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RICERCA DI BRUCELLA SUIS TIPO II NEL CINGHIALE IN TOSCANA.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE MEDICO VETERINARIE

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE

IN SANITA’ ANIMALE , ALLEVAMENTO E

PRODUZIONI ZOOTECNICHE

Direttore: Prof. Domenico Cerri

RICERCA DI BRUCELLA SUIS TIPO II NEL CINGHIALE

IN TOSCANA

candidato:

relatore:

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Indice:

1. CAPITOLO 1 SPECIE OGGETTO DI STUDIO 3

1.1 Cinghiale 3

2. CAPITOLO 2 NORMATIVA RIGUARDANTE LA FAUNA SELVATICA E LA SUA GESTIONE SUL TERRITORIO

2.1 normativa di riferimento 9

2.2 controllo 10

2.3 normativa allevamento selvaggina 12 2.4 normativa riguardo attività venatoria 13 3. CAPITOLO 3 PROBLEMATICHE DI PROMISCUITA’

DOMESTICO-SELVATICO 22

4. CAPITOLO 4 BRUCELLA spp 27

4.1 Cenni storici 27

4.2 Tassonomia 28

4.3 Morfologia e struttura antigenica 30

4.4 Brucellosi nell’uomo 33

4.5 Brucellosi negli animali domestici 35 4.6 Brucellosi nel maiale e nel cinghiale 37

5. CAPITOLO 5 SCOPO 41

6. CAPITOLO 6 MATERIALI E METODI 42

6.1 Campionamento 42

6.2 Modalità operative 43

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RIASSUNTO

La brucellosi è è una malattia infettiva di origine batterica sostenuta da Brucella suis, comune a diverse specie animali. In particolare si conosce l' esistenza di 5 biovarianti, di cui tre (biovar 1, 2, 3) rivestono importanza soprattutto nella patologia dei suidi e dei lagomorfi, mentre le biovar 4 e 5 riconoscono come ospiti abituali i ruminanti in nord Europa e nelle zone artiche.

La biovar 1, il cui ospite abituale è il suino, è stata segnalata diffusamente in America Latina, Sud degli Stati Uniti, Asia, Australia e per quanto riguarda l' Europa, limitatamente in Spagna. È caratterizzata da forte patogenicità per l' uomo.

La biovariante 2 è diffusa soprattutto in Europa, specificamente nei Paesi dell' Est dove la lepre (Lepus europaeus) ne rappresenta il principale serbatoio naturale. Dal 1995 la presenza di questa biovariante è stata segnalata in più occasioni anche in Italia, nella lepre, probabilmente proveniente dall’Est Europa e soprattutto nel cinghiale.

ABSTRACT

B. suis consists of five biovars, however infection in pigs is caused by the first three biovars (biovars 1, 2, and 3). Infection of animals caused by biovars 1 and 3 differs from that caused by biovar 2 in the host specificity and geographical distribution. In the context of public health, biovar 2 is very rarely pathogenic for humans, whereas biovars 1 and 3 are highly pathogenic causing severe disease in human beings.

Wild boars (Sus scrofa) are indigenous in many countries in the world. These free-living swine are known reservoirs for a number of viruses, bacteria and parasites that are transmissible to domestic animals and humans. Changes of human habitation to suburban areas, increased use of lands for agricultural purposes, increased hunting activities and consumption of wild boar meat have increased the chances of exposure of wild boars to domestic animals and humans. Wild boars can act as reservoirs for many important infectious diseases in domestic animals like brucellosis.

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1. SPECIE OGGETTO DI STUDIO

1.1 Cinghiale:

(Sus scropha Linneaus, 1758)

Inquadramento sistematico: -Classe : Mammiferi -Superordine : Ungulati -Ordine : Artiodattili -Sottordine : Suiformi -Famiglia : Suidi -Sottofamiglia : Suini -Genere : Sus -Specie : scropha

Il cinghiale è universalmente riconosciuto come progenitore del suino domestico, da cui si differenzia per alcune e particolari caratteristiche morfologiche.

A differenza del maiale il treno posteriore è meno sviluppato di quello anteriore, la testa è grande (fino ad un terzo della lunghezza totale), il muso è più lungo e rettilineo e termina con un grifo , particolarmente adatto allo scavo e alla ricerca del cibo. Il collo è corto e muscoloso e il tronco, compresso lateralmente, è alto e largo nella parte

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anteriore. Gli arti sono corti ma estremamente funzionali e dotati di quattro unghie (unghioni e unghielli).

Peso: il peso varia in base all’età, al sesso e alle condizioni ambientali, da 80 a 150 kg nei maschi adulti, da 60 a 150 nelle femmine adulte. L’incremento ponderale in entrambi i sessi è veloce fino all’anno di età, quando i giovani cinghiali raggiungono i 45 kg. Nel secondo anno di vita, mentre le femmine si assestano intorno ai 50 kg, i maschi continuano ad aumentare e in alcuni casi si raggiungono differenze ponderali di 40 kg fra i due sessi.

Mantello: il mantello è composto da setole lunghe e rade e da sottopelo (borra) particolarmente fitto d’inverno.

Fig.1 cinghiale maschio con mantello invernale [foto l&v]

Il riconoscimento ufficiale delle classi di età viene effettuato attraverso lo studio della tavola dentaria , valutando tempi di eruzione, di sostituzione (da latte a definitivi) e di usura dei denti; nei maschi adulti sono particolarmente sviluppati i canini sia superiori

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che inferiori, a crescita continua: quelli superiori, chiamate “coti” sono ricurvi verso l’alto e poggiano sul lato interno di quelli inferiori chiamati “difese”.

Riconoscimento in vita: non presenta un evidente dimorfismo sessuale: negli individui adulti, i maschi hanno ben visibili , soprattutto con mantello estivo, i testicoli, il ciuffo penieno presente sul prepuzio e i denti canini particolarmente sviluppati e sporgenti all’esterno della cavità orale. Nella femmina un carattere evidente è rappresentato dai capezzoli mammari, soprattutto durante l’allattamento. La differenziazione dei sessi diventa particolarmente difficile nel periodo invernale , a causa del mantello infoltito e allungato, che può mascherare questi caratteri.

Il riconoscimento dell’età degli animali in natura è basato soprattutto sul colore del mantello che permette di distinguere tre classi:

a - striati : individui nati nell’anno, con mantello a strisce chiare e scure longitudinali, che vengono mantenute fino a quattro mesi;

b - rossi : con mantello a livrea rossiccia, che permane fino intorno all’anno di età; c - adulti : con mantello bruno più o meno scuro, dovuto all’ampia variabilità individuale.

Cenni di biologia e distribuzione:

La specie si caratterizza per la spiccata adattabilità alle più disparate condizioni ambientali, purchè siano presenti caratteristiche fondamentali per la sua biologia, quali, presenza d’acqua, per il suo bagno quotidiano detto “insoglio” vegetazione folta e ricca di essenze appetibili che possano fornire alimento, terreno che rende possibile la ricerca del cibo attraverso l’utilizzo del grugno (o grifo). L’habitat più favorevole è comunque quello dei boschi mesofili di quercia, faggio e castagno, alternati a cespuglieti e prati-pascolo con buona presenza di acqua.

Il cinghiale è onnivoro, con un ampio spettro alimentare, che spazia dagli alimenti di origine vegetale a quelli di origine animale. La ricerca delle fonti trofiche è principalmente indirizzata verso quelle a più alto contenuto energetico; si nutre di tuberi, radici, frutti del sottobosco, ghiande, castagne, larve, insetti, piccoli roditori e

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altri animali e carogne, soprattutto durante l’inverno. Si è valutato che la componente animale nella dieta del cinghiale è circa del 5-10% del pasto( Boano; Bassano et al.,1995 ).

Il nucleo famigliare (definito branco) su cui si articola una popolazione di cinghiali è quello della femmina con i piccoli. Più femmine si riuniscono a formare gruppi omogenei, che hanno una composizione eterogenea, comprendenti piccoli, sub-adulti e adulti. I maschi adulti sono solitamente solitari (definiti solenghi) e raggiungono i gruppi di femmine solo nel periodo riproduttivo, ricercando attivamente le femmine in estro.

