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Adattamenti cardiopolmonari indotti dall'allenamento di pesistica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina e Clinica Sperimentale Direttore: Prof. Corrado Blandizzi

Corso di Laurea in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate

Presidente del corso: Prof. Fabio Galetta Tesi di Laurea

"Adattamenti cardiopolmonari indotti dall’allenamento di

pesistica"

Relatore: Candidato:

Prof. Ferdinando Franzoni Fausto Fedi

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INDICE

Introduzione………3

1. Cenni storici della pesistica……….4

2. Anatomia e fisiologia muscolo scheletrica………10

3. Metabolismo………33

4. Allenamento della forza………..43

5. Massimo consumo di ossigeno………58

6. Scopo dello studio………66

7. Materiali e metodi………...76

8. Risultati………71

9. Discussione-Conclusioni……….75

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INTRODUZIONE

Al giorno d’oggi, conosciamo abbastanza bene quali siano gli adattamenti fisiologici che provoca l’allenamento sul corpo umano. Tuttavia, nella ricerca scientifica gli studi che trattano degli effetti di un training di forza contro resistenza sugli adattamenti cardiopolmonari, in particolare il consumo di ossigeno, non sono molti. Inoltre, quei pochi studi presentano delle diversità non di poco conto, come per esempio la scelta degli esercizi, il livello di allenamento dei soggetti e la frequenza di tali allenamenti.

Questo elaborato vuole fornire una panoramica dell’allenamento contro resistenza, orientato alla forza, e gli adattamenti che va a produrre a livello fisiologico e metabolico, sperimentando anche gli effetti sul consumo di ossigeno in soggetti sedentari.

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CAPITOLO 1

CENNI STORICI DELLA PESISTICA

Il sollevamento pesi, o pesistica (in inglese, olympic weightlifting) è una disciplina atletica nel quale i concorrenti tentano di sollevare sopra la testa in due esercizi distinti dei pesi montati su un bilanciere d'acciaio [1].

LE ORIGINI

Le origini storiche del sollevamento pesi iniziano oltre 4000 anni fa. Esempi di sfide e allenamento con i pesi sono state trovate nella tomba del principe egiziano Baghti, risalenti approssimativamente al 2040 a.C, ma anche in delle scritture provenienti dall'antica Cina. Nell'antica Grecia i pesi venivano invece usati per migliorare e mantenere l'efficienza fisica dei propri guerrieri oltre che per le competizioni. Si narra che a Olimpia fu riportata alla luce un'enorme pietra di quasi un quintale e mezzo di peso, la quale, secondo una scritta del 600 a.C., sarebbe stata sollevata con un solo braccio da un certo Bibbione. Anche nel medioevo pare ci siano state tracce di sollevamento pesi, che avveniva sollevando grossi macigni [2].

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LA PESISTICA MODERNA

Al giorno d'oggi la pesistica non richiede più solo un elevato livello di forza, ma anche potenza, velocità e flessibilità.

L'inizio del moderno sollevamento pesi si può individuare a metà del 1800, quando in Europa nascevano diverse associazioni dedite alla pesistica e all'allenamento con i sovraccarichi in generale, in particolare in Austria e Germania. In questo periodo la pesistica era anche un fenomeno circense: molti atleti infatti giravano le piazze e i circhi sollevando enormi pesi, spesso truccati (le cosiddette "marmitte"). Non mancavano comunque i veri campioni, come Louis Cyr, taglialegna che divenne celebre quando sollevò a 10 cm dal suolo con un solo dito un peso di 534 libbre (quasi 243 kg) [2].

Il primo campionato mondiale di sollevamento pesi si svolse a Londra nel 1891 (con 11 esercizi validi per la classifica), e dopo di esso questo sport iniziò a prendere piede negli Stati Uniti: dal 1930 al 1960 gli Stati Uniti furono la nazione leader nel Weightlifting, allenando una grandissima quantità di campioni olimpici e infrangendo una moltitudine di record del mondo.

Il sollevamento pesi maschile venne inserito sin dalla prima edizione delle Olimpiadi moderne nel 1896, come parte dell'atletica leggera, per entrare poi a far parte stabilmente del programma olimpico dall'edizione del 1920 ad Anversa. L'International Weightlifting Federation (IWF) venne istituita nel

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1905, e fu riconosciuta dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO) nel 1915 [1].

Verso l'inizio del 1980 iniziò ad acquisire popolarità anche la pesistica femminile, soprattutto negli Stati Uniti e in Cina, tanto da organizzare il 1° campionato mondiale femminile di sollevamento pesi nel 1987 a Daytona Beach, Florida. La pesistica femminile venne inserita per la prima volta ai Giochi Olimpici nell'edizione Sydney 2000. Questo sport aveva ormai preso piede in una moltitudine di paesi, dove venivano organizzate gare di livello regionale, nazionale, internazionale ma anche giovanili (12-20 anni) [2].

L’EVOLUZIONE DELLA PESISTICA

Le prime competizioni di sollevamento pesi si svolgevano su un braccio, altre su due braccia. Dal 1928 in poi le gare si svolsero, invece, esclusivamente con esercizi a due braccia (distensione, strappo e slancio). Il problema tecnico comune a tutti gli esercizi che doveva, e deve ancora oggi, affrontare l'atleta, è quello di sollevare il peso a braccia tese sopra la testa, senza soluzione di continuità, così come recita il regolamento.

Per poter aumentare i carichi, la tecnica del pesista si è evoluta negli anni per ridurre al minimo la traiettoria del bilanciere e fargli percorrere uno spazio minore, in modo da ridurre il lavoro. Ovviamente la diminuzione degli spazi

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comporta la necessità di produrre accelerazioni maggiori, per questo motivo il pesista moderno è tra gli atleti che nel suo gesto atletico produce una delle potenze più elevate.

All'inizio infatti i pesisti erano dotati di enorme forza e di poca esplosività, a causa di una tecnica poco performante e di traiettorie molto più lunghe rispetto alle attuali che incidevano, inevitabilmente, sul tempo di applicazione della forza. Le alzate venivano quindi eseguite principalmente in posizione eretta o attraverso una piccolissima flessione delle ginocchia.

Successivamente gli atleti iniziarono ad accorciare le traiettorie. Questo espediente veniva attuato negli esercizi di sollevamento ad un braccio, mentre negli esercizi a due braccia (girata, spinta dal petto e strappo) la necessità di accorciare la traiettoria veniva soddisfatta dalla tecnica della sforbiciata. Tramite questa tecnica, peraltro semplice da imparare, si ottiene un abbassamento del bacino che consente di rilievo. Oggi questa tecnica viene

utilizzata esclusivamente nella spinta dello slancio.

Successivamente si diffuse sempre maggiormente la tecnica

dello squat o accosciata.

Un discorso a parte deve essere fatto per quel che riguarda l'esercizio della distensione lenta.

L'esercizio di distensione venne praticato in gara per molti anni (dal 1928 al 1973). Prevedeva che si sollevasse il bilanciere a braccia tese sopra la testa,

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utilizzando la sola forza delle braccia e mantenendo le gambe estese (questo ovviamente dopo aver portato il bilanciere sulle spalle). Alle origini la distensione veniva eseguita rigidamente, in piedi, nella posizione di attenti, con il peso appoggiato sulle spalle e distendendo lentamente entrambe le braccia, posizione nota come military press.

Ben presto però ci si accorse che anche qui l'accorciamento della traiettoria avrebbe potuto produrre notevoli vantaggi. Alcuni atleti cominciarono quindi a proiettare le spalle indietro e il bacino in avanti durante l'estensione delle braccia. Questo movimento creava una traiettoria più vantaggiosa, inoltre permetteva di reclutare meglio il pettorale.

Tuttavia sovraccaricava fortemente la colonna vertebrale, che veniva posta in una condizione di estrema lordosi, con elevato rischio di infortunio. Questo esercizio ebbe poi un'ulteriore evoluzione tecnica. Il pesista partiva infatti con il bacino in retroversione e il torace cifotizzato. Al segnale del giudice di gara l'atleta eseguiva una repentina anteroversione del bacino ed un contemporaneo sollevamento della parta alta del busto, mentre estendeva con forza le braccia.

