di cui il Tag può disporre. I transponder con singola antenna possono avere una zona morta provocata dall’orientamento della stessa con conseguente difficoltà nella ricezione del segnale, riduzione dell’energia fornita al microchip che potrebbe non essere sufficiente ad alimentarlo e/o comunicare con il Reader. I Tag con doppia antenna sono in grado di eliminare queste zone morte e aumentarne la leggibilità [11].

Figura 15: Tag lineare di tipo Short Dipole e tag omnidirezionale.

I Tag sono classificati, a seconda dell’alimentazione, in: passivi, semi-passivi e attivi. I Tag passivi ricavano l’energia per alimentare i propri circuiti interni dal segnale proveniente dal Reader. Una volta che ha decodificato il segnale del Reader, il Tag risponde riflettendo e rimodulando il campo incidente. I Tag passivi sono tipicamente dispositivi a basso costo e di piccole dimensioni che consentono di realizzare numerosi tipi di applicazioni, che spesso sono possibili proprio per le ridotte dimensioni dei Tag. Infatti, essendo costituiti solamente da un’antenna (tipicamente stampata) e da un circuito integrato (generalmente miniaturizzato), l’altezza dei Tag passivi può essere anche di poche centinaia di micron. Pertanto tali Tag possono essere inseriti in carte di credito, etichette adesive, bottoni, piccoli oggetti di plastica, dando vita ad oggetti “parlanti”.

I Tag semi-passivi sono dotati di batteria utilizzata per alimentare la logica di controllo, la memoria ed eventuali apparati ausiliari, ma non il trasmettitore, comportandosi in

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trasmissione come Tag passivi; ciò consente di incrementare la durata della batteria e, di conseguenza, la vita del dispositivo.

I Tag attivi sono alimentati a batteria e possono avere funzionalità molto complesse, limitate solo dalla durata della batteria. Essi andranno ad interagire autonomamente con il Reader in quanto sono dei veri e propri apparati ricetrasmittenti e riescono ad iniziare la comunicazione. Non sono attivati dal segnale del lettore e possono essere programmati per emettere il segnale ad intervalli temporali fissati, dell’ordine dei secondi o anche più di un giorno.

Le informazioni che il Tag trasmette al Reader sono contenute in una certa quantità di memoria che ogni Tag contiene al suo interno. Le informazioni d’identificazione sono relative all’oggetto interrogato: tipicamente un numero di serie univoco, in qualche caso anche la copia dell’UPC (Universal Product Code) contenuto nel codice a barre ed altre informazioni (ad esempio: data di produzione, composizione dell’oggetto).

In base al tipo di memoria i Tag possono essere di sola lettura (read-only, R/O), di lettura e scrittura (read-writable, R/W) ovvero con la possibilità di modificare l’informazione memorizzata, oppure con la possibilità di scriverci una sola volta (write once – read many, WORM). In passato i Tag passivi erano principalmente di tipo read-only, sia perché la fase di scrittura richiede la disponibilità di una elevata quantità di energia che si ricava con difficoltà dal segnale ricevuto, sia perché le memorie riscrivibili hanno un costo relativamente elevato. I Tag passivi riscrivibili sono in rapida diffusione.

Per i Tag attivi o semi passivi, oltre alla maggior quantità di memoria ed alla funzione di riscrivibilità della stessa, l’evoluzione tecnologica ha consentito di aggiungere funzioni che superano la semplice identificazione. Possono avere, ad esempio, funzioni di radiolocalizzazione (RTLS – Real Time Location System – sistema di localizzazione in tempo reale) o di misura di parametri ambientali attraverso sensori (temperatura, movimento).

3.1.2 Reader

Il Reader è un ricetrasmettitore controllato da un microprocessore, generalmente connesso in rete con sistemi informatici, che interroga i Tag e consente di leggere o scrivere nelle celle di memoria chiedendo o inviando informazioni. Possono anche impostare le password di accesso alla memoria, bloccare parte della stessa o disabilitare il transponder.