La prolificità è strettamente legata alla presenza di risorse trofiche e alle condizioni meteorologiche, tanto che , in rari casi, le femmine possono riprodursi anche due volte in un anno. Il periodo degli accoppiamenti è compreso tra novembre e gennaio. In genere tra marzo e maggio, dopo una gestazione di circa 4 mesi, la femmina partorisce da 3-4 fino a 10 piccoli in un covo, detto lestra, ricavato in asperità del terreno nel fitto della boscaglia e ricoperto di frasche . I piccoli sono allattati fino a 40-60 giorni, e diventano completamente indipendenti dalle cure materne all’età di 5-6 mesi, mentre la maturità sessuale viene raggiunta tra i 10-18 mesi, mentre la maturità sociale soltanto dopo i tre anni.

In Italia la specie aveva una buona distribuzione in epoca storica, ma già a partire dal XVII secolo si sono susseguite lunghe serie di estinzioni locali , che hanno portato alla scomparsa totale del cinghiale dal Nord Italia ed alla separazione delle popolazioni centro-meridionali da quelle centro-europee. La ricomparsa del cinghiale nell’Italia del nord e la sua ridistribuzione si assiste a metà degli anni 60, conseguentemente all’abbandono delle campagne nella fascia altitudinale 500-1400 mslm da parte dell’uomo che ha permesso l’invasione da parte di arbusti e sottobosco di prati e pascoli. A questo cambiamento della struttura e della gestione del bosco è conseguita un’accresciuta disponibilità di castagne ghiande e faggiole, non più utilizzate per alimentazione umana e del bestiame. Parallelamente l’espansione della specie è stata anche favorita dalle immissioni di animali sul territorio a scopo venatorio(Cesaris C., 2004 ; Bassano B., Perrone A., 1995).

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La distribuzione nel nostro paese è attualmente omogenea, dalla Valle d’Aosta, attraverso le Alpi occidentali e gli Appennini, sino alla Calabria, in Sardegna e Sicilia, nonché in alcune zone prealpine e di media montagna di Lombardia, Veneto, Trentino e Friuli-Venezia Giulia. Una stima approssimata indica in non meno di 300.000 – 500.000 gli individui che compongono la popolazione italiana ( Pedrotti et al.,2001).

Fig.2-3 cinghiale femmina con lattonzoli nella lestra e femmina con mantello invernale (foto l&v)

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2. NORMATIVA RIGUARDANTE LA FAUNA

SELVATICA

E

LA

SUA

GESTIONE

SUL

TERRITORIO

2.1 Normativa di riferimento:

La normativa nazionale in materia di fauna selvatica risulta in parte ancora legata, come per altre norme in molti altri campi, ad una legiferazione che risale anche agli anni 30, per ovviare a questo ammanco di attualità normativa, lo stato ha deciso di approvare nel febbraio del 1992 la legge quadro sulla caccia n.157 recante il titolo: “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” pubblicata sulla g.u. il 25 febbraio 1992, n. 46 s.o. L’articolo1 della legge 157/1992 recita: “La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale”. È infatti importante partire proprio da questo principio per comprendere la portata di questa legge, che ha definitivamente sancito lo status di bene prezioso e indisponibile degli animali selvatici.

Già affermato dalla precedente legge, la n. 968 del 1977, lo status della fauna quale patrimonio indisponibile della collettività è la garanzia fondamentale perché essa possa essere oggetto di conservazione e tutele adeguate. In passato, gli animali selvatici erano “res nullius”, cosa di nessuno, oggetti dei quali chiunque, sebbene secondo determinate regole, poteva disporne.

La crisi che nel tempo ha colpito molte specie animali – con la caccia eccessiva o la distruzione degli habitat – ha spinto la comunità internazionale, e molte comunità nazionali, a prevedere un sistema diverso, fondato sul principio dell’indisponibilità e di una più ampia protezione.

È quanto accaduto anche in Italia, dove la fauna selvatica da “cosa di nessuno” è diventata un bene collettivo da tutelare.

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La legge n. 157/1992 ha proprio il compito di tutelare gli animali selvatici e regolamentare la caccia (la forma più diretta e diffusa di abbattimento degli animali selvatici) in modo che essa si svolga senza pregiudicare la conservazione di specie e popolazioni: rispettando i periodi consoni, evitando di esercitarsi su specie in stato di conservazione negativo, utilizzando mezzi e sistemi adeguati. In definitiva, potendo svolgersi solo se realmente “sostenibile” e in una disciplina “concessoria” (cioè, “per una concessione che lo Stato rilascia ai cittadini che la richiedano e che posseggano i requisiti previsti dalla presente legge”). Composta da 38 articoli (i 37 originari più l’articolo 19 bis, introdotto nel 2002), la 157/1992 è una legge molto articolata, che funziona come “legge quadro”, cioè riferimento giuridico entro cui le regioni devono muoversi con le proprie normative di recepimento. Va infatti ricordato, in proposito, che la Costituzione italiana (e la stessa legge 157) assegna alle regioni i compiti di attuazione della materia venatoria, lasciando tuttavia in capo allo Stato il compito primario di tutelare la fauna e la biodiversità in genere (articolo 117, 2, lettera s della Costituzione), stabilendo le misure minime e insormontabili di tutela.

2.2 Controllo

L’articolo 1 della legge 157/1992 sancisce i principi generali, gli strumenti di protezione (ad esempio la tutela delle rotte di migrazione) e i recepimenti delle normative internazionali. L’articolo 2 afferma che tutte le specie di uccelli e mammiferi – la cosiddetta fauna “omeoterma” –

Dopo la legge 157/1992 il parlamento non ha più operato nella stesura di nuove normative che apportassero modifiche e miglioramenti, a parte l’aggiunta dell’art. 19 bis nel 2002, alla ormai scarsamente attuale legge quadro, perciò purtroppo la norma non è stata aggiornata seguendo le emergenti situazioni problematiche createsi per cause diverse, dalla promiscuità selvatico-domestica, immissioni sul territorio libero di specie alloctone, inurbamento delle specie selvatiche e non ultimo la gestione sanitaria di queste particolari situazioni.

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Art. 19. (Controllo della fauna selvatica)

1. Le regioni possono vietare o ridurre per periodi prestabiliti la caccia a determinate specie di fauna selvatica di cui all'articolo 18, per importanti e motivate ragioni connesse alla consistenza faunistica o per sopravvenute particolari condizioni ambientali, stagionali o climatiche o per malattie o altre calamità.

2. Le regioni, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l'utilizzo di metodi ecologici su parere dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l'Istituto verifichi l'inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno altresì avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purchè muniti di lincenza per l'esercizio venatorio, nonchè delle guardie forestali e delle guardie comunali munite di licenza per l'esercizio venatorio.

3. Le provincie autonome di Trento e di Bolzano possono attuare i piani di cui al comma 2 anche avvalendosi di altre persone, purchè munite di licenza per l'esercizio venatorio.

Fig. 4. Immagine di abbattimenti in regime di controllo numerico della specie cinghiale (foto repertorio personale)

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2.3 Norme sull’allevamento della selvaggina selvatica:

La legge 157/1992 si prefigge di regolamentare oltre che al prelievo venatorio anche le metodologie di allevamento della selvaggina e della fauna selvatica in generale, e lo fa nell’ art. 17:

Art. 17.(Allevamenti)

1. Le regioni autorizzano, regolamentandolo, l'allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale ed amatoriale.

2. Le regioni, ferme restando le competenze dell'Ente nazionale per la cinofilia italiana, dettano altresì norme per gli allevamenti dei cani da caccia.

3. Nel caso in cui l'allevamento di cui al comma 1 sia esercitato dal titolare di un'impresa agricola, questi è tenuto a dare semplice comunicazione alla competente autorità provinciale nel rispetto delle norme regionali.

4. Le regioni, ai fini dell'esercizio dell'allevamento a scopo di ripopolamento, organizzato in forma di azienda agricola, singola, consortile o cooperativa, possono consentire al titolare, nel rispetto delle norme della presente legge, il prelievo di mammiferi ed uccelli in stato di cattività con i mezzi di cui all'articolo 13.