Questo movimento creava una sorta di "onda d'urto", che si trasferiva dalla colonna vertebrale sino alle spalle e permetteva di imprimere un'accelerazione supplementare. Alcuni atleti raggiunsero una tale eccellenza in questa tecnica da arrivare a prestazioni molto vicine e, in alcuni casi, uguali a quella

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dell'esercizio dello slancio. Questo esercizio, divenuto ormai la brutta copia dello slancio, venne eliminato a partire dall'edizione dei Giochi Olimpici del 1972 a Monaco [2].

Per quanto riguarda la pesistica generale, dal 1960 si vede una graduale introduzione di macchinari per gli esercizi, all’interno delle ancora rare palestre per l’allenamento della forza. L’allenamento coi pesi ha cominciato a incrementare di popolarità a partire dal 1970, dopo che si era maggiormente diffuso il BodyBuilding [2].

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CAPITOLO 2

ANATOMIA E FISIOLOGIA MUSCOLO

SCHELETRICA

Nel corpo umano sono presenti circa 660 muscoli ben ricoperti da diversi strati di tessuto connettivo. Il muscolo è costituito da migliaia di cellule a forma cilindrica, chiamate fibre muscolari. Esse sono allungate, affusolate, plurinucleate e sono disposte in modo parallelo fra di loro. La loro lunghezza varia da pochi millimetri fino a circa 30 cm (in base a quali muscoli consideriamo) [3].

STRUTTURA DEL MUSCOLO SCHELETRICO

Ogni cellula muscolare è ricoperta da un sottile strato connettivale chiamato endomisio che la separa dalle altre adiacenti. Il perimisio è un altro avvolgimento connettivale che circonda gruppi di circa 150 fibre muscolari e che costituiscono un fascicolo o fascio muscolare. L’intero corpo muscolare (ventre) è circondato da una fascia connettivale detta epimisio, la quale prosegue agli estremi del ventre muscolare nel tendine, un tessuto connettivale che si attacca al punto di inserzione sull’osso, fondendosi con lo strato superficiale che ricopre l’osso stesso chiamato periostio (Figura 1).

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I muscoli presentano due estremità di ancoraggio sulle ossa, una distale e una prossimale, denominate rispettivamente inserzione e origine. L’inserzione è la zona di ancoraggio sull’osso che viene spostato in seguito alla contrazione. L’origine è la zona di ancoraggio sull’osso che resta fisso durante la contrazione.

Figura 1: Struttura del muscolo scheletrico

Ogni fibra muscolare è circondata da una sottile membrana chiamata sarcolemma che include la membrana cellulare e la membrana basale.

Il citoplasma delle fibre muscolari è noto come sarcoplasma, contenente enzimi, granuli di lipidi, glicogeno, molti nuclei, mitocondri e altri organelli.

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COMPOSIZIONE CHIMICA

Circa il 75% del peso del muscolo è rappresentato da acqua, il 20% da matrice proteica e il rimanente 5% da sali inorganici, fosfati energetici, composti chimici vari, minerali (calcio, magnesio, fosforo), enzimi, ioni, aminoacidi, grassi e carboidrati.

La proteina più abbondante è la miosina, seguita da actina e tropomiosina[3].

ULTRASTRUTTURA DEL MUSCOLO SCHELETRICO

Ogni singola fibra muscolare contiene tante piccole unità funzionali dette fibrille o miofibrille, disposte longitudinalmente nella fibra stessa. Hanno diametro di 1µm e sono composte a loro volta da unità elementari detti filamenti o miofilamenti. I miofilamenti, a loro volta, contengono due proteine principali che sono l’actina e la miosina, di cui quest’ultima rappresenta l’85% circa del complesso miofibrillare. Inoltre, sono presenti altre proteine quali la tropomiosina, la troponina ed altre in misura minore (Figura 2) [3].

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Figura 2: Ultrastruttura muscolo scheletrico

Tramite il microscopio, possiamo vedere l’alternanza di bande chiare e scure lungo l’asse longitudinale della fibra muscolare che determina la tipica striatura. La zona chiara è denominata “banda I”, quella scura “banda A” e poi abbiamo la “linea Z” posta a metà della banda I. Tra le due linee Z è disposta l’unità funzionale e strutturale elementare del muscolo denominata sarcomero. Il sarcomero è disposto in serie, a differenza dei vari filamenti che sono disposti in parallelo, e la sua lunghezza a riposo è circa 2,5 µm. Al centro della banda

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A, corrisponde una zona detta “zona H”, dove mancano i filamenti di actina. Al centro di questa zona c’è la “linea M” che corrisponde al centro del sarcomero (Figura 3) [3].

Figura 3: Sarcomero

FIBRE MUSCOLARI

La disposizione delle fibre muscolari può variare in relazione all’asse maggiore del ventre muscolare, ovvero la retta che congiunge i punti di inserzione del

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muscolo. Il diverso orientamento delle fibre modifica la capacità del muscolo di generare forza.

Se l’orientamento delle fibre è parallelo all’asse principale del muscolo, le fibre sono dette fusiformi. Viceversa, se poste in modo obliquo all'asse principale vengono dette pennate.

Nel caso delle fibre in un muscolo fusiforme, come per esempio il muscolo bicipite brachiale, la lunghezza della fibra è uguale alla lunghezza del muscolo e la forza generata dalla fibra si trasmette direttamente al tendine. Questa disposizione favorisce un’elevata velocità di accorciamento durante la contrazione. Nel caso di un muscolo pennato, la disposizione obliqua delle fibre muscolari rispetto al tendine aumenta la sezione effettiva del muscolo rispetto alla disposizione fusiforme. Ne deriva che i muscoli con angolo di penna maggiore sono in grado di esercitare maggior forza e potenza ma con velocità di contrazione minore rispetto ai muscoli fusiformi (a parità di altri fattori), poiché più sarcomeri simultaneamente contribuiscono all’azione muscolare. I muscoli pennati differiscono dai fusiformi per le seguenti caratteristiche: contengono generalmente fibre più corte, presentano un numero più alto di singole fibre e generano movimenti di minor ampiezza [3].

TIPOLOGIA

I muscoli scheletrici non hanno una tipologia di fibre con stesse caratteristiche metaboliche e capacità contrattili.

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Attualmente, si differenziano due tipi di fibre muscolari distinguibili in base a morfologia, caratteristiche metaboliche e proprietà contrattili: le fibre rapide tipo II, dette anche bianche e le fibre lente tipo I, dette anche rosse [3].

FIBRE RAPIDE

Le fibre rapide presentano quattro proprietà:

-

Elevata velocità di trasmissione del potenziale d’azione;

-

Elevata concentrazione di miosin-ATPasi;

-

Possibilità di aumentare rapidamente, in seguito a depolarizzazione, la concentrazione citoplasmatica del calcio grazie alla presenza di un reticolo sarcoplasmatico molto sviluppato;

-

Elevata velocità di aggancio e sgancio dei ponti della miosina [3].

Queste proprietà fanno sì che ci sia uno sviluppo di forze elevate con alta velocità di contrazione. Le fibre rapide possiedono un sistema glicolitico di produzione energetica a breve termine ben sviluppato. L’attivazione di queste fibre è indispensabile in tutte quelle attività rapide di tipo anaerobico che richiedono elevata velocità e in quelle attività che richiedono elevata potenza principalmente incentrate sul metabolismo energetico di tipo anaerobico.

FIBRE LENTE

Le fibre lente provvedono alla resintesi dell’ATP per via aerobica. Presentano quattro proprietà [3]:

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-

Hanno una minor attività miosin-ATPasica;

-

I movimenti del calcio attraverso le cisterne si verificano con velocità inferiore e velocità di contrazione inferiore;

-

La capacità glicolitica è molto meno sviluppata rispetto alle fibre rapide;

-

Hanno un maggior numero di mitocondri di maggiori dimensioni [3].

Queste caratteristiche, unite all'elevata concentrazione mitocondriale di coenzimi che contengono ferro e all’alta concentrazione di mioglobina, conferiscono alle fibre il caratteristico colore rosso. Sono coinvolte soprattutto nelle attività di resistenza di tipo aerobico.

Essendo molto resistenti all’affaticamento, sono adatte a tutte quelle attività di aerobica prolungata. A differenza delle fibre bianche, vengono reclutate selettivamente nel corso dell’attività di tipo aerobico. Inoltre, godono di una maggior densità del letto capillare che le circonda e, in relazione all’afflusso di sangue che raggiunge il muscolo, sono favorite nel riceverne quantità molto superiori.