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35

La potenza erogata deve essere necessaria e sufficiente ad alimentare tutti i transponder all’interno del loro raggio d’azione ed il campo generato deve essere idoneo per concatenarsi con tutti i Tag e permetterne la risposta. Queste specifiche sono determinate anche dal tipo di antenna che può avere polarizzazione lineare o circolare. Nel primo caso il dispositivo focalizza l’energia radio proveniente dal lettore in un unico orientamento del Tag, così si hanno campi elettrici con potenza maggiore; in questo modo si incrementa la capacità di penetrazione in materiali di tipo diverso e si possono avere distanze di comunicazione più ampie. Invece, antenne con polarizzazione circolare non sono in grado di fornire la stessa energia e profondità di penetrazione delle antenne lineari, ma sono meno sensibili all’orientamento del Tag in quanto l’emissione dell’onda avviene in maniera circolare.

Figura 16: Polarizzazione lineare a sinistra e circolare a destra.

La scelta dell’antenna è determinata dalla richiesta per l’applicazione, ovvero dal range di lettura: in campo vicino (meno di 30 cm) le antenne usano l’accoppiamento magnetico per trasferire potenza e la leggibilità del Tag non è influenzata da dipoli quali acqua e/o metalli all’interno del campo; mentre in campo lontano (più di 30 cm fino a qualche decina di metri) le antenne usano un accoppiamento elettromagnetico e di conseguenza i dielettrici possono indebolire la comunicazione tra Tag e Reader.

Di lettori ne esistono varie tipologie, da quelli fissi quali i gate che monitorano la merce agli accessi e alle uscite da determinate aree senza interazione da parte dell’operatore; dispositivi desktop in postazioni fisse di medio piccole dimensioni in cui l’operatore deve solo disporre l’oggetto ad una certa distanza per la comunicazione; fino al terminale mobile PDA (Personal Digital Assistant) con il quale l’operatore deve avviare la procedura di trasmissione dati azionando le funzioni in esso implementate [10] [11] [12] [13].

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Figura 17: Vari tipi di Reader. A sinistra, Reader mobile con lettore barcode e writer; al centro, Reader industriale da parete; a destra Reader palmare.

Figura 18: Reader di tipo gate.

3.1.3 Sistema di gestione

Il sistema di gestione (Management system) è un sistema informativo connesso alla rete e dotato di meccanismi di interoperabilità. Tale sistema permette ad altri dispositivi di ricevere o trasmettere le informazioni disponibili associate all’oggetto identificato dal codice univoco del relativo Tag e quindi di gestire i dati nella maniera più idonea per gli scopi dell’applicazione.

Generalmente un sistema di gestione (Figura 19) è composto da:

 Applicazione Front Office;

 Applicazione Back Office;

 Applicazione Middleware.

Figura 19: Esempio di sistema per la gestione della tecnologia RFID.

L’applicazione Front Office permette di gestire i processi logistici di magazzino e garantisce la tracciabilità delle attività svolte.

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35

È installata su dispositivi mobili e consente in dettaglio: autenticazione dell’utente; gestione delle attività di arrivo merce a fronte di una lista di carico; scarico degli articoli; trasferimento di oggetti da una locazione ad un’altra; inventario; aggiornamenti software.

L’applicazione Back Office, invece, è installata su una postazione fissa (server) e fornisce una serie di funzionalità tra cui: gestione utenti e profilazione; anagrafica degli articoli; visualizzazione delle giacenze; gestione degli scarichi; gestione scorte e approvvigionamento; gestione inventario; report.

L’applicazione Middleware permette il dialogo tra l’applicazione Front Office, Back Office, dispositivi hardware utilizzati e il sistema gestionale (ERP) utilizzato dall’azienda.

L’utilizzo di un Middleware fornisce maggiore versatilità in quanto al cambiare dell’hardware, ad esempio da HF a UHF, non si cambia l’applicazione software grazie all’utilizzo di questa interfaccia intermedia. Inglobando il middleware all’interno del reader e programmandone il firmware (soluzione embedded), si migliora la compattezza del flusso d’informazioni ma in caso di sostituzione del lettore bisognerà programmare quello nuovo per le comunicazioni e questo non è sempre possibile.

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