TIPOLOGIE DI ALLEVAMENTO FAUNA SELVATICA (Legge 157/92;

L.R. 7/95, D.G.R.M. 13/11/95)

Chiunque intende allevare fauna selvatica a scopo:

a) di ripopolamento, quali: ungulati (escluso cinghiale), fagiano, starna, coturnice, lepre. Ammesse anche specie non cacciabili su parere favorevole Istituto Nazionale per Fauna Selvatica;

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c) ornamentale ed amatoriale, compresa fauna selvatica non italiana nel limite massimo di: 2 capi per ungulati; 5 capi per lagomorfi; 10 capi per galliformi ed anatidi. Nessun limite per fringuelli di specie europea ed altre specie cacciabili;

d) di richiamo: tutte le specie cacciabili

2.4 Normativa riguardo l’attività venatoria:

L’attività venatoria sul territorio nazionale viene regolamentata, come per altro nel caso dell’allevamento della selvaggina, dalla legge quadro 157/1992, che ne definisce gli scopi, l’attuabilità e le specifiche. Sono sostanzialmente quattro gli articoli che descrivono e definiscono l’attività venatoria vera e propria, l’art. 12 , 13 , 14 ,15; qui di seguito riportati:

Art. 12.

(Esercizio dell'attività venatoria)

1. L'attività venatoria si svolge per una concessione che lo Stato rilascia ai cittadini che la richiedano e che posseggano i requisiti previsti dalla presente legge.

2. Costituisce esercizio venatorio ogni atto diretto all'abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l'impiego dei mezzi di cui all'articolo 13.

3. E' considerato altresì esercizio venatorio il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla.

4. Ogni altro modo di abbattimento è vietato, salvo che non avvenga per caso fortuito o per forza maggiore.

5. Fatto salvo l'esercizio venatorio con l'arco o con il falco, l'esercizio venatorio stesso puo' essere praticato in via esclusiva in una delle seguenti forme:

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b) da appostamento fisso;

c) nell'insieme delle altre forme di attività venatoria consentite dalla

presente legge e praticate nel rimanente territorio destinato all'attività venatoria programmata.

6. La fauna selvatica abbattuta durante l'esercizio venatorio nel rispetto delle disposizioni della presente legge appartiene a colui che l'ha cacciata.

7. Non costituisce esercizio venatorio il prelievo di fauna selvatica ai fini di impresa agricola di cui all'articolo 10, comma 8, lettera d).

8. L'attività venatoria puo' essere esercitata da chi abbia compiuto il diciottesimo anno di età e sia munito della licenza di porto di fucile per uso di caccia, di polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall'uso delle armi o degli arnesi utili all'attività venatoria, con massimale di lire un miliardo per ogni sinistro, di cui lire 750 milioni per ogni persona danneggiata e lire 250 milioni per danni ad animali ed a cose, nonchè di polizza assicurativa per infortuni correlata all'esercizio dell'attività venatoria, con massimale di lire 100 milioni per morte o invalidità permanente.

9. Il Ministro dell'agricoltura e delle foreste, sentito il Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale, provvede ogni quattro anni, con proprio decreto, ad aggiornare i massimali suddetti.

10. In caso di sinistro colui che ha subito il danno puo' procedere ad azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione presso la quale colui che ha causato il danno ha contratto la relativa polizza.

11. La licenza di porto di fucile per uso di caccia ha validità su tutto il territorio nazionale e consente l'esercizio venatorio nel rispetto delle

norme di cui alla presente legge e delle norme emanate dalle regioni.

12. Ai fini dell'esercizio dell'attività venatorio è altresì necessario il possesso di un apposito tesserino rilasciato dalla regione di residenza, ove sono indicate le specifiche norme inerenti il calendario regionale, nonchè le forme di cui al comma 5 e gli ambiti

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territoriali di caccia ove è consentita l'attività venatoria. Per l'esercizio della caccia in regioni diverse da quella di residenza è necessario che, a cura di quest'ultima, vengano apposte sul predetto tesserino le indicazioni sopramenzionate.

Art. 13.

(Mezzi per l'esercizio dell'attività venatoria)

1. L'attività venatoria è consentita con l'uso del fucile con canna ad anima liscia fino a due colpi, a ripetizione e semiautomatico, con caricatore contenente non piu' di due cartucce, di calibro non superiore al 12, nonchè con fucile con canna ad anima rigata a caricamento singolo manuale o a ripetizione semiautomatica di calibro non inferiore a millimetri 5,6 con bossolo a vuoto di altezza non inferiore a millimetri 40.

2. E' consentito, altresì, l'uso del fucile a due o tre canne (combinato), di cui una o due ad anima liscia di calibro non superiore al 12 ed una o due

ad anima rigata di calibro non inferiore a millimetri 5,6, nonchè l'uso dell'arco e del falco.

3. I bossoli delle cartucce devono essere recuperati dal cacciatore e non lasciati sul luogo di caccia.

4. Nella zona faunistica delle Alpi è vietato l'uso del fucile con canna ad anima liscia a ripetizione semiautomatica salvo che il relativo caricatore sia adattato in modo da non contenere piu' di un colpo.

5. Sono vietati tutte le armi e tutti i mezzi per l'esercizio venatorio non esplicitamente ammessi dal presente articolo.

6. Il titolare della licenza di porto di fucile anche per uso di caccia è autorizzato, per l'esercizio venatorio, a portare, oltre alle armi consentite, gli utensili da punta e dataglio atti alle esigenze venatorie.

Art. 14.

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1. Le regioni, con apposite norme, sentite le organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e le province interessate, ripartiscono il territorio agro- silvopastorale destinato alla caccia programmata ai sensi dell'articolo 10, comma 6, in ambiti territoriali di caccia, di dimensioni subprovinciali, possibilmente omogenei e delimitati da confini naturali.

2. Le regioni tra loro confinanti, per esigenze motivate, possono, altresì, individuare ambiti territoriali di caccia interessanti anche due o piu' province contigue.

3. Il Ministero dell'agricoltura e delle foreste stabilisce con periodicità quinquennale, sulla base dei dati censuari, l'indice di densità venatoria minima per ogni ambito territoriale di caccia. Tale indice è costituito dal rapporto fra il numero dei cacciatori, ivi compresi quelli che praticano l'esercizio venatorio da appostamento fisso, ed il territorio agro-silvo-pastorale nazionale.

4. Il Ministero dell'agricoltura e delle foreste stabilisce altresì l'indice di densità venatoria minima per il territorio compreso nella zona faunistica delle Alpi che è organizzato in comprensori secondo le consuetudini e tradizioni locali. Tale indice è costituito dal rapporto tra il numero dei cacciatori, ivi compresi quelli che praticano l'esercizio venatorio da appostamento fisso, e il territorio regionale compreso, ai sensi dell'articolo 11, comma 4, nella zona faunistica delle Alpi.

5. Sulla base di norme regionali, ogni cacciatore, previa domanda all'amministrazione competente, ha diritto all'accesso in un ambito territoriale di caccia o in un comprensorio alpino compreso nella regione in cui risiede e puo' avere accesso ad altri ambiti o ad altri comprensori anche compresi in una diversa regione, previo consenso dei relativi organi di gestione.

6. Entro il 30 novembre 1993 i cacciatori comunicano alla provincia di residenza la propria opzione ai sensi dell'articolo 12. Entro il 31 dicembre 1993 le province trasmettono i relativi dati al Ministero dell'agricoltura e delle foreste.

7. Entro sessanta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 6, il Ministero dell'agricoltura e delle foreste comunica alle regioni e alle province gli indici di densità minima di cui ai commi 3 e 4. Nei successivi novanta giorni le regioni approvano e

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pubblicano il piano faunistico-venatorio e il regolamento di attuazione, che non puo' prevedere indici di densità venatoria inferiori a quelli stabiliti dal Ministero dell'agricoltura e delle foreste. Il regolamento di attuazione del piano faunistico-venatorio deve prevedere, tra l'altro, le modalità di prima costituzione degli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia e dei comprensori alpini, la loro durata in carica nonchè le norme relative alla loro prima elezione e ai successivi rinnovi. Le regioni provvedono ad eventuali modifiche o revisioni del piano faunistico- venatorio e del regolamento di attuazione con periodicità quinquennale.

8. E' facoltà degli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia e dei comprensori alpini, con delibera motivata, di ammettere nei rispettivi territori di competenza un numero di cacciatori superiore a quello fissato dal regolamento di attuazione, purchè si siano accertate, anche mediante censimenti, modificazioni positive della popolazione faunistica e siano stabiliti con legge regionale i criteri di priorità per l'ammissibilità ai sensi del presente comma.