Le fibre muscolari rapide presentano diverse suddivisioni. E’ stato identificato il tipo IIa, con caratteristiche di transizione, cioè ad elevata capacità di contrazione e con discreta capacità aerobica e anaerobica. Alcuni indicano queste fibre con il nome di rapide ossidative glicolitiche (FOG, Fast-Oxidative-Glycolitic) [3].

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Un altro tipo identificato sono le IIb (indicate anche IIx) che possiedono il più grande potenziale anaerobico e la più elevata velocità di contrazione. Infatti, sarebbero le fibre che più caratterizzato il tipo II di quelle rapide e vengono anche nominate come rapide glicolitiche (FG, Fast Glycolitic) [3].

Esiste anche un tipo IIc, fibre di norma rare e indifferenziate, rilevabili nel corso di processi di re-innervazione che coinvolgono modificazioni delle caratteristiche e morfologiche funzionali dell’unità motoria [3].

Tabella 1: Classificazione delle fibre muscolari

Tipo di fibra

Caratteristiche Tipo IIB (rapide) Tipo IIA (rapide) Tipo I (lente) Attività elettrica Morfologia Colore Diametro fibra Densità capillari Volume Mitocondri

Fasica, alta freq.

FTb Bianche Elevato Bassa Piccolo FTa Bianche/rosse Intermedio Intermedio Intermedio

Tonica, a bassa freq.

ST Rosse Piccolo Elevata Elevata Biochimica Miosin-ATPasi Legame con il calcio Capacità glicolitica Capacità ossidativa FG Elevata Rapido Elevata Bassa FOG Elevata Intermedio Elevata Intermedia SO Bassa Lento Bassa Elevata Funzione e contrattilità Velocità contrazione Velocità rilasciamento Affaticamento Forza sviluppata FF FT Elevata Elevata Basso Elevata FR FT Elevata Elevata Intermedio Intermedio S ST Bassa Bassa Elevata Bassa

Da Kraus, W.E., “Skeletal muscle adaptation to chronic low frequency motor nerve stimulation”, Exerc. Sport.

Sci. Rev., 22:313, 1994.

FT = fast twitch (rapide); ST = slow twitch (lente); FG = fast glycolitic (rapide, glicolitiche); FOG = fast,

oxidative, glycolitic (rapide, ossidative, glicolitiche); SO = slow, oxidative (lente, ossidative); FF = fast, fatigable (veloci, che si affaticano rapidamente); FR fast resistant (veloci, resistenti alla fatica); S = slow (lente).

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FISIOLOGIA MUSCOLO SCHELETRICA

MITOCONDRIO

Figura 4: Mitocondrio

I mitocondri sono organuli coinvolti nelle trasformazioni energetiche. In particolare, la respirazione cellulare con la sintesi di ATP e sono presenti nel citoplasma di tutte le cellule degli esseri viventi a metabolismo aerobico. Sono costituiti da due membrane: una membrana interna che si estende nella matrice formando delle pieghe dette creste mitocondriali che contengono molecole cruciali per la produzione di ATP a partire da altre molecole. Una membrana esterna che delimita e separa il mitocondrio dal resto della cellula. Entrambe le membrane sono costituite da un doppio foglietto fosfolipidico (Figura 4) [4].

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La matrice mitocondriale ha consistenza gelatinosa a causa della concentrazione elevata di proteine idrosolubili. Essa contiene, infatti, numerosi enzimi, ribosomi e molecole di DNA circolare a doppio filamento.

La funzione principale dei mitocondri è quella di produzione di adenosintrifosfato (ATP), la molecola che fornisce energia per la costruzione e mantenimento delle cellule. Altre funzioni sono: regolazione del ciclo cellulare, regolazione dello stato redox della cellula, sintesi dell’eme, sintesi del colesterolo, produzione di calore, beta ossidazione degli acidi grassi.

Nella matrice mitocondriale si compie quello che viene chiamato ciclo di Krebs e la beta-ossidazione [4].

La respirazione cellulare è un processo di combustione nel quale i nutrienti, ridotti dalla digestione a componenti elementari (zuccheri semplici, aminoacidi, acidi grassi), vengono demoliti in molecole ancora più semplici, ottenendo energia disponibile alla cellula sotto forma di ATP. Generalmente per respirazione cellulare intendiamo la respirazione cellulare aerobica, in presenza di ossigeno. Per quanto riguarda la respirazione cellulare anaerobica, la più comune è la glicolisi, dove dal glucosio viene ottenuto il piruvato [4]. La respirazione cellulare la possiamo suddividere in quattro fasi: glicolisi, decarbossilazione del piruvato, ciclo di Krebs e fosforilazione ossidativa, dove parleremo solo di quest’ultima.

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La fosforilazione ossidativa è un processo che si trova in tutti gli organismi aerobi e negli eucarioti avviene nei mitocondri. E’ la parte finale della respirazione cellulare e si può suddividere in due fasi [5]:

- Nella prima fase gli elettroni dei coenzimi ridotti NADH e FADH2,

provenienti dall’ossidazione dei composti organici, vengono ceduti alla catena di trasporto degli elettroni per creare un gradiente protonico (ioni H+) nello spazio intermembrana del mitocondrio. La catena di trasporto è costituita da una serie di complessi proteici e composti lipo-solubili capaci di produrre un potenziale elettrochimico attraverso la membrana mitocondriale. Questo potenziale è usato per attivare i canali di trasporto e promuovere sintesi dell’ATP [5].

- Nella seconda fase questo stesso gradiente protonico viene sfruttato per azionare l’enzima transmembrana ATP-Sintasi, in grado di sintetizzare molecole di ATP a partire da ADP+P.

MECCANISMO DI CONTRAZIONE MUSCOLARE

In una fibra muscolare ci sono migliaia di filamenti di actina e miosina affiancati gli uni agli altri. Un filamento di miosina è circondato da 6 filamenti di actina (i filamenti di miosina sono più spessi e lunghi di quelli di actina). Questa particolare disposizione dei filamenti determina una suggestiva

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configurazione substrutturale. Una miofibrilla contiene 450 filamenti di miosina al centro del sarcomero e 900 filamenti di actina che si staccano dagli estremi del sarcomero e si protendono verso il centro di quest’ultimo. Una fibra muscolare contiene circa 8000 miofibrille, ogni miofibrilla contiene 4500 sarcomeri e in totale i sarcomeri contengono 16 miliardi di filamenti di miosina e 64 miliardi di filamenti di actina.

I filamenti di miosina sono formati da un fascio di molecole che presentano code polipeptidiche e teste globulari (Figura 5).

Figura 5: Struttura della miosina

I filamenti di actina si compongono di due catene di monomeri accoppiate e legate fra loro da catene polipeptidiche di tropomiosina. La troponina e la

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tropomiosina sono altre due molecole importanti nella struttura ad elica della miosina. Esse intervengono nel processo di aggancio e sgancio dei ponti della miosina con l’actina (Figura 6).

Figura 6: Struttura dell'actina

La tropomiosina si distribuisce lungo tutta la lunghezza dell’elica di actina e dal punto di vista chimico, previene la formazione del legame tra actina e miosina. Il complesso della troponina è disposto a intervalli spaziali regolari lungo la molecola di actina e possiede alta affinità per gli ioni calcio (essi sono coinvolti nel meccanismo della contrazione muscolare), infatti è proprio l’azione del calcio insieme alla troponina che dà il via al meccanismo della contrazione, innescando il legame tra i filamenti di miosina e actina e lo scivolamento degli uni sugli altri [3].

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SISTEMA TUBULARE INTRACELLULARE

All’interno della fibra muscolare si riscontra una complessa disposizione di sistemi canalicolari. L’estremità di ogni canale tubolare termina in una struttura vescicolare a sacco che immagazzina ioni calcio. C’è un’altra rete di tubuli, disposta in maniera perpendicolare alle miofibrille, che è il sistema dei tubuli T o trasversi (Figura 7). Questi tubuli T che attraversano la fibra, insieme alle cisterne, sono coinvolti nel processo di distribuzione dell’onda di depolarizzazione, associata al potenziale d’azione (trasmissione dell’eccitazione), dalla superficie della membrana a tutta la cellula muscolare e nel processo di innesco delle reazioni chimiche che portano alla contrazione muscolare. Quando un nervo motore libera abbastanza quantità di neuromediatore eccitatorio, a livello postsinaptico, si genera un fenomeno detto potenziale d’azione. Questo potenziale che si propaga lungo il sistema dei tubuli T, stimola le cisterne a rilasciare ioni calcio, che diffondono e attivano i filamenti di actina. La contrazione muscolare inizia nel momento in cui i ponti dei filamenti di miosina si agganciano contemporaneamente ai siti attivi posti sui filamenti di actina. Quando la stimolazione elettrica termina, la concentrazione di ioni calcio si riduce e questo fa sì che si determini il rilasciamento del muscolo [3].