9. Le regioni stabiliscono con legge le forme di partecipazione, anche economica, dei cacciatori alla gestione, per finalità faunistico-venatorie, dei territori compresi negli ambiti territoriali di caccia e nei comprensori alpini ed, inoltre, sentiti i relativi organi, definiscono il numero dei cacciatori non residenti ammissibili e ne regolamentano l'accesso.

10. Negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia deve essere assicurata la presenza paritaria, in misura pari complessivamente al 60 per cento dei componenti, dei rappresentanti di strutture locali delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e delle associazioni venatorie nazionali riconosciute, ove presenti in forma organizzata sul territorio. Il 20 per cento dei componenti è costituito da rappresentanti di associazioni di protezione ambientale presenti nel Consiglio nazionale per l'ambiente e il 20 per cento da rappresentanti degli enti locali.

11. Negli ambiti territoriali di caccia l'organismo di gestione promuove e organizza le attività di ricognizione delle risorse ambientali e della consistenza faunistica,

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programma gli interventi per il miglioramento degli habitat, provvede all'attribuzione di incentivi economici ai conduttori dei fondi rustici per:

a) la ricostituzione di una presenza faunistica ottimale per il territorio; le coltivazioni per l'alimentazione naturale dei mammiferi e degli uccelli soprattutto nei terreni dismessi da interventi agricoli ai sensi del regolamento (CEE) n. 1094/88 del Consiglio del 25 aprile 1988; il ripristino di zone umide e di fossati; la differenziazione delle colture; la coltivazione di siepi, cespugli, alberi adatti alla nidificazione;

b) la tutela dei nidi e dei nuovi nati di fauna selvatica nonchè dei riproduttori;

c) la collaborazione operativa ai fini del tabellamento, della difesa preventiva delle coltivazioni passibili di danneggiamento, della pasturazione invernale degli animali in difficoltà, della manutenzione degli apprestamenti di ambientamento della fauna selvatica.

12. Le province autorizzano la costituzione ed il mantenimento degli appostamenti fissi senza richiami vivi, la cui ubicazione non deve comunque ostacolare l'attuazione del piano faunistico venatorio. Per gli appostamenti che importino preparazione del sito con modificazione e occupazione stabile del terreno, è necessario il consenso del proprietario o del conduttore del fondo, lago o stagno privato. Agli appostamenti fissi, costituiti alla data di entrata in vigore della presente legge, per la durata che sarà definita dalle norme regionali, non è applicabile l'articolo 10, comma 8, lettera h).

13. L'appostamento temporaneo è inteso come caccia vagante ed è consentito a condizione che non si produca modifica di sito.

14. L'organo di gestione degli ambiti territoriali di caccia provvede, altresì, all'erogazione di contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica e dall'esercizio dell'attività venatoria nonchè alla erogazione di contributi per interventi, previamente concordati, ai fini della prevenzione dei danni medesimi.

15. In caso di inerzia delle regioni negli adempimenti di cui al presente articolo, il Ministro dell'agricoltura e delle foreste, di concerto con il Ministro dell'ambiente, assegna ad esse il termine di novanta giorni per provvedere, decorso inutilmente il quale

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il Presidente del Consiglio dei ministri provvede in via sostitutiva, previa deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro dell'agricoltura e delle foreste, di concerto con il Ministro dell'ambiente.

16. A partire dalla stagione venatoria 1995-1996 i calendari venatori delle province devono indicare le zone dove l'attività venatoria è consentita in forma programmata, quelle riservate alla gestione venatoria privata e le zone dove l'esercizio venatorio non è consentito.

17. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano, in base alle loro competenze esclusive, nei limiti stabiliti dai rispettivi statuti ed ai sensi dell'articolo 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86, e nel rispetto dei principi della presente legge, provvedono alla pianificazione faunistico-venatoria, alla suddivisione territoriale, alla determinazione della densità venatoria, nonchè alla regolamentazione per l'esercizio di caccia nel territorio di competenza.

Art. 15.

(Utilizzazione dei fondi ai fini della gestione programmata della caccia)

1. Per l'utilizzazione dei fondi inclusi nel piano faunistico- venatorio regionale ai fini della gestione programmata della caccia, è dovuto ai proprietari o conduttori un contributo da determinarsi a cura della amministrazione regionale in relazione alla estensione, alle condizioni agronomiche, alle misure dirette alla tutela e alla valorizzazione dell'ambiente.

2. All'onere derivante dalla erogazione del contributo di cui al comma 1, si provvede con il gettito derivante dalla istituzione delle tasse di concessione regionale di cui all'articolo 23.

3. Il proprietario o conduttore di un fondo che intenda vietare sullo stesso l'esercizio dell'attività venatoria deve inoltrare, entro trenta giorni dalla pubblicazione del piano faunistico- venatorio, al presidente della giunta regionale richiesta motivata che, ai sensi dell'articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, dalla stessa è esaminata entro sessanta giorni.

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4. La richiesta è accolta se non ostacola l'attuazione della pianificazione faunistico-venatoria di cui all'articolo 10. E' altresì accolta, in casi specificatamente individuati con norme regionali, quando l'attività venatoria sia in contrasto con l'esigenza di salvaguardia di colture gricole specializzate nonchè di produzioni agricole condotte con sistemi sperimentali o a fine di ricerca scientifica, ovvero quando sia motivo di danno o di disturbo ad attività di rilevante interesse economico, sociale o ambientale.

5. Il divieto è reso noto mediante l'apposizione di tabelle, esenti da tasse, a cura del proprietario o conduttore del fondo, le quali delimitino in maniera chiara e visibile il perimetro dell'area interessata.

6. Nei fondi sottratti alla gestione programmata della caccia è vietato a chiunque, compreso il proprietario o il conduttore, esercitare l'attività venatoria fino al venir meno delle ragioni del divieto.

7. L'esercizio venatorio è, comunque, vietato in forma vagante sui terreni in attualità di coltivazione. Si considerano in attualità di coltivazione: i terreni con coltivazioni erbacee da seme; i frutteti specializzati; i vigneti e gli uliveti specializzati fino alla data del raccolto; i terreni coltivati a soia e a riso, nonchè a mais per la produzione di seme fino alla data del raccolto.

L'esercizio venatorio in forma vagante è inoltre vietato sui terreni in attualità di coltivazione individuati dalle regioni, sentite le organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro strutture regionali, in relazione all'esigenza di protezione di altre colture specializzate o intensive.

8. L'esercizio venatorio è vietato a chiunque nei fondi chiusi da muro o da rete metallica o da altra effettiva chiusura di altezza non inferiore a metri 1,20, o da corsi o specchi d'acqua perenni il cui letto abbia la profondità di almeno metri 1,50 e la larghezza di almeno 3 metri. I fondi chiusi esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge e quelli che si intenderà successivamente istituire devono essere notificati ai competenti uffici regionali. I proprietari o i conduttori dei fondi di cui al presente comma provvedono ad apporre a loro carico adeguate tabellazioni esenti da tasse.

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9. La superficie dei fondi di cui al comma 8 entra a far parte della quota dal 0 al 30 per cento del territorio agro-silvo- pastorale di cui all'articolo 10, comma 3.

10. Le regioni regolamentano l'esercizio venatorio nei fondi con presenza di bestiame allo stato brado o semibrado, secondo le particolari caratteristiche ambientali e di carico per ettaro, e stabiliscono i parametri entro i quali tale esercizio è vietato nonchè le modalità di delimitazione dei fondi stessi.

11. Scaduti i termini di cui all'articolo 36, commi 5 e 6, fissati per l'adozione degli atti che consentano la piena attuazione della presente legge nella stagione venatoria 1994-1995, il Ministro dell'agricoltura e delle foreste provvede in via sostitutiva secondo le modalità di cui all'articolo 14, comma 15. Comunque, a partire dalla stagione venatoria 1994-1995 le disposizioni di cui al primo comma dell'articolo 842 del codice civile si applicano esclusivamente nei territori sottoposti al regime di gestione programmata della caccia ai sensi degli articoli 10 e 14.

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3. PROBLEMATICHE

DI

PROMISCUITA’

DOMESTICO-SELVATICO

Quello che negli ultimi anni si è reso sempre di più un problema emergente e dai risvolti molto più ampi di quanto si potrebbe pensare, è rappresentato dalla sempre più frequente e consistente promiscuità biologica delle specie selvatiche con le popolazioni umane e le loro attività.

L’abbandono delle zone collinari e montane da parte delle popolazioni appenniniche negli ultimi 50 anni, l’industrializzazione di un’agricoltura che prima era poco più che “di sussistenza” e la maggior disponibilità di risorse trofiche per animali che fondamentalmente sono considerabili opportunisti, ha avuto come risultato un notevole aumento delle consistenze e delle distribuzioni degli animali selvatici su tutta la dorsale appenninica che ha a sua volta condotto alla colonizzazione di territori dapprima mai frequentati da questo tipo di fauna, ungulati, mustelidi e canidi selvatici che sono ormai alle porte e a volte anche all’interno delle più grandi città della pianura padana, della città di Firenze, Genova, Napoli e non ultima della Capitale Roma.

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Questa situazione, che alimenta polemiche di molteplice natura, apre un dibattito sul fronte professionale del medico veterinario, i punti salienti in questo ambito sono sicuramente: l’IGIENE PUBBLICA, le problematiche di convivenza, potenziale pericolo al traffico veicolare, che si traducono in necessità di cattura, traslocazione, intervento di personale specializzato, e infine il potenziale rischio zoonotico, e di trasmissione di patologie infettive dal selvatico al domestico e viceversa.

Fig. 7 cinghiali perfettamente ambientati in un contesto urbano (foto rep.it)

Il cinghiale, è ad ora il protagonista a livello nazionale di questo scenario definito da alcuni “infernale”, che difficilmente trova soluzione sul tavolo delle parti, coinvolgendo si, l’interesse del personale in ambito agricolo, zootecnico e veterinario ma anche l’opinione pubblica, i media, le associazioni ambientaliste ed animalisti, che strenuamente si oppongono a qualsiasi soluzione “decisiva”.

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LA PROBLEMATICA SANITARIA

Il cinghiale rappresenta oggi il serbatoio naturale di diverse patologie,

patologie specie specifiche, patologie di tipo conservazionistico, patologie trasmissibili ad altre specie, domestiche o selvatiche e vere e proprie zoonosi.

Tra le patologie specie specifiche riconosciamo le pesti, Peste Suina Africana e Peste Suina Classica.

Tra le patologie a carattere zoonotico abbiamo Trichinella spp., Brucella suis biovar II, HEV, TBC

Tra le patologie che rappresentano un problema sanitario tra le popolazioni selvatiche e domestiche si annoverano: TBC, Brucella, Aujeszky, HEV.

Nella fattispecie dell’infezione condotta da Brucella suis si vengono a descrivere situazioni caratterizzate da un rischio particolarmente elevato per la stretta correlazione specifica del cinghiale (sus scropha) e del maiale (sus scropha) e per la stretta condivisione dei territori, soprattutto in regioni come la Toscana, nella quale l’allevamento brado dei suini appartenenti a razze rustiche costituisce un punto importantissimo dell’economia rurale (e non) della regione.

ZOONOSI

PATOLOGIE

TRASMISSIBILI

ANIMALI DOMESTICI

PATOLOGIE SPECIE-SPECIFICHE

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È infatti evidente come spesso l’allevamento del maiale, cinta senese, macchiaiolo, maremmano sia in stretta correlazione con l’ambito silvestre dove gli animali necessariamente vengono in contatto con il loro progenitore selvatico, facendo segnalare, oltre a casi di ibridazione evidenti, anche contatto e trasmissione di patologie.

Fig. 8 Allevamenti semibradi di Suino nero macchiaiolo Nino di Seggiano alle pendici del monte Amiata (foto personali azienda “IL FELCETONE”)

Nell’infezione brucellare, come per la tubercolosi laddove ancora presente, assume un importanza fondamentale la condivisione degli stessi pascoli all’aperto per lunghi periodi, che facilita la trasmissione dell’infezione da selvatico a domestico, e successivamente da allevamenti, divenuti così infetti, ad allevamenti sani attraverso la contaminazione ambientale dovuta a feti abortiti, placente, lochiazioni, essudati e secrezioni utero-vaginali dei soggetti infetti.

Grazie alle sue caratteristiche patogenetiche, Brucella Suis è in grado di generare animali portatori che attraverso la percorrenza di enormi distanze in brevissimo tempo (etologicamente proprio della specie cinghiale, soprattutto nella classe dei

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subadulti e dei maschi adulti), possono diffondere l’infezione anche a notevoli distanze dal punto di inizio del focolaio, se poi, questa situazione viene agevolata da un territorio, in cui le infrastrutture umane non costituiscono soluzioni di continuo che rendono difficoltoso lo scambio tra popolazioni, il risultato che possiamo analizzare è sicuramente quello di un efficace distribuzione della problematica sanitaria.

Il problema zoonotico è sicuramente ben rappresentato ed in aumento in una situazione nella quale il potenziale rischio è elevato per gli allevamenti, il territorio, gli animali domestici, gli operatori, i veterinari, che in stretto contatto con un territorio “problematico” quotidianamente, come riportato da un parere EFSA del 2009 (Lagier et al., 2005 – EFSA, 2009)

Fig. 9 suinetti di macchiaiolo prima di essere rilasciati nei recinti per l’allevamento (Az. “Il Felcetone”)

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4. BRUCELLA SPP

4.1 Cenni storici

La brucellosi è una patologia infettiva causata da un batterio Gram negativo del genere Brucella. Il nome “brucella” deriva dal nome del medico australiano, Sir David Bruce, che lo isolò la prima volta nel 1887 dalla milza di soldati inglesi deceduti.

Comunemente , la brucellosi è considerata una delle infezioni zoonotiche più diffuse a livello mondiale e può essere considerata una malattia professionale (allevatori, veterinari, dipendenti di mattatoi, macellai), in particolare nelle aree in cui la malattia è endemica. Ogni anno sono riportati circa 500 mila casi di brucellosi umana, ma le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) suggeriscono che, a causa della sottonotifica, la reale incidenza potrebbe essere 10-25 volte superiore (Acha et al., 2003; Sriranganathan et al., 2009).

I Paesi europei maggiormente interessati dalla brucellosi sono quelli del Mediterraneo, infatti, nel 2008 circa l’85% dei casi di brucellosi umana segnalati si sono verificati in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. I casi riportati nei Paesi del Nord Europa sono principalmente “casi importati”, poiché associati a persone di ritorno da viaggi in Paesi dove la brucellosi è endemica (EFSA, 2010).

La brucellosi oltre agli aspetti sanitari è importante per le perdite economiche che causa, sia per la riduzione della produttività degli animali, sia per l’impatto sui costi di sanità pubblica. In Italia la brucellosi è una malattia a denuncia obbligatoria dal 1934 e gli sforzi impiegati nel piano nazionale hanno consentito di avere al 2012 quasi il 70% delle province con la qualifica di “territorio ufficialmente indenne”, ciononostante a livello nazionale la brucellosi è ancora oggi una delle più importanti zoonosi.

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4.2 Tassonomia:

Il genere Brucella comprende sei specie classiche, nell’ambito delle quali sono riconosciuti diverse biovarianti: B. abortus (biotipi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9), B. melitensis (biovarianti 1, 2 e 3), B. suis (biovarianti 1, 2, 3, 4 e 5), B. canis, B. ovis e B. neotomae. La classificazione tiene conto della differente patogenicità, dell’ospite naturale preferenziale, e delle caratteristiche fenotipiche (Corbel et al., 1984; Alton et al., 1988; Moreno et al., 2002). Recentemente, tre nuove specie sono state incluse nel genere: B. ceti e B. pinnipedialis, isolate da mammiferi marini (Foster et al., 2007) e B. microti, isolata dal comune topo campagnolo (Microtus arvalis) nel 2001 (Scholz et al., 2008). Le specie B. abortus, B. melitensis, B. suis e B. neotomae sono in fase liscia (S, smooth), mentre B. canis e B. ovis sono in fase rugosa (R, rough).

Le caratteristiche morfologiche, colturali e biochimiche consentono di differenziare le varie specie e i rispettivi biotipi mediante test biochimico-metabolici condotti secondo schemi classici (Alton et al., 1988). Attualmente, la tipizzazione si avvale anche di test biomolecolari.