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Figura 7: Sistema tubulare intracellulare

TEORIA DELLO SCIVOLAMENTO DEI

MIOFILAMENTI

La teoria dello scivolamento dei miofilamenti fu scoperta nei primi anni ’50, dai due biologi Hugh Huxley e Andrew Huxley [3]. Questa teoria enuncia quanto segue: le variazioni di lunghezza di un muscolo dipendono dallo

scivolamento dei filamenti spessi di miosina rispetto ai filamenti sottili di actina senza che questi varino effettivamente di lunghezza. La base molecolare di questo comportamento dipende dal fatto che i ponti della miosina sono in grado di reagire con l’actina e variare la conformazione strutturale

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realizzando quindi la possibilità di movimento reciproco dei due miofilamenti, il che risulta, in definitiva, in una variazione di lunghezza del sarcomero [3]. I

ponti della miosina reagiscono con l’actina e sono in grado di variare la loro conformazione strutturale, permettendo il movimento reciproco dei due miofilamenti che risulta alla fine in una variazione di lunghezza del sarcomero. Questo si traduce in una variazione relativa delle dimensioni delle bande e delle zone del sarcomero e trascinamento delle linee Z verso il centro del sarcomero (l’ATP è coinvolto in questo processo perché la sua idrolisi fornisce l’energia per la variazione strutturale delle teste della miosina).

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Come si può vedere (Figura 8), l’accorciamento del sarcomero è dato dallo scorrimento dell’actina sulla miosina. La banda I è quella che subisce la maggior variazione strutturale in termini di striatura, restringendosi in corso di contrazione. Non c’è variazione della dimensione della banda A (corrispondente alla lunghezza dei filamenti di miosina in un sarcomero). La zona H finisce per non essere più identificabile se i filamenti di actina si avvicinano troppo. Durante una contrazione isometrica, dove si genera forza senza variazione di lunghezza del muscolo, l’ampiezza della banda A e I rimane costante. In contrazione eccentrica la lunghezza del sarcomero aumenta e la zona H si allarga [3].

RUOLO DELLA MIOSINA, AGGANGIO-SGANCIO

CON L’ACTINA E RUOLO DELL’ATP.

La miosina, oltre a svolgere un ruolo meccanico, svolge anche un ruolo enzimatico. Infatti, la testa (parte globulare del ponte), contiene un ATPasi attivabile dall’actina a livello del punto di attacco della testa della miosina sulle molecole di actina. Questo porta alla idrolisi dell’ATP che libera energia per lo scivolamento dei filamenti. I ponti laterali della miosina non si muovono in modo sincrono, se così fosse la contrazione muscolare risulterebbe fatta da successivi sussulti, mentre invece in realtà è un processo continuo e finemente

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graduato. In ogni momento, ci sono circa il 50% dei ponti di miosina agganciati all’actina e si parla di complesso actomiosina che sviluppa di fatto l’azione contrattile [3].

Durante la contrazione muscolare i ponti della miosina oscillano in continuazione tra la posizione di aggancio e di rilascio, realizzando lo scivolamento dei miofilamenti.

Questo avviene durante una contrazione concentrica (il muscolo si accorcia), mentre durante la contrazione isometrica (il muscolo non si accorcia) i ponti possono soltanto agganciarsi sugli stessi punti di attacco dell’actina.

Il distacco del ponte (o testa) della miosina dall’actina si realizza quando l’ATP si lega al complesso actomiosina. Questa reazione permette al ponte della miosina di liberarsi dal legame e riportarsi alla condizione iniziale, per rigenerare un nuovo legame [3].

Reazione di dissociazione actomiosina:

Actomiosina + ATP —> Actina + Miosina - ATP [3]

L’energia, che si libera dall’idrolisi dell’ATP ad ADP e fosfato inorganico, viene convertita in energia meccanica. Uno dei siti attivi della testa del ponte della miosina si lega a un sito reattivo dell’actina.

Un altro sito della testa del ponte di miosina presenta l’enzima adenosin-trifosfatasi miofibrillare (miosin-ATPasi), attivato dall’actina stessa. [3]

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Questo provoca scissione di ATP e liberazione di energia chimica che si trasforma in energia meccanica.

Prima della contrazione, la testa della miosina è piegata attorno alla molecola di ATP. Dopo l’aggancio con l’actina e la scissione dell’ATP, si ha rilascio di energia meccanica che corrisponde alla variazione della conformazione strutturale della testa della miosina stessa, che si estende ed esercita una forza tale da generare lo scorrimento dei filamenti.

ACCOPPIAMENTO ECCITAZIONE-CONTRAZIONE

Con questo termine, si intende la sequenza di fenomeni innescati dalla liberazione del mediatore chimico a livello della placca neuromuscolare in seguito all’attivazione del nervo motore, che attraverso l’aumento della concentrazione del calcio intracellulare, si conclude con la contrazione muscolare.

A livello post sinaptico, il potenziale d’azione si distribuisce nella cellula muscolare e attraverso il sistema dei tubuli T, giunge alle cisterne del reticolo sarcoplasmatico, dove causa liberazione degli ioni calcio. Il calcio, legandosi con la troponina, determina l’aggancio tra actina e miosina e il muscolo si prepara alla contrazione. Questo determina anche la scissione dell’ATP, grazie

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all’azione dell’attica sull’enzima miosin-ATPasi, con liberazione dell’energia. La sequenza delle reazioni può essere schematizzata:

Actina + Miosina-ATPasi —> Actomiosina + ATPasi

La miosina-ATPasi è attivata per la scissione dell’ATP e la liberazione dell’energia causa il movimento dei ponti di miosina.

Actomiosina ATP —> Actomiosina + ADP + Pi + Energia

Il ponte si disaccoppia dall’actina quando l’ATP si lega al ponte di miosina. Il ciclo ricomincia fino a che la concentrazione di calcio rimane sufficientemente alta da permettere l’aggancio tra actina e miosina [3].

Nel momento in cui cessa la stimolazione proveniente del nervo motore, la concentrazione citoplasmatica di calcio diminuisce e si re-instaura l’azione inibitoria del complesso troponina-tropomiosina sul legame actina-miosina ed il calcio ritorna alle cisterne. Quindi, la scomparsa di calcio inattiva i punti di aggancio dell’actina per la miosina e viene inibita l’attività della miosina-ATPasi, il cui ruolo è di favorire la scissione di ATP.

Il rilasciamento muscolare si ha quando i filamenti di actina e miosina ritornano al loro stato iniziale.

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SCHEMA DEGLI EVENTI DELLA CONTRAZIONE

MUSCOLARE

La sequenza inizia con l’attivazione del nervo motore da parte di un ordine impartito dalla corteccia. L’impulso si propaga lungo la superficie della fibra muscolare (sarcolemma), depolarizzandola. Successivamente ci sono nove fasi [3]:

1. Liberazione del mediatore chimico acetilcolina. Una volta diffuso nello spazio post sinaptico, va a legarsi ai recettori.

2. L’acetilcolina modifica la permeabilità dei canali di membrana, da cui risulta una variazione del potenziale di membrana, innescando un potenziale d’azione. Il potenziale d’azione si propaga sulla superficie cellulare e raggiunge il sistema dei tubuli T.

3. La depolarizzazione dei tubuli T provoca rilascio del calcio dalle cisterne del reticolo sarcoplasmatico.

4. Il calcio, si lega al complesso troponina-tropomiosina sull’actina e rimuove l’inibizione al legame tra actina e miosin-ATP.

5. L’actina si combina con il complesso miosina-ATP durante la contrazione. Si attiva anche l’enzima miosin-ATPasi che idrolizza ATP, la cui scissione libera energia per cambiare la conformazione strutturale dei ponti di

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miosina: effetto meccanico di scivolamento dei filamenti di actina e miosina.

6. Affinché si realizzi lo scivolamento, la miosina si deve staccare dall’actina, grazie ad un nuovo legame della miosina con l’ATP. A questo punto i due miofilamenti scorrono l’uno sopra l’altro e il muscolo si contrae.

7. L’attivazione dei ponti continua fino a che la concentrazione di calcio rimane sufficientemente alta da inibire la formazione del complesso troponina-tropomiosina (si riparte dalla fase 4).

8. Se la stimolazione nervosa viene arrestata, il calcio diminuisce rapidamente e ritorna alle cisterne tramite trasporto attivo.

9. La riduzione di calcio ripristina l’inibizione del complesso troponina-tropomiosina sull’aggancio actina-miosina. La condizione di sgancio si mantiene fino a che c’è ATP nel citoplasma [3].

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CAPITOLO 3

METABOLISMO

Il metabolismo consiste in una serie di reazioni enzimatiche organizzate in processi e comprende tutte quelle trasformazioni che convertono i nutrienti in energia. Il corpo umano utilizza questa energia per svolgere le funzioni biologiche.

Il metabolismo può essere diviso in due parti dal punto di vista bioenergetico:

-

CATABOLISMO (degradazione), in cui i nutrienti sono degradati e scomposti per generare energia. Si ha demolizione da molecole complesse in molecole semplici. Questa fase produce energia.

-

ANABOLISMO (biosintesi), ovvero l’insieme di reazioni che ci portano alla formazione di materiale cellulare, alla crescita e la produzione delle cellule. Si ha produzione di molecole complesse a partire da molecole semplici. Questa fase consuma energia.

Quindi l’energia rilasciata dai processi catabolici viene utilizzata per mandare avanti i processi anabolici. Entrambi i processi hanno in comune la sintesi di un composto ad alta energia, l’ATP.

L’ATP (adenosina trifosfato) è considerata la valuta energetica della cellula e rappresenta il motore per tutti i processi cellulari che richiedono energia. Il suo

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doppio ruolo di accettore e donatore di energia rappresenta l’attività principale della cellula per:

1. Estrarre energia potenziale dagli alimenti e conservarla nei legami dell’ATP;

2. Estrarre e trasferire energia chimica della molecola di ATP per dare propulsione al lavoro biologico [3].

L’ATP viene di solito utilizzata nell’arco di un minuto dalla sua produzione ed il consumo corrisponde a circa 40 kg al giorno a riposo, mentre in caso di sforzo muscolare il consumo sale a 0,5 kg/min.

In ambito di esercizio fisico, l’energia utilizzata per la contrazione muscolare è fornita dalla scissione dell’ATP in ADP, cioè adenosina difosfato + Pi (fosfato inorganico) + energia. Per essere ricaricata in ATP, la molecola ADP riceve un gruppo fosfato, in un processo noto come ri-sintesi dell’ATP e può essere messo in atto dall’organismo mediante tre sistemi energetici:

-

SISTEMA AEROBICO o ossidativo, è utilizzato per quelle attività che superano i 2-3 minuti ed è un meccanismo nel quale siamo in presenza di ossigeno per ossidare i substrati energetici e produrre ATP. I substrati utilizzati prevalentemente sono i lipidi e i carboidrati (stoccati nel muscolo scheletrico e nel fegato). Questo sistema è il meno potente dei tre, infatti non garantisce prestazioni di alta intensità, ma garantisce prestazioni a lunga durata, come per esempio corsa, ciclismo, attività aerobiche fitness. Per

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attività inferiori a 20 minuti di durata si parla di glicolisi aerobica, in cui il glicogeno (epatico e muscolare) viene ossidato per produrre ulteriore ATP. Per attività superiori ai 20 minuti si parla di lipolisi aerobica e l’organismo fa più affidamento ai grassi per produrre ATP. Riguardo a queste due nozioni c’è da fare un appunto. Il glicogeno viene utilizzato per attività inferiori ai 20 minuti e non protraibili oltre i 20 minuti, in cui si ha un’intensità alta tale che i grassi non vengono utilizzati.

Infatti i grassi vengono utilizzati per attività superiori a 20 minuti con intensità bassa, oppure in condizioni di riposo, perché devono essere mobilizzati, trasportati e ossidati. Quindi durante una corsa a bassa intensità protraibile oltre i 20 minuti, l’organismo utilizza principalmente acidi grassi e non esiste una “linea netta” che separa il consumo del glicogeno da quello dei lipidi passato un certo tempo [3].

-

SISTEMA ANAEROBICO ALATTACIDO o dei fosfati, è il sistema energetico utilizzato per attività che richiedono grande velocità e potenza per brevissima durata (8-10 secondi), come salti, sprint, lanci e sollevamento pesi. A differenza del sistema aerobico, qui siamo in mancata presenza di ossigeno, da cui deriva il nome anaerobico. I substrati energetici utilizzati sono i fosfati, ovvero fosfocreatina (CP) e ATP. Questi forniscono energia immediata ai muscoli per eseguire sforzi rapidi e intensi, ma si esauriscono in un tempo molto breve.

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SISTEMA ANAEROBICO LATTACIDO o glicolitico, è il sistema energetico utilizzato per attività che richiedono forza e resistenza per un tempo di circa un minuto (il culmine attorno ai 40-45 secondi), esempio classico i 400 metri. Come per il sistema anaerobico alattacido siamo in mancata presenza di ossigeno e si ha inoltre produzione di acido lattico, sottoprodotto del glicogeno trasformato attraverso reazioni catalizzate da enzimi. I substrati energetici utilizzati sono i carboidrati sotto forma di glicogeno, stoccato nel muscolo e nel fegato [3].

RUOLO DEL

LATTATO

Nella glicolisi anaerobica, il piruvato, prodotto finale della glicolisi, subisce la riduzione a lattato, catalizzata dalla lattato deidrogenasi. Quando il muscolo è sottoposto ad esercizio intenso, la disponibilità di ossigeno è limitata e il NADH + H+, formatosi nella glicolisi, non può essere riossidato nella catena respiratoria. Il NADH allora viene riossidato nella reazione di riduzione catalizzata dalla lattato deidrogenasi, generando NAD+ e lattato [5].

Molto spesso acido lattico e lattato sono considerati come sinonimi, ma in realtà il lattato è una sostanza che si differenzia dall’acido lattico in quanto è priva di uno ione H+. L’acido lattico viene prodotto nei muscoli negli sforzi intensi e dopo una certa quantità, l’organismo non è più in grado di smaltirlo. Quando

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viene spostato dal muscolo al torrente ematico, perde uno ione H+ e prende il nome di lattato.

Il lattato prodotto dalle fibre ossidative di tipo I durante un esercizio ad alta intensità, terminato lo sforzo, può essere riconvertito in piruvato e riossidato all’interno della cellula stessa [5]. Invece, nel caso in cui il lattato venga prodotto in grandi quantità durante uno sforzo intenso dalla glicolisi anaerobica nelle fibre di tipo II, viene in gran parte trasportato all’esterno della cellula dove poi passa al circolo sanguigno, che lo trasporta ai tessuti per essere metabolizzato.

Quantitativamente, circa i 2/3 del lattato in circolo sono prelevati e ossidati da diversi organi (cuore, cervello, rene), mentre la restante parte è trasportata al fegato, che dopo la ri-ossidazione a piruvato, attraverso la gluconeogenesi lo converte in glucosio e potrà essere immagazzinato come glicogeno o rimesso in circolo per essere riutilizzato dal muscolo (ciclo di Cori Figura 9).

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La formazione del lattato ha diversi aspetti positivi. Un ruolo importante che veste è nella ri-ossidazione del NADH [5], reazione indispensabile per la prosecuzione della glicolisi anaerobica che altrimenti si arresterebbe in pochi secondi. Inoltre, la sua uscita dalla cellula permette di limitare e distribuire l’acidità al muscolo e all’intero organismo. L’aumento dell’acidità nei capillari che circondano la fibra muscolare diminuisce l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno, in modo da aumentare l’ossigenazione della cellula impegnata nell’esercizio.

Il lattato viene utilizzato anche come fonte energetica da altri organi, come il cuore, impegnato nello sforzo. Una piccola parte di lattato è eliminata con la sudorazione, mantenendo il pH acido della cute come meccanismo di difesa contro le infezioni.

QUOZIENTE RESPIRATORIO E FLESSIBILITA’

METABOLICA

Il quoziente respiratorio (QR) è un parametro che misura il rapporto tra anidride carbonica (CO2) espirata e ossigeno (O2) inspirato (CO2/O2),

consentendo di determinare la proporzione di grassi e carboidrati che vengono impiegati ai fini energetici [6]. Talvolta questa misura può essere denominata anche come non-protein respiratory quotient (npRQ), ovvero quoziente

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respiratorio non-proteico, poiché le proteine non contribuiscono ad apportare substrati energetici per il corpo in maniera significativa, pertanto il loro impatto sul QR viene generalmente ignorato [6].