La Brucella è un batterio Gram negativo, di forma bacillare o coccobacillare, molto piccolo (0,6-2,0 x 0,3-0,5 µm), asporigeno, immobile, privo di capsula. La morfologia è solitamente costante, raramente pleomorfa e comunque solo nelle colture vecchie. La disposizione è isolata, quasi mai appaiata o in piccoli gruppi o in corte catenelle. Il batterio è aerobio,anche se alcuni stipiti di B. abortus al primo isolamento e tutti gli stipiti di B. ovis richiedono per la crescita un’atmosfera addizionata del 5-10% di CO2 con limiti di sviluppo compresi tra 20 e 40°C e optimum a 37°C. Il pH ottimale è compreso fra 6,6 e 7,4. Le brucelle sono ossidasi-positive (con rarissime eccezioni) e catalasi-positive (ad eccezione della sola B. ovis), sono capaci di ridurre i nitrati in nitriti ad opera di una nitrato-riduttasi. Sono ureasi positive, tranne B. suis.

Le brucelle non riescono ad acidificare gli zuccheri per via fermentativa (test del rosso metile e di Voges-Proskauer entrambi negativi) ad eccezione di B. neotomae, che produce radicali acidi a partire da glucosio, arabinosio, galattosio e xilosio.

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Hanno crescita lenta e hanno difficoltà nei comuni terreni colturali privi di arricchimento con liquidi organici o peptoni. I terreni più idonei sono il Serum Dextrose Agar (SDA), il Serum Dextrose Broth, l’Agar Albimi, l’Agar Brucella, il Trypticase Soy Agar (TSA) e il Tryptone Soy Agar. L’aggiunta di sangue o siero bovino od equino al 5-10% permette la crescita di quasi tutti i ceppi di Brucella in quanto questo arricchimento oltre ad avere una funzione nutritiva, consente di neutralizzare eventuali sostanze inibenti nei peptoni (aminoacidi, nicotinamide e ioni Mg).

La crescita delle colonie si completa in 2-4 giorni e sono piccole (diametro <1 mm), translucide, con margini arrotondati e superficie liscia e lucente.

Le brucelle si colorano facilmente con i coloranti usuali. Tuttavia, poiché mostrano una certa resistenza alla decolorazione con acidi deboli, si ricorre spesso alle colorazioni di Macchiavello o di Ziehl-Neelsen modificato. Particolarmente indicata la colorazione di Koster (safranina a1 3% in acqua distillata alcalinizzata con 0,4% di idrossido di potassio N/10, acido solforico allo 0,05%, colorazione di contrasto con blu di metilene all’1%), con la quale le brucelle appaiono rosse su fondo violetto. La crescita in terreni colturali contenenti i coloranti fucsina basica e tionina ad azione batteriostatica rappresenta uno dei sistemi di differenziazione delle varie specie e biovarianti: i coloranti vengono utilizzati a concentrazioni scalari di 25, 50 e 100 microgrammi per mL di terreno.

Le brucelle non hanno plasmidi e non presentano fenomeni naturali di ricombinazione. L’ultrastruttura di questi microorganismi è simile a quella degli altri batteri Gram negativi. A differenza delle Enterobatteriaceae, tuttavia, il peptidoglicano si trova in posizione molto più superficiale, subito sotto la membrana esterna ed è separato dalla membrana citoplasmatica dallo spazio periplasmatico, che normalmente nei batteri Gram negativi si trova fra la membrana esterna e il peptidoglicano. Le brucelle sono sensibili ai batteriofagi il cui uso permette una differenziazione di specie secondo il metodo del Routine Test Dilution (Corbel et al., 1988).

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4.3 Morfologia e Struttura Antigenica

La fisionomia antigenica delle brucelle è molto complessa. Gli antigeni principali di superficie sono gli antigeni dei complessi A ed M contenuti nella catena O-polisaccaridica che compone la molecola lipoO-polisaccaridica (LPS) (Joint FAO/OMS, 1986).

L’LPS, che è la componente antigenica predominante, è costituito da un polisaccaride (catena laterale O e core) e da una componente lipidica (lipide A). Occupa la maggior parte del foglietto esterno della membrana esterna, con la porzione polisaccaridica rivolta verso l’esterno e il lipide A immerso nello spessore della membrana.

La catena laterale O è un polimero di unità oligosaccaridiche di ripetizione (in media 40 unità) e costituisce la parte più variabile, alla base della classificazione sierologica dei batteri Gram negativi. Sulla catena laterale O, infatti, sono presenti gli antigeni principali di superficie, quelli relativi ai complessi A ed M. Il Core è un oligosaccaride costante nell’ambito di un genere. La porzione interna (innercore) di tutti i batteri Gram negativi contiene uno zucchero a 8 atomi di carbonio (2-keto-3-deoxyoctulosio) mentre quella esterna (outer core) è la porzione relativamente più variabile anche se vi sono presenti zuccheri a 6 atomi di carbonio comuni.

Il lipide A è un glicofosfolipide e consiste in un dimero di NAG-fosforilata con legati acidi grassi a catena lunga che, in quanto di natura idrofobica, consente l’ancoraggio alla membrana esterna. Rappresenta il principio tossico dell’intera molecola (endotossina) ed è altamente conservato in tutti i batteri Gram negativi.

I determinanti antigenici A ed M, a differenza della componente lipidica, non sono tossici e rivestono un’importanza fondamentale sia nella sierologia in sede di diagnosi che per il possibile ruolo protettivo. Il biotipo di ogni specie di Brucella è proprio caratterizzato dal rapporto reciproco fra gli antigeni A ed M. I risultati di studi effettuati con l’ausilio di specifici anticorpi monoclonali, nonché di analisi elettroforetiche e chimico-fisiche, hanno consentito di identificare l’antigene A in un polimero lineare non ramificato mentre l’antigene M risulta essere un polimero identico ma ramificato. Un legame peculiare dell’antigene M altera la direzione del polimero costituendo un epitopo caratteristico che non è presente nell’antigene A.

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Le reazioni crociate sierologiche con sieri policlonali ottenuti con altri batteri Gram negativi (Yersinia enterocolitica 0:9, Salmonella 0:30, Francisella tularensis, Escherichia coli 0:157, Vibrio cholerae ecc.) sono proprio dovute alla profonda analogia fra le catene O dell’LPS. I sieri monoclonali anti-A e anti-M non danno invece cross-reazioni.

A livello della superficie sono presenti altri antigeni costituiti dalle “porine”, le OMP (outer membrane proteins), il peptidoglicano (PG) e altri antigeni superficiali minori o profondi fra i quali il cosiddetto “aptene nativo”(NH), il polisaccaride beta estratto da un ceppo rugoso di B. melitensis B115, l’antigene F di Freman e gli antigeni a, β e γ scoperti nel 1980. Le colonie di Brucella si trovano nella maggior parte dei casi in una fase somatica liscia (S). È inoltre possibile osservare mutanti con fenotipo rugoso (R) che vengono selezionati da condizioni ambientali particolari. Le specie in forma S tendono frequentemente a variare in forma R durante la crescita. Nei batteri con fenotipo rugoso viene sintetizzato un LPS tronco, cioè mancante della catena laterale O, che invece conserva il Core e il lipide A. Le singole cellule in fase rugosa non hanno la capacità di formare una massa compatta, come nelle colonie in fase S, di conseguenza le colonie in fase R presentano un aspetto più secco, con margini frastagliati e superficie rugosa.

La modifica della fisionomia anitigenica dovuta al passaggio dalla fase liscia a quella rugosa (“sfasamento”), comporta anche cambiamenti significativi delle caratteristiche di antigenicità, infettività e immunogenicità.

Le brucelle, oltre che in fase S e R possono esistere anche in varianti lisce intermedie (SI), varianti intermedie (I) e varianti mucoidi (M). Per osservare la morfologia delle colonie in modo da distinguere le forme S ed R, si ricorre a diversi metodi (Alton et al.,1988): metodo dell’osservazione diretta con microscopio stereoscopico di Henry (le colonie lisce e rugose riflettono diversamente la luce); metodo della agglutinazione rapida con acriflavina neutra di Braun e Bonestell (le colonie in fase S formano una sospensione uniforme, quelle in fase R agglutinano); metodo della colorazione delle colonie con violetto di White e Wilson (le colonie rugose trattengono il cristal-violetto e si colorano di blu, le colonie lisce rimangono non colorate). La differenziazione del genere Brucella in base ai caratteri morfologici, colturali,

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biochimici e antigenici permette l’identificazione delle 6 specie classiche e dei loro biotipi (Corbel et al.,1984). Questi ultimi hanno un valore puramente epidemiologico: ‒ B. abortus comprende 8 biotipi (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9). Tutti i biotipi reagiscono con sieri agglutinanti monospecifici o monoclonali anti-A e anti-M in rapporto diverso a seconda del biotipo e non reagiscono con i sieri anti-R.