Il QR è misurato calcolando il rapporto CO2 eliminato / O2 consumato. Grassi

e carboidrati hanno QR diversi e generalmente possiamo dire che alti valori di questo indicano un maggiore impiego di carboidrati, mentre valori più bassi indicano un maggiore impiego di grassi.

Il QR permette quindi di capire se il metabolismo è orientato prevalentemente verso l’impiego energetico di carboidrati o di grassi. I carboidrati hanno un QR di 1.0, mentre i grassi un valore di 0.7, quindi di conseguenza un QR di 1.0 denota un metabolismo spostato principalmente sull’impiego dei carboidrati, mentre un QR di 0.7 denota un metabolismo spostato principalmente sull’impiego dei grassi [7]. Valori intermedi, come 0.8, indicano un metabolismo misto. Il QR può scendere a valori inferiori di 0.7 durante il digiuno prolungato e nelle diete ad alto apporto proteico e lipidico e scarso apporto di carboidrati [8].

Il QR è influenzato dall’attività fisica, infatti, anche durante l’esercizio aerobico a bassa intensità (50% VO2 max), affrontato a digiuno, porta ad incrementare il QR da 0.8 a 0.9 nei primi 15 minuti di esercizio, indicando l’aumento dell’ossidazione dei carboidrati, per poi calare gradualmente fino a tornare ai livelli di digiuno post allenamento. “Anche il tipo di alimentazione,

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ipocalorica e ipercalorica, modificano i valori del QR. Per la prima, si denota un abbassamento del QR, mentre per la seconda un aumento di quest’ultimo. Inoltre il QR è influenzato dal sesso, adiposità, fattori ereditari e genetici [9].

Per quanto riguarda la flessibilità metabolica “è la capacità dell'organismo di

shiftare avanti e indietro tra i due maggiori substrati energetici - glucosio o acidi grassi - basandosi su disponibilità e fabbisogno degli stessi” (Vincenzo

Tortora).

Come abbiamo precedentemente detto, i substrati suddetti si correlano al QR, in quanto determinano differente utilizzo di anidride carbonica e ossigeno per il loro metabolismo, da parte dell’organismo.

In una condizione ideale abbiamo che:

-

Il QR dopo un pasto glucidico sia elevato, ovvero che le cellule stanno utilizzando prevalentemente carboidrati da quel pasto;

-

Il QR dopo un pasto ricco di grassi sia basso, ovvero che le cellule stanno utilizzando prevalentemente grassi;

-

Il QR a digiuno sia basso, indicando che le cellule stanno utilizzando grassi e non carboidrati (che deriverebbero da gluconeogenesi con conseguente catabolismo proteico).

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Questo ci fa dedurre che avere una scarsa flessibilità metabolica comporta il non ossidare lipidi durante il digiuno o dopo un pasto lipidico e che l’ossidazione di glucidi non aumenti dopo la loro assunzione. In pratica, si ha scarso controllo glicemico con maggior difficoltà a mantenere alti i livelli energetici e cognitivi dopo il pasto e una continua richiesta di glucosio in condizioni di riposo che significa avere fame prima e soprattutto fame di carboidrati. In soggetti con scarsa flessibilità metabolica, in condizioni ipocaloriche il metabolismo basale si abbassa, perché le cellule non sono capaci di utilizzare grassi a digiuno e utilizzano prevalentemente glucosio.

Le conseguenze di una scarsa flessibilità metabolica portano alla difficoltà nel raggiungimento del dimagrimento e salute. Possiamo infatti parlare di scarsa flessibilità metabolica nei confronti del glucosio e scarsa flessibilità nei confronti dei grassi: nel primo caso si riflette in una scarsa capacità dell’insulina di incrementare il QR, che è limitato dal fatto che le cellule non riescono ad assorbire bene il glucosio e ossidarlo perché ne sono resistenti (insulino resistenza). Nel secondo caso, si riflette in una scarsa capacità di ossidare grassi a riposo dovuto ad una alterata funzionalità mitocondriale [10]. E’ chiaro che tutto questo porta a scompensi metabolici importanti.

Per poter ripristinare una corretta flessibilità metabolica è opportuno agire su più fronti, soprattutto tramite la dieta e l’esercizio fisico [11].

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Il QR può “essere allenato” e subire le modificazioni indotte da un protocollo di training. Infatti i soggetti sedentari tendono ad avere un QR più shiftato verso il consumo dei carboidrati a riposo, mentre gli atleti presentano un QR più shiftato verso il consumo dei lipidi (condizione questa che li porta a produrre meno Ac. Lattico o quantomeno ad avere la soglia shiftata). Questo perché in un soggetto allenato la sensibilità insulinica è maggiore, quindi il glucosio è captato e immesso in maniera regolare all’interno del muscolo, così come la capacità e densità mitocondriale maggiore aiuta ad una migliore ossidazione lipidica in condizioni di riposo.

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CAPITOLO 4

ALLENAMENTO DELLA FORZA

La forza è la capacità di vincere e opporsi ad una resistenza esterna. Le diverse forme nelle quali essa si manifesta possono essere trattate sotto l’aspetto della forza generale e speciale.

Per forza generale si intende la forza di tutti i gruppi muscolari, per forza speciale intendiamo la sua espressione tipica in un determinato sport o correlata ad un suo muscolo specifico (esempio i muscoli che partecipano ad un determinato gesto sportivo) [12].

TIPI DI FORZA

Tabella 2: Tipi di forza e loro forme di manifestazione

Dalla forza si possono ricavare tre forme principali, ma recentemente ne è stata aggiunta una quarta: la forza massimale, la forza rapida, la forza resistente (o

Tipi di Forza

Massimale Rapida Resistente Reattiva Dinamica Statica Dinamica Statica Dinamica Statica Dinamica

Forza di lancio Forza di tenuta Forza di salto Sviluppo FR isom. RF di salto Forza di tenuta Forza elastica Forza di trazione Forza di trazione Forza di lancio RF di lancio Forza di stacco Forza di spinta Forza di pressione Forza di tiro RF di spinta Forza di colpo RF di colpo

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resistenza alla forza) e la forza reattiva. In tabella, le diverse capacità di forza e le loro diverse forme di manifestazione (Tabella 2) [12].

FORZA MASSIMALE

Rappresenta la massima forza possibile che il sistema neuromuscolare ha la possibilità di esprimere in una massima contrazione volontaria (Weineck) [12]. I valori di forza massima concentrica sono circa il 5-20% inferiori a quelli di forza massima isometrica, mentre i valori di forza massima eccentrica sono del 45% maggiori di quelli isometrici (cfr Buhrle 1985) [12].

Nella forza massimale, si distinguono la forza massimale statica e dinamica:

-

Forza massimale statica rappresenta la forza massima che il sistema neuromuscolare è in grado di esercitare in una contrazione volontaria contro una resistenza insuperabile;

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Forza massimale dinamica si può distinguere ulteriormente in positiva (concentrica) e negativa (eccentrica). Rappresenta la forza massima che il sistema neuromuscolare è in grado di esprimere durante un processo di movimento.

La forza massimale statica è sempre maggiore della forza massimale dinamica, perché la forza massimale si può esprimere solamente quando il carico e la forza contrattile del muscolo sono in equilibrio [12].

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Ci sono tre componenti principali da cui dipende la forza massimale, che sono:

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La sezione trasversale del muscolo, ovvero le sue dimensioni;

-

La coordinazione intermuscolare, ovvero la coordinazione tra i muscoli che lavorano insieme per un determinato movimento;

-

La coordinazione intramuscolare, ovvero la coordinazione interna al muscolo.

Per migliorare sulla forza massimale dobbiamo agire su ognuna di queste tre componenti, esempio, per migliorare sulla coordinazione intramuscolare possiamo fare esercitazioni di forza concentrica e eccentrica massimali di breve durata. Il miglioramento della coordinazione intramuscolare permette guadagni di forza massima senza che vi sia un aumento sostanziale della sezione trasversale del muscolo e del peso corporeo.