‒ B. melitensis comprende 3 biotipi (1, 2 e 3). Tutti i biotipi reagiscono con i sieri agglutinanti monospecifici o monoclonali anti-A e anti-M in rapporto diverso a seconda del biotipo e non reagiscono con i sieri anti-R.

‒ B. suis comprende 5 biotipi (1, 2, 3, 4 e 5). Soltanto i primi 3 biotipi sono responsabili di infezione nei suini. Reagiscono con i sieri agglutinanti monospecifici o monoclonali antiA e anti-M in rapporto diverso a seconda del biotipo, ad eccezione del biotipo 5 che reagisce solo con anti-R.

‒ B. ovis non comprende biotipi, si presenta in fase R e non reagisce con i sieri anti-A e anti-M ma solo con sieri anti-R.

‒ B. neotomae non comprende biotipi, è in fase S, reagisce solamente con i sieri anti-A. ‒ B. canis non comprende biotipi, può trovarsi in fase R o M e reagisce solo con sieri antiR.

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4.4 Brucella nell’uomo

La brucellosi è ancora oggi una delle zoonosi più diffuse in tutto il mondo (Pappas et al., 2005; EFSA, 2007; OIE, 2008). Le specie che sono in grado di trasmettere la malattia all’uomo sono, in ordine di patogenicità decrescente, B. melitensis, B. abortus, B. suis e B. canis. B. abortus, che ha il suo serbatoio nei bovini, si associa di solito ad una malattia sporadica con decorso clinico di moderata gravità. L’infezione da B. suis si contrae attraverso il contatto coi suini e si associa più frequentemente a lesioni

suppurative e destruenti, a decorso clinico protratto. B. melitensis, che è la causa più comune in tutto il mondo, ha come serbatoio pecore e capre e può causare una grave malattia acuta con complicanze invalidanti. B. canis, contratta da cani infetti, causa una malattia ad esordio insidioso, frequentemente recidivante, con decorso cronico

indistinguibile dalle forme da B. abortus. Per quanto riguarda le specie “marine” di Brucella, alcuni casi accertati di brucellosi nell’uomo sono stati accertati a seguito del contatto con ceppi di Brucella isolati da foche e mammiferi marini (Brew et al., 1999; Sohn et al., 2003; McDonald et al.,2006). Tuttavia il potenziale rischio zoonosico di questi ceppi è ancora in discussione (Moore et al,. 2008).

L’uomo ha possibilità di contrarre l’infezione attraverso il contatto diretto o indiretto con gli animali infetti o con loro prodotti (Cutler et al., 2005). Nella popolazione, la brucellosi si trasmette quasi esclusivamente per via alimentare, con il consumo di latte fresco proveniente da animali infetti e non sottoposto a trattamenti termici, e di

formaggi a stagionatura inferiore ai tre mesi, preparati con latte infetto non pastorizzato. Nella trasmissione alimentare possono essere implicati, ma con minore rilevanza

rispetto a latte e latticini, anche prodotti carnei da animali infetti, soprattutto se poco cotti o crudi.

La realtà della Brucellosi come patologia occupazionale riguarda soprattutto coloro che lavorano a contatto con animali infetti, quindi contadini, allevatori di bestiame,

veterinari, lavoratori dei macelli. La trasmissione in questo caso può avvenire, oltre che per via alimentare, anche per contatto con i tessuti, sangue, urine, secreti vaginali, lochiazioni, feti abortiti e soprattutto placente (la placenta costituisce un tessuto d’elezione per la localizzazione delle brucelle a causa dell’abbondante presenza di d-eritrolo) e/o per via aerogena nelle stalle, nei porcili, nei laboratori e nei macelli. Anche

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fra i laboratoristi, è una delle infezioni più frequentemente contratte (Bouza et al., 2005). Veterinari e addetti zootecnici possono infettarsi anche in seguito ad auto-inoculazione od auto-inoculazione congiuntivale di ceppi vaccinali che, seppure attenuati, conservano una certa patogenicità residua.

L’incidenza della malattia è più elevata negli adulti (90%) e nei maschi (62%), a causa della più elevata esposizione al rischio rispettivamente alimentare per i primi e

professionale per i secondi.

Se l’infezione decorre in forma subclinica è rilevabile solo con i test sierologici, mentre la malattia acuta e subacuta presenta sintomi vari e aspecifici: come febbre, sudorazione profusa, anoressia, affaticamento, diminuzione di peso e occasionalmente depressione. La febbre è di tipo intermittente, con picchi febbrili che seguono remissioni.

L’epatosplenomegalia è presente nel 20-30% dei casi, mentre una linfoadenopatia moderata nel 10-20% dei pazienti. Sono frequenti anemia, leucopenia e

trombocitopenia. Se predomina il coinvolgimento di uno specifico organo (ossa, sistema nervoso centrale, cuore, polmoni, milza, testicoli, fegato, colecisti, rene, prostata, cute, occhi) si parla di malattia localizzata.La forma acuta può raramente essere fatale a seguito di tossiemia, trombocitopenia, endocardite e altre complicazioni. Le complicazioni più frequenti sono osteoarticolari, gastrointestinali, epatobiliari,

polmonari, genitourinarie, neurologiche e cardiovascolari (Young et al., 1995).Classica è invece una forma papulare e pustolare attribuita all’instaurarsi di una allergia alla Brucella in categorie di operatori a rischio professionale.

Il trattamento prevede generalmente l’uso di doxiclina e rifampicina, come consigli l’OMS. Gli antibiotici di prima scelta sono le tetracicline, a cui si associa di regola la streptomicina nelle forme gravi. La localizzazione intracellulare delle brucelle rende molto spesso difficile anche una terapia mirata.

Generalmente la prognosi è buona, ma alcune forme iperacute possono avere

conseguenze severe. La guarigione è la norma anche se possono residuare condizioni di invalidità. La letalità è bassa (2% o meno) ed è dovuta frequentemente

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4.5 L’infezione negli animali domestici

Brucellosi nel bovino

La brucellosi bovina è sostenuta principalmente da B. abortus. I bovini rappresentano l’ospite naturale e serbatoio di questo microrganismo; ospiti secondari sono bisonti, bufali, cammelli e alci, mentre ospiti occasionali sono suini, cavalli e cani.

Naturalmente l’infezione avviene per via digerente attraverso la mucosa orale, le tonsille e la mucosa gastrointestinale. Il patogeno può penetrare anche attraverso la mucosa oculo-congiuntivale, vaginale e più raramente, respiratoria, oppure attraverso soluzioni di continuo della cute.

Il batterio penetrato nell’ospite si moltiplica nei fagociti e nel tessuto linfoide. La sua persistenza all’interno delle cellule può essere determinante nel generare le classiche reazioni flogistiche a carattere granulomatoso (granuloma brucellare) o essudatizie-necrotizzanti e purulente in organi come milza, fegato, midollo osseo e, ovviamente, linfonodi. Possono essere colpiti anche occhio, reni, testicolo, epididimo, articolazioni, guaine tendinee e borse sinoviali.

L’andamento dell’infezione varia a seconda che l’animale sia pubere o impubere, gravido o no. Gli animali impuberi sono in grado di inattivare i batteri attraverso la reazione immunitaria anche se rimangono del tutto recettivi nei confronti di un’eventuale successiva reinfezione. Se la prima infezione colpisce femmine gravide di non oltre 4-5 mesi, le brucelle rimangono quiescenti; a partire dal 5° mese di gestazione però attraverso una batteriemia secondaria raggiungono gli organi bersaglio (placenta e feto), dove si moltiplicano intensamente. Nel caso in cui l’infezione avvenga oltre il 5° mese, si ha batteriemia primaria con disseminazione delle brucelle nell’utero gravido e nelle altre sedi. Nelle femmine puberi non gravide e in lattazione i microrganismi con la batteriemia primaria arrivano anche nella mammella generando focolai di “micromastite”. Nel bovino la malattia ha decorso cronico, spesso inapparente ed è caratterizzata da aborto nelle femmine e da processi infiammatori a livello dei genitali nei maschi. L’aborto si manifesta tra il 4° e l’8° mese di gravidanza, con prevalenza tra il 6° e il 7°. I segni clinici sono di solito poco appariscenti e l’espulsione del feto avviene senza interessare lo stato generale dell’animale. All’aborto spesso può seguire

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ritenzione placentare con problemi talvolta di metrite acuta o cronica, e nella gravidanza successiva è comunque evento raro il ripetersi di episodi abortivi. La mastite brucellare non presenta sintomi particolari, a parte una modica diminuzione della secrezione lattea e alterazioni chimico-fisiche della stessa. Nel maschio la sintomatologia è a carico di epididimo e testicoli con andamento per lo più di tipo cronico. Le lesioni più significative si riscontrano a livello placentare con membrane più o meno infiltrate e ispessite, i cotiledoni sono ingrossati ed emorragici. A livello di invogli si evidenzia edema gelatinoso tra corion e allantoide. Il feto è mummificato e putrefatto e presenta fenomeni asfittici. Le lesioni a livello testicolare sono caratterizzate da sclerosi a livello di parenchima, l’organo è ingrossato e le tuniche ispessite e aderenti. La maggior parte degli animali infetti rimane portatore ed eliminatore per tutta la vita economica.

Brucellosi negli ovi-caprini

B. melitensis è l’agente eziologico primario della brucellosi ovi-caprina. B. melitensis è la specie di Brucella il cui ospite di preferenza è il meno definito: si considera la capra come ospite naturale, mentre la pecore come ospite preferito. Questo perché nella capre induce aborto con più frequenza rispetto alle pecore. L’infezione si trasmette per varie vie, determinando batteriemia e colonizzazione della milza, delle ghiandole mammarie e quasi sempre dell’utero e della mammella nei soggetti gravidi. Negli ovi-caprini l’aborto si manifesta tra il 3° e il 4° mese di gravidanza ed è molto spesso seguito da ritenzioni degli invogli. Solitamente l’attività riproduttiva non risulta compromessa, almeno nelle capre nelle quali solo raramente si osserva l’aborto. Sia nella pecora che nella capra la mastite può manifestarsi con segni evidenti, quali presenza di noduli mammari di varia grandezza e alterazione della secrezione lattea. Sul piano clinico e anatomo-patologico la brucellosi ovi-caprina è sostanzialmente sovrapponibile a quella bovina anche se in queste specie è più importante la via di trasmissione venerea, in quanto la monta naturale è la modalità di gestione della riproduzione più comune negli allevamenti ovicaprini. L’eliminazione di B. melitensis mediante secrezione uterovaginale successiva ad un aborto o ad un parto infettante dura più a lungo che nelle bovine infette da B. abortus. Nelle capre infette, specie dopo aborto, la localizzazione mammaria determina una netta diminuzione della secrezione lattea, che può protrarsi

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per l’intera lattazione. Rispetto ai bovini sono inoltre più frequenti anche le infezioni aerogene e veneree. Anche B. abortus può causare sporadicamente l’infezione negli ovini nei quali, tuttavia, determina un’infezione asintomatica che tende a esaurirsi spontaneamente. I montoni possono essere colpiti da epididimite contagiosa, causata da B. ovis. Questa infezione, abbastanza diffusa, dal 1994 è stata riscontrata anche in Italia (Farina et al., 1995), soprattutto in alcune regioni del Nord come la Lombardia e il Triveneto (Ciuchini et al., 1998). L’epididimo e i tessuti interstiziali delle vescicole seminali sono i siti primari di localizzazione dell’infezione che invece interessa meno il fegato e la milza. B. ovis può causare infertilità dei maschi e delle femmine e più raramente aborti.

Brucellosi negli equidi

Sono stati riportati casi di infezioni da B. suis e da B. abortus nella specie equina, con rarissimi casi di aborto. L’infezione può determinare delle bursiti sopraspinose piogranulomatose e fistolizzanti.

Brucellosi nel cane

Il cane è l’ospite specifico di B. canis che in questa specie causa aborti e morte non evidenziabile di embrioni. Gli aborti avvengono dopo 80 giorni di gestazione e la diffusione è dovuta al prolungarsi degli scoli vaginali. Nei maschi si osservano dermatiti a carico dello scroto e atrofia testicolare unilaterale, ma in molti casi può instaurarsi una forma asintomatica. Segnalata per la prima volta in America (Carmichael and Kenny, 1968) a tutt’ oggi risulta assente in Italia.

4.6 L’infezione nel maiale e nel cinghiale

La brucellosi nei suidi è causata da B. suis. Sono suscettibili i suini di qualsiasi età e la via di diffusione più comune è attraverso il coito. B. suis, come le altre specie, si localizza principalmente a livello delle ghiandole linfatiche, colonizzando poi organi genitali, ghiandole mammarie, vescica, milza e articolazioni. Nella specie suina si può avere aborto precoce e tardivo e ipofertilità, analogamente a quanto avviene nei bovini.

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Anche B. abortus può infettare il suino provocando un’infezione che si esaurisce rapidamente senza manifestazioni patologiche evidenti.

Fig 11 Femmine gravide di nero macchiaiolo allevate semibrade (Az “Il Felcetone”)

-Brucella Suis

Tassoomicamente Brucella Suis si differenzia in 3 biovar : 1, 2, 3e rappresenta la principale causa di brucellosi nei suidi è caratterizzata da un elevato potere zoonosico soprattutto per quanto riguarda i biovar 1 e 3.

Entrando nel merito della ricerca condotta con in questo studio si individua l’agente eziologico di Brucellosi nelle popolazioni di cinghiale in Brucella suis biovar 2,

maggiormente studiata, e isolata frequentemente nella specie cinghiale in varie parti d’Europa. Il reservoir in natura è rappresentato proprio dal cinghiale, e dalla Lepre (Lepus Europeaus).

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Le forme cliniche che si associano ad un infezione da B.Suis 2 nel cinghiale sono rappresentate in due forme: forma sintomatica, con turbe riproduttive e forma asintomatica, subclinica.

Vie di Trasmissione

Nel maiale domestico come nel cinghiale, l’infezione da B.Suis si trasmette per contatto diretto, orale (ingestione di feti infetti, membrane fetali o alimenti contaminati), venerea, o congiuntiuvale (Acha and Szyfres, 1991).

Non si conosce in modo presciso la dose minima infettante, alcuni autori parlano di 10 alla quarta UFC, come dose sufficiente per provocare infezione nei suinetti soprattutto per via congiuntivale (Cedro et al.,1971)

I lattonzoli possono essere infettati dalla madre con l’assunzione del pasto di latte (Alton, 1990). Comunque, l’infezione è di solito temporanea nei suinetti sotto la madre e facilmente divengono portatori della malattia, che rimane asintomatica.

Fig. 12 ibrido di cinghiale si accoppia con una femmina di maiale rosso in allevamento semibrado (foto Pers.)

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4. SCOPO

Lo scopo dello studio è ricercare presenza dell’infezione condotta da Brucella Suis biovar 2 nella specie cinghiale, già ampiamente monitorato dal punto di vista sanitario, proprio in relazione a questa problematica, al fine di apportare un contributo alla valutazione del potenziale rischio di trasmissione selvatico-domestico e al potenziale rischio zoonotico derivante dalla condivisione dei territori con l’uomo nonché del rischio alimentare legato al consumo di questi animali.

La ricerca è stata effettuata in questa specie perché in letteratura è più volte riportato che l’infezione ha come serbatoio naturale il suino e il cinghiale e anche altri animali selvatici come la lepre europea. A tale proposito non è, infine, da sottovalutare il fatto che, come precedentemente riportato, questi animali vivono in un elevato grado di promiscuità con l’uomo e le sue attività quali allevamenti e attività agricole intensive potenzialmente recettive ad un rischio infettivo.

5. MATERIALI E METODI

6.1 Campionamento

Nel periodo di tempo compreso tra giugno 2016 e maggio 2017 sono stati presi in esame campioni di sangue di cinghiale provenienti dall’attività venatoria e da attività di contenimento numerico.

I campioni di siero di Cinghiale provenivano da un area della provincia di Grosseto tra i comuni di Follonica, Ribolla e Massa Marittima.

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