Per quanto riguarda l’aspetto energetico nella forza massimale, il ruolo spetta ai fosfati energetici (ATP, CP), poiché il massimo sviluppo della forza si realizza soltanto in pochi secondi o frazioni di secondo. Un carico massimale protratto all’esaurimento porta rapidamente ad una eccessiva acidosi intracellulare e quindi, ad una diminuzione della prestazione nella zona submassimale [12].

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FORZA RAPIDA

La forza rapida comprende la capacità del sistema neuromuscolare di muovere il corpo e le sue parti (arti superiori, inferiori) oppure oggetti (palloni, pesi, dischi, giavellotti) alla massima velocità [12].

La fora rapida può essere ben rappresentata attraverso i parametri della forza dello sviluppo nella curva forza-tempo (Figura 12). La forza iniziale (curva i primi 30ms) caratterizza la salita della forza all’inizio della sua produzione. La salita più ripida caratterizza la forza esplosiva, mentre la salita della forza fino al massimo del suo raggiungimento è definita forza rapida. L’espressione della forza rapida dipende quindi dalla forza iniziale, la forza esplosiva e dalla forza massimale [12].

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La rapidità di salita della curva, definibile come parametro della capacità di forza rapida, dipende da tre fattori principali:

-

Dal programma di tempo, che sono pattern elementari di movimento che non dipendono dalla forza, sono quei movimenti che prevedono impegni esplosivi di forza caratterizzati da un breve tempo iniziale, una velocità massima e impossibilità di corregge il movimento durante l’esecuzione. In sostanza, contrazioni più rapide possibili il cui svolgimento è pre-programmato.

-

Dal tipo di fibre muscolari attivate. Ricerche dimostrano come il grado di espressione dell’impulso iniziale di forza sia correlato direttamente con la percentuale di fibre FT. Gli atleti che praticano sport di potenza, velocisti o saltatori, hanno un patrimonio genetico più elevato di fibre FT, il che li rende più adatti a ottenere prestazioni migliori.

-

Dalla forza contrattile delle fibre muscolari reclutate, soprattutto delle fibre di tipo IIb. Occorre distinguere tra forza iniziale, dove si intende la capacità di riuscire a realizzare la massima salita possibile nella curva forza-tempo all’inizio della tensione muscolare, grazie alla capacità di riuscire a reclutare il massimo numero possibile di unità motorie all’inizio della contrazione. Poi la forza esplosiva, ovvero la capacità di riuscire a realizzare la salita più ripida nella curva forza-tempo, che dipende dalla rapidità di contrazione

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delle unità motorie, dal numero delle unità motorie che si contraggono contemporaneamente e dalla forza contrattile delle fibre reclutate. Se le resistenze al movimento sono scarse domina la forza iniziale, se aumentano le resistenze domina la forza esplosiva e successivamente la forza massimale se le resistenze aumentano ancora e sono elevate.

La correlazione tra forza massima e forza rapida acquista importanza quando usiamo carichi sempre più alti, vinci al massimale, quindi in correlazione al peso che dobbiamo spostare.

FORZA REATTIVA

La capacità dell'organismo di riuscire a realizzare in un tempo brevissimo il massimo impulso di forza concentrica dopo un movimento frenante (eccentrico) è definito regime reattivo di movimento (Schmidtbleicher, Gollhofer,1985).

Per forza reattiva si intende, perciò, la prestazione muscolare che, all’interno di un ciclo allungamento-accorciamento, genera un più elevato impulso di forza (cfr. Martin, Carl, Lehnertz 1991; Neubert 1999, 7; Steinhofer 2003) [12]. La forza reattiva è considerata una manifestazione della forza relativamente indipendente, a causa di particolarità nervose e meccaniche diverse rispetto alla forza rapida. I principali fattori da cui dipende sono: morfologico-fisiologici, coordinativi e motivazionali. Per quanto riguarda i fattori

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fisiologici, fanno parte la composizione corporea, la statura, capacità di attivazione muscolare, la stiffness e composizione delle fibre muscolari. Il fattore coordinativo è rappresentato dalla coordinazione intra e intramuscolare. I fattori motivazionali riguardano la forza di volontà e la concentrazione.

RESISTENZA ALLA FORZA

La capacità di resistenza alla forza può essere definita come capacità di opporsi alla fatica in carichi maggiori del 30% del massimo individuale di forza isometrica (Weineck) [12].

Ci sono tuttavia diversi concetti per quanto riguarda la resistenza alla forza. Ehlenz, Grosser, Zimmerman distinguono una resistenza alla forza massimale con carichi oltre il 75% della forza massimale, una resistenza alla forza sub massimale con carichi di media intensità al 50-75% della forza massimale e poi una resistenza alla forza aerobica con carichi dal 50 al 30% della forza massimale [12]. Schmidtbleicher, invece, intende resistenza alla forza la capacità del sistema neuromuscolare di produrre una somma di impulsi di forza più elevata possibile per un tempo stabilito (al massimo una durata di 2 minuti in un carico ad esaurimento) contro pesi elevati (maggiori del 30% della forza massima) [12].

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Alla luce di questi concetti, gli autori stabiliscono durate del carico di 45-60 secondi e consigliano un numero di ripetizioni di 25-30 a ritmo relativamente uniforme.

Poiché già al 20% della forza massima isometrica inizia a essere impedito il rifornimento di sangue arterioso ai muscoli, al 50% si perviene a una completa chiusura dei vasi, la resistenza alla forza presenta percentuali di metabolismo più aerobico o anaerobico o misto secondo l’intensità della forza contrattile sviluppata (cfr. Hollmann, Hettinger 1980) [12].

ALLENAMENTO DELLA FORZA – ACSM LINEE

GUIDA

L’allenamento contro resistenza può essere praticato in diversi modi, dai tradizionali pesi a corpo libero con bilancieri, manubri, macchinari isotonici, elastici ecc. La scelta di utilizzare un certo tipo di metodo e carico allenante dipende dal livello fisico del soggetto, dalla familiarità che esso ha con il movimento e l’esercizio e ovviamente dagli obiettivi.

L’American College of Sport Medicine (ACSM) raccomanda che un programma di allenamento di forza dovrebbe essere eseguito almeno due giorni a settimana, non consecutivi, con una serie da 8-12 ripetizioni per adulti sani o

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10-15 ripetizioni per persone più anziane e fragili. Dovrebbero essere inoltre eseguiti 8-10 esercizi che coinvolgano i maggiori gruppi muscolari [13].

L’ACSM sottolinea l’importanza della progressione nell’allenamento contro resistenza, definendola come l’atto di avanzare verso un obiettivo specifico nel tempo fino a che questo non è stato raggiunto [13]. Prima di parlare delle linee guida proposte dall’ACSM per quanto riguarda l’allenamento della forza, è bene accennare cosa siano intensità, volume, frequenza e recupero nell’allenamento della forza contro resistenza.

- Volume: per quanto riguarda il volume, è determinato dal numero di serie x il numero di ripetizioni di ogni esercizio svolto. Quindi, se vengono eseguite 5 serie e ad ogni serie vengono fatte 10 ripetizioni, il volume su quell’esercizio sarà di 50 ripetizioni totali. Sommando tutte le ripetizioni svolte di tutti gli esercizi si ottiene il volume di allenamento totale. Esiste un altro parametro, più preciso e corretto per definire il volume totale, che è il tonnellaggio. Nel tonnellaggio, oltre a moltiplicare serie x ripetizioni, moltiplichiamo anche il carico utilizzato in Kg, quindi: 5 serie x 10 ripetizioni x 50 Kg (carico utilizzato) = 2500. Appare evidente che il carico gioca un ruolo importante nel determinare il volume totale di allenamento. - Frequenza: generalmente viene intesa come frequenza settimanale, ovvero quante sedute di allenamento vengono svolte all’interno della settimana, contando anche eventuali sedute extra nel corso della solita giornata.

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- Intensità: nell’ambito dell’allenamento contro resistenza e in particolare in quello della forza tramite utilizzo di sovraccarichi, l’intensità si riferisce alla quantità di carico utilizzato in relazione all’1RM, ovvero quel carico che ti permette di fare una singola ripetizione massimale. In questo caso l’intensità dell’allenamento viene calcolata come percentuale dell’1RM. L’intensità di carico può essere valutata anche in base al n° di ripetizioni massimali: 6 o meno ripetizioni equivalgono ad un carico impegnativo con effetti notevoli per quanto riguarda la forza massimale, mentre 20 ripetizioni o più esercitano effetti diversi spostandosi verso una forza resistente.

- Recupero: il periodo di recupero tra una serie e l’altra influenza direttamente il livello d’intensità dell’allenamento. Durante questa fase vengono ripristinate le scorte di ATP+Pc e il lattato accumulato viene metabolizzato. Periodi di riposo breve fanno si che i carichi utilizzati non siano molto elevati e di conseguenza vengono svolti lavori a maggiori ripetizioni. Ad intensità più elevate il numero di ripetizioni scende, a favore di carichi maggiori con conseguenti recuperi più ampi.

Le linee guida secondo l’ACSM, per quanto riguarda l’allenamento di forza, suggeriscono [13]:

- Intensità intorno al 60-70% 1RM per principianti e intermedi, mentre per gli avanzati intensità da 80-100% 1RM.

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- Volume di 1-3 serie da 8-12 ripetizioni per i principianti e intermedi, mentre per gli avanzati 2-6 serie da 1-8 ripetizioni.

- Periodo di riposo tra le serie di 2-3 minuti per gli esercizi più intensi che richiedono l’uso di carichi più alti, 1-2 minuti per gli esercizi meno intensi con carichi più bassi.

ADATTAMENTI FISIOLOGICI INDOTTI

DALL’ALLENAMENTO COI SOVRACCARICHI

Il sistema neuromuscolare è uno dei sistemi che risponde meglio all’allenamento. Un allenamento di forza di 3-6 mesi può registrare un aumento della forza dal 25% al 100% [14]. Il muscolo è molto sensibile all’allenamento, infatti sia dimensioni e forza aumentano rapidamente, così come in seguito ad immobilizzazione perdono rapidamente in forza e diminuiscono le dimensioni.

MECCANISIMI DELL’AUMENTO DI FORZA

In passato e per molti anni, l’aumento di forza è stato considerato come conseguenza diretta di una sviluppata ipertrofia muscolare (aumento delle dimensioni del muscolo). Questa supposizione era logica, infatti coloro che sollevavano alti pesi erano grossi e sviluppavano muscolature degne di nota,

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oltre al fatto che durante un periodo di immobilizzazione la dimensione del muscolo diminuiva nettamente e di conseguenza diminuiva anche la forza. Quindi, la forza dipende anche dalle dimensioni del muscolo, ma non è l’unico fattore [14]. Diversi studi rilevano una crescente numero di dati che mostrano come anche il controllo neurologico del muscolo nel corso dell’allenamento subisce speciali modificazioni e permette al muscolo in questione di esprimere più forza [14].

CONTROLLO NEUROLOGICO, SINCRONIZZAZIONE

E RECLUTAMENTO DI UNITA’ MOTORIE

L’importanza di una componente neurologica spiegherebbe in parte l’aumento di forza prodotto nell’allenamento coi sovraccarichi. Enoka ha sostenuto che un aumento di forza può essere ottenuto senza modificazioni strutturali nel muscolo, ma non senza adattamenti nervosi [15]. Il reclutamento delle unità motorie è molto importante per l’aumento della forza e potrebbe spiegare l’aumento di questa senza ipertrofia muscolare.

Il reclutamento delle unità motorie avviene in genere in maniera asincrona, ovvero non tutte le unità motorie vengono attivate nello stesso istante. La contrazione e il rilasciamento delle fibre muscolari dipende dalla quantità di impulsi ricevuti dall’unità motoria in un dato istante. L’unità motoria è attivata

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e le sue fibre muscolari si contraggono quando gli impulsi eccitatori in arrivo superano quelli inibitori, raggiungendo la soglia necessaria [14].

L’aumento di forza potrebbe dipendere a delle modifiche ai motoneuroni all’interno del midollo spinale, che consentirebbe alle unità motorie di agire in maggior sincronia e quindi aumentare la capacità di contrazione e generare forza. L’aumento della sincronizzazione delle unità motorie a seguito di allenamento coi sovraccarichi è ben supportato, diversamente il fatto che il reclutamento sincronizzato delle unità motorie produca una contrazione più vigorosa è ancora controverso [16] [17] [18]. E’ chiaro che la sincronizzazione aumenta il tasso di sviluppo della forza e la capacità di esprimere una forza costante [14].

Un altro fattore potrebbe essere che un numero maggiore di unità motorie viene reclutato per eseguire un gesto motorio, indipendentemente dal fatto che queste agiscono all’unisono o meno. Questo miglioramento nel reclutamento potrebbe derivare da un aumento dell’impulso nervoso diretto al muscolo durante la contrazione massimale [14]. In base a questo, diverse ricerche confermano queste teorie, altre invece non concordano pienamente, dicendo che anche nel muscolo non allenato tutte le unità motorie vengono reclutate [17] [19].

Per quanto riguarda altri fattori nervosi da considerare nell’incremento di forza, uno di questi è la coattivazione, o attivazione concomitante dei muscoli agonisti e antagonisti. I muscoli agonisti sono i motori primari, mentre quelli antagonisti

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agiscono per contrastare gli agonisti, così se prendiamo ad esempio la flessione dell’avambraccio sul braccio, avremo il bicipite come muscolo agonista, mentre il tricipite come antagonista. Se entrambi sviluppassero la stessa forza, non ci sarebbe movimento, quindi per massimizzare la forza prodotta da un muscolo agonista, dobbiamo minimizzare la coattivazione [20]. Una riduzione della coattivazione potrebbe spiegare parte degli miglioramenti di forza attribuiti ai fattori nervosi.

Un altro fattore che potrebbe portare a incrementare la forza nel muscolo è il rate coding, che indica la frequenza di scarica delle unità motorie. Sono state osservate anche particolari modificazioni a livello della giunzione neuromuscolare, sia con incrementi che diminuzioni dei livelli di attività, che potrebbero essere direttamente correlati alle capacità del muscolo di produrre forza [21].

INTERAZIONE TRA IPERTROFIA DELLA FIBRA E

ATTIVAZIONE NERVOSA

Le ricerche sugli adattamenti indotti dall’allenamento con sovraccarichi indicano che gli incrementi di forza massima, ottenuti all’inizio, sono dati essenzialmente ad adattamenti neurologici che incrementano l’attivazione volontaria del muscolo. Tutto ciò è dimostrato da uno studio condotto su

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uomini e donne che avevano eseguito un allenamento di forza ad alta intensità per 8 settimane, allenandosi 2 volte a settimana [22]. In questo esperimento furono effettuate biopsie muscolari, ripetute ogni 2 settimane durante il periodo di allenamento. I risultati furono che la forza, valutata con il 1RM, aumentò considerevolmente, mentre per quanto riguarda gli incrementi della sezione trasversa della fibra muscolare furono soltanto modesti, statisticamente non significativi. Quindi gli incrementi di forza erano dovuti in misura maggiore ad un incremento dell’attivazione nervosa.

Sul lungo termine invece, gli incrementi di forza pare siano dovuti all’ipertrofia del muscolo allenato [23]. Si ritiene che il contributo maggiore dei fattori nervosi avvenga nelle prime 8-10 settimane di lavoro, successivamente il contributo dell’ipertrofia aumenta progressivamente diventando preponderante.

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CAPITOLO 5

MASSIMO CONSUMO DI OSSIGENO

L’organismo umano per potersi mantenere in vita deve costantemente produrre energia per consentire ai propri organi di adempiere alle proprie funzioni. In condizioni di riposo il cuore continua a battere, i polmoni continuano a garantire ossigeno, il cervello è sempre attivo ed energia viene continuamente prodotta ed utilizzata. Una gran parte dell’energia chimica necessaria a tutti i processi fisiologici deriva dalla reazione di ossidazione tra l’ossigeno (fosforilazione ossidativa) e i composti base della nostra alimentazione (glucidi, grassi, proteine). Il prodotto finale del metabolismo (CO2) deve poi

essere poi eliminato e questo avviene prevalentemente attraverso i polmoni [14].

L’ossigeno, tramite l’aria inspirata, prevede l’ingresso nelle prime vie aeree e successivamente nei bronchi e bronchioli. In questo spazio, definito spazio morto, non c’è scambio di gas tra aria e sangue. L’ingresso dell’aria negli alveoli quando sono perfusi consente il passaggio dell’ossigeno e dell’anidride carbonica attraverso la membrana alveolo-capillare per gradiente di pressione. L’ossigeno dall’alveolo (PAO2= 100 mmHg) passa nel capillare dove il sangue

arriva con una PO2= 40 mmHg ed una PCO2= 46 mmHg, quest’ultima passa